Diocesi di Piacenza-Bobbio
Ufficio Stampa: Servizio Documentazione
Istituto Casa Madre Missionari Scalabriniani
Settimana Sociale
(8 – 20 febbraio)
“Quale futuro per la democrazia in Europa?”
Domenica 8 febbraio 2004
Dall’8 al 20 febbraio 2004 si tiene la “Settimana sociale dei cattolici piacentini”. La
organizzano la Diocesi di Piacenza Bobbio, l’Università Cattolica del Sacro cuore,
l’Azione Cattolica e i Missionari Scalabriniani. Tema: “Quale futuro per la democrazia in
Europa?”.
Questo il programma:
Primo incontro domenica 8 febbraio, alle ore 9.15, presso l’Istituto Scalabriniani di via
Torta con la partecipazione di studiosi della stessa congregazione, i padri Graziano
Battistella, Silvio Pedrollo, Antonio Perotti; tema: “Democrazia, etica e società civile in
Europa”.
Per gentile concessione del Relatore qui di seguito il suo intervento.
Padre Antonio Perotti, Scalabriniano
Società civile in Europa
Elementi di analisi. Sfide educative in prospettiva
Premessa introduttiva
Quanto intendo proporvi, sono alcuni spunti per tracciare una diagnosi dell’attuale stato della
Società civile in Europa e abbozzare a questo riguardo alcune proposte coerenti sul piano educativo
per farvi fronte.
Questi spunti e queste indicazioni sono il risultato di incontri e discussioni, cui ho partecipato
per diversi anni. Durante l’intero arco degli anni ’90, particolarmente nel corso dell’ultimo
quinquennio (1995-2000) ho fatto parte di diversi gruppi di lavoro composti da ricercatori di diversa
formazione disciplinare e di amministratori istituzionali e politici riuniti dal Consiglio d’Europa nel
quadro di progetti che avevano per tema centrale la problematica posta dal crescente pluralismo
culturale e religioso delle società civili in Europa; come cioè conciliare in teoria e nella pratica
alcuni binomi chiave quali: pluralismo culturale e coesione sociale; società plurale e società
integrata; spazio privato e spazio pubblico; identità collettive e unità nazionale; ed infine il trinomio
chiave: come far convivere la democrazia politica, la democrazia sociale e la democrazia culturale.
Nel corso di questi ripetuti scambi mi sono fatto alcune convinzioni che vi voglio partecipare.
1. Innanzitutto la necessità per la costruzione di una società civile coesa di coniugare tra loro
anziché opporre le due realtà espresse nei concetti sociologici di “Società” e “Comunità”.
2. In secondo luogo la necessità di prendere maggiormente in conto i rischi per la coesione
della società civile provenienti da due tendenze di fondo all’interno delle società europee: la prima:
il processo di dissociazione tra economia e cultura, tra scienza, religione e cultura, tra il mondo
simbolico e valoriale e il mondo razionale; tra il mondo tecnologico e la diversità delle culture e
delle persone; dissociazione rafforzata, tra l’altro, dalla netta separazione più o meno radicalizzata
in alcuni paesi europei (si pensi, ad esempio, in particolare alla Francia) tra spazio pubblico e
sfera privata, in forza della quale si riserva al primo (lo spazio pubblico) l’espressione razionale e
strumentale, mentre si ricaccia e si relega nella seconda sfera tutto quanto è simbolico e valoriale.
La seconda tendenza di fondo: il processo di desocializzazione e dell’indebolimento dei rapporti
sociali provocati, dalle nuove tecnologie di comunicazione che, decontestualizzando i messaggi
attraverso la comunicazione virtuale, mette in rapporto diretto gli individui con la realtà più globale
rischiando di eliminare le necessarie mediazioni tra individui e umanità. Ci si può credere così,
come osserva Alain Touraine, dappertutto e non si è da nessuna parte.
3. In terzo luogo la necessità per la società politica di prendere sul serio, proteggendole sul
piano del diritto, le identità culturali delle persone e delle comunità, passando da una politica
liberale limitata alla protezione della libertà e dell’uguaglianza tra individui, al riconoscimento
politico nello spazio pubblico, delle identità culturali come un bene primario della politica,
assieme ai beni della libertà e dell’uguaglianza. La costruzione libera e responsabilità del soggetto
della società civile non può essere infatti realizzata che nello spazio pubblico.
4. Infine, quarta convinzione: se la base della democrazia (sia essa politica, sociale o
culturale) è, come credo profondamente, la soggettizzazione degli attori sociali e la comunicazione
tra loro (già S. Tommaso commentando Aristotele sosteneva che “communicatio facit civitatem”), il
sistema educativo (scolastico e extrascolastico) ha un ruolo indispensabile da svolgere. Tanto
più che la comunicazione nella società civile di oggi, resa dal pluralismo culturale più complessa e
magmatica (come la definisce Francesco Viola) o “società liquida”, come la definisce Bauman, non
può essere che una comunicazione interculturale, dove l’antropologia, l’ermeneutica e
l’epistemologia devono trovare lo spazio fondamentale per costruirla.
1. La necessità di coniugare le due nozioni di “società” e di “comunità”
Vengo alla prima convinzione: la necessità di coniugare le due nozioni di “società” e di
“comunità”.
È necessario che si superi il dualismo formulato a suo tempo dal sociologo tedesco Ferdinand
Tönnies, che aveva costituito in sistema l’opposizione tra comunità (Gemeinshaft) e società
(Gesellshaft); formulazione che ha in seguito influenzato anche il sociologo e filosofo francese
Emile Durkheim (1858-1917) e l’antropologo statunitense Robert Redfield (1897-1958).
L’impiego del termine comunità, da tempo impiegato dalla filosofia politica (Hobbel,
Rousseau) significa una referenza organica di appartenenza come membro di una determinata
collettività, mentre il termine “società” suggerisce una appartenenza contrattuale.
La società può essere anonima, la comunità, al contrario, conferisce l’identità e per questo è
carica di affettività (pathos, nel vocabolario di Weber).
La comunità funziona come definizione dell’endo-gruppo che marca la divisione
dell’appartenenza e di identificazione tra “loro” e “noi”, colloca gli altri fuori della comunità e può
addirittura servire all’esclusione (la scomunica).
Si sa come Ferdinand Tönnies di fronte all’apparenza, in un paese in via di modernizzazione,
dell’arretramento della comunità di fronte alla società, abbia interpretato l’una e l’altra in uno
schema di generalizzazione normativa e storica che ha trascinato ad una opposizione radicale dei
due concetti, l’uno significante la tradizione e l’altro la modernità, la prima indicante appartenenza
organica, la seconda, la società volontaria. Questa interpretazione è oggi inaccettabile.
La comunità non è per niente destinata a sparire, (si pensi ad esempio alle considerazioni di
Zygmunt Bauman in “Voglia di comunità” edito da Laterza) né è contraddittoria alla società, né da
essa esclusa.
Anche se la comunità tende a generare una forma di sociabilità tra i suoi membri (un “noi”
opposto a “loro”, quelli fuori dal gruppo), l’appartenenza ad una comunità non è per gli individui
esclusiva dell’appartenenza ad altri gruppi che rifiutano o superano i confini della stessa comunità,
o dell’appartenenza ad un’altra comunità che ingloba la prima. Le nostre appartenenze comunitarie
possono essere diverse e la nostra identità comunitaria globale può rassomigliare piuttosto ad una
costruzione di scatole cinesi.
L’identità culturale degli individui e quindi anche delle comunità sono multidimensionali: non
si costruiscono come unità aritmetiche ma come unità di organizzazione del multiplo.
Qualora si voglia avere un concetto chiaro nella discussione sul come concepire oggi la
società civile in Europa è necessario evitare l’alternativa tra:
-
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da una parte il culturalismo assoluto o il comunitarismo particolarizzante che
marca, ad esempio, i gruppi immigrati isolandoli dal resto della società, in particolare
dal resto delle classi sociali che le compongono; gli immigrati che vivono nei Paesi
europei non appartengono a un “tutto sociale” che sarebbe la loro “comunità
d’origine” ma fanno parte di molteplici reti che s’incrociano e permettono una
moltitudine di combinazioni identitarie possibili, nel tessuto sociale della società in cui
vivono;
e d’altra parte, l’assolutismo del sociale o l’universalismo omogeneizzante, che
negligendo o sottostimando il parametro antropologico culturale, nega l’importanza
delle regolazioni non istituzionali nei gruppi immigrati e sottostimano la specificità
che può conservare il sistema di relazione sociale in uno di questi gruppi.
I fantasmi sulle identità comunitarie sviluppano sentimenti irrazionali di paura e di rifiuto che
rischiano di mascherare o di negare realtà sociali elementari che il concetto di “comunità”
racchiude: il collettivo e le sue diverse appartenenze. Queste esistono e sono ben più operanti di
quanto si pensa. Occorre riconoscere le appartenenze comunitarie come spazi di identificazione, di
convivialità, di educazione, di comunicazione, di organizzazione sociale, di socializzazione, di
informazione, di esplicitazione o di reinterpretazione delle tradizioni e, soprattutto in termini di
solidarietà e di espressione culturale, e anche in termini di spazi economici e di mediazione tra la
società d’origine e la società di residenza.
2. La coesione della società civile
Il superamento dell’opposizione tra le due realtà comunità-società e la necessità di una loro
coniugazione sono fondamentali per chiarire la nozione di società civile.
Nella teoria politica l’espressione di società civile designa la società che si forma in base al
contratto sociale e in quanto tale si contrappone alla struttura istituzionalizzata dello Stato, e viene
considerata dal punto di vista delle sue articolazioni associative e di tutte le aggregazioni sociali e
gruppi sociali che non sono tra loro semplicemente giustapposti ma interagenti. Se tra i
componenti della società civile sono stati tradizionalmente classificati, oltre ai gruppi sociali
primari (le famiglie), i sindacati e i movimenti operai, le organizzazioni economiche, le forze
politiche (partiti e movimenti), le comunità religiose, le associazioni sociali e culturali, negli ultimi
decenni hanno preso un’importanza sempre più rilevante a seguito del loro insediamento
permanente, le diverse comunità etno-culturali e religiose trapiantate in Europa attraverso le
migrazioni.
È soprattutto, a seguito di questo trapianto, che la società civile si è trovata di fronte alla sfida
del riconoscimento pubblico dei diritti culturali, (diritti collettivi) quali il diritto alla propria identità
culturale.
Diritti che non si riferiscono solo alle identità culturali degli stranieri, ma che sono stati
formulati e avanzati con una portata universale proprio a seguito delle conseguenze provocate dei
due processi, che ho più sopra accennato della dissociazione tra razionalità e tecnologia da una parte
e cultura e mondo simbolico e valoriale dall’altra e della desocializzazione degli individui.
Questi due processi hanno portato entrambi a una ricomunitarizzazione delle nostre
appartenenze identitarie, in ciò stimolata anche dal nuovo pluralismo culturale e religioso, al fine di
risolvere la solitudine etica in cui si trova l’individuo con il rischio però del comunitarismo chiuso,
autoritario, intergralista.
Una parte di noi stessi come osserva A. Touraine è immersa nella cultura mondiale, mentre
un’altra parte, privata di uno spazio pubblico dove si formano e si applicano le norme sociali, si
rinchiude sia nell’edonismo sia nella ricerca di appartenenze identitarie vissute nell’immediato. Noi,
continua Touraine, viviamo insieme ma nello stesso fusionati e separati, come nella “folla solitaria”
di Davis Rieslan, e sempre meno capaci di comunicazione. Noi siamo da una parte cittadini del
mondo senza responsabilità, diritti o doveri, e d’altra parte, difensori di uno spazio privato
sommerso dai flutti della cultura mondiale. Si affievolisce così la definizione degli individui e dei
gruppi sulla base delle loro relazioni sociali, che finora rappresentavano il campo della sociologia, il
cui oggetto era quello di spiegare i comportamenti attraverso le relazioni sociali nelle quali gli attori
erano implicati.
3. Il riconoscimento politico nello spazio pubblico
La necessità per la società politica di prendere sul serio le identità culturali delle persone e
delle comunità, passando da una politica liberale limitata alla protezione della libertà e
dell’uguaglianza tra individui al riconoscimento politico delle identità culturali come un bene
primario della politica, assieme ai beni della libertà e dell’uguaglianza, diventa, oggi, sempre più
evidente.
Se la società politica non assume come bene primario da perseguire anche la protezione delle
identità delle persone e dei gruppi, limitandosi al ruolo classico sinora attribuitole della salvaguardia
della libertà e dell’uguaglianza, noi incontriamo due rischi:
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che la sfera pubblica sia sempre più abbandonata alla sola logica delle pratiche
economiche, tecnologiche e commerciali che concepiscono la società in termini di
mercato;
che le comunità culturali (etniche, religiose, nazionali, ecc.), anziché rimanere nel loro
ruolo al servizio dell’identificazione dei soggetti e al servizio dei rapporti sociali che
ogni processo identificatorio comporta, si appropri abusivamente il ruolo della
politica, fomentando processi di esclusione e di fratture sociali, chiusura su se stessi,
come lo dimostra oggi lo sviluppo dei localismi e dei conflitti etnici, dando
consistenza alle “identità difficili”, “abusive” o semplicemente “illusorie”, come le ha
definite Alfred Grosser o “identità assassine” come le ha definite Maalouf.
La politica deve affrontare le identità culturali degli individui dando loro legittimità nello
spazio pubblico, come si è lasciato l’accesso allo spazio pubblico dei conflitti sociali, economici e
politici che pur dividono, e talvolta profondamente, gli individui non possiamo più continuare a
considerare la conciliazione tra il rispetto delle identità culturali e lo sviluppo della coesione sociale
come una quadratura del cerchio. Come è stato possibile la costruzione della democrazia politica e
quella della democrazia sociale, dobbiamo ritenere possibile anche la costruzione della democrazia
culturale.
Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo rivedere la vecchia idea della democrazia, definita
come partecipazione alla volontà generale e sostituirla – come auspica Touraine – con l’idea remota
di “istituzione al servizio della libertà del soggetto e della comunicazione dei soggetti”, includendo
in questa nuova concezione di servizio anche la scuola, come istituzione pubblica (vedi Alain
Touraine, Pourrons-nous vivre ensemble? Egaux et différents).
4. Il sistema educativo ha un ruolo indispensabile da svolgere
È proprio partendo da queste riflessioni e constatazioni che ho seguito da vicino i lavori che
dal 1991 il Centro interdisciplinare di etica e dei diritti dell’uomo dell’Università di Friburgo
(Svizzera), a seguito dell’VIII colloquio interdisciplinare sui “diritti culturali: una categoria
sottosviluppata dei diritti dell’uomo”, ha condotto in collaborazione con l’UNESCO e il Consiglio
d’Europa al fine di arrivare ad un testo progetto di dichiarazione dei diritti culturali, dichiarazione
che avrebbe addirittura potuto far parte di un protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il testo della convenzione o dichiarazione preparato
già nel settembre 1997, nella sua terza versione, attende ancora una sua definitiva collocazione
giuridica.
È un testo che ritengo importante, come punto di partenza per costruire un progetto educativo
scolastico e extra-scolastico per accrescere la capacità degli individui ad essere soggetti e accrescere
la comunicazione tra i soggetti della società civile.
Il testo della dichiarazione formula innanzitutto una definizione di “identità culturale” sulla
quale intendo sviluppare alcune riflessioni utili ad una traduzione in termini educativi dei contenuti
che essa racchiude.
“Ogni persona, dice l’art. 3, ha diritto da sola o in comune, di scegliere e di vedere rispettare
la sua identità culturale, nella diversità dei suoi modi di espressione”.
Per l’espressione “identità culturale” si intende “l’insieme dei riferimenti culturali per i quali
una persona o un gruppo si definisce, si manifesta o desidera di essere riconosciuto; l’identità
culturale implica le libertà inerenti alla dignità della persona e integra in un processo permanente
la diversità culturale e la coesione sociale, il particolare e l’universale, la memoria e il
progetto”.
Questa “descrizione-definizione” di identità culturale, proposta dal coordinatore del progetto,
lo svizzero Patrice Mejer Bisch, merita un commento esplicativo.
In sostanza, il progetto di dichiarazione dei diritti culturali, propone alle comunità educative
di lavorare su tre assi bipolari che potremmo anche chiamare “tre dinamiche” o tre antinomie.
Ogni asse bipolare comprende due carte che dobbiamo imparare a giocare assieme, invece di
giocarle, come facciamo spesso, l’una contro l’altra.
4.1. L’educazione all’asse identità-alterità
L’educazione all’asse identità-alterità ossia alla antinomia dell’io e dell’altro, dell’altro non
in opposizione ma nell’interferenza con l’io.
Nessuno può acquisire la propria identità da solo, ”in vitro”: l’identità è un processo che ha
bisogno di una dimensione interattiva in un duplice senso: noi ci identifichiamo in relazione agli
altri, e con l’aiuto degli altri. Come afferma il genetista francese Albert Jacquard: “culturalmente
io non sono il prodotto dei miei geni (dei miei codici genetici) ma dei miei incontri, delle mie
relazioni”.
L’aiuto dell’altro è essenziale per l’identificazione di sé, perché l’altro è indispensabile nel
riconoscimento delle legittimità dei beni che costituiscono l’identità. Il valore di un bene non riposa
solo sull’utilità che io credo di percepire ma deve essere riconosciuto intersoggettivamente.
Questo asse implica anche l’antinomia della differenziazione-coesione attraverso la
similirizzazione. Chi avanza il diritto alla differenza senza il diritto alla somiglianza avanza uno
pseudo-diritto. Ogni diritto si coniuga con la socialità: differenziazione e similirizzazione sono due
facce della stessa medaglia. È in questa caratteristica relazionale con l’altro, con gli altri, che
l’identità culturale ha per sua natura una dimensione dinamica e plurale nel senso che non è mai
“installata” mai “compiuta”, integrative del multiplo. Legata all’individuo, al sociale e al tempo,
l’identità è paradossalmente una nozione nello stesso tempo stabile di dinamica e in costante
evoluzione. È un nostro grave errore di “oggettivizzare” l’identità degli altri (vedi soprattutto gli
stranieri) biologizzando, cioè razzializzando, in un certo qual senso la loro cultura. Quante volte noi
assegniamo, così, gli altri “a residenza identaria coatta” (le identità che noi abbiamo immaginato).
4.2. L’educazione all’asse dell’antinomia
L’educazione all’asse dell’antinomia o dialettica particolarità-universalità. L’educazione a
percepirsi e riconoscersi tutti come particolari e nello stesso tempo universali. Come sottolineava
l’antropologo Kluckohn, ciascun uomo è simile a tutti gli altri, assomiglia a qualche altro, non
assomiglia a nessun altro. Un essere è veramente se stesso solo quando riconosce la soggettività
dell’altro, solo quando individua nell’altro le stesse esigenze, gli stessi bisogni, le stesse spettanze
che riconosce in se stesso. Educazione alla capacità di interrogarsi sull’ipertrofia della differenza
attribuita all’altro e sull’ipertrofia dell’universalità con cui invece percepiamo noi stessi.
L’universalità è la capacità comunicativa che una cultura possiede, cioè la capacità di farsi
intendere anche da coloro che ad essa non appartengono, pur continuando a parlare la proprio
lingua. Questa capacità può crescere o decrescere, ha una storia. Ogni cultura ha una propria storia,
in cui resta vitale ciò che è veramente comunicativo. L’universalità è un obiettivo da raggiungere
piuttosto che un principio di partenza.
4.3. L’educazione all’asse risultato-processo
L’educazione all’asse risultato- processo, cioè all’antinomia o dialettica tra tradizione o
memoria o radici da una parte e libertà, progetto, creatività, antenne dell’altra. Ogni diritto culturale
deve concepire l’identità culturale non come un dato fossilizzato ma come è stato definito
nell’espressione paradossale “un dinamico stare”, che implica cioè un atto permanente di
identificazione che suppone nello stesso tempo la tradizione, la memoria che mi è stata trasmessa e
la libertà che esprime le diversità volontarie, le scelte etiche della persona.
Si sogna di una nascita culturalmente “immacolata”, frutto esclusivo della nostra scelta e
libertà. L’uomo non è una libertà assoluta: tutta un’eredità, culturale e biologica pesa su di lui. Ma
l’uomo è una libertà in situazione: la libertà cioè di riprendere – a proprio titolo – un’eredità e di
modificarla. Bisogna abbandonare il mito assolutamente mitologico, della “tabula rasa”. Questa
semplicemente non esiste.
Siamo tutti nati da qualche parte e preceduti da tale o tal’altra concezione della vita.
“Nessuno nasce senza bagagli”, dice l’ermeneuta Ricoeur e non c’è addirittura motivo di
dolercene, aggiunge Gadaner. Anche se è spiacevole per la nostra sete di razionalità, dice il
filosofo-teologo belga Adolphe Gesché (Dieu, Cerf. Paris, 1994) fare questa confessione, anche in
riferimento alla nostra fede, sarebbe mancare d’onestà pensare il contrario. “Ma se io riconosco che
credo in Dio perché sono nato in un ambiente cristiano e perché sono nato in una famiglia credente,
credo pure di poter dire che io ho assunto questa fede ricevuta, che ho trovato che aveva un senso e
che meritava di dimorare nella mia esistenza”.
In antropologia lungi dal considerare questa situazione come una sfortuna la si comprende
invece come una chance.
Che si voglia o no l’uomo è sempre preceduto da delle risposte. Non c’è da spaventarsi: si
sarebbe altrimenti disorientati. È a partire da queste risposte, che abbiamo potuto incominciare a
costruirci. L’uomo nasce con un mazzo di chiavi (risposte).
L’anteriorità delle risposte è lo statuto stesso dell’uomo: egli interroga delle risposte, le prova,
le questiona ben più che non risponda a delle domande (Adolphe Gesché). E’ così che passiamo
dalla identità per nascita alle identità etiche, per scelta.
Sartre diceva: “Io non sono quello che ho fatto di me stesso: ma io sono ciò che io ho fatto di
ciò che si è fatto di me”.
L’anteriorità delle risposte è particolarmente vera nella questione religiosa. Ed è
particolarmente l’identità religiosa ricevuta per nascita che va interrogata per diventare identità per
scelta. Anche tutti i nuovi movimenti di risveglio religioso sembrano far emergere l’esperienza del
“born-again”, della seconda nascita, o nuova nascita: un desiderio di ricominciare da capo perché la
religione dei padri – la lignée croyante – non soddisfa più sul piano dei significati e del senso di
appartenenza ad una comunità credente.
Sono gli uomini portatori di mondi simbolici differenti, di metafore differenti della stessa
realtà (le culture diverse possono essere considerate appunto come metafore interpretative diverse
per affrontare la questione del significato della vita personale e collettiva) che si incontrano. Non
sono le culture nell’astratto che si incontrano. Esse non esistono se non mediate dall’uomo e gli
uomini non le mediano se non nelle condizioni che contestualizzano i loro incontri. È qui che
vengono le sintesi. Perché non sono le culture ma gli uomini ad essere “porosi”.
Questa porosità è condizionata dalle condizioni in cui avviene il loro confronto sociale nello
spazio pubblico, dell’“agorà”; non è nella sfera privata che si impara a rispettare le regole del gioco
e ad argomentare la credibilità della mia concezione del bene rispetto al bene comune perseguito
dalla società civile. È solo nello spazio pubblico che posso mostrare la convergenza tra il mio
particolare e la mia interpretazione del bene comune con quella degli altri.
Come scrive Bauman: “Un’interpretazione implica la solidarietà tipica degli esploratori: se da
un lato tutti noi, individualmente o collettivamente, siamo impegnati nella ricerca della migliore
forma di umanità di cui vorremmo tutti alla fine godere, dall’altro ciascuno di noi esplora una strada
diversa e torna dalla spedizione con scoperte diverse. Nessuna di tali scoperte può essere dichiarata
valida a priori, e nessun tentativo di trovare la miglior forma di umanità può essere scartato in
anticipo come fuorviante e non meritevole di attenzione […]. Ciò non significa che tutte le scoperte
abbiano uguale valore, ma il loro valore reale può essere determinato solo attraverso un
approfondito dibattito che dia spazio a tutte le voci in cui sia possibile condurre raffronti costruttivi
e in bona fide. In altre parole, il riconoscimento di una varietà culturale è l’inizio, non la fine, della
questione; non è che il punto di partenza di un lungo e forse tortuoso, ma alla fine proficuo,
processo politico” (Bauman, Voglia di Comunità, ed. Laterza, pp. 131-132).
Nello spazio pubblico le molteplici concezioni comprensive del bene sono indotte, come
sottolinea il filosofo del diritto, Francesco Viola, a comunicare non tanto direttamente tra loro ma
in relazione a problemi determinati in cui sono implicati i loro sostenitori e sono questi ultimi ad
essere indotti a cooperare, prescindendo dalle loro appartenenze.
Antonio Perotti