Diocesi di Piacenza-Bobbio Ufficio Stampa: Servizio Documentazione Istituto Casa Madre Missionari Scalabriniani Settimana Sociale (8 – 20 febbraio) “Quale futuro per la democrazia in Europa?” Domenica 8 febbraio 2004 Dall’8 al 20 febbraio 2004 si tiene la “Settimana sociale dei cattolici piacentini”. La organizzano la Diocesi di Piacenza Bobbio, l’Università Cattolica del Sacro cuore, l’Azione Cattolica e i Missionari Scalabriniani. Tema: “Quale futuro per la democrazia in Europa?”. Questo il programma: Primo incontro domenica 8 febbraio, alle ore 9.15, presso l’Istituto Scalabriniani di via Torta con la partecipazione di studiosi della stessa congregazione, i padri Graziano Battistella, Silvio Pedrollo, Antonio Perotti; tema: “Democrazia, etica e società civile in Europa”. Per gentile concessione del Relatore qui di seguito il suo intervento. Padre Antonio Perotti, Scalabriniano Società civile in Europa Elementi di analisi. Sfide educative in prospettiva Premessa introduttiva Quanto intendo proporvi, sono alcuni spunti per tracciare una diagnosi dell’attuale stato della Società civile in Europa e abbozzare a questo riguardo alcune proposte coerenti sul piano educativo per farvi fronte. Questi spunti e queste indicazioni sono il risultato di incontri e discussioni, cui ho partecipato per diversi anni. Durante l’intero arco degli anni ’90, particolarmente nel corso dell’ultimo quinquennio (1995-2000) ho fatto parte di diversi gruppi di lavoro composti da ricercatori di diversa formazione disciplinare e di amministratori istituzionali e politici riuniti dal Consiglio d’Europa nel quadro di progetti che avevano per tema centrale la problematica posta dal crescente pluralismo culturale e religioso delle società civili in Europa; come cioè conciliare in teoria e nella pratica alcuni binomi chiave quali: pluralismo culturale e coesione sociale; società plurale e società integrata; spazio privato e spazio pubblico; identità collettive e unità nazionale; ed infine il trinomio chiave: come far convivere la democrazia politica, la democrazia sociale e la democrazia culturale. Nel corso di questi ripetuti scambi mi sono fatto alcune convinzioni che vi voglio partecipare. 1. Innanzitutto la necessità per la costruzione di una società civile coesa di coniugare tra loro anziché opporre le due realtà espresse nei concetti sociologici di “Società” e “Comunità”. 2. In secondo luogo la necessità di prendere maggiormente in conto i rischi per la coesione della società civile provenienti da due tendenze di fondo all’interno delle società europee: la prima: il processo di dissociazione tra economia e cultura, tra scienza, religione e cultura, tra il mondo simbolico e valoriale e il mondo razionale; tra il mondo tecnologico e la diversità delle culture e delle persone; dissociazione rafforzata, tra l’altro, dalla netta separazione più o meno radicalizzata in alcuni paesi europei (si pensi, ad esempio, in particolare alla Francia) tra spazio pubblico e sfera privata, in forza della quale si riserva al primo (lo spazio pubblico) l’espressione razionale e strumentale, mentre si ricaccia e si relega nella seconda sfera tutto quanto è simbolico e valoriale. La seconda tendenza di fondo: il processo di desocializzazione e dell’indebolimento dei rapporti sociali provocati, dalle nuove tecnologie di comunicazione che, decontestualizzando i messaggi attraverso la comunicazione virtuale, mette in rapporto diretto gli individui con la realtà più globale rischiando di eliminare le necessarie mediazioni tra individui e umanità. Ci si può credere così, come osserva Alain Touraine, dappertutto e non si è da nessuna parte. 3. In terzo luogo la necessità per la società politica di prendere sul serio, proteggendole sul piano del diritto, le identità culturali delle persone e delle comunità, passando da una politica liberale limitata alla protezione della libertà e dell’uguaglianza tra individui, al riconoscimento politico nello spazio pubblico, delle identità culturali come un bene primario della politica, assieme ai beni della libertà e dell’uguaglianza. La costruzione libera e responsabilità del soggetto della società civile non può essere infatti realizzata che nello spazio pubblico. 4. Infine, quarta convinzione: se la base della democrazia (sia essa politica, sociale o culturale) è, come credo profondamente, la soggettizzazione degli attori sociali e la comunicazione tra loro (già S. Tommaso commentando Aristotele sosteneva che “communicatio facit civitatem”), il sistema educativo (scolastico e extrascolastico) ha un ruolo indispensabile da svolgere. Tanto più che la comunicazione nella società civile di oggi, resa dal pluralismo culturale più complessa e magmatica (come la definisce Francesco Viola) o “società liquida”, come la definisce Bauman, non può essere che una comunicazione interculturale, dove l’antropologia, l’ermeneutica e l’epistemologia devono trovare lo spazio fondamentale per costruirla. 1. La necessità di coniugare le due nozioni di “società” e di “comunità” Vengo alla prima convinzione: la necessità di coniugare le due nozioni di “società” e di “comunità”. È necessario che si superi il dualismo formulato a suo tempo dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies, che aveva costituito in sistema l’opposizione tra comunità (Gemeinshaft) e società (Gesellshaft); formulazione che ha in seguito influenzato anche il sociologo e filosofo francese Emile Durkheim (1858-1917) e l’antropologo statunitense Robert Redfield (1897-1958). L’impiego del termine comunità, da tempo impiegato dalla filosofia politica (Hobbel, Rousseau) significa una referenza organica di appartenenza come membro di una determinata collettività, mentre il termine “società” suggerisce una appartenenza contrattuale. La società può essere anonima, la comunità, al contrario, conferisce l’identità e per questo è carica di affettività (pathos, nel vocabolario di Weber). La comunità funziona come definizione dell’endo-gruppo che marca la divisione dell’appartenenza e di identificazione tra “loro” e “noi”, colloca gli altri fuori della comunità e può addirittura servire all’esclusione (la scomunica). Si sa come Ferdinand Tönnies di fronte all’apparenza, in un paese in via di modernizzazione, dell’arretramento della comunità di fronte alla società, abbia interpretato l’una e l’altra in uno schema di generalizzazione normativa e storica che ha trascinato ad una opposizione radicale dei due concetti, l’uno significante la tradizione e l’altro la modernità, la prima indicante appartenenza organica, la seconda, la società volontaria. Questa interpretazione è oggi inaccettabile. La comunità non è per niente destinata a sparire, (si pensi ad esempio alle considerazioni di Zygmunt Bauman in “Voglia di comunità” edito da Laterza) né è contraddittoria alla società, né da essa esclusa. Anche se la comunità tende a generare una forma di sociabilità tra i suoi membri (un “noi” opposto a “loro”, quelli fuori dal gruppo), l’appartenenza ad una comunità non è per gli individui esclusiva dell’appartenenza ad altri gruppi che rifiutano o superano i confini della stessa comunità, o dell’appartenenza ad un’altra comunità che ingloba la prima. Le nostre appartenenze comunitarie possono essere diverse e la nostra identità comunitaria globale può rassomigliare piuttosto ad una costruzione di scatole cinesi. L’identità culturale degli individui e quindi anche delle comunità sono multidimensionali: non si costruiscono come unità aritmetiche ma come unità di organizzazione del multiplo. Qualora si voglia avere un concetto chiaro nella discussione sul come concepire oggi la società civile in Europa è necessario evitare l’alternativa tra: - - da una parte il culturalismo assoluto o il comunitarismo particolarizzante che marca, ad esempio, i gruppi immigrati isolandoli dal resto della società, in particolare dal resto delle classi sociali che le compongono; gli immigrati che vivono nei Paesi europei non appartengono a un “tutto sociale” che sarebbe la loro “comunità d’origine” ma fanno parte di molteplici reti che s’incrociano e permettono una moltitudine di combinazioni identitarie possibili, nel tessuto sociale della società in cui vivono; e d’altra parte, l’assolutismo del sociale o l’universalismo omogeneizzante, che negligendo o sottostimando il parametro antropologico culturale, nega l’importanza delle regolazioni non istituzionali nei gruppi immigrati e sottostimano la specificità che può conservare il sistema di relazione sociale in uno di questi gruppi. I fantasmi sulle identità comunitarie sviluppano sentimenti irrazionali di paura e di rifiuto che rischiano di mascherare o di negare realtà sociali elementari che il concetto di “comunità” racchiude: il collettivo e le sue diverse appartenenze. Queste esistono e sono ben più operanti di quanto si pensa. Occorre riconoscere le appartenenze comunitarie come spazi di identificazione, di convivialità, di educazione, di comunicazione, di organizzazione sociale, di socializzazione, di informazione, di esplicitazione o di reinterpretazione delle tradizioni e, soprattutto in termini di solidarietà e di espressione culturale, e anche in termini di spazi economici e di mediazione tra la società d’origine e la società di residenza. 2. La coesione della società civile Il superamento dell’opposizione tra le due realtà comunità-società e la necessità di una loro coniugazione sono fondamentali per chiarire la nozione di società civile. Nella teoria politica l’espressione di società civile designa la società che si forma in base al contratto sociale e in quanto tale si contrappone alla struttura istituzionalizzata dello Stato, e viene considerata dal punto di vista delle sue articolazioni associative e di tutte le aggregazioni sociali e gruppi sociali che non sono tra loro semplicemente giustapposti ma interagenti. Se tra i componenti della società civile sono stati tradizionalmente classificati, oltre ai gruppi sociali primari (le famiglie), i sindacati e i movimenti operai, le organizzazioni economiche, le forze politiche (partiti e movimenti), le comunità religiose, le associazioni sociali e culturali, negli ultimi decenni hanno preso un’importanza sempre più rilevante a seguito del loro insediamento permanente, le diverse comunità etno-culturali e religiose trapiantate in Europa attraverso le migrazioni. È soprattutto, a seguito di questo trapianto, che la società civile si è trovata di fronte alla sfida del riconoscimento pubblico dei diritti culturali, (diritti collettivi) quali il diritto alla propria identità culturale. Diritti che non si riferiscono solo alle identità culturali degli stranieri, ma che sono stati formulati e avanzati con una portata universale proprio a seguito delle conseguenze provocate dei due processi, che ho più sopra accennato della dissociazione tra razionalità e tecnologia da una parte e cultura e mondo simbolico e valoriale dall’altra e della desocializzazione degli individui. Questi due processi hanno portato entrambi a una ricomunitarizzazione delle nostre appartenenze identitarie, in ciò stimolata anche dal nuovo pluralismo culturale e religioso, al fine di risolvere la solitudine etica in cui si trova l’individuo con il rischio però del comunitarismo chiuso, autoritario, intergralista. Una parte di noi stessi come osserva A. Touraine è immersa nella cultura mondiale, mentre un’altra parte, privata di uno spazio pubblico dove si formano e si applicano le norme sociali, si rinchiude sia nell’edonismo sia nella ricerca di appartenenze identitarie vissute nell’immediato. Noi, continua Touraine, viviamo insieme ma nello stesso fusionati e separati, come nella “folla solitaria” di Davis Rieslan, e sempre meno capaci di comunicazione. Noi siamo da una parte cittadini del mondo senza responsabilità, diritti o doveri, e d’altra parte, difensori di uno spazio privato sommerso dai flutti della cultura mondiale. Si affievolisce così la definizione degli individui e dei gruppi sulla base delle loro relazioni sociali, che finora rappresentavano il campo della sociologia, il cui oggetto era quello di spiegare i comportamenti attraverso le relazioni sociali nelle quali gli attori erano implicati. 3. Il riconoscimento politico nello spazio pubblico La necessità per la società politica di prendere sul serio le identità culturali delle persone e delle comunità, passando da una politica liberale limitata alla protezione della libertà e dell’uguaglianza tra individui al riconoscimento politico delle identità culturali come un bene primario della politica, assieme ai beni della libertà e dell’uguaglianza, diventa, oggi, sempre più evidente. Se la società politica non assume come bene primario da perseguire anche la protezione delle identità delle persone e dei gruppi, limitandosi al ruolo classico sinora attribuitole della salvaguardia della libertà e dell’uguaglianza, noi incontriamo due rischi: - - che la sfera pubblica sia sempre più abbandonata alla sola logica delle pratiche economiche, tecnologiche e commerciali che concepiscono la società in termini di mercato; che le comunità culturali (etniche, religiose, nazionali, ecc.), anziché rimanere nel loro ruolo al servizio dell’identificazione dei soggetti e al servizio dei rapporti sociali che ogni processo identificatorio comporta, si appropri abusivamente il ruolo della politica, fomentando processi di esclusione e di fratture sociali, chiusura su se stessi, come lo dimostra oggi lo sviluppo dei localismi e dei conflitti etnici, dando consistenza alle “identità difficili”, “abusive” o semplicemente “illusorie”, come le ha definite Alfred Grosser o “identità assassine” come le ha definite Maalouf. La politica deve affrontare le identità culturali degli individui dando loro legittimità nello spazio pubblico, come si è lasciato l’accesso allo spazio pubblico dei conflitti sociali, economici e politici che pur dividono, e talvolta profondamente, gli individui non possiamo più continuare a considerare la conciliazione tra il rispetto delle identità culturali e lo sviluppo della coesione sociale come una quadratura del cerchio. Come è stato possibile la costruzione della democrazia politica e quella della democrazia sociale, dobbiamo ritenere possibile anche la costruzione della democrazia culturale. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo rivedere la vecchia idea della democrazia, definita come partecipazione alla volontà generale e sostituirla – come auspica Touraine – con l’idea remota di “istituzione al servizio della libertà del soggetto e della comunicazione dei soggetti”, includendo in questa nuova concezione di servizio anche la scuola, come istituzione pubblica (vedi Alain Touraine, Pourrons-nous vivre ensemble? Egaux et différents). 4. Il sistema educativo ha un ruolo indispensabile da svolgere È proprio partendo da queste riflessioni e constatazioni che ho seguito da vicino i lavori che dal 1991 il Centro interdisciplinare di etica e dei diritti dell’uomo dell’Università di Friburgo (Svizzera), a seguito dell’VIII colloquio interdisciplinare sui “diritti culturali: una categoria sottosviluppata dei diritti dell’uomo”, ha condotto in collaborazione con l’UNESCO e il Consiglio d’Europa al fine di arrivare ad un testo progetto di dichiarazione dei diritti culturali, dichiarazione che avrebbe addirittura potuto far parte di un protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il testo della convenzione o dichiarazione preparato già nel settembre 1997, nella sua terza versione, attende ancora una sua definitiva collocazione giuridica. È un testo che ritengo importante, come punto di partenza per costruire un progetto educativo scolastico e extra-scolastico per accrescere la capacità degli individui ad essere soggetti e accrescere la comunicazione tra i soggetti della società civile. Il testo della dichiarazione formula innanzitutto una definizione di “identità culturale” sulla quale intendo sviluppare alcune riflessioni utili ad una traduzione in termini educativi dei contenuti che essa racchiude. “Ogni persona, dice l’art. 3, ha diritto da sola o in comune, di scegliere e di vedere rispettare la sua identità culturale, nella diversità dei suoi modi di espressione”. Per l’espressione “identità culturale” si intende “l’insieme dei riferimenti culturali per i quali una persona o un gruppo si definisce, si manifesta o desidera di essere riconosciuto; l’identità culturale implica le libertà inerenti alla dignità della persona e integra in un processo permanente la diversità culturale e la coesione sociale, il particolare e l’universale, la memoria e il progetto”. Questa “descrizione-definizione” di identità culturale, proposta dal coordinatore del progetto, lo svizzero Patrice Mejer Bisch, merita un commento esplicativo. In sostanza, il progetto di dichiarazione dei diritti culturali, propone alle comunità educative di lavorare su tre assi bipolari che potremmo anche chiamare “tre dinamiche” o tre antinomie. Ogni asse bipolare comprende due carte che dobbiamo imparare a giocare assieme, invece di giocarle, come facciamo spesso, l’una contro l’altra. 4.1. L’educazione all’asse identità-alterità L’educazione all’asse identità-alterità ossia alla antinomia dell’io e dell’altro, dell’altro non in opposizione ma nell’interferenza con l’io. Nessuno può acquisire la propria identità da solo, ”in vitro”: l’identità è un processo che ha bisogno di una dimensione interattiva in un duplice senso: noi ci identifichiamo in relazione agli altri, e con l’aiuto degli altri. Come afferma il genetista francese Albert Jacquard: “culturalmente io non sono il prodotto dei miei geni (dei miei codici genetici) ma dei miei incontri, delle mie relazioni”. L’aiuto dell’altro è essenziale per l’identificazione di sé, perché l’altro è indispensabile nel riconoscimento delle legittimità dei beni che costituiscono l’identità. Il valore di un bene non riposa solo sull’utilità che io credo di percepire ma deve essere riconosciuto intersoggettivamente. Questo asse implica anche l’antinomia della differenziazione-coesione attraverso la similirizzazione. Chi avanza il diritto alla differenza senza il diritto alla somiglianza avanza uno pseudo-diritto. Ogni diritto si coniuga con la socialità: differenziazione e similirizzazione sono due facce della stessa medaglia. È in questa caratteristica relazionale con l’altro, con gli altri, che l’identità culturale ha per sua natura una dimensione dinamica e plurale nel senso che non è mai “installata” mai “compiuta”, integrative del multiplo. Legata all’individuo, al sociale e al tempo, l’identità è paradossalmente una nozione nello stesso tempo stabile di dinamica e in costante evoluzione. È un nostro grave errore di “oggettivizzare” l’identità degli altri (vedi soprattutto gli stranieri) biologizzando, cioè razzializzando, in un certo qual senso la loro cultura. Quante volte noi assegniamo, così, gli altri “a residenza identaria coatta” (le identità che noi abbiamo immaginato). 4.2. L’educazione all’asse dell’antinomia L’educazione all’asse dell’antinomia o dialettica particolarità-universalità. L’educazione a percepirsi e riconoscersi tutti come particolari e nello stesso tempo universali. Come sottolineava l’antropologo Kluckohn, ciascun uomo è simile a tutti gli altri, assomiglia a qualche altro, non assomiglia a nessun altro. Un essere è veramente se stesso solo quando riconosce la soggettività dell’altro, solo quando individua nell’altro le stesse esigenze, gli stessi bisogni, le stesse spettanze che riconosce in se stesso. Educazione alla capacità di interrogarsi sull’ipertrofia della differenza attribuita all’altro e sull’ipertrofia dell’universalità con cui invece percepiamo noi stessi. L’universalità è la capacità comunicativa che una cultura possiede, cioè la capacità di farsi intendere anche da coloro che ad essa non appartengono, pur continuando a parlare la proprio lingua. Questa capacità può crescere o decrescere, ha una storia. Ogni cultura ha una propria storia, in cui resta vitale ciò che è veramente comunicativo. L’universalità è un obiettivo da raggiungere piuttosto che un principio di partenza. 4.3. L’educazione all’asse risultato-processo L’educazione all’asse risultato- processo, cioè all’antinomia o dialettica tra tradizione o memoria o radici da una parte e libertà, progetto, creatività, antenne dell’altra. Ogni diritto culturale deve concepire l’identità culturale non come un dato fossilizzato ma come è stato definito nell’espressione paradossale “un dinamico stare”, che implica cioè un atto permanente di identificazione che suppone nello stesso tempo la tradizione, la memoria che mi è stata trasmessa e la libertà che esprime le diversità volontarie, le scelte etiche della persona. Si sogna di una nascita culturalmente “immacolata”, frutto esclusivo della nostra scelta e libertà. L’uomo non è una libertà assoluta: tutta un’eredità, culturale e biologica pesa su di lui. Ma l’uomo è una libertà in situazione: la libertà cioè di riprendere – a proprio titolo – un’eredità e di modificarla. Bisogna abbandonare il mito assolutamente mitologico, della “tabula rasa”. Questa semplicemente non esiste. Siamo tutti nati da qualche parte e preceduti da tale o tal’altra concezione della vita. “Nessuno nasce senza bagagli”, dice l’ermeneuta Ricoeur e non c’è addirittura motivo di dolercene, aggiunge Gadaner. Anche se è spiacevole per la nostra sete di razionalità, dice il filosofo-teologo belga Adolphe Gesché (Dieu, Cerf. Paris, 1994) fare questa confessione, anche in riferimento alla nostra fede, sarebbe mancare d’onestà pensare il contrario. “Ma se io riconosco che credo in Dio perché sono nato in un ambiente cristiano e perché sono nato in una famiglia credente, credo pure di poter dire che io ho assunto questa fede ricevuta, che ho trovato che aveva un senso e che meritava di dimorare nella mia esistenza”. In antropologia lungi dal considerare questa situazione come una sfortuna la si comprende invece come una chance. Che si voglia o no l’uomo è sempre preceduto da delle risposte. Non c’è da spaventarsi: si sarebbe altrimenti disorientati. È a partire da queste risposte, che abbiamo potuto incominciare a costruirci. L’uomo nasce con un mazzo di chiavi (risposte). L’anteriorità delle risposte è lo statuto stesso dell’uomo: egli interroga delle risposte, le prova, le questiona ben più che non risponda a delle domande (Adolphe Gesché). E’ così che passiamo dalla identità per nascita alle identità etiche, per scelta. Sartre diceva: “Io non sono quello che ho fatto di me stesso: ma io sono ciò che io ho fatto di ciò che si è fatto di me”. L’anteriorità delle risposte è particolarmente vera nella questione religiosa. Ed è particolarmente l’identità religiosa ricevuta per nascita che va interrogata per diventare identità per scelta. Anche tutti i nuovi movimenti di risveglio religioso sembrano far emergere l’esperienza del “born-again”, della seconda nascita, o nuova nascita: un desiderio di ricominciare da capo perché la religione dei padri – la lignée croyante – non soddisfa più sul piano dei significati e del senso di appartenenza ad una comunità credente. Sono gli uomini portatori di mondi simbolici differenti, di metafore differenti della stessa realtà (le culture diverse possono essere considerate appunto come metafore interpretative diverse per affrontare la questione del significato della vita personale e collettiva) che si incontrano. Non sono le culture nell’astratto che si incontrano. Esse non esistono se non mediate dall’uomo e gli uomini non le mediano se non nelle condizioni che contestualizzano i loro incontri. È qui che vengono le sintesi. Perché non sono le culture ma gli uomini ad essere “porosi”. Questa porosità è condizionata dalle condizioni in cui avviene il loro confronto sociale nello spazio pubblico, dell’“agorà”; non è nella sfera privata che si impara a rispettare le regole del gioco e ad argomentare la credibilità della mia concezione del bene rispetto al bene comune perseguito dalla società civile. È solo nello spazio pubblico che posso mostrare la convergenza tra il mio particolare e la mia interpretazione del bene comune con quella degli altri. Come scrive Bauman: “Un’interpretazione implica la solidarietà tipica degli esploratori: se da un lato tutti noi, individualmente o collettivamente, siamo impegnati nella ricerca della migliore forma di umanità di cui vorremmo tutti alla fine godere, dall’altro ciascuno di noi esplora una strada diversa e torna dalla spedizione con scoperte diverse. Nessuna di tali scoperte può essere dichiarata valida a priori, e nessun tentativo di trovare la miglior forma di umanità può essere scartato in anticipo come fuorviante e non meritevole di attenzione […]. Ciò non significa che tutte le scoperte abbiano uguale valore, ma il loro valore reale può essere determinato solo attraverso un approfondito dibattito che dia spazio a tutte le voci in cui sia possibile condurre raffronti costruttivi e in bona fide. In altre parole, il riconoscimento di una varietà culturale è l’inizio, non la fine, della questione; non è che il punto di partenza di un lungo e forse tortuoso, ma alla fine proficuo, processo politico” (Bauman, Voglia di Comunità, ed. Laterza, pp. 131-132). Nello spazio pubblico le molteplici concezioni comprensive del bene sono indotte, come sottolinea il filosofo del diritto, Francesco Viola, a comunicare non tanto direttamente tra loro ma in relazione a problemi determinati in cui sono implicati i loro sostenitori e sono questi ultimi ad essere indotti a cooperare, prescindendo dalle loro appartenenze. Antonio Perotti