Teatro e drammaturgia dell`antichità - Profili degli autori

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E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità – 2003-2004 Profili sintetici degli autori (parte integrante del programma
d’esame),. Testo per solo uso didattico
Teatro Greco
A. Tragedia
1. Eschilo
Le poche notizie che abbiamo sulla vita di Eschilo ci vengono in gran parte dall'anonima Vita tramandata
assieme alle tragedie in alcuni manoscritti (tra cui il prezioso Laurenziano Mediceo. 32, 9, conservato nella
Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze).
Eschilo, figlio di Euforione, nacque nel 525 a. C. a Eleusi, un piccolo centro a pochi chilometri da Atene sede del
culto misterico di Demetra e Core (divinità legate ai cicli della vegetazione e al mondo sotterraneo). L'origine
eleusinia e la familiarità con il culto delle due dèe ebbero certamente influenza sulla sua formazione religiosa,
ma la notizia relativa al processo intentatogli per aver divulgato i segreti del culto in alcune sue tragedie non
sembra aver fondamento nella realtà. La Vita gli attribuisce nobili ascendenti; ebbe tre fratelli, Cinegiro,
Euforione e Aminia. La sua giovinezza coincise con il processo che portò Atene a liberarsi dai residui della
tirannia di Pisistrato e dei suoi discendenti, approdando alla costituzione democratica fondata sulla grande
riforma di Clistene. Il giovane poeta combatté più volte in difesa della patria nel momento in cui la Grecia si trovò
minacciata dalla potenza dell'impero Persiano. Eschilo partecipò nel 490 a. C. alla battaglia di Maratona
(assieme al fratello Cinegiro che cadde da valoroso), nel 480 a . C. a quella di Salamina (assieme al fratello
minore Aminia) e nel 479 a quella di Platea.
Al 499 a. C. risale la sua prima partecipazione a un agone drammatico, e al 484 a. C. la sua prima vittoria. Di
tutta la fase giovanile della sua produzione teatrale, tuttavia, conosciamo pochissimo: la più antica tragedia in
nostro possesso, i Persiani, risale infatti al 472 a.C. (Eschilo aveva all'epoca 53 anni). La Vita gli attribuisce 13
vittorie nel concorso tragico, ricordando che le sue opere risultarono vincitrici più volte anche dopo la sua morte.
Un elemento di difficile collocazione nella biografia del poeta sono i viaggi in Sicilia, alla corte del tiranno Ierone
di Siracusa, che gli vengono attribuiti dalle fonti antiche. Un primo viaggio dovrebbe coincidere con la fondazione
da parte di Ierone della città di Etna (476/475 a. C.), occasione per la quale Eschilo avrebbe composto una
tragedia, intitolata appunto Le Etnee, nella quale, stando alla Vita, avrebbe augurato prosperità ai fondatori della
nuova città. Ed è ancora la Vita a ricordarci che Ierone, apprezzando moltissimo il teatro di Eschilo, lo invitò ad
allestire una replica dei Persiani a Siracusa, che ebbe grande successo (siamo dunque negli anni
immediatamente posteriori al 472 a. C.). Infine, dopo la rappresentazione dell'Orestea in Atene nel 458, il poeta
tornò ancora in Sicilia, dove concluse la propria esistenza a Gela, nel 456/455 a. C. I motivi di questo definitivo
allontanamento da Atene non sono chiari: Aristofane (Rane 807) allude a incomprensioni col pubblico ateniese,
ma si tratta di una notizia da prendere con cautela.
Della produzione teatrale di Eschilo, che il lessico bizantino Suda quantifica in 90 opere, conosciamo
un'ottantina di titoli elencati in un catalogo presente in alcuni manoscritti. Solo sette drammi sono però
sopravvissuti:
Persiani (472 a.C.)
Sette contro Tebe (467 a. C.)
Supplici (databili tra gli anni '60 e la morte del poeta)
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Prometeo Incatenato (di datazione incerta, ma da collocare probabilmente nell'ultima fase della vita del poeta).
Orestea (458 a. C.), che è una trilogia composta da Agamennone, Coefore, Eumenidi.
Il Prometeo Incatenato, dramma che gli antichi ritennero senz'altro eschileo, da un secolo a questa parte è al
centro di un vivace dibattito sull'autenticità. Nonostante i molti dubbi, non sembra essere emerso finora alcun
argomento definitivo contro l'attribuzione tradizionale, che fino a prova contraria deve essere giudicata
attendibile.
Le Supplici sono state al centro di un dibattito molto significativo sulla cronologia, che ci ricorda quale sia il
grado di labilità delle nostre conoscenze. Da tutti ritenute la tragedia più antica per il grande ruolo che vi svolge il
coro (con datazioni che arrivavano agli anni '90 del V secolo a . C.), esse si sono rivelate una tragedia della
piena maturità del poeta dopo che un papiro, pubblicato nel 1956, ci ha dato l'informazione che esse furono
presentate in un concorso in cui partecipava Sofocle, dunque dopo il 470 a.C.
La prima delle tragedie eschilee superstiti rappresenta un caso molto raro di drammatizzazione di eventi storici
recenti. I Persiani hanno infatti come oggetto la reazione della Regina persiana e degli anziani del Consiglio alla
notizia della terribile sconfitta patita dall'esercito guidato da Serse a Salamina. Nel finale lo stesso re Serse
viene presentato in scena con le vesti stracciate, e la tragedia si chiude con il lamento alternato del Coro e del
Re. Una fonte antica ci dice che di regola le tragedie di argomento contemporaneo erano sgradite, e in qualche
caso addirittura erano state vietate: questo perché uno dei primi tragici, Frinico, aveva portato in scena la Presa
di Mileto, suscitando una tale commozione nell'uditorio che i magistrati della città avevano pensato bene di
evitare altri casi analoghi.
Nella tragedia di Eschilo è vivo il legame trilogico, che porta l'autore a costruire sequenze di tre tragedie attinenti
allo stesso mito o a momenti successivi della stessa saga. Questo è un fatto rilevante perché l'interpretazione di
alcuni drammi è seriamente ostacolata dalla perdita delle altre parti della trilogia (ad esempio nella Prometheia
sarebbe fondamentale sapere se nelle tragedie che seguivano il Prometeo Incatenato Prometeo e Zeus si
riconciliassero, e in che modo). Solo nel caso dell'Orestea siamo in possesso di una trilogia completa, un'opera
di vastissimo respiro che si annovera tra i capolavori assoluti della letteratura di ogni tempo.
Eschilo fu per certi versi il creatore della forma tragica quale è nota a noi, in quanto a lui si devono innovazioni e
sperimentazioni determinanti per lo sviluppo della tragedia. La tradizione attribuisce a lui:
a) l'introduzione del secondo attore che si affianca al primo, con evidente aumento delle possibilità
drammaturgiche di contrato fra posizioni diverse;
b) secondo alcune fonti, anche l'introduzione del terzo attore, che altri attribuiscono a Sofocle;
c) la riduzione del ruolo del Coro, preponderante nella tragedia delle origini, a favore del ruolo degli attori;
d) lo sviluppo di un teatro di forte impatto emotivo sia a livello verbale che a livello visuale. Si possono ricordare
in proposito le memorabili scene dell'apparizione del fantasma di Dario nei Persiani e l'ingresso del Coro nelle
Eumenidi, la preparazione del tappeto rosso che conduce Agamennone alla casa dove troverà la morte e le
visioni diCassandra nell'Agamennone, l'arrivo in scena di Iò in preda alla follia nel Prometeo Incatenato.
e) una grande maestria come musicista e soprattutto come coreografo.
2. Sofocle
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Anche di Sofocle si è tramandata assieme alle opere una Vita anonima. La vita di Sofocle copre quasi
completamente l'arco del V secolo a. C.: visse infatti per 92 anni, dal 497/496 a. C. al 406/405 a.C. Fu un
cittadino in vista, non soltanto per la sua prestigiosa carriera di drammaturgo, ma anche per la costante
partecipazione alla vita politica della città, che lo portò a ricoprire cariche importanti come quella di
amministratore del tesoro della Lega Delio-Attica (443/442 a. C.), e di stratego assieme al grande Pericle (nel
441/440 a. C.). Questa seconda carica secondo la tradizione gli sarebbe stata assegnata come riconoscimento
per la composizione dell'Antigone, che dovrebbe di conseguenza essere datata al 442 o al 441 a.C. Dopo la
grave disfatta degli Ateniesi in Sicilia (413 a. C.) fu scelto, come cittadino di provata onestà e prestigio, tra i dieci
magistrati (probuli) che dovevano rivedere l'assetto costituzionale ateniese, preparando il governo oligarchico
dei Quattrocento: compito questo che, stando a quanto testimonia Aristotele nella Retorica (1419a 25), Sofocle
svolse malvolentieri, con la consapevolezza però che si trattava di una scelta inevitabile.
Fu uomo impegnato anche nella vita religiosa, e contribuì all'introduzione in Atene del culto di Asclepio,
avvenuta nel 420 a. C.: accolse infatti nella sua casa la statua del dio, che in occasione dei Grandi Misteri fu
trasportata da Epidauro ad Atene.
L'immagine del poeta concordemente trasmessa dalla tradizione è quella di un uomo dal carattere affabile e
dalla personalità affascinante, amante delle gioie della vita e dell'amore, benvoluto dai concittadini e risparmiato
persino dalle frecciate dei commediografi. Si tratta di un quadro un po' troppo perfetto per non suscitare qualche
dubbio; è ragionevole infatti supporre che i biografi siano stati influenzati dal desiderio di ritrovare anche nella
vita privata del poeta la presunta "serenità" che ne caratterizzava le opere (questa serenità è frutto in realtà di un
fraintendimento critico che ha a lungo influenzato gli studi sofoclei). Se è vera una notizia riportata da Plutarco
(Cim. 8, 7), che fa coincidere l'esordio di Sofocle nel concorso tragico con una vittoria, la carriera teatrale del
poeta ebbe inizio con la vittoria del 468 a. C. (ottenuta col perduto Trittolemo su Eschilo); ma la cosa è dubbia, e
non si può escludere che egli avesse partecipato all'agone già prima, nel 470.
Il successo giovanile continuò ininterrotto per tutta la carriera di Sofocle: alle Grandi Dionisie egli ebbe la palma
diciotto volte, e in tutto (comprese le Lenee) raggiunse le venti (secondo Suda) o ventiquattro (secondo la Vita)
vittorie. Il pubblico lo prediligeva, ed egli non scese mai al di sotto del secondo posto. Della fase iniziale della
sua produzione non conosciamo quasi nulla: le tragedie conservate non risalgono oltre il 450 a. C., e ben
quattro (Edipo Re, Elettra, Filottete, Edipo a Colono) appartengono all'ultimo venticinquennio della vita del poeta,
un periodo straordinariamente fecondo di capolavori (il Filottete fu scritto a ottantasette anni, l'Edipo a Colono
intorno ai novanta). La data della morte è inquadrata con precisione da due avvenimenti. Alle Dionisie del 406 il
poeta era vivo, e impose agli attori delle sue tragedie, a seguito della morte di Euripide, di vestire a lutto e di non
portare corone; ma l'anno dopo, alle Lenee del gennaio-febbraio 405, Aristofane nelle Rane parla di lui come
morto da poco. Sofocle sarà dunque scomparso nel novembre-dicembre del 406.
Delle 123 tragedie attribuite a Sofocle da un grande studioso di età ellenistica, Aristofane di Bisanzio, solo sette
sono sopravvissute nella tradizione medievale
Aiace
Antigone (prob. 442 a.C.)
Trachinie
Edipo Re
Elettra
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Filottete (409 a. C.)
Edipo a Colono (scritta poco prima della morte, rappresentazione postuma nel 401 a. C.)
Inoltre, un ampio frammento di un dramma satiresco, gli Ichneutai ("I cercatori di tracce") è stato restituito da un
papiro nel 1912.
Delle tragedie note solo tre sono databili con precisione: l'Antigone, del 442 o 441, il Filottete, del 409, e l'Edipo
a Colono. Per le altre l'incertezza è grande, e le datazioni proposte comportano oscillazioni notevoli (ad esempio
l'Edipo re per alcuni risale a poco dopo il 430 a. C., per altri è del 411 a.C.).
Sofocle rientra a buon diritto nel novero dei più grandi uomini di teatro di ogni tempo. La sua padronanza dei
mezzi tecnici della tragedia e il suo costante intento di adattarli alle proprie esigenze espressive sono
testimoniati da numerose notizie. A lui venivano attribuiti:
a) l'introduzione del terzo attore
b) l'innalzamento del numero dei coreuti da dodici a quindici
c) lo scioglimento del legame trilogico, con la conseguente presentazione di tre drammi che trattavano argomenti
indipendenti l'uno dall'altro.
Queste notizie non possono essere prese alla lettera, poiché sappiamo che anche Eschilo aveva ampiamente
esplorato le possibilità tecniche del teatro del suo tempo: nell'Orestea del 458 a. C. il terzo attore è utilizzato e la
Vita di Eschilo ne attribuisce a lui l'introduzione; se invece lo si deve a Sofocle, l'innovazione dovrebbe essere
collocata tra il 468 e il 458 a. C. Inoltre, certamente già nel 472 a. C. Eschilo aveva presentato tre drammi 'sciolti'
dal legame trilogico (Fineo, Persiani, Glauco Potnieo). Potremo però accogliere dalle fonti antiche l'idea di un
Sofocle che dà carattere definitivo e consapevole a tentativi tecnici precedentemente avanzati in forma non
sistematica, sia da lui stesso che dal suo grande predecessore. Certamente lo scioglimento del legame trilogico
consentì a Sofocle di dare pieno sviluppo alla sua tendenza a concentrare l'attenzione sulla vicenda di un
singolo personaggio e sul contrasto con altre figure dominanti, lasciando in ombra il peso dei legami
generazionali che erano stati invece in primo piano nelle trilogie eschilee. Dobbiamo presupporre dunque uno
scambio vitale di stimoli con Eschilo ("imparò la tragedia da Eschilo", afferma senza mezze misure l'autore della
Vita).
L'interesse di Sofocle per il lato tecnico della sua attività è confermato dalla notizia che egli stesso avrebbe
recitato in gioventù nei suoi drammi Tamiri e Nausicaa, abbandonando poi questa pratica a causa della
debolezza di voce, e dalla notizia del lessico Suda secondo la quale egli avrebbe scritto un trattato intitolato Sul
Coro, del quale però non sappiamo nulla. Interessante è anche la notazione contenuta nella Vita che riferisce
che Sofocle avrebbe composto le sue tragedie tenendo presenti le capacità specifiche degli attori a cui
intendeva affidarle, probabilmente per perseguire al meglio quella rappresentazione dei caratteri che costituiva
una delle peculiarità del suo stile.
3. Euripide
Anche di Euripide I manoscritti hanno conservato una Vita anonima. Alcune fonti antiche, che amano istituire
sincronismi d'effetto fra le biografie dei grandi autori, asseriscono che Euripide sarebbe nato nel 480 a.C., lo
stesso giorno della battaglia di Salamina, cui Eschilo partecipò come combattente e in occasione della quale
Sofocle diciassettenne avrebbe cantato il peana della vittoria. Più probabilmente, Euripide nacque nel 485/484
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a. C. nell'isola di Salamina, da una famiglia ateniese. Ebbe un'educazione raffinata, ed ebbe rapporti con filosofi
del calibro di Anassagora, Prodico, Protagora e Socrate. Importante è anche la sua vicinanza a rappresentanti
delle tendenze musicali più innovative del tempo, quali lo scrittore di ditirambi Timoteo, che certamente influì
sulle scelte musicali di alcune delle tragedie più tarde. Secondo la tradizione fu di carattere melanconico e
solitario; si diceva che componesse le sue opere meditando in solitudine in una grotta dell'isola di Salamina.
Partecipò per la prima volta al concorso tragico nel 455 a. C., ma solo nel 441 a. C. ottenne la prima vittoria, e
nonostante una lunga carriera riuscì ad ottenerne solo cinque in tutto. Amareggiato dalla difficoltà che incontrava
ad ottenere il consenso popolare, nel 407 a. C. lasciò Atene, recandosi in Macedonia presso il re Archelao. Qui
egli scrisse la sua ultima trilogia, comprendente le Baccanti; dopodiché morì, secondo la tradizione sbranato da
alcuni cani.
A lui si attribuivano 92 drammi, o secondo altri 75; alcune fonti antiche dicono che partecipò al concorso 22 volte
(il che significherebbe una produzione di almeno 88 drammi).
Della sua produzione sopravvivono 17 tragedie autentiche, una tragedia probabilmente spuria (Reso) e un
dramma satiresco (Il Ciclope). Le tragedie autentiche sono:
Alcesti (438 a. C.),
Medea (431 a. C.)
Eraclidi
Ippolito (428 a. C.)
Andromaca
Ecuba
Supplici
Eracle
Elettra
Troiane (415 a. C.)
Ifigenia Taurica
Elena (412 a. C.)
Ione
Fenicie
Oreste (408 a. C.)
Baccanti (scritta nel 407/406 a. C., rappresentata postuma)
Ifigenia in Aulide (come le Baccanti).
Euripide è stato piuttosto fortunato per quanto riguarda i ritrovamenti di papiri: alcuni manoscritti antichi ritrovati
fra le sabbie egiziane hanno restituito ampie parti di tragedie perdute, delle quali oggi possiamo farci un'idea un
po' più precisa: tra queste l'Alessandro, l'Antiope, il Cresfonte, l'Eretteo, l'Ipsipile ecc. Solo per pochi drammi è
nota la cronologia; gli studiosi della metrica euripidea, per altro, hanno elaborato un metodo che sulla base della
struttura ritmica dei versi rende possibile una datazione approssimativa delle tragedie .
Euripide fu un inquieto sperimentatore, sia sul piano intellettuale che sul piano teatrale. Le sue riletture dei miti
tradizionali, alimentate dalla sua formazione di carattere filosofico/razionalistico sono spesso corrosive, ed
esasperano i contrasti insiti nelle storie tramandate, mettendo i crisi i fondamenti dell'ottimistica fiducia umana
nel potere della propria conoscenza razionale. Spesso egli ricorre alla tecnica di alterare qualche piccolo
particolare o introdurre qualche personaggio minore per ottenere effetti rilevanti sul piano della lettura della
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storia. Ma soprattutto, con lui si incrina la fede negli dèi tradizionali, e le storie portate in scena, con le loro
crudeltà e violenze, pongono apertamente l'interrogativo sulla giustizia e sulla stessa esistenza degli dèi, che
sfuggono a qualsiasi indagine umana fondata su criteri di moralità e giustizia.
Anche il tema della guerra, e dei terribili dolori che ne derivano, è particolarmente vivo in Euripide. Spicca in
questo senso un dramma come le Troiane, pressoché privo di azione in senso stretto, che mette in scena la
dolorosa sorte delle prigioniere cadute nelle mani dei Greci dopo la caduta di Troia, a partir dalla regina, che,
oltre ad altri gravi lutti, deve assistere alla dolorosissima fine del prediletto nipotino Astianatte, figlio di Ettore,
che i Greci gettano dalle mura della città distrutta. Si tratta di esperienze che corrispondevano ad una realtà
storica dolorosa, quella della Guerra del Peloponneso che per trent'anni (431-404 a. C.) oppose Sparta a Atene.
Una evoluzione specifica che caratterizza il suo teatro e che avrà una importanza fondamentale per lo sviluppo
della commedia del IV secolo a. C. è costituita dalla elaborazione di tragedie che si concludono senza lutti, con
quello che noi chiameremmo oggi un 'lieto fine'. Questi drammi appartengono tutti all'ultima fase della sua vita, e
si concentrano in particolare negli anni tra il 415 a. C. e la morte. Si tratta di tragedie in cui ha grande
importanza la costruzione di un 'intrigo' in genere fondato sul non ancora avvenuto riconoscimento fra due
personaggi (ad esempio Ione e la madre nell'Ione, Oreste e la sorella Ifigenia nell'Ifigenia Taurica), e sulla sua
realizzazione per mezzo di un piano. In più d'un caso la vicenda assume tratti che sono incompatibili con il mito,
al punto che la tragedia si conclude con un intervento divino che ristabilisce il corso normale della storia
bloccando le contese e i fraintendimenti fra i personaggi. Questo intervento è noto con il nome di 'deus ex
machina' per il fatto che il dio compariva spesso sulla macchina del volo. Non risponde per altro a verità la
diffusa opinione che il dio intervenisse quando la vicenda era diventata insolubile sul piano umano, per
'sciogliere il nodo'.
Dal punto di vista teatrale, Euripide porta all'estremo le possibilità di tutti i mezzi di cui dispone. Moltiplica il
numero dei personaggi, fino ad arrivare agli 11 delle Fenicie; complica le forme del dialogo e del canto; aumenta
le parti cantate a solo dagli attori, creando lunghe e complesse monodie; relega progressivamente il Coro ad un
ruolo sempre più marginale nella vicenda drammatica. In particolare, Euripide ama sfruttare l'effetto di scene
movimentate, come inseguimenti e aggressioni, sia sulla scena che fuori scena; ed è in grado di pilotare le
emozioni degli spettatori attraverso veri e propri 'colpi di teatro' di assoluta genialità. Molto criticata dai
contemporanei fu la sua scelta di infrangere la dignità del personaggio tragico con la creazione di personaggi
vestiti da straccioni (il più celebre è il re Telefo, che si traveste da mendicante per non essere riconosciuto); e
tuttavia essa si rivela un mezzo efficace per portare in primo piano componenti importanti come la sofferenza
fisica e psicologica dei personaggi stessi.
4. Altri tragici
Conosciamo più di 100 nomi di autori tragici attivi nel corso del V e del IV secolo. Di nessuno è sopravvissuto un
dramma intero, o almeno una parte significativa. Gli scarni frammenti delle loro opere sono raccolti nel primo
volume della raccolta Tragicorum Graecorum Fragmenta edito a Göttingen nel 1977, a cura di Bruno Snell.
Ricordiamo solo qualche nome: Tespi, semileggendaria figura delle origini cui si attribuivano l'introduzione del
primo attore e l'invenzione del prologo e della rhesis; Frinico, vincitore di un concorso nel 511/508 a. C., che per
primo introdusse maschere (o personaggi?) femminili; Ione di Chio, apprezzato tragediografo e poeta lirico,
attivo a partire dal 455 a. C. circa; Agatone, vincitore del concorso del 416 a.C., che compare come
personaggio del Simposio di Platone, certamente uno dei migliori poeti dopo la triade maggiore (fu il primo a
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comporre una tragedia di successo, l'Anteo, con personaggi di pura invenzione); Crizia, aristocratico zio di
Platone, che fu uno dei Trenta Tiranni; Teodette, attivo nel IV secolo, le cui opere furono prese a modello da più
di un drammaturgo romano.
B. Commedia
1. Aristofane
Aristofane nasce ad Atene, nel demo di Cidatene, attorno alla metà del V secolo a. C., forse nel 450 a. C., o
secondo altri nel 444 a.C. L’esordio teatrale risale al 427 a. C., con la commedia perduta I Banchettanti. La sua
carriera coincide per larga parte con il duro trentennio della guerra fra Atene e Sparta (431-404 a. C.), e
personaggi e temi della politica del tempo sono presenti dappertutto nelle commedie. In particolare, molte
commedie esprimono il desiderio di pace e la polemica contro i demagoghi della parte democratica fautori della
politica bellicista. In particolare uno di essi, Cleone, fu al centro di forti attacchi da parte del giovane Aristofane, e
cercò di rivalersi intentando un processo al commediografo dopo la rappresentazione, nel 426, della commedia I
Babilonesi, per noi perduta. Non di meno, anche nelle commedie successive, in particolare nei Cavalieri , la
polemica contro Cleone è sempre vivace. I dati biografici sul poeta sono incerti, fatta eccezione per le date di
rappresentazione delle commedie. Che fosse calvo si ricava da una serie di autoironie presenti nelle commedie;
meno sicuro è che avesse rapporti con l’isola di Egina. La data della morte non è nota; si può solo dire che è
posteriore all’ultima commedia nota, il Pluto, messa in scena dal poeta nel 388 a.C., alla quale ne seguirono
altre due. Il poeta sarà dunque scomparso intorno al 385 a. C.
Importanti sono i suoi rapporti con due celebri poeti comici del tempo, il coetaneo Eupoli e l’anziano Cratino, con
i quali Aristofane polemizza in alcune commedie. In particolare una diceria sosteneva che nei Cavalieri di
Aristofane ci fosse la mano di Eupoli; Aristofane reagì accusando a sua volta Eupoli di plagio (sarebbe stato il
perduto Maricante di Eupoli ad essere stato copiato dai suoi Cavalieri). Da una serie di accenni che Aristofane
fa nelle commedie più antiche risulta che agli esordi della sua carriera egli ebbe un periodo ‘coperto’ nel quale
faceva portare in scena le sue commedie da altri (in particolare dal regista Callistrato). È discusso se questo
periodo sia da identificare con gli anni 427-424 (e cioè con le commedie dai Banchettanti ai Cavalieri, la prima
portata in scena da Aristofane col proprio nome), oppure, come ha sotenuto con buoni argomenti G.
Mastromarco, con gli anni anteriori al 427, nei quali il poeta avrebbe collaborato con altri poeti senza rivelarsi
apertamente.
Alla Biblioteca di Alessandria in Egitto arrivarono i manoscritti di 44 commedie, di cui solo undici sono
sopravvissute fino a noi; delle altre restano circa 900 brevi frammenti. Per una circostanza fortunata, le
commedie sono dotate di introduzioni e di un enorme corpus di annotazioni antiche che ci danno molte
informazioni sulla cronologia e sui personaggi in esse menzionate. Le opere sopravvissute sono:
Acarnesi (425 a.C.)
Cavalieri (424)
Nuvole (423: la commedia che leggiamo è però un rimaneggiamento di quella che andò in scena, che non ebbe
il successo sperato)
Vespe (422)
Pace (421)
Uccelli (414)
Lisistrata (411)
Le donne alla festa delle Tesmoforie (411)
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Rane (405)
Le donne in assemblea (391),
Pluto (= la Ricchezza 389).
Sappiamo con sicurezza che le Nuvole, gli Uccelli e la Pace furono rappresentati nel concorso delle Grandi
Dionisie; gli Acarnesi, i Cavalieri, le Vespe e le Rane alle Lenee; le altre quattro (Lisistrata, Le donne alla festa
delle Tesmoforie, Le donne a parlamento, la Ricchezza) non sappiamo.
La commedia di Aristofane è il regno della fantasia più sbrigliata, dove tutto può succedere. È difficile ridurre le
singole opere ad una trama narrativa continua, poiché dopo la situazione di partenza (in genere consistente in
una iniziativa individuale del protagonista che si propone di risolvere un problema con un piano assolutamente
fantasioso) e l’agone, la seconda parte delle commedie sfuma in una serie di situazioni sganciate le une dalle
altre, in un clima di baldoria e di lazzi. Molte commedie presentano trame a carattere utopico, come la
fondazione della nuova città a mezz’aria negli Uccelli, il viaggio in cielo di Trigeo per liberare la Pace, lo sciopero
del sesso con cui le donne nella Lisistrata cercano di far cessare la Guerra, e via dicendo.
Benché chiunque si accosti al teatro di Aristofane riconosca immediatamente in lui un genio assoluto del teatro,
le sue commedie sono fra le opere antiche più difficili da riportare sulla scena oggi. Il loro legame con la realtà
ateniese contemporanea è infatti così stretto che molti degli effetti comici non sono agevolmente trasportabili in
un contesto culturale diverso. Solo la sfrenata libertà sessuale trova in certa misura corrispondenza nel senso
del comico di un pubblico moderno, e questa è la ragione per cui una commedia come la Lisistrata è certamente
la più rappresentata oggi.
Le radici del comico aristofaneo affondano da una parte nel linguaggio della vita quotidiana, dall’altro in quello
elevato tipico del teatro tragico, che viene continuamente ripreso con intento parodico. La parodia può essere in
molti casi ai limiti della ripresa letterale, con variazioni sottilissime, anche sul piano metrico. Questo invita a
riflettere su un problema specifico quale quello della riconoscibilità per lo spettatore medio dei passi parodiati. In
effetti Aristofane talora riecheggia tragedie messe in scena anche alcuni anni prima, e ci si domanda come
potessero essere colte le parodie da un pubblico presso in quale la circolazione libraria e la lettura erano ancora
piuttosto limitate. Anche lo stretto legame con la tragedia contribuisce a rendere difficile la fruizione della
comicità aristofanesca da parte del pubblico moderno.
2. Menandro
Menandro nacque nel 341/340 a. C. in Atene. La sua carriera teatrale cominciò assai presto, a vent'anni, nel
322/21 a. C., e già nel 317/16 egli colse la prima vittoria, con la commedia Dyskolos ("Lo scorbutico"). Della sua
vita sappiamo pochissimo: è possibile che sia stato allievo di Teofrasto, discepolo e continuatore della scuola di
Aristotele; dell'opera principale di Teofrasto, i Caratteri, si colgono in effetti molte influenze nei personaggi del
teatro menandreo. Di certo c'è solo la data della morte, avvenuta a soli 50 anni, nel 291/90, sembra per
annegamento.
Fu di una produttività incredibile: a lui erano attribuite 108 commedie. In vita non ebbe grande fortuna: ottenne
infatti solo 5 vittorie. Divenne però, a partire da subito dopo la sua morte, uno degli autori più celebri del mondo
antico, al punto che il grande critico Aristofane di Bisanzio (attivo fra III e II secolo a.C.) lo giudicò secondo solo
ad Omero. Anche il mondo romano lo apprezzò enormemente: Quintiliano lo include, dandogli grande rilievo, fra
le letture essenziali per la formazione dell'oratore. Già nell'antichità furono estratte dalle sue commedie raccolte
di sentenze particolarmente belle o edificanti, che assunsero poi vita propria e sono giunte a noi come
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un'antologia a sé stante, nella quale sono confluiti anche materiali spuri (Sentenze di Menandro). Nel primo
Medioevo la lettura delle sue opere andò contraendosi, anche per l'ostilità degli ambienti ecclesiastici, che
vedevano nelle commedie il prevalere della lussuria e di altri gravi vizi, fino a che intorno all'VIII-IX secolo più
nulla era noto delle sue opere. Fino alla fine dell'Ottocento, dunque, di Menandro si leggevano solo brevi
frammenti poco significativi e si cercava di farsi un'idea del suo teatro attraverso la lettura dei drammi romani di
Plauto e Terenzio che lo avevano imitato.
A partire dal 1898, fortunatamente, cominciarono i ritrovamenti di papiri che ci hanno permesso di tornare a
conoscere una serie di opere di Menandro. Memorabili in particolare quello del 1905, che fece tornare alla luce il
cosiddetto Codice Cairense, un manoscritto di commedie menandree usato da un notaio del V secolo d. C. per
tappare un orcio riempito di documenti, e quello del 1959, quando M. Bodmer acquistò in Egitto un codice che
restituiva l'unica commedia intera di Menandro che possediamo, il Dyskolos, e altri frammenti importanti.In
sostanza, di Menandro possiamo leggere oggi: l'intero Dyskolos, ampie parti degli Epitrepontes (L'Arbitrato),
della Samia ("La donna di Samo") e della Perikeiromene ("La ragazza tosata"), e parti significative dello Scudo,
dell'Odiato e del Sicionio, oltre a numerosi frammenti minori.
Il mondo teatrale di Menandro è molto distante da quello di Aristofane. A fronte della libera, talora poco coerente
struttura della commedia antica, il dramma di Menandro si articola in una regolare sequenza di atti che
presentano una situazione iniziale di difficoltà ed equivoco, destinata ad arrivare ad un massimo di tensione nel
III atto e ad avviarsi a sciglimento ed inevitabile lieto fine nel IV e V atto. I personaggi si accentrano attorno a dei
tipi ripetitivi: il vecchio padre avaro e severo, il giovane innamorato e infelice, la giovinetta spesso creduta
schiava e invece figlia di genitori liberi che l'avevano abbandonata da piccola, l'etera maliziosa ma anche
generosa nel favorire gli amori degli innamorati, la vecchia ubriacona, lo schiavo astuto che si mette al servizio
del padroncino, il soldato vanaglorioso e violento, il cuoco, il parassita ecc.
La componente amorosa, marginale nella commedia antica, che del rapporto fra i sessi evidenzia soprattutto in
modo giocoso i gagliardi appetiti sessuali dei personaggi, diviene centrale nella costruzione delle vicende della
commedia nuova. Le storie ruotano attorno a meccanismi di intrigo, radicati nell'antefatto del dramma, la cui
esposizione è spesso affidata a un dio, che dà agli spettatori informazioni importanti nel prologo (questa parte
della commedia viene così a completare il suo distacco dall'azione drammatica vera e propria, già abbozzato
nelle ultime tragedie di Euripide). L'influsso euripideo appare evidente nella costruzione di vicende in cui
compaiono bambini esposti e riconosciuti solo in età adulta, scene di riconoscimento tra fratelli, o tra padri e figli,
matrimoni incestuosi evitati all'ultimo momento e via dicendo.
In Menandro si fissano anche alcune convenzioni destinate a perdurare a lungo nel teatro occidentale: la scena
diventa definitivamente urbana, i dialoghi si svolgono di fronte alle case dei protagonisti, di regola in un contesto
urbano o antropizzato, destinato a passare pressoché immutato nel teatro romano.
3. Altri comici
Il numero degli autori comici di cui conosciamo i nomi è molto elevato. Solo di pochi tuttavia ci sono rimasti
frammenti abbastanza numerosi e significativi da permettere di farsi un’idea almeno vaga della loro opera. I
frammenti e le notizie relativi ai comici greci sono raccolti nella monumentale edizione di R. Kassel e C. Austin,
Poetae Comici Graeci, in 8 volumi, iniziata nel 1983 e giunta ormai quasi a termine) Si possono ricordare per la
Commedia Antica Cratino, Ferecrate ed Eupoli, per la Commedia di Mezzo Alessi, Antifane, Anassandrida,
Eubulo; per la Commedia nuova Difilo e Filemone, le cui opere furono spesso prese a modello dai
drammaturghi romani.
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Teatro romano
A differenza degli autori teatrali greci, che si divisero rigorosamente fra tragici e comici, quasi tutti i
drammaturghi latini coltivarono contemporaneamente entrambi i generi.
1. Livio Andronico
Livio Andronico è concordemente ritenuto dalla tradizione il fondatore del dramma 'alla greca', oltre che
l'iniziatore della letteratura latina con la sua traduzione dell'Odissea. Era un greco di Taranto, venuto a Roma
dopo la conquista della città da parte di Roma. Non conosciamo né l'anno della nascita né quello della morte;
l'unica data certa è il 240 a.C., anno della prima raprpresentazione di un dramma di modello greco. Di lui si
conoscono i titoli di 9 tragedie (per lo più connesse con le leggende del ciclo troiano) e di 3 commedie;
sopravvivono una cinquantina di versi in tutto.
2. Gneo Nevio
Nevio è il primo drammaturgo di origine italica. Nacque in Campania intorno al 270 a. C. e fu cittadino romano.
Nel 235 a. C. fu messa in scena una sua opera. Fu ostile alla nobiltà, ed attaccò in particolare la potente famiglia
dei Metelli, che lo fecero imprigionare. Morì probabilmente nel 201 a. C., in esilio a Ustica. Nevio partecipò alla
Prima Guerra Punica, e scrisse il Bellum Poenicum, prima opera epica di Roma. Delle opere teatrali si
conoscono i titoli di 6 tragedie. Nevio è concordemente ritenuto l'inventore del genere della fabula praetexta;
sono noti due suoi titoli di praetextae: Romulus (sulla leggenda del fondatore di Roma) e Clastidium. Fu fecondo
autore di commedie: sono noti 32 titoli di palliate, e a lui è attribuita anche la pratica della fabula togata. Dal
prologo dell'Andria di Terenzio veniamo a sapere che Nevio praticò la cosiddetta contaminazione, unendo
assieme elementi tratti da modelli diversi. Non siamo in grado di dire se ne fu l'inventore.
3. Ennio
Quinto Ennio è una delle figure maggiori della letteratura latina arcaica, ammirato al punto che fu chiamato alter
Homerus (“secondo Omero”). La sua produzione, vasta e articolata, spaziava dall'epica al dramma, ad opere
filosofiche ecc. Qui si dà solo un cenno della produzione drammatica. Ennio era un osco, nato a Rudiae, non
lontano da Taranto, nel 239 a.C. Egli assorbì dunque, oltre la nativa cultura italica, anche l'influsso del mondo
delle colonie magnogreche. Combatté durante la Seconda Guerra Punica in Sardegna, e da lì fu portato a Roma
da Catone il Vecchio. A Roma Ennio entrò in contatto con le famiglie più nobili, ed accompagnò M. Fulvio
Nobiliore nella spedizione militare contro Ambracia, che divenne argomento di una fabula praetexta da lui scritta.
Morì nel 169 a. C.
Il teatro comico fu poco coltivato da Ennio: si conoscono solo due titoli. Egli fu invece un grande poeta tragico, e
godette di vasta fama. Si conoscono venti titoli di fabulae cothurnatae, delle quali restano circa 400 versi.
Prevalgono anche per lui i miti relativi al ciclo troiano, sentito a Roma come un antecedente mitico della nascita
della città (fondata secondo la leggenda dai discendenti di Enea fuggito da Troia). Fra i modelli greci, Euripide
appare di gran lunga il preferito; ma Ennio riprese anche le Eumenidi di Eschilo. Il suo rapporto con i modelli
dovette essere piuttosto libero: la sua resa dei primi versi della Medea di Euripide, che è sopravvissuta, si
discosta ampiamente dal modello. Sappiamo anche che potevano cambiare alcuni elementi strutturali
importanti: ad esempio il Coro dell'Iphigenia era di uomini, mentre nell'Ifigenia in Aulide di Euripide era di donne.
Ennio fu anche autore di praetextae, delle quali non sopravvive quasi nulla. Benché la nostra conoscenza di
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questo drammaturgo sia assai ridotta, è importante tener presente che ebbe un'influenza notevole su molti
scrittori latini successivi, non solo di teatro. Inoltre, alcuni frammenti ci forniscono informazioni preziose per
ricostruire gli originali greci perduti.
4. Pacuvio e Accio
Nel II sec. a. C. due figure si distinsero come autori di tragedie latine: Marco Pacuvio e Lucio Accio.
Pacuvio, brindisino, era nipote di Ennio. Nacque nel 220 e morì novantenne intorno al 130 a. C. Fu in rapporto
con la famiglia degli Scipioni, e forse fu parte del famoso circolo di intellettuali che si raccolse intorno a Scipione
Emiliano e Lelio (tra questi c'era anche Terenzio). Cominciò probabilmente a poetare tardi, visto che S. Girolamo
ne pone l'acme intorno al 154, dopo la morte di Terenzio, e che nel 140 egli si ritirò dalle scene. Di lui sono noti
solo 13 titoli di tragedie, e un titolo di una fabula praetexta, il Paulus (forse commemorativa della vittoria di
Pidna). Di esse sopravvivono frammenti per un totale di circa 400 versi. Almeno otto delle sue tragedie trattano
argomenti derivanti dal ciclo troiano. Quel che possiamo vedere dai frammenti conferma il giudizio degli antichi,
che era di ammirazione per uno stile magniloquente, che cercava attraverso termini altisonanti e addirittura
nuovi conii linguistici di dare anche alla tragedia latina la dignità di quella greca. Sappiamo anche che il suo
teatro puntava molto sulle emozioni forti, sulla ricerca della commozione del pubblico (erano celebri la
rappresentazione del dolore fisico di Ulisse nei Niptra e la scena del Dulorestes nella quale Oreste e Pilade,
nell'intento di salvarsi a vicenda, dicevano entrambi di essere Oreste). Un'altra caratteristica del teatro di
Pacuvio era la sentenziosità, e la sensibilità agli aspetti del paesaggio. Certamente ebbe grande successo di
pubblico, anche se il giudizio dei moderni è piuttosto limitativo.
Accio nacque nel 170 a. C., forse nella colonia romana di Pesaro, fondata pochi anni prima. Cominciò a produre
drammi nel 140, causando la rapida eclissi del vecchio Pacuvio. Era certamente ancora vivo nell'86 a. C.,
quando lo conobbe Cicerone. La tradizione ne tramanda un ritratto di persona altera e sdegnosa, caratterizzata
da orgoglio esasperato. Politicamente egli assunse posizioni vicine alla nobiltà conservatrice più intransigente,
quella che reagì in modo molto duro alle innovazione sociali portate dai Gracchi.
Fu autore assai fecondo: di lui sono noti 45 titoli di fabulae cothurnatae e 2 di fabulae praetextae; sopravvivono
frammenti per un totale di circa 700 versi. Accio si comportava con libertà rispetto ai suoi modelli greci, tra i quali
Euripide appare il preferito. Egli manifesta una predilezione per le situazioni orride, che si ritroverà più tardi in
Seneca. Anch'egli ricerca una dizione molto elevata, ai limiti della turgidezza, con forti effetti retorici, ma invece
del sentimentalismo enniano, egli punta a creare personaggi che incarnano passioni assolute, quella per il
potere, la crudeltà ecc. Ebbe notevole successo di pubblico, ed ancora nel 55 a. C. la sua Clutemestra fu
rappresentata il giorno dell'inaugurazione del teatro di Pompeo.
5. Plauto
Della vita di Tito Maccio Plauto si sa molto poco, nonostante l'esistenza di numerose tradizioni biografiche
antiche. Il suo stesso nome è oggetto di incertezza. I tre nomi sono tipici dei cittadini romani, ma Plauto era
umbro di Sarsina, e non abbiamo motivo di credere che sia diventato cittadino di Roma; inoltre, il significato del
cognomen Plautus non è sicuro: forse trae origine dalla parola umbra plotus, "dai piedi piatti", oppure secondo
altre fonti allude ai cani che hanno le orecchie larghe e basse. Lo stesso dicasi del nomen Maccius o Maccus,
che coincide con un tipico personaggio della farsa di origine osca che chiamiamo atellana. È possibile che il
poeta si chiamasse Titus Plotus (poi romanizzato in Plautus) e che il nome di Macco si sia aggiunto quando,
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giunto a Roma per esercitare il mestiere di attore, aveva acquisito fama recitando quella parte (non è probabile
però che Plauto abbia recitato come attore nelle sue commedie).
Della sua vita sono certe soltanto le date di rappresentazione dello Stichus, a Roma nel 200 a.C. e dello
Pseudolus, 191 a. C. Cicerone ci dice che Plauto morì nel 184 a. c., data che appare plausibile, e che all'epoca
dello Pseudolo era un senex ("vecchio"). Dunque, poiché la senectus per i romani cominciava a 60 anni, Plauto
dovrebbe essere nato non dopo il 251, probabilmente intorno al 255 a. C.
.
Plauto godette di enorme fortuna presso il pubblico, sia in vita sia dopo la morte, al punto che gli vennero
attribuite molte commedie non sue, fino al cospicuo numero di 130. Fu l’erudito Marco Terenzio Varrone (I
secolo a. C.) che dopo molti studi stabilì una divisione in tre gruppi: ventuno commedie autentiche (le
"varroniane"); diciannove dubbie (le "pseudovarroniane") ma con possibile presenza di parti plautine, e le altre
novanta spurie.Le commedie sopravvissute sono le ventuno varroniane (i titoli non tradotti coincidono con il
nome di uno dei personaggi):
Amphitruo (Amfitrione),
Asinaria (La commedia dell'asino),
Aulularia (La commedia della pentola),
Captivi (I prigionieri),
Curculio,
Casina,
Cistellaria (La commedia della cesta)
Epidicus
Bacchides (Le due Bacchidi),
Mostellaria (La commedia del fantasma),
Menaechmi (I Menecmi),
Miles gloriosus (Il soldato fanfarone),
Mercator (Il mercante),
Pseudolus,
Poenulus (Il Cartaginese),
Persa (Il Persiano),
Rudens (La gomena),
Stichus,
Trinummus (La commedia delle tre monete),
Truculentus,
Vidularia (La commedia del baule, della quale sopravvivono solo pochi frammenti).
Con l'eccezione dell'Amfitrione, commedia di argomento mitologico che forse rispecchia un modello vicino alla
Commedia di Mezzo e risente anche del genere della cosiddetta hilarotragoedia (una forma di tragedia messa in
burla, diffusa in età ellenistica nell'Italia Meridionale), tutte le commedie di Plauto si accentrano attorno a trame
schematiche ispirate dai modelli della Commedia Nuova greca: per lo più si tratta dell'inganno tramato da un
servo astuto che intende aiutare il proprio padroncino innamorato a danno di un vecchio padre avaro e
conservatore, oppure di un rivale in amore o di un lenone avido che tiene presso di sé la ragazza amata, la
quale spesso, come di regola nella commedia nuova, si rivela poi essere di condizione non servile, ma libera.
Rispetto ai modelli greci, il teatro di Plauto mostra un considerevole spostamento di accenti, al punto che si può
dire che i veri protagonisti della maggior parte dei drammi sono gli schiavi, astuti, privi di scrupoli, ingegnosi e
spudorati. Inoltre Plauto innesta sulla morbida comicità e sulla lingua piana della commedia nuova una vigorosa
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vena italica di linguaggio e scherzi osceni, La lingua di Plauto ha caratteri di versatilità e di comicità
assolutamente impressionanti: lo stesso vale per la sua metrica, che si plasma in forme estremamente varie.
6. Cecilio Stazio
Cecilio Stazio (c. 219 -168 a.C.) era un Gallo Insubro, portato a Roma come schiavo e poi liberato. La sua opera
sembra ispirata da vicino ai modelli greci, e in particolare a Menandro. Si sa che in origine ebbe poco successo,
ma poi trovò la misura giusta per incontrare i favori del pubblico. Delle sue commedie sopravvivono circa 300
versi sparsi. È importante ricordare che un erudito del II sec d. C., Aulo Gellio, fece un dettagliato confronto fra
un frammento della sua commedia Plocium e i corrispondenti verso dell'originale di Menandro (Plokion, "La
collana"). Era questo l'unico testo di palliata per la quale potessimo confrontare l'originale greco prima della
scoperta del papiro menandreo del Dis Exapaton ("Colui che inganna due volte", òodello delle Bacchides di
Plauto). Il frammento del Plocium ci offre un esempio di trasformazione di un dialogo recitato dell'originale in un
canticum. Inoltre, si può vedere come Cecilio inserisca molti scherzi pesanti, con linguaggio e immagini
decisamente più scabrosi, rispetto alla relativa leggerezza dell'originale. Cecilio comunque è citato dagli antichi
come un autore di una certa gravità, quindi dobbiamo pensare che non esagerasse nell'inserire elementi di
comicità immediata e popolaresca. Certamente fu un autore importante per lo sviluppo della palliata, anche se
non possiamo esattamente definire il suo contributo.
7. Publio Terenzio Afro
Terenzio è l'unico dei drammaturghi antichi di cui posssiamo leggere integralmente l'opera. Di lui inoltre
sappiamo qualcosa di più che di Plauto, grazie ad una biografia scritta dallo storico Svetonio ed inglobata nel
commento alle commedie di Terenzio scritto nel IV secolo d. C. dal grammatico Elio Donato. Terenzio era un
Cartaginese, nato secondo la biografia nel 185 o 184 a.C. e venuto a Roma al seguito del senatore Terenzio
Lucano, del quale come d'uso prese il nome. Ora, sappiamo per certo che la sua prima commedia, l'Andria, fu
messa in scena nel 166 a. C., dunque quando Terenzio aveva diciannove anni. Una simile precocità appare
problematica, e si è sospettato che la nascita sia stata artificiosamente postdatata per dare più corpo alle
maligne voci che volevano le commedie di Terenzio scritte in realtà da due nobili romani che non volevano
rivelare il loro coinvolgimento nella pratica teatrale: Scipione e Lelio. L'attività teatrale di Terenzio si concentra
tutta negli anni dal 166 al 160 a. C., che lo vedono rappresentare nell'ordine
Andria (La donna di Andro) ai Ludi Megalenses del 166
Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso) ai Ludi Megalenses del 163;
Eunuchus (L'eunuco) ai Ludi Megalenses del 161;
Phormio (Formione) ai Ludi Romani del 161;
Adelphoe (I fratelli) ai funerali di Emilio Paolo nel 160;
Hecyra (La suocera) ai Ludi Romani del 160
(in realtà né la prima rappresentazione della Suocera, nel 165, né la seconda, ai funerali di Emilio Paolo nel 160,
erano andate a buon fine). Va detto che la cronologia tradizionale trasmessa dalle didascalie annesse ai testi è
stata posta in discussione da numerosi interpreti moderni. Essa viene comunque accolta qui come
sostanzialmente valida.
Nel 160, forse perché amareggiato dalle polemiche che accompagnarono le sue opere, Terenzio partì per la
Grecia, dove intendeva venire a contatto più diretto con le opere dei suoi modelli e con la civiltà greca. Da
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questo viaggio non tornò più: morì infatti nel 159, forse in un naufragio o secondo una più poetica versione per il
dolore di aver perduto nel naufragio i manoscritti delle nuove commedie che aveva scritto.
Terenzio ebbe una spiccata preferenza per la commedia di Menandro, dal quale sono tratti quattro dei sei
drammi da lui scritti: Andria, Heautontimorumenos, Eunuchus e Adelphoe. Gli altri due, Phormio ed Hecyra sono
derivati da commedie di Apollodoro, un altro esponente della commedia nuova. Il dramma di Terenzio, per
esplicita ammissione dell'autore in alcuni prologhi, praticò però liberamente la contaminatio, la pratica cioè di
inserire nell'impianto del dramma modello scene o personaggi tratti da altre commedie dello stesso autore e di
altri. In particolare Terenzio ci dice che nell'Andria oltre al materiale del modello (l'Andria di Menandro) sono
confluiti elementi provenienti dalla Perinthia dello stesso Menandro e che nell'Eunuchus (modello: l'Eunuco di
Menandro) ci sono due personaggi che derivano dal Kolax dello stesso autore, negli Adelphoe (modello: I fratelli
n. 2 di Menandro) scene dai Synapothneskontes ("Coloro che muoiono assieme").
Un tratto peculiare di Terenzio è la trasformazione dei prologhi, che si isolano rispetto alla vicenda e diventano
spazi liberi per la comunicazione fra l'autore e il pubblico, con discussione di questioni letterarie e teatrali. Alcuni
dei prologhi, per altro, non sono stati scritti da Terenzio, ma dal capocomico che porta in scena la commedia (ad
es. La Suocera).
8. Seneca
Nel I secolo a. C. e nella prima età imperiale il teatro latino andò incontro a una forte decadenza. Il grande
pubblico si distaccò da questa forma d’arte, pur continuando ad apprezzare le opere di Plauto e di altri autori dei
secoli precedenti. Gli autori di tragedie componevano ormai per una elite di intellettuali e le loro opere vanno
trasformandosi in testi letterari, non più legati alla scena. Di questa fase del teatro antico a noi sono arrivate solo
le tragedie scritte dal grande filosofo Seneca (I secolo d. C.), che coltivò anche l’arte drammatica.
Di lui sono tramandate nove fabulae cothurnatae, che sono tra l’altro le uniche opre di questo genere che
possiamo leggere integralmente. Esse riprendono per la maggior parte opere dei tre grandi tragici greci, rispetto
alle quail tuttavia operano modificazioni consistenti. I titoli delle opre sono:
Hercules furens “Ercole folle”
Le Troiane
Le Fenicie
Medea
Fedra
Edipo
Agamennone
Tieste
Ercole sul Monte Eta.
A queste si aggiunge una fabula praetexta, l’Octavia, che tuttavia non è di Seneca: essa tratta la storia di
Ottavia, prima moglie di Nerone, da lui fatta uccidere per poter sposare Poppea.
La natura del teatro di Seneca è tale che esso non incontra facilmente il gusto dei moderni: l’abbondanza di
scene macabre, la predilezione per I toni calcati al Massimo, e l’abbondanza di tirate retoriche e sentenze, lo
sfoggio di erudizione che lo caratterizzano sono lontani dalla cocnezione moderna del teatro. Inoltre, una serie di
difficoltà si oppongono all’idea che esso fosse effettivamente rappresentato sulla scena, e sono molti gli studiosi
che pensano ad esso come a un teatro da declamazione e da lettura (non mancano tuttavia voci in contrario.
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Un dato di grande rilievo culturale è tuttavia il fatto che Seneca ebbe grande fortuna a partire dall’età
rinascimentale. Dal suo teatro trassero spesso ispirazione grandi drammaturghi come Kyd, Marlowe e
Shakespeare in Inghilterra; Corneille, Racine e Voltaire in Francia; Alfieri in Italia.
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