ANNI DECISIVI PER IL FUTURO DEGLI OGM TRA ASPETTATIVE E DELUSIONI Giovanni Monastra Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), Roma 1. Premessa L’ingegneria genetica in campo agricolo è da tempo oggetto di accese e serrate discussioni. Se si eccettua il tema ancor più scottante e delicato della transgenesi applicata all’uomo, la manipolazione del genoma delle piante ad uso alimentare è diventato ormai il principale terreno di scontro scientifico, economico, culturale, politico. Tra i vari motivi che si possono addurre per spiegare questa situazione va considerato sia il campo di applicazione – intendiamo dire: il cibo con tutte le sue valenze e i suoi significati – sia il notevole giro di affari che vi sta dietro. Nel 2002 i gruppi industriali impegnati nel transgenico in agricoltura hanno raggiunto un fatturato mondiale di oltre 4 miliardi di dollari, che costituisce il 9% del giro di affari totale delle biotecnologie, con la maggioranza dei brevetti in mano americana (1). Almeno fino ad ora, gli OGM sono stati un grande affare principalmente per poche aziende multinazionali, tra cui primeggia la Monsanto, assai vicina all’Amministrazione del presidente americano Bush (infatti numerosi manager provenienti dal settore biotech o ad esso legati economicamente, come, ad esempio, Donald Rumsfeld e John Ashcroft, sono membri dell’attuale Amministrazione USA). L’ingegneria genetica fa parte delle biotecnologie, le quali, però, comprendono anche molti altri settori di ricerca, spesso assai diversi, dove la manipolazione genetica è del tutto assente. Il termine “biotecnologia” è stato coniato nel 1919 dall’ingegnere ungherese Karl Ereky per definire l'integrazione tra la biologia e la tecnologia. Allora comprendeva tutte le attività produttive mediante le quali venivano realizzati prodotti da materiali grezzi con l’ausilio di organismi viventi. Molti ritengono che i ricercatori di ingegneria genetica creino prodotti del tutto nuovi, usando metodiche radicalmente diverse da quelle impiegate finora in agricoltura, rompendo le barriere poste dalla natura a separazione tra specie e generi, barriere che ne impediscono l’interfecondità e quindi limitano fortemente i flussi genici. In pratica vengono “fabbricate” chimere genetiche, con processi che ricordano molto di più quelli industriali, che quelli agricoli, tanto che le leggi e i cicli naturali sembrano avere ben poca importanza. Non a caso un OGM, che può essere un virus, un battere, un fungo, 1 una pianta o un animale, viene definito, con terminologia ufficiale, come un "organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale" (Art. 2, Direttiva 2001/18/CE del 12/03/01). L’esempio più comune di ingegnerizzazione è costituito dall’inserimento in una pianta di un gene che determina un certo carattere (ad esempio la capacità di tollerare un diserbante o di sopravvivere in un ambiente arido). Questo gene può essere prelevato da un battere, da un’altra pianta, talora molto diversa, cioè lontana filogeneticamente da quella in cui il gene viene inserito, o anche da un animale (dallo scorpione per trasferirlo nel pomodoro o da un pesce per trasferirlo nella fragola). A parte questa procedura, ne esistono altre, quali, ad esempio, il blocco della espressione di un gene nell’organismo che si vuole modificare. L’idea di fondo che sostanzia l’ingegneria genetica è la convinzione di poter dominare con precisione e accuratezza il processo mediante il quale modificare un essere vivente: un determinato gene deve far esprimere uno specifico carattere in un organismo, e null’altro, secondo una causalità lineare e meccanica. Il progetto agrobiotech nei suoi termini più moderni è basato sul riduzionismo genetico, secondo il quale solo il DNA determina le strutture e le funzioni dei viventi, quindi basta modificarlo per ottenere gli organismi voluti. Sia detto per inciso che tutto ciò è falso, come dimostra la più recente ricerca, la quale ci presenta un quadro dove DNA, RNA e proteine agiscono in modo strettamente connesso e i flussi di informazione non sono unidirezionali, ma seguono vie impensabili fino a una decina di anni addietro (2). Un primo chiaro disegno “manipolatorio” del vivente a questo livello è rinvenibile, quanto meno in nuce, in alcune elaborazioni teorico-programmatiche degli ambienti più intraprendenti della Fondazione Rockfeller durante gli anni trenta, quando venne coniato anche il termine “biologia molecolare” da Warren Weaver (1938). Già allora si postulava che tutto lo sviluppo dell’organismo è determinato dal patrimonio genetico (3). Inoltre il progetto agrobiotech ripropone la “filosofia” che ha caratterizzato la cosiddetta “Rivoluzione Verde”, con il suo approccio industrialistico e la diffusione delle monoculture, fattori che hanno contribuito in modo rilevante alla drastica riduzione dell’agrobiodiversità. In particolare in Italia, dove il cibo riveste un valore storico e culturale, la maggioranza assoluta della popolazione mostra di preferire una versione tradizionale dell’agricoltura, più focalizzata sulla qualità e la tipicità, che sulla quantità. Può essere opportuno rilevare che le preoccupazioni diffuse tra la gente circa gli effetti negativi degli OGM non nascono da avversione irrazionale verso la scienza e la ricerca, né sono frutto di ignoranza. Infatti, in primo luogo quasi nessuno contesta l’uso dell’ingegneria genetica in campo medico, in secondo luogo le posizioni più critiche e prudenziali verso gli alimenti transgenici sono maggiormente 2 diffuse tra chi ha un livello scolastico elevato, piuttosto che tra persone con istruzione modesta, come è stato dimostrato da tutte le indagini svolte in questi anni (4). Inoltre sono emerse e continuano ad emergere forti riserve anche tra gli “addetti ai lavori”, ecologi, microbiologi, agronomi, medici, oltre che qualche biotecnologo: tutti, facendo riferimento ai dati concreti ormai disponibili, chiedono una rigorosa applicazione del “principio di precauzione”, se non addirittura, in certi casi, un ripensamento radicale sulla utilità e sicurezza dell’ingegneria genetica applicata all’agricoltura. (5). Tra l’altro la concezione riduzionista e meccanicista della vita propria al progetto bioingegneristico contrasta con le nuove tendenze olistiche e organiciste proprie all’approccio sistemico alla natura, oggi rivalutato (6). 2. Le motivazioni di fondo a supporto dello sviluppo di organismi ingegnerizzati Esistono numerose motivazioni a sostegno degli OGM. Le riportiamo qui di seguito in modo schematico: 1. ottenere colture immuni dall’azione dannosa degli insetti fitofagi e dei microrganismi fitopatogeni (funghi, virus), quindi senza perdite nel raccolto e senza l’uso di pesticidi, inserendo il gene per la produzione di tossine antiparassitarie o per la resistenza a tali patogeni (in tal modo si intende anche preservare dalla estinzione cultivar “elette”, minacciate da microrganismi molto aggressivi); 2. evitare le perdite del raccolto a causa degli effetti letali che i diserbanti arrecano alle stesse piante coltivate, una volta introdotto il gene per la tolleranza verso questi agenti chimici, ottenendo così anche una riduzione nell’uso dei diserbanti; 3. diminuire in modo rilevante il danno economico derivante dal deterioramento delle derrate alimentari durante la conservazione tra il momento della raccolta e quello della vendita al dettaglio, agendo sui geni per bloccare alcuni processi connessi alla maturazione del prodotto, in modo che questo non marcisca secondo i ritmi naturali; 4. coltivare piante in ambienti proibitivi, come quelli aridi, freddi, con terreni salinizzati o impoveriti da eccessivo sfruttamento agricolo, introducendo geni di organismi resistenti (piante o animali), viventi in ecosistemi “difficili”, o di microrganismi capaci di fissare l'azoto; 5. migliorare il gusto, l'aspetto, ecc., di alcuni prodotti agricoli, rendendoli più competitivi sul mercato e quindi economicamente più vantaggiosi, mediante l’introduzione di geni “portatori di sapore” o capaci di modificarne, ad esempio, il colore; 3 6. accrescere il contenuto nutrizionale endogeno dei prodotti agricoli con l’inserimento di geni che sintetizzano quantità maggiori di un determinato componente della dieta o che ne sintetizzano uno in precedenza assente in quell’alimento (es. il golden rice per la vitamina A); 7. eliminare all’origine la presenza negli alimenti di sostanze che provocano allergie e intolleranze (ad esempio il glutine) o di componenti non sempre desiderabili da parte del consumatore, come la caffeina, bloccando l’espressione di alcuni geni; 8. somministrare molecole ad azione farmacologica prodotte direttamente dalle stesse piante, inserendo il gene per la loro produzione, al fine di realizzare interventi sanitari generalizzati nel Terzo Mondo. Come appare chiaro, specie considerando i primi punti, sono due i risultati positivi, di carattere generale, che, secondo i fautori degli OGM, deriverebbero dall’impiego delle agrobiotecnologie: il miglioramento della salubrità dei cibi e dello stato dell’ambiente, per la drastica riduzione dell’uso dei prodotti chimici; l’aumento delle rese delle colture, cioè una maggiore produttività. Accennando alla storia dell’ingegneria genetica vanno ricordate, tra le tante date importanti, quella del 1983, quando viene prodotta negli USA la prima pianta geneticamente modificata, il tabacco resistente ai virus che danneggiano le colture, e quella del primo prodotto messo in commercio, nel 1994, il pomodoro Flav Savr dalla società Calgene, caratterizzato dalla maturazione “a comando” (verrà poi ritirato per le sue scadenti qualità organolettiche). Fino ad oggi solo due caratteri geneticamente modificati, introdotti in mais, soia, cotone e canola (colza), hanno avuto successo a livello di mercato: la tolleranza al diserbante e la resistenza a certi insetti (lepidotteri). Nella condizione più frequente questi caratteri sono presenti singolarmente nella stessa pianta (i casi più noti sono la soia RR tollerante il diserbante e il mais Bt, o il cotone Bt, resistente agli insetti), ma esistono anche piante che, in seguito a una doppia ingegnerizzazione, li possiedono ambedue (es. il mais resistente agli insetti e tollerante il diserbante). 3. Alcune delusioni 4 Di fronte alle promesse di ricadute benefiche fatte dai produttori di OGM per convincere autorità pubbliche, agricoltori e consumatori sulla loro indispensabile utilità è tempo di fare i primi bilanci, cominciando ad analizzare i fatti rilevanti di cui ormai disponiamo, basati su esperienze significative. In primo luogo è interessante riportare i dati forniti nel novembre 2003 da uno studioso americano, Charles Benbrook (7), circa l’uso dei diserbanti nelle coltivazioni transgeniche tolleranti l’erbicida. Come già evidenziato questo tipo di OGM vanta la capacità di ridurre l’uso complessivo di sostanze chimiche dannose per la salute umana e per l’ambiente. Benbrook ha voluto verificare se tale affermazione corrisponda al vero, confrontando le quantità di erbicidi usati nelle coltivazioni ingegnerizzate e in quelle convenzionali nell’arco di otto anni, dal 1996 al 2003, in quel grande laboratorio a cielo aperto quale sono gli USA, basandosi sui dati del Dipartimento dell’Agricoltura. Nella sua analisi ha compreso anche le colture (mais, cotone) resistenti a una farfallina dannosa per il raccolto, la piralide, andando a calcolare il totale di pesticidi impiegati. I risultati attestano che per tutte le colture geneticamente modificate presenti negli Stati Uniti (soia, mais e cotone), dopo un’iniziale diminuzione dei consumi di questi prodotti chimici, si è assistito a un incremento significativo. Infatti, per le piante geneticamente modificate, sono state usate 22.700 tonnellate di pesticidi in più rispetto alla quantità usata nelle analoghe colture convenzionali. Vediamo brevemente uno degli aspetti più preoccupanti che hanno dato luogo al fenomeno sopra riportato. L’impiego di piante transgeniche tolleranti un determinato erbicida comporta l’uso esclusivo di questo prodotto, che non danneggia il raccolto, tanto che può essere usato a dosi sei volte maggiori di quelle consuete per le coltivazioni convenzionali. In tal modo, però, si introduce una forma di intervento basato su un solo composto chimico, con un eccesso di impiego dell’erbicida “tollerato”. Ciò determina una forte pressione selettiva, che causa l’affermarsi nell’ambiente agricolo di erbe infestanti dotate anch’esse del carattere della “tolleranza”. Così l’erbicida (il glifosato, in questo caso) perde via via di efficacia: gli agricoltori, prima, devono applicarlo in dosi massicce, poi sono costretti a passare ad altri erbicidi, capaci di debellare le erbacce, ma che sono molto più dannosi per la salute e per l’ambiente. Il risultato finale è l’aumento dell’uso di prodotti chimici. E’ significativo che di recente una identica situazione si è creata in Argentina, dove la diffusione della soia tollerante il glifosato (soia Roundup Ready della Monsanto) ha determinato l’aumento dell’uso di diserbanti molto nocivi, provocando così gravi danni ambientali (8). Appare quindi evidente che l’introduzione degli OGM in campo agricolo non ha dato i risultati attesi circa la garantita diminuzione dell’impiego di prodotti agrochimici, un fattore che incide sia sulla salute umana, sia sull’ambiente. Ciò va notato anche perché, a fronte di questo incremento, esistono molte 5 situazioni in cui l’uso dei pesticidi nei paesi avanzati è, invece, in diminuzione: tali dati dimostrano che esiste una tendenza generalizzata, seppur lenta, alla riduzione del loro impiego attraverso un uso più razionale e scientifico nelle coltivazioni “convenzionali”. Un secondo argomento da prendere in considerazione riguarda la produttività dell’agricoltura ingegnerizzata in rapporto a quella convenzionale, con lo scopo di valutare un altro aspetto molto reclamizzato per supportare gli OGM, cioè la loro presunta capacità di incrementare i raccolti. Può, quindi, essere interessante cercare di “pesare” il loro effetto sulla produzione delle specie maggiormente interessate dalle coltivazioni geneticamente modificate. In proposito facciamo riferimento a quanto dimostrato da Simone Vieri, docente all’Università La Sapienza di Roma e Presidente dell’INEA, nel saggio incluso nel presente fascicolo di Percorsi. Senza entrare nel merito, riportiamo solo le conclusioni: l’analisi dei dati di un ampio periodo di tempo ha fatto emergere che le piante transgeniche non aumentano per nulla la produttività. In definitiva i dati qui esposti dimostrano l’inconsistenza dei due presunti “vantaggi competitivi” degli OGM rispetto alle colture convenzionali: minore uso di diserbanti e più produttività. 4. Ulteriori problemi per le agrobiotecnologie Ma ci sono altri fatti significativi, a vari livelli. Riportiamone alcuni. In primo luogo è stata smentita la fandonia secondo la quale tutto il mondo della scienza in Italia e all’estero si schiera a favore degli OGM. Ciò emerge leggendo alcuni documenti apparsi in questi ultimi anni. Il primo, che vogliamo citare, risale al 2003 ed è un appello lanciato dal Consiglio dei Diritti Genetici a sostegno di una posizione molto accorta e prudente (principio di precauzione) nell’affrontare il problema dell’introduzione delle piante transgeniche in Italia (9). Sono da evidenziare le circa quaranta firme di economisti agrari che lo hanno approvato: una dimostrazione del fatto che coltivare gli OGM sarebbe un danno per l'economia italiana. Nel settore biologico e medico vanno sottolineate le adesioni di esperti come Mariano Bizzarri, Marcello Buiatti, Claudia Sorlini, Giuseppe Sermonti, Sandro Pignatti, Nelson Marmiroli, Alberto Malliani, ecc. (l’elenco dei sottoscrittori è molto lungo), figure di rilievo nei rispettivi settori di ricerca in campo nazionale e internazionale. Un altro documento critico verso le piante geneticamente modificate è "Scienza e ambiente 2002" della Società Italiana di Ecologia (10), che riunisce docenti universitari e ricercatori del settore. Per quel che riguarda il parere delle Accademie Scientifiche internazionali è rilevante quello della Royal Society canadese, apparso nel 2001 (11): nel corposo dossier vengono espressi pareri assai prudenti e 6 talora molto critici verso gli OGM finora sperimentati, gli stessi che gli USA vorrebbero imporci, senza aspettare ulteriori ricerche verso prodotti più sicuri e affidabili, oltre che realmente utili (purché lo si dimostri nei fatti e non con la propaganda). Ancora: nel marzo 2004 si è svolto un referendum nella contea rurale californiana di Mendocino per decidere se bandire o meno le coltivazioni transgeniche dal proprio territorio, dove esistono floride aziende di agricoltura biologica. L’esito della votazione è stato chiarissimo: la maggioranza (56%) ha deciso di escludere ogni coltura di OGM. Il fatto ha suscitato clamore essendo avvenuto negli USA, la patria dell’ingegneria genetica, tanto che se ne sono occupati anche giornali scientifici specialistici di alto livello (12). Tra l’altro i principali promotori dell’iniziativa sono stati due ricercatori, l’uno nel settore della medicina, l’altro della zoologia, quindi persone provenienti dal mondo della ricerca, e non fanatici ignoranti. Questo caso rischia di essere seguito da molte altre comunità negli Stati Uniti, con grande disappunto di aziende come la Monsanto, che tante pressioni aveva esercitato, mesi fa, per impedire che uno degli Stati dell’Unione varasse una legge sulla etichettatura dei cibi, sull’esempio di quella europea. Secondo fatto analogo: lo stato dell’Australia Occidentale è in procinto di vietare ufficialmente la produzione di OGM. Il ministro dell’agricoltura Kim Chance ha anche detto che “non c’è motivo per noi di cominciare ad utilizzare le tecnologie OGM in questo momento: ci sono ancora così tante domande che non hanno ricevuto risposta, soprattutto riguardo la commercializzazione di OGM” (13). L’esempio di alcune regioni europee, e in particolare di quelle italiane (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria e Toscana), dichiaratesi OGM-free sta facendo scuola. Ancora: la tedesca Bayer Crop Science ha deciso da poco di rinunciare a iniziare la coltivazione del suo mais Bt in Gran Bretagna (14), nonostante il governo laburista di Blair avesse già dato il suo consenso formale. Per questa azienda non esistono più le condizioni di mercato che rendano economicamente interessante la messa a coltura del mais transgenico. D’altra parte l’approfondita indagine conclusa nel 2003 in Gran Bretagna, dal nome GM Nation?, aveva già dimostrato come solo il 2% degli abitanti di quel Paese siano veramente favorevoli alle agrobiotecnologie: una quota di mercato un po’ modesta per realizzare sufficienti profitti. In una nazione con questa sensibilità molto alta non a caso aveva fatto scalpore uno dei risultati ottenuti da una studio triennale, finanziato dal governo britannico, quindi teoricamente imparziale e indipendente da interessi privati. Ci riferiamo alla “promozione” del mais Bt, testato con colza e barbabietola, transgeniche anch’esse, paragonandone l’impatto sull’ambiente in confronto con quello delle analoghe colture convenzionali. Se le altre due piante geneticamente modificate erano state “bocciate”, perché ecologicamente più dannose di 7 quelle convenzionali, per il mais era avvenuto il contrario (15). Ma l’assurdo, denunciato da molti, consisteva nel tipo di confronto realizzato: infatti il mais convenzionale, usato come controllo, era stato trattato con atrazina, un diserbante dannosissimo per l’ambiente, che sarà messo al bando nell’UE dal 2006. Con tutta evidenza questa prova era stata ideata in modo tale da ottenere un risultato favorevole al mais transgenico. D’altra parte esistevano già forti sospetti sul gruppo di esperti che aveva messo a punto lo studio complessivo. Infatti mesi fa uno dei componenti, lo scienziato Carlo Leifert, insigne studioso del Dipartimento di Agricoltura dell’Università di New Castle, si era dimesso, accusando alcuni colleghi di essere portatori di interessi di parte, cioè quelli pro-OGM, senza che, per lo meno, fossero presenti nella commissione esponenti delle associazioni ambientaliste a fare da contrappeso. Inoltre sono sempre più frequenti le denuncie di intimidazioni da parte di Monsanto nei confronti dei ricercatori che mettono in dubbio la sicurezza delle piante transgeniche. Ma, nonostante tutti questi tentativi, l’ostilità dei consumatori inglesi ha reso vana la strategia di penetrazione dei colossi del biotech nel mercato inglese. Che siamo in presenza di un potenziale grosso pericolo e che, per lo meno, si debba studiare ancora molto sugli OGM è confermato anche da un altro fatto significativo: di fronte alla possibilità che nel Regno Unito il governo consentisse l’inizio delle coltivazioni transgeniche, pochi mesi fa le principali compagnie di assicurazioni britanniche dichiararono che nessuna di loro intendeva prendere in considerazione l’ipotesi di assicurare gli agricoltori. Questo rifiuto vale sia per chi coltiva OGM, sia per coloro i quali volessero tutelarsi contro la contaminazione dei propri raccolti da parte delle piante transgeniche. Tale scelta molto drastica e inconsueta è stata motivata con il fatto che si sa ancora troppo poco in merito agli effetti a lungo termine degli OGM sull’uomo e sull’ambiente per essere in grado di offrire delle adeguate polizze assicurative: il rischio viene ritenuto il più elevato tra quelli oggi presi in considerazione dalle compagnie (16). E proprio sui rischi per la salute un recentissimo dato riconferma la necessità di adottare una cautela estrema. La Commissione di Genetica Biomolecolare (CGB) francese ha affermato che il mais MON863 è dannoso per la salute. Infatti nei topi nutriti per tre mesi con questo tipo di mais sono state riscontrate delle serie malformazioni, quali aumento significativo dei globuli bianchi e dei linfociti, diminuzione dei globuli rossi, aumento della glicemia, infiammazione renale (17). A questa notizia si aggiunge la fuga di Monsanto dall’Europa, cioè la smobilitazione dei laboratori della multinazionale americana dal suolo europeo, palese riconoscimento del fallimento totale di una strategia aziendale arrogante e brutale. Anche la Chiesa ha preso posizione: infatti alcuni autorevoli interventi dell’episcopato italiano si sono caratterizzati per un richiamo alla prudenza prima di aprire all’agricoltura ingegnerizzata. Ricordiamo in 8 particolare quelli dell’Arcivescovo di Genova, Tarcisio Bertone (18), e del Patriarca di Venezia, Angelo Scola (19). Il tono molto preoccupato di queste dichiarazioni è ben lontano da quello, assai accondiscendente, che aleggiava sul seminario del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, sul tema “OGM: minaccia o speranza?”, tenutosi a Roma nel Novembre 2003, il cui esito, comunque, è stato molto diverso da quanto speravano certi occulti manovratori. Ma anche nei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo le cose vanno male per le multinazionali del transgenico. In Indonesia il governo ha dovuto ritirare il cotone ingegnerizzato, che in India è stato dichiarato inadatto alla coltivazione e nella Repubblica Sudafricana ha provocato un forte indebitamento delle aziende che ci avevano creduto (20). Di fronte a tutti questi fatti viene da sorridere leggendo certi patetici articoli di retroguardia (scientifica e culturale) che ancora appaiono sulla stampa italiana (e non solo!), dove si continuano a esercitare pressioni sul pubblico, parlando dei benefici degli OGM, come se nessun dato nuovo fosse stato diffuso in questi ultimi tempi. Certi giornalisti compiacenti e numerosi biotecnologi (comprensibilmente interessati a difendere la propria attività) fanno finta di non conoscere le notizie assai poco positive per loro, che vengono alla luce giorno dopo giorno. Così, in preda a una autoreferenzialità preoccupante, continuano imperterriti a ripetere sempre gli stessi logori e vecchi slogan, improvvisandosi, di volta in volta, ecologi, allergologi, nutrizionisti, senza averne alcuna competenza. 5. Conclusioni Di fronte al problema della introduzione di OGM nella nostra agricoltura (di sicuro dannosa sotto il profilo strettamente economico), bisogna percorrere la strada del potenziamento del controllo pubblico sulla sperimentazione e della applicazione rigorosa e totale del “principio di precauzione” (21). Tra l’altro la genetica è in profonda trasformazione già da qualche tempo: in un recente articolo apparso su una prestigiosa rivista scientifica si riconosce che “Non ci sono più dubbi che serva una nuova teoria per sostituire il dogma su cui la genetica e le biotecnologie si sono basate a partire dagli anni cinquanta” (22). Il quadro risulta ormai chiaro: è necessario rifiutare ogni compromesso con le pressioni di parte, spesso esercitate da chi per primo infrange le regole a cui si appella solo quando ne trae vantaggio. Si tratta di un investimento lungimirante, che permetterà di evitare alla nostra comunità nazionale gravi danni futuri, a vari livelli. Lo sviluppo agricolo (e non solo agricolo) delle nazioni deve essere autocentrato, senza dare alcuno spazio a logiche estranee agli interessi, complessi e specifici, dei singoli popoli. Si deve rifiutare ogni cedimento verso forme eterodirette di sviluppo 9 rispondenti a progettualità calate, spesso in modo autoritario, dall’esterno. Opponendoci ai “talebani” dell’ingegneria genetica non proponiamo utopie "regressiste", adottando un termine tanto caro ai fautori della tecnoscienza faustiana, che lo usano spesso strumentalmente, ma chiediamo solo un sano "ritorno al reale", alla realtà quale essa è. Ciò significa anche più ricerca scientifica, più innovazione tecnologica, più creatività in senso lato, alla luce del paradigma olista e sistemico, lungo la strada tracciata dalla natura, ben diversa da quella che vorrebbero imporci, facendoci credere che sia ineluttabile. Nella moderna ricerca esistono vie alternative, più sicure ed ecologiche, le quali oggi sono oscurate dalla egemonia, ben costruita, dell’ingegneria genetica: sono vie che possono farci conseguire i risultati più interessanti e validi tra quelli promessi dalla transgenesi. Oggi alcuni esempi pratici della applicazione di tali concezioni ecologiche si trovano sempre più di frequente. Citiamo gli studi di Ann Clark sulla agricoltura sostenibile, in armonia con i cicli e le leggi della natura (23) o la nuova disciplina, chiamata “Biomimetismo”, ossia, in termini più espliciti, “imitazione dei modelli biologici”, elaborata da Janine Benyus, che invita a non manipolare la natura, ma a conoscerla in profondità per riprodurre le sue strutture e i suoi processi in modo da fornire all’uomo strumenti efficaci in campo tecnico, senza perturbare il mondo vivente (24). Ma vorremmo fare riferimento anche a concetti nuovi come il “breeding by design”, le cui potenzialità sono ancora in parte da scoprire (25). In conclusione ci sembra che stiano iniziando degli anni decisivi, dai quali dipenderà il futuro delle agrobiotecnologie, cioè la loro affermazione planetaria o il lento declino, per lo meno nella attuale versione, con il conseguente uso in limitate zone agricole. D’altra parte la recente disponibilità di due grosse aziende, Pioneer e Kws, di fornire agli agricoltori italiani sementi OGM-free dimostra come, a fronte di una domanda “forte”, popolare, esista sempre la possibilità di soddisfarla, nonostante le difficoltà: gli stessi attori del settore biotecnologico hanno riconosciuto la possibilità di mantenere una agricoltura convenzionale, senza contaminazioni. In un’epoca così critica risulta, quindi, ancor più necessario che la ricerca pubblica, veramente indipendente, svolga, con il massimo impegno e fino in fondo, il suo ruolo, in modo da fornire ulteriori indispensabili strumenti di conoscenza e di giudizio tali da permetterci di operare le scelte sul nostro futuro con razionalità e saggezza. Note: 10 (1) Capozzi, F. [2003], Gli OGM crescono più della paura, Borsa e Finanza, 26 luglio 2003: http://www.capitalife.com/B_F_gli_OGM_crescono_7-03.pdf (2) Monastra, G. [2002], “Maschera e volto” degli OGM, Settimo Sigillo, Roma. (3) Kay, L.E. [1993], The Molecular Vision of Life, O.U.P., Oxford. (4) Bucchi, M. [2003], Critical but Striving to be Involved: The Paradoxes of Public Attitudes to Biotechnology in Italy, Medicina dei Secoli (in stampa); Bucchi, M. e F. Neresini [2002], Biotech Remains Unloved by the More Informed, Nature 416: 261; Neresini, F., M. Bucchi e G. Pellegrini [2003], Biotecnologie: democrazia e governo dell’innovazione, Fondazione Giannino Bassetti – OBSERVA. (5) Altieri, M., M. Antoniou, J. Cummings, B. Goodwin, A. Pusztai, D. Quist, M.-W. Ho et al. [2003], A GM-Free Sustainable World, pubblicato dall’Institute of Science in Society e dal Third World Network, Londra 2003: http://www.indsp.org/A%20GM-Free%20Sustainable%20World.pdf; Bizzarri, M. [2001], Quel gene di troppo. Frontiera Editore, Milano; Buiatti, M. [2001], Le biotecnologie, il Mulino, Bologna; Domingo, J.L. [2000], Health Risks of GM Foods: Many Opinions but Few Data, Science 288: 1748-1749; Ewen, S. e A. Pusztai [1999], Health Risks of Genetically Modified Foods, The Lancet 354: 684; Gurian-Sherman, D. [2003], Risks of Genetically Engineered Crops, Science 301: 1845-1846; Ho, M.-W. [2001], Ingegneria genetica, Derive Approdi, Roma; Holden, P. [1999], Safety of Genetically Engineered Foods is Still Dubious, British Medical Journal 318: 332; Schubert, D. 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