La fatica della politica - Azione Cattolica Italiana

LA FATICA DELLA POLITICA
Luigi Alici
Abito in un piccolo paese, di circa tremila abitanti. Dove tutto è piccolo, anche i piccoli episodi
possono essere significativi. In un arco di tempo collocabile all’incirca tra il 1989 (caduta del
muro di Berlino) e i primi anni ‘90 (esplosione di “tangentopoli”) si è decisa la sorte di quasi tutte
le bacheche dei principali partiti politici, disseminate lungo le poche vie del centro storico.
L’aggiornamento dei comunicati s’era fatto più saltuario e stentato, poi l’inchiostro dei pennarelli
aveva cominciato a ingiallire fino a stingersi del tutto; sul vetro, intanto, s’era addensata una
patina di polvere grigiastra, di cui solo qualche anziano mostrava d’accorgersi, scuotendo
mestamente la testa, finché qualcuno, di sera, alla chetichella, ha spezzato qualche vite
arrugginita, portandosi via un cimelio ormai insignificante.
Negli ultimi anni, però, quasi tutti gli spazi sono stati rimpiazzati da nuove bacheche: piccole,
colorate, che segnalavano una voglia diversa di partecipazione. Stavano nascendo nuove forme
di associazionismo sportivo, di volontariato, di animazione del tempo libero: una banda
musicale, un coro, sport minori emergenti, club di tifosi; e poi ancora sezioni della Pro-loco, della
Croce rossa, ecc. Anche attraverso il cambio delle bacheche in un piccolo centro di provincia si
può cogliere una svolta nelle forme di partecipazione sociale. Qualcuno, ottimista, potrebbe
leggervi la rivincita della società civile; qualche altro, la fine della politica.
Intervalli elettorali
In effetti, che ne è stato, in questi anni, della politica? Tolte le bacheche, chiuse le sezioni di
partito, praticamente abolite le assemblee, s’è interrotto quel segmento vitale che intercettava,
bene o male (spesso più male che bene), la vita quotidiana delle persone nel tempo che
separava una consultazione elettorale dall’altra. Eppure, a ridosso delle elezioni, nuove sedi di
partito sembrano fiorire dalla sera alla mattina, i numeri di telefono, i siti internet, le promesse di
essere ascoltati si sprecano. Già, ma ascoltati da chi? Chi stabilisce chi deve ascoltarci? Molte
pubblicità elettorali promettono candidati espressi dalla società civile: ma espressi come?
Attraverso quali meccanismi certificati e visibili di selezione?
Inutile nasconderselo: il sonno della politica è un lusso che nessuna società, nemmeno quella
più sana e sicura di sé si può permettere. Nel limbo della politica allignano pericolose forme di
messianismo: si può dormire se c’è qualcuno che veglia a posto nostro, talmente bravo da
risolverci tutti i problemi. Basta dargli una delega in bianco, non mettergli i bastoni tra le ruote,
non fargli perdere tempo. Le verifiche possiamo farle facilmente e, purtroppo, in molte direzioni: i
notabili, i simpaticoni, i telegenici, i moralisti dell’ultima ora. Le varianti di queste forme di
supplenza delegata della politica possono persino lambire apparati dello Stato, stravolgendo le
loro finalità istituzionali e alimentando illusioni pericolose: basta la magistratura per riformare la
politica, basta la polizia per risolvere il problema dell’immigrazione, basta la finanza per risolvere
la crisi economica.
Certo, come negare che le forme della democrazia oggi stiano cambiando? Come negare che la
crisi stessa della partecipazione sia figlia di una degenerazione partitocratica, che aveva
moltiplicato spazi di democrazia apparente, a volte per mimetizzare meglio i (pochi) luoghi in cui
si decideva davvero? Del resto, oggi una ragnatela invisibile di apparati mediatici ci mette a
disposizione strumenti impensabili di esercizio della partecipazione: dalla televisione a internet,
dai sondaggi al voto elettronico. Ma in tali casi è sempre legittimo porsi qualche domanda.
Anzitutto: chi è il padrone del vapore? E poi: fino a che punto il medium è neutrale? Dalla
formulazione dei quesiti si possono preordinare i risultati di un sondaggio, la prassi cooperativa
che porta ad assumere una decisione comune può difficilmente essere attuata in un ambiente
virtuale, dove chi “buca” lo schermo parte sempre avvantaggiato e il confronto è raramente
condotto ad armi pari.
Bene comune ed egoismi individuali
In tale contesto, per una sorta di comprensibile pendolarismo, è inevitabile che, prima o poi, la
voglia di partecipazione torni a pulsare nelle vene profonde della società civile: una voglia di
partecipazione (questo è il punto) che non s’esprima però solo in una direzione orizzontale,
all’interno di gruppi di pressione, aggregazioni e adunate più o meno spontanee e occasionali,
ma che riesca a ritrovare la via verticale e faticosa della sintesi del consenso e di una
mediazione propositiva fra cittadini e istituzioni. Altrimenti, la partecipazione tende ad assumere
la fisionomia reattiva e corporativa della tutela di interessi di parte; cosa del tutto legittima e in
molti casi persino doverosa, ma che diviene ambigua e inaccettabile se scambiasse la parte per
il tutto. Può essere il primo passo, ma mai l’ultimo nell’esercizio di una democrazia matura, che
esige la composizione degli interessi, l’individuazione di proposte sostenibili, la capacità di
discernere e la disponibilità a mettersi in gioco fino in fondo nella promozione del bene comune.
Che non è mai equivalente, come Maritain ci ha ben ricordato, alla somma aritmetica degli
egoismi individuali.
In caso contrario, cavalcando una protesta fine a se stessa, si finirebbe per rinforzare quella
pericolosa deriva anti-istituzionale, che sembra caratterizzare sempre più la nostra epoca.
Protestare contro un deficit di esercizio democratico inseguendo le stesse logiche plebiscitarie e
personalistiche che ne sono una delle cause significa, in fondo, aumentare il tasso, già alto, di
delegittimazione reciproca che avvelena il panorama politico. Il malcontento è un sintomo
politico sicuramente non trascurabile, ma non può mai essere scambiato con una medicina;
sarebbe come illudersi di guarire un organismo malato facendone aumentare la febbre. Esiste
un equilibrio fisiologico tra protesta e proposta, dal quale dipende la salute dell’intero corpo
sociale; quando tale equilibrio si altera, il pericolo che si inneschino meccanismi di involuzione
democratica è sempre in agguato. La storia non è avara di drammatiche esemplificazioni in tal
senso: tra estremismo protestatario e nostalgia autoritaria s’è spesso instaurato un temibile
circolo vizioso, che non ha mai prodotto nulla di buono.
Valori alti e non negoziabili
C’è dunque al fondo di questi fenomeni di militanza civile una voglia di battersi, di riprendersi
spazi democratici abbandonati, di “esserci” su alcune grandi questioni decisive per il futuro della
convivenza, che non dev’essere demonizzata, né strumentalizzata. Alla base di molte forme di
mobilitazione stanno valori alti e non negoziabili, come la pace, la solidarietà, l’uguaglianza, la
giustizia, la promozione umana, la tutela dell’ambiente, delle minoranze. Dietro queste battaglie
s’intravede, sia pure ancora confusamente, una domanda di nuovi diritti, l’esigenza di una
profonda rigenerazione della democrazia, la ricerca di forme significative di partecipazione. Tutto
questo esige però passione civile, lealtà democratica, progettualità culturale; in una parola la
fatica della politica, che deve sempre accreditare il coraggio della denuncia con la lungimiranza
della proposta.
Non so se nei prossimi anni questa rinnovata voglia di partecipazione troverà forme mature e
costruttive per esprimersi, e non è nemmeno pensabile che possa farlo ritornando al passato.
Probabilmente le vecchie bacheche di partito non ci saranno più. Ma il problema rimane: come
canalizzare questa domanda, disciplinarla, trasformarla in una vera spinta innovativa? Come
intercettare le attese di tutti, portandole a misurarsi con una ricerca del bene comune, capace di
costruire il possibile, guardando lontano?
Del resto, non dobbiamo nasconderci che su questa strada la partecipazione non sembra avere
oggi molti alleati: i segnali di violenza diffusa si moltiplicano, la crisi economica morde sul
bilancio stentato delle famiglie, il panorama internazionale ci mette dinanzi all’assurdo
paradosso di combattere una guerra sicura per prevenirne una possibile. Nell’incertezza degli
orizzonti lontani siamo spinti ad inseguire piccole sicurezze nell’orizzonte vicino. E mentre una
subdola tentazione feudale sembra attraversare la politica, l’informazione si fa sempre più
ruffiana ed evasiva, e il mondo dello spettacolo, spesso ridotto ad una squallida corte di nani e
ballerine, ci suggestiona con immagini di fatua spensieratezza, nelle quali non possiamo
riconoscerci. Le vie della partecipazione sono più serie.