Il posto del marxismo nella storia

IL POSTO DEL MARXISMO NELLA STORIA
Ernest Mandel
Per capire il marxismo è necessario in primo luogo collocarlo nel suo contesto storico.
Occorre capire quando è nato e come è venuto fuori. Bisogna spiegarne la comparsa e lo
sviluppo attraverso il gioco delle forze sociali: la loro natura economica, i loro interessi, la
loro ideologia, le personalità che ne hanno articolato le aspirazioni. In altri termini, occorre
applicare l’interpretazione materialista delle storia allo stesso marxismo, non pensare che la
sua comparsa vada da sé, capire che richiede una spiegazione, e cercarle di fornirla.
Stabilendo così il posto del marxismo nella storia, potremo coglierne meglio il contenuto e la
portata storica.
I - IL CONTESTO STORICO GENERALE
Il marxismo, in ultima analisi, è il portato della comparsa del modo di produzione capitalistico
a partire dai secoli XV e XVI in alcune aree dell’Europa occidentale (Italia settentrionale e
centrale, Paesi Bassi, Inghilterra, parti della Francia, della Germania, della Boemia e della
Catalogna), sulla cui base emerge una società borghese che progressivamente domina la vita
sociale in tutti i campi dell’attività umana. Il sistema di produzione capitalistico si basa
sull’appropriazione privata dei grandi mezzi di produzione e di sussistenza (strumenti di
lavoro, terra, alimenti) da parte dei capitalisti (vale a dire dei detentori di rilevanti somme di
denaro). Essi impiegano parte del loro capitale per acquistare la forza lavoro di un’altra classe
sociale, il proletariato, costretto a vendere questa forza lavoro in quanto non ha più accesso ai
mezzi di produzione per produrre la propria sussistenza. È questo rapporto antagonistico tra
Capitale e Lavoro salariato, reso possibile dal generalizzarsi della produzione mercantile (la
trasformazione dei mezzi di produzione e della forza lavoro in merci) a fondare il nuovo
sistema di produzione.
Esso sorge in seno a una società – la società feudale – la cui lenta decadenza dischiude una
fase di transizione lunga e contraddittoria che si estende, in alcune delle regioni dell’Europa
occidentale citate, dal XIII al XVI secolo, quando non fino al XVIII secolo, ma alcuni dei cui
aspetti continuano ad operare molto più a lungo. Questa fase si indica spesso come “società
semifeudale”. Si base sulla piccola produzione di merci, al cui interno i principali produttori –
i contadini e gli artigiani – sono produttori liberi e non servi, che dispongono di propri
strumenti di produzione. Il modo di produzione capitalistico compare solo quando questi
liberi produttori vengono progressivamente privati dei loro mezzi di produzione e del libero
accesso alla terra.
Il modo di produzione capitalistico nasce agli inizi nella forma dell’impresa agricola
commerciale, dell’industria a domicilio e della manifattura. Nella prima, il produttore (il
contadino) viene spossessato degli strumenti di lavoro (la terra, gli animali, gli strumenti) e
impiegato come operaio agricolo o come domestico di fattoria da un fattore-imprenditore che
produce per il mercato. Nella seconda, il produttore, anche qui spossessato, produce per un
accomandatario capitalista. Dentro la terza, produttori spossessati sono ormai concentrati in
gran numero sotto uno stesso tetto. Fattori, mercanti e imprenditori, così come i loro salariati,
cominciano a costituire un mercato interno per le merci (viveri, tessuti, utensili, beni di
consumo).
Va tuttavia rilevato che questo modo di produzione capitalistico, dal XIII agli inizi del XVIII
secolo, non è né egemone né consolidato. In questa fase dello sviluppo storico, non ha ancora
conquistato da nessuna parte il potere politico, tranne nell’Olanda del Nord e in alcune città
come Ginevra; ma, questo, tramite la sua frangia più aristocratica, la borghesia dei banchieri e
dei grossi mercanti.
Lo Stato resta uno Stato semifeudale (spesso una monarchia assoluta). Si mantiene la maggior
parte dei privilegi della nobiltà e del clero, benché queste classi dominanti della società
feudale si impoveriscano progressivamente rispetto alla borghesia e lentamente si
decompongano. Soprattutto, i proletari propriamente detti costituiscono solo un’esigua
minoranza fra i produttori, che sono, nella stragrande maggioranza, contadini, sia liberi
(piccoli produttori mercantili), sia ancora parzialmente sottoposti a residui servili.
È solo con la rivoluzione industriale, che si situa nella seconda metà del XVIII secolo, che il
nuovo modo di produzione capitalistico si consoliderà e s’imporrà definitivamente. È a partire
dal sistema dell’officina (della fabbrica) basata sui macchinari che si espanderà per il
mondo, che esprimerà appieno tutte le sue caratteristiche fondamentali. Solo a partire da quel
momento lo si potrà comprendere appieno, se ne potranno cogliere le leggi di sviluppo (la
logica, la dialettica interna).
I macchinari, che sono la base della moderna fabbrica capitalista, risultano da una lenta
trasformazione degli strumenti di lavoro artigianali/industriali a partire dal XIII secolo (mulini
ad acqua, tecniche di coltivazione e di allevamento, tecniche minerarie, ecc.), che sfocia alla
fine nell’impiego di una nuova fonte di energia nella produzione: quella del vapore. Questa
trasformazione è stimolata a partire dal XVI secolo dal celere progresso delle scienze
naturali e dalla loro crescente utilizzazione nella tecnica di produzione e di circolazione delle
merci.
Uno dei risultati più clamorosi del progresso delle scienze applicate è l’affermarsi della
scienza della navigazione e della costruzione navale, che rende possibili le grandi spedizioni
di scoperta e di saccheggio a partire dall’Europa verso l’Africa meridionale e orientale, l’Asia
e le Americhe nel XVI secolo (1492, “scoperta” dell’America di Cristoforo Colombo), che
scatena una grande espansione del commercio internazionale. Nasce così un vero e proprio
mercato mondiale per prodotti cosiddetti coloniali, mentre il mercato alimentare si estende a
tutta l’Europa, seguito successivamente da quello dei prodotti manifatturieri. Questo mercato
mondiale stimolerà a propria volta l’espandersi del sistema capitalistico di produzione.
Tuttavia, il celere progresso delle scienze naturali, correlato all’espansione del sistema
capitalistico di produzione, sconvolge via via anche le forme di vita, di attività e di pensiero
delle masse urbane, quelle della nuova borghesia come quelle della piccola borghesia e dei
primi precursori del proletariato moderno, non mancando di influenzare anche settori delle
masse rurali, perlomeno in determinati paesi.
La società feudale era essenzialmente contraddistinta da una notevole stabilità dell’esistenza
umana. Ognuno “aveva il suo posto “ e “restava al posto suo”. I figli dei servi erano servi;
quelli della nobiltà erano nobili o appartenenti all’alto clero; i figli degli artigiani diventavano
artigiani. Un’ideologia religiosa non meno statica, la religione cattolica consolidata dalla
scolastica, mascherava, razionalizzava e giustificava questa società con una struttura
fortemente gerarchica.
Non si trattava, certamente, di rigidità assolute. Come la tecnica, il pensiero e la contestazione
sociale hanno conosciuto anch’esse significativi progressi in seno alla società feudale in
Europa (specie nel XIII secolo). Si sono avuti progressi nel campo filosofico; ad esempio, la
“sinistra avicenniana”, di origine islamica, si avvicinò al materialismo. L’espansione del
commercio internazionale diede impulso a pratiche intellettuali (la contabilità!) generatrici di
pensiero razionalista. Ma tutti questi progressi sono stati lenti, contraddittori, soggetti a
pronunciate ricadute verso il controllo religioso (il sorgere dell’Inquisizione) e
l’oscurantismo, in particolare nel XV secolo, connesse alla crisi generalizzata della società
feudale.
A partire dal XVI secolo e dalla comparsa del modo capitalistico di produzione, cambia il
clima ideologico e culturale, in stretta connessione con il radicale cambiamento della vita
quotidiana e dei modi di pensare delle popolazioni urbane. La sensazione che tutto cambi
rapidamente si sostituisce a quella di un ordine stabilito eterno. Progressivamente si
generalizzano il dubbio, la rimessa in discussione dei “valori stabiliti”, l’esame critico delle
presunte “leggi divine” come anche delle istituzioni umane. Sono i dogmi religiosi i primi ad
essere sottoposti a revisione, per l’effetto congiunto delle conquiste delle scienze naturali,
dell’espandersi dello spirito critico e delle ribellioni agli abusi, ai privilegi e alla corruzione
del clero. È così che si sviluppano fianco a fianco l’umanesimo semiateo, la Riforma
(luterana, anglicana, calvinista, puritana) e la filosofia razionalista-naturalista (Galileo,
Cartesio, Spinoza).
In ultima analisi, questi movimenti ideologici esprimono le aspirazioni delle nuove classi
urbane e rurali che si sviluppano con il sistema capitalistico di produzione: la borghesia, la
piccola borghesia di funzionari e ideologi (insegnanti, dotti, artisti), l’artigianato
indipendente, il proletariato (con un salario solo per una parte dell’anno), i fattori
imprenditori. Ognuna di esse si riconoscerà, in tutto o in parte, in una delle varianti della
nuova religione e delle nuove tendenze filosofiche.
Questa lotta ideologica ha assunto essenzialmente una forma religiosa, e questo si spiega con
il ruolo della religione come ideologia egemone in seno alla società feudale, ideologia che
permea profondamente tutte le classi attraverso l’educazione e nella vita quotidiana. Si tratta,
però, di una vera e propria lotta di classe, come dimostrano i grandi scontri sociali e politici in
cui sfociano questi conflitti religiosi, conflitti che arrivano fino a guerre civili e a vere e
proprie rivoluzioni: rivolta degli Hussiti in Boemia nel XV secolo; guerra dei contadini in
Germania, rivoluzioni dei Paesi Bassi, insurrezioni della Comune di Gand e di quella di
Münster (movimento degli anabattisti) nel XVI secolo; guerre di religione in Francia nei
secoli XVI e XVII; il tutto con l’approdo alla rivoluzione inglese del 1640-1688.
Data la relativa debolezza della borghesia nei secoli XVI e XVII, questi movimenti sono solo
in parte vincenti. Spesso approdano a sconfitte. Alla Riforma succede la Controriforma, che
trionfa con i Gesuiti in Italia, in Spagna, nei Paesi Bassi del Sud, in Austria, in una parte della
Germania. Sul piano politico, è la monarchia assoluta ad espandersi, non la Repubblica
borghese. Permangono molte sopravvivenze del Medioevo – la servitù, l’arbitrio giudiziario,
incluse l’Inquisizione e la tortura, la censura e la messa all’indice dei libri “sediziosi”. Galileo
deve pubblicamente confessare di essersi sbagliato quando ha dimostrato, in contrasto con
l’opinione della Bibbia, che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa.
Progressi ed arretramenti si combinano, del resto, in tutto il mondo. La colonizzazione
europea sfocia nello sterminio degli indiani d’America. Il capitalismo commerciale organizza
la tratta dei Neri, devasta l’Africa ed estende piantagioni e manifatture in America grazie a
milioni di schiavi e non di proletari liberi.
Solo con l’avvento del capitalismo industriale nella seconda metà del XVIII secolo l’attesa
del progresso e l’ottimismo sociale si generalizzano rapidamente. Sotto la direzione della
borghesia e dei suoi ideologi rivoluzionari, tutto ciò che resta dell’ordine semifeudale viene
agevolmente contestato, attaccato, ridicolizzato. L’assalto contro la monarchia assoluta si
trasforma in un assalto generale contro l’ordine sociale ad essa sotteso, nel trionfo sempre più
vasto della nuova società borghese in tutti i campi della vita sociale. I successi nella
trasformazione dei costumi, delle idee, dei “valori” riconosciuti sfoceranno nelle grandi
rivoluzioni borghesi del XVIII secolo: la Rivoluzione americana del 1776 e la Rivoluzione
francese del 1789. Il movimento proseguirà in Europa e in America latina agli inizi del XIX
secolo, con esito diseguale a seconda dei paesi.
Queste rivoluzioni costituiscono inoltre lo sbocco di una vasta presa di coscienza di strati
borghesi, piccolo borghesi e proletari: vale a dire che l’umanità può decidere il proprio
destino, che questo non è predeterminato dalla divina Provvidenza o da qualsivoglia fatalità.
Fede nella ragione umana come motore dell’emancipazione umana: ecco come si può
sintetizzare lo “spirito del tempo” (Zeitgeist) del Secolo dell’Illuminismo. Dopo essersi
affermato nelle scienze naturali e nella tecnica, questo “spirito del tempo” si afferma nella
critica delle istituzioni statuali, nell’attività filosofica e letteraria, nella lotta politica. Sorretta
dal radicale rovesciamento dei rapporti di forza tra la borghesia, da una parte, la monarchia, la
nobiltà e il clero, dall’altra, la spinta emancipatrice troverà la sua espressione più alta nelle
due grandi rivoluzioni del XVIII secolo.
Tuttavia, a mano a mano che il sistema di produzione capitalistico si espande, cominciano ad
apparire in piena luce l’aspetto contraddittorio della società borghese, il carattere ambiguo,
non meno contraddittorio, del progresso economico e politico incarnato dall’espansione della
società borghese e delle rivoluzioni borghesi. Il capitalismo non è solo il colossale ampliarsi
delle conoscenze, delle ricchezze, dei diritti umani. È anche l’accumularsi di miserie, di
ingiustizie, di oppressioni, di negazione dei più elementari diritti umani. La polarizzazione
della società tra ricchi e poveri è clamorosamente evidente agli occhi di tutti gli osservatori,
ivi compresi scrittori di opinioni reazionarie, come Balzac, e di ideologi conservatori. La
presa di coscienza è accompagnata da una nuova prassi sociale: la lotta di classe degli operaiartigiani, dei pre-proletari (sans-culottes, bras-nus) e dei proletari contro i capitalisti, del
“Quarto Stato” che progressivamente emerge contro il “Terzo Stato”, mentre fino ad allora
stata la lotta del Terzo Stato contro la monarchia, la nobiltà e l’alto clero a dominare la scena
politica e sociale.
L’indebolimento delle monarchie assolute e la comparsa di movimenti rivoluzionari di massa
consentono a vari strati sociali oppressi di esprimere le proprie rivendicazioni, spesso
basandosi su un’interpretazione più radicale dei principi della democrazia. L’uguaglianza tra
individui va applicata ai sessi. In piena rivoluzione francese appare, ad esempio, la
“Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina”. Essa non deve permettere alcuna
discriminazione di casta o di razza: così si delineano l’emancipazione degli ebrei, il
movimento per la soppressione della schiavitù, l’estensione del suffragio universale. Essa
implica, infine, l’uguaglianza tra le nazioni e il loro diritto all’autodecisione, da cui
l’emergere di movimenti democratici nazionali, soprattutto in Irlanda, in Italia, in Germania.
Una realtà economica e una prassi politica nuove generano, così, una nuova ricerca scientifica
insieme a nuove ideologie. L’emancipazione deve limitarsi al “cittadino”, ai diritti umani
giuridici e politici? Non deve estendersi al produttore, allo sfruttato, all’“uomo (e alla
donna) economico”? Così, al termine del Secolo dei Lumi nasce la questione sociale, la
questione dell’emancipazione economica e, con essa, il socialismo come corrente di idee e
come movimento reale operante ai fini di questa emancipazione.
Dall’emergere del modo di produzione capitalistico alla nascita del macchinismo e della
fabbrica moderna; dall’emergere del proletariato concentrato nelle fabbriche alla lotta di
classe proletaria elementare; dalle resistenze dei popoli colonizzati contro le nuove forme di
sfruttamento capitalistiche ai movimenti indipendentisti radicali (America Latina, Irlanda,
ecc.); dalla comparsa, nel momento culminante delle grandi rivoluzioni borghesi, di
rivoluzionari che non si collocano più esclusivamente rispetto ai fini della borghesia
rivoluzionaria, all’avvio di una serie di obiettivi socialisti in favore del giovane proletariato;
dal razionalismo borghese radicale al suo “superamento” grazie a scienze sociali critiche e
lucide che cominciano a rivelare tutte le molle segrete della storia e dell’“ordine sociale” in
generale (e cioè, la società divisa in classi antagoniste, la proprietà privata) senza limitarsi alla
critica dell’ordine semifeudale: questo lo sviluppo e il contesto storico che rendono
possibile la nascita del marxismo.
Il socialismo, l’idea del “ritorno all’età dell’oro”, vale a dire a una società senza classi, sono
molto più vecchi del capitalismo industriale. Sono, in pratica, altrettanto vecchi della stessa
società divisa in classi. Ne ritroviamo echi nell’antica poesia greca, tra i profeti ebraici, fra i
primi padri della Chiesa cattolica, in numerosi pensatori della Cina classica e dell’Islam. Nel
corso del Medioevo e nei grandi movimenti ideologici a partire dal XV secolo, questa
tradizione si estende in misura crescente. È ancora confortata dall’esistenza di società
relativamente ugualitarie incontrate dagli Europei durante i loro viaggi di esplorazioni o
campagne di colonizzazione. Il marxismo si colloca sicuramente nel solco di questa vecchia e
venerabile tradizione di sogno e di lotta per l’emancipazione dei poveri, degli sfruttati e degli
oppressi, con i quali condivide problemi, proteste, preoccupazioni, rivolte collettive. Ma tutto
quel che è specifico del marxismo si spiega, in ultima analisi, solo con ciò che è nuovo a
partire dal XVIII secolo e che è intimamente connesso al consolidarsi del modo capitalistico
di produzione con la rivoluzione industriale: la definitiva comparsa del proletariato come
classe sociale basata sul lavoro salariato; la radicale presa di coscienza della “questione
sociale” sorta dal nuovo antagonismo sociale, quello del Capitale e del Lavoro salariato.
II - LE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL MARXISMO
Il marxismo si presenta, al contempo, come trasformazione rivoluzionaria e progressiva
unificazione:
 delle scienza umane, più precisamente delle scienze sociali;
 del movimento politico di emancipazione, innanzitutto delle organizzazioni
rivoluzionarie, sorte dall’estrema sinistra della Rivoluzione francese;
 del movimento operaio elementare e spontaneo, creato dagli stessi lavoratori al di
fuori di qualsiasi teoria filosofica o sociologica;
 del socialismo pre-marxista, dell’elaborazione cioè di progetti di una società migliore,
di “soluzioni della questione sociale” essenzialmente a livello teorico e ideologico:
teorie filosofiche, sociologiche, economiche, combinate con attività educative e
filantropiche (fondazione delle prime colonie “comuniste”).
In ognuno di questi ambiti, Marx ed Engels partono da quel che c’è già, assimilano appieno le
acquisizioni accumulate sottoponendole a un esame critico. Trasformano così radicalmente
queste acquisizioni, ma conservando tutto ciò che secondo loro contengono di
fondamentalmente valido.
Nel campo delle scienze sociali, l’assimilazione critica riguarda soprattutto la filosofia
classica tedesca, l’economia politica inglese e la storiografia sociologica francese, che aveva
scoperto e applicato i concetti di classi sociali e di lotte di classe.
Nel campo del movimento di emancipazione sociale, Marx ed Engels perseguono la
continuità dell’azione rivoluzionaria e dell’organizzazione rivoluzionaria così come nascono
dal babuvismo e dal blanquismo, pur combinandole con gli insegnamenti derivanti dalle
prime organizzazioni rivoluzionarie tedesche di cui hanno esperienza e che approderanno alla
creazione della Lega Comunista, alla quale aderiscono. Raccolgono da parte loro le
rivendicazioni radicali democratiche delle organizzazioni che, contro l’assolutismo, vogliono
instaurare la repubblica democratica in Italia, in Irlanda e in Spagna, abolire la schiavitù negli
Stati Uniti, in Brasile e nelle colonie europee. Cercano di inserire anche gli insegnamenti
ricavabili dalla prima esperienza di un partito operaio di massa, il partito cartista della Gran
Bretagna.
Nel campo del pensiero e dell’organizzazione socialisti (in genere non rivoluzionari e non
politici), cercano di introdurre l’analisi scientifica della società borghese, delle sue tendenze
di sviluppo, del suo divenire, delle contraddizioni che ne determineranno il declino e la
caduta. Applicano questo metodo in particolare all’analisi dell’oppressione della donna,
avviata dalle femministe socialiste utopiste. Si tratta dell’impegno per trasformare il
socialismo essenzialmente utopistico in socialismo scientifico. Al tempo stesso, Marx ed
Engels cercano di imperniare il pensiero e l’organizzazione socialisti sulla necessità
dell’azione politica, di fondere cioè il pensiero con l’organizzazione e l’iniziativa
rivoluzionarie.
Infine, nel movimento elementare di autorganizzazione della classe operaia, Marx ed Engels
cercano di introdurre in primo luogo il programma (i principi) del socialismo scientifico, del
comunismo, e quindi insistono insieme sulla finalità socialista accanto agli obiettivi
immediati, e sull’azione politica rivoluzionaria accanto a quella economica (sindacale,
mutualistica) ed educativa.
Il marxismo si presenta così come una quadrupla sintesi:
 sintesi tra le principali scienze sociali;
 sintesi tra le scienze sociali e il progetto di emancipazione dell’umanità;
 sintesi tra il progetto di emancipazione umana e il movimento reale di
autorganizzazione e di autoemancipazione del proletariato moderno;
 sintesi tra questo movimento operaio reale e l’azione, come pure l’organizzazione
politica, rivoluzionarie.
Non si tratta di sintesi compiute una volta per tutte. Non essendo dogmatiche, non partendo da
nessun partito preso a priori e automatico, se non quello dell’essere umano e del suo fine
ultimo, sola misura ultima dell’intera azione umana, sono continuamente sottoposte alla
prova della pratica. Devono essere costantemente riesaminate alla luce della rinnovata
esperienza e dei nuovi dati relativi a un passato ancora insufficientemente conosciuto.
Nella stessa direzione, tuttavia, tutto quel che in questa sintesi si basa già su un enorme corpo
di esperienze e di dati empirici, non può essere rimesso in questione alla leggera alla luce di
dati parziali, congiunturali, vale a dire in maniera sostanzialmente impressionistica. Una
rimessa in causa del genere va a sua volta criticata e sottoposta a revisione, alla luce di fatti
ulteriori, se questi confermano la sintesi iniziale.
Più in generale, queste sintesi si basano sulla visione complessiva della società borghese e
della storia umana nei suoi successivi modi di produzione, cioè sulla capacità di ricavare
determinate leggi di sviluppo di una particolare società considerata nella sua totalità. Ogni
approccio frammentario che cerchi di “eludere” tale visione d’insieme è ben poco attendibile
e sfocia quasi sempre fatalmente in analisi sbagliate e in previsioni smentite dai fatti.
Queste sintesi, inoltre, implicano sempre l’assunzione critica dei dati delle scienze
accademiche più avanzate, nonché l’analisi critica del movimento di emancipazione sia a
livello delle organizzazioni rivoluzionarie, sia a quello dei tentativi di risolvere la”questione
sociale” e degli sforzi elementari di autorganizzazione e di autoemancipazione della classe
operaia. In questa assunzione critica c’è una continua oscillazione dialettica tra il recupero e
l’innovazione.
Nello spirito del marxismo, dato il metodo di approccio alla realtà (al divenire sociale)
adottato da Marx ed Engels, l’oscillazione è inevitabile. Il marxismo non crede nella scienza
infusa e ancor meno nella conoscenza intuitiva. E neanche si comporta da “educatore”, né
rispetto al proletariato, né rispetto al movimento storico (alle peripezie della lotta di classe).
Impara costantemente dal reale, che è in continua trasformazione. Si rende conto che gli stessi
educatori hanno bisogno di essere educati, che solo la prassi rivoluzionaria collettiva, radicata
nella prassi scientifica, per un verso, in quella rivoluzionaria del proletariato, per altro verso,
consente l’autoeducazione dei rivoluzionari e dell’intera umanità lavoratrice.
III – LA TRASFORMAZIONE DELLE SCIENZE SOCIALI AD OPERA DEL MARXISMO
1. La trasformazione della filosofia classica tedesca
Il principale apporto della filosofia classica tedesca al marxismo è la dialettica di Hegel, che
Marx ed Engels hanno ampiamente recuperato, pur trasformandola, “rimettendola sui suoi
piedi”.
La dialettica ha origini antichissime. La si ritrova fin dagli albori del pensiero filosofico,
soprattutto nel filosofo greco Eraclito (“tutto cambia”, “tutto scorre”, “tutto si muove: πάντα
ρεϊ, panta rei, in greco) e in vari pensatori cinesi come Kung-sun Lung e Taï-chen. È stata poi
sviluppata dal filosofo ebreo-olandese Spinoza (XVII secolo). Ha raggiunto l’apice con la
filosofia classica tedesca, incarnata da Hegel, uno dei maggiori pensatori di tutti i tempi.
Le acquisizioni del pensiero dialettico sono soprattutto:
 la concezione di ogni realtà come in continuo mutamento, non come somma di fatti
ma come combinazione di processi;
 la concezione di ogni realtà come totalità in movimento, nessuna delle cui parti può
essere compresa isolatamente, al di fuori delle sue interconnessioni, dei suoi rapporti
con altre parti;
 la concezione del movimento come risultante di contraddizioni interne di questa
totalità:
 la concezione della conoscenza come apprendimento del reale tramite il pensiero
(tramite l’attività umana), cioè come interazione tra soggetto e oggetto. Il soggetto
tende a trasformare il reale apprendendolo, ma è trasformato a sua volta dall’attività di
ricerca, di apprendimento e di trasformazione del reale;
 la concezione della conoscenza come la scoperta, grazie all’analisi e all’azione, di
leggi di sviluppo inerenti ai processi appresi. La dialettica del pensiero deve
conformarsi alla dialettica del reale (al movimento reale) per poterlo capire.
Questa metodologia generale del pensiero efficace, scientifico, del pensiero che consente di
accostarsi per approssimazioni successive alla comprensione della realtà nella sua totalità,
costituisce un enorme passo avanti rispetto al metodo puramente analitico del sapere
frammentario, specializzato al massimo, essenzialmente basato sulla sperimentazione parziale
e sulla logica formale.
La dialettica non rifiuta la sperimentazione parziale e la logica formale. Le incorpora ma, al
tempo stesso, ne coglie i limiti. Essa permette così un progresso pluridisciplinare della
conoscenza che il marxismo realizza soprattutto nel campo delle scienze che hanno per
oggetto la società nel suo insieme e che raggiungerà prima o poi nell’insieme delle scienze
umane.
Il pensiero di Hegel, stimolato dall’esperienza acquisita dal grande filosofo tedesco dalla
Rivoluzione francese (in gioventù Hegel aveva anche fatto parte di un gruppo rivoluzionario
pregiacobino) arriva fin sull’orlo di un “salto di qualità” in vari campi chiave, in particolare in
quelli del ruolo motore svolto dal lavoro nella storia dell’umanità. Ma la vittoria della
controrivoluzione politica in Francia e in Europa e il carattere ancora insufficientemente
maturo della società borghese e della lotta di classe proletaria nel corso del primo ventennio
del XIX secolo non hanno permesso al grande genio di superare alcuni limiti del suo pensiero,
che resta contraddistinto dalle seguenti debolezze:
a) La dialettica è concepita in maniera essenzialmente idealistica. Il movimento del
pensiero è concepito come fondamentale rispetto a quello della realtà materiale. Di
fatto, spesso reale e ideale si identificano. La dialettica storica si riduce in ultima
analisi alla dialettica dell’“idea assoluta”. La realizzazione della libertà concepita
come finalità della storia – Hegel condivide questa concezione con il Secolo dei Lumi
- vale a dire con il progetto di emancipazione umana che sottendeva l’intera lotta della
borghesia rivoluzionaria, è la realizzazione della libertà spirituale: “Lo schiavo
spiritualmente libero può essere più libero del padrone”.
b) La filosofia della storia derivante da questa concezione idealistica della dialettica
acquista quindi una dimensione troppo astratta, semimetafisica. Non sono più l’uomo
e la donna concreti, così come vivono, lavorano, sono sfruttati, soffrono e al tempo
stesso pensano ed hanno la loro “vita interiore” e i loro “stati d’animo”, ad essere i
protagonisti della storia, gli oggetti di studio e i soggetti del movimento di
emancipazione. Sono gli “esseri spirituali” ad occupare troppo spesso questo posto,
vale a dire le idee, le ideologie, comprese le religioni.
Per la verità, questa debolezza metafisica della filosofia della storia di Hegel è
mitigata da intuizioni geniali sui rapporti tra il lavoro (la produzione),
l’organizzazione della vita materiale, e lo Stato (la struttura sociale), intuizioni che
portano la filosofia tedesca fin sull’orlo di un’analisi diciamo pure materialistica di
tanti fenomeni storici.
c) Una filosofia idealista della storia, basata sulla concezione idealista della dialettica,
può degenerare facilmente in visione apologetica della realtà sociale e soprattutto
dello Stato (lo Stato prussiano) in cui il filosofo è inserito.
La celebre formulazione di Hegel “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è
razionale è reale”, non è automaticamente apologetica, se si concepisce il verbo
“essere” dialetticamente come “divenire, trasformarsi, crescere, poi declinare e
sparire”. Essa può significare: “Tutto ciò che è reale non sopravvive se non nella
misura in cui questa realtà corrisponde a una necessità e, in questa misura, alla sua
propria razionalità. Nella misura in cui questa razionalità declina e si decompone,
nella misura in cui le sue contraddizioni si manifestano sempre più e diventano sempre
più esplosive, questa realtà diviene sempre più ‘irreale’, vale a dire comincia a
decomporsi, e quindi a sparire, a lasciare il posto a una realtà nuova, più razionale”. E
parallelamente: “Tutto ciò che è razionale, anche se non è ancora realizzato appieno,
anche se è ancora solo potenziale, embrionale, diventerà sempre più reale, si realizzerà
progressivamente nei fatti”.
Tuttavia, questa stessa formulazione, potenzialmente rivoluzionaria, può anche essere
interpretata in senso profondamente conservatore, e diventa allora: “Ogni realtà è
razionale (altrimenti non esisterebbe), cioè necessaria (l’inevitabile risultato di
processi che l’hanno prodotta). Non va quindi messa in discussione. Tutto quel che è
razionale e necessario è già realizzato. Quel che non lo è (o non lo è ancora) non è né
razionale né necessario, altrimenti sarebbe già stato realizzato”.
In realtà, le due interpretazioni parallele si sovrappongono nel pensiero dello stesso
Hegel. La prima predomina nelle sue opere giovanili, la seconda in quelle senili. Esse
hanno dato vita a due scuole, a due famiglie di discepoli. La seconda segna la scuola
dei “Vecchi hegeliani”, sostenitori della monarchia prussiana, della religione e dello
Stato considerato l’incarnazione della “virtù” (come in Platone e Aristotele) e del
“bene comune”, contrapposto all’egoismo economico e sociale che domina la “società
civile”. La prima dà vita alla scuola dei “Giovani hegeliani”, filosofi radicali, ostili
all’establishment, contestatori, atei (soprattutto con Feuerbach), fra i quali si arruola il
giovane Marx, che ne continuerà l’opera di spietata critica filosofica, storica, sociale,
economica, politica.
In uno dei suoi lavori giovanili meno noti, Der Geist des Christentums (Lo spirito del
Cristianesimo), Hegel arriva a scrivere: “Solo ciò che è oggetto di libertà è l’Idea. Va
dunque superato lo Stato! Qualsiasi Stato è infatti chiamato a trattare degli esseri
umani liberi come se si trattasse di pezzi meccanici (Räderwerk): E non dovrebbe
essere così. Esso (lo Stato) dovrebbe quindi cessare (…). Al tempo stesso, io intendo
qui stabilire i principi di una storia dell’umanità, vale a dire tutto il miserevole lavoro
umano dello Stato, della costituzione, del governo, della legislazione – e denudarlo
fino alla pelle!”(G. W. F. Hegel, Der Geist… cit., Ullstein, 1978, p. 341).
d) Una dialettica idealista sganciata dalla realtà materiale rischia di non avere più alcun
criterio epistemologico, alcun criterio di verifica in ultima istanza. Al tempo stesso,
rischia di chiudersi in un ragionamento circolare, se non nel solipsismo. Rischia di
assumere un atteggiamento dogmatico, dove la sola coerenza interna del ragionamento
funge da giustificazione ultima del sistema di pensiero, da dimostrazione finale del suo
grado di verità, della sua veridicità.
Marx ed Engels hanno cercato di correggere queste fragilità della dialettica idealista
“rimettendola sui suoi piedi” (sottinteso: Hegel l’aveva messa sulla testa, a testa in giù).
Hanno anche con ciò stesso trasformato la dialettica idealista in dialettica materialista. Essa si
basa sulle seguenti constatazioni:
a) La realtà materiale (la natura e la società) esiste indipendentemente dai desideri, dalle
passioni, dalle intenzioni e dalle idee di coloro che cercano di interpretarla. È una
realtà oggettiva, che il pensiero cerca di spiegare. Va da sé che i processi di conquista
di conoscenze (quindi le scienze, inclusa quella socialista) sono, anch’essi, processi
oggettivi, potenziali oggetti di analisi scientifica critica.
b) Il pensiero non può mai identificarsi completamente con la realtà oggettiva, non
foss’altro perché questa è in continua trasformazione e perché la trasformazione del
reale precede sempre inevitabilmente nel tempo il progresso del pensiero. Ma può
avvicinarsi sempre più ad essa. Il reale è perciò comprensibile. I progressi del
pensiero, della scienza (non necessariamente un progresso lineare e permanente) sono
possibili e si verificano concretamente, praticamente, nella storia umana, attraverso le
loro conseguenze (previsioni verificate, applicazioni realizzate, ecc.), attraverso cioè i
loro risultati pratici. Il criterio ultimo del grado di veridicità del pensiero, della
scienza è dunque pratico. Il pensiero è efficace (scientifico) nella misura in cui la
spiegazione dei processi reali non è solo coerente al fine di spiegare quel che già
esiste, ma serve anche a prevedere quel che non esiste ancora, a inserire questa
previsione nell’interpretazione del processo reale preso nella sua totalità, e a
modificare, trasformare la realtà in funzione di un obiettivo prefissato. In ultima
analisi, la conoscenza è uno strumento di sopravvivenza del genere umano, uno
strumento per modificare il posto di questa specie nella natura, per aumentarne
la vivibilità.
c) La dialettica della storia è una dialettica di esseri umani reali e concreti, non una
dialettica dell’“uomo in generale”, “dell’uomo o della donna come esseri
essenzialmente spirituali”. Gli esseri umani reali e concreti sono esseri umani
socialmente e storicamente specifici, vale a dire determinati dalle specifiche
condizioni sociali in cui vivono, condizioni che mutano a seconda dell’epoca storica.
d) Il movimento di emancipazione reale che si realizza progressivamente attraverso la
storia, con balzi in avanti cui seguono gravi arretramenti, non è esclusivamente né
essenzialmente, e neanche soprattutto, il movimento di emancipazione spirituale. Non
è in primo luogo una conquista progressiva di libertà dello spirito, ma una conquista
progressiva di spazio materiale di vita e di libertà, di possibilità di godimento, fra cui i
piaceri spirituali, estetici, ecc. occupano sicuramente un posto rilevante. Ma la loro
soddisfazione è condizionata dalla soddisfazione preliminare degli elementari bisogni
di cibo, di protezione, di salute, dei bisogni sessuali, di istruzione, di accesso alla
cultura, ecc. Si tratta di liberare gli individui dai condizionamenti imposti loro dalla
stretta dipendenza dalle forze della natura. Si tratta di liberarli dalle costrizioni
imposte loro dalla stretta dipendenza da altri uomini.
e) La libertà spirituale dello schiavo è certamente vitale per la sua sopravvivenza. Ma la
lotta per la sua liberazione materiale, e cioè per l’abolizione della schiavitù come
istituzione sociale e di tutta la realtà sociale ad essa sottesa lo è di gran lunga di più. In
ogni caso, è presente nella storia un movimento reale di emancipazione materiale da
parte degli schiavi stessi. Il programma che Marx ed Engels si sono prefissi fin dalle
loro opere giovanili, e al quale sono rimasti fedeli per tutta la vita, è quello di
combatte tutte le istituzioni e tutte le condizioni nelle quali un essere umano è un
essere miserando, sfruttato, oppresso, alienato e quindi mutilo, incapace di
realizzare tutte le sue potenzialità umane. Si tratta dunque di una radicale rottura
con ogni utilizzazione apologetica della dialettica.
Il fondersi della dialettica materialista con le principali scoperte della storiografia
sociologica francese, alimentata a propria volta dalla principale acquisizione
dell’economia politica inglese – la centralità del lavoro sociale nell’esistenza umana
– ha permesso a Marx ed Engels di elaborare in maniera coerente la loro teoria del
divenire sociale dell’umanità: la teoria del materialismo storico, detta anche
“interpretazione materialista della storia”.
2. La trasformazione della storiografia sociologica francese
La constatazione che non sono “i grandi uomini a fare la storia”, ma che questa dipende
fondamentalmente da conflitti che contrappongono numerosi individui, cioè conflitti di forze
sociali, si è imposta alla storiografia fin dalle sue origini. In certi storici greci, ad esempio
Tucidide, troviamo già una formulazione simile: ogni città è divisa tra una città dei ricchi e
una città dei poveri, tra cui avviene una guerra permanente. Alcuni autori cinesi sono
rapidamente pervenuti alla stessa comprensione. La ritroveremo anche tra i maggiori
pensatori del mondo islamico, innanzitutto i grandi storici/sociologi Al Biruni e IbnKhaldoun, che giungono fino alla soglia del materialismo storico.
È l’esperienza delle grandi rivoluzioni borghesi, dal XVI al XVIII secolo, sono gli
insegnamenti che se ne traggono e che alimentano preoccupazioni politiche correnti, ad
indurre soprattutto la storiografia francese dell’inizio del XIX secolo a dar vita alle nozioni di
classi sociali e di conflitti tra classi sociali, vale a dire della lotta di classe, come strumenti
per capire il cammino della storia. Così, di volta in volta, maneggiano queste nozioni François
Quesnay, Augustin Thierry, Mignet, Guizot, Thiers, nei loro saggi sulla rivoluzione inglese,
sulla conquista dell’Inghilterra ad opera dei Normanni, sulla rivoluzione francese e sulla
restaurazione dei Borboni nel 1815.
Erano stati, del resto, preceduti su questa strada da alcuni altri inglesi e tedeschi, in particolare
Schiller nel suo studio sulla rivoluzione dei Paesi Bassi nel XVI secolo. Alcuni grandi
pensatori dell’Illuminismo, soprattutto Voltaire e Montesquieu, avevano già stabilito che la
storia è determinata in ultima analisi dalle condizioni materiali in cui si svolge. Essi
tendevano però a privilegiare le condizioni naturali (clima, situazione geografica, razze, ecc.)
e politiche (costituzionali) piuttosto che le condizioni sociali ed economiche. Jean-Jacques
Rousseau e Condorcet si spinsero più oltre lungo questa strada.
Il merito della storiografia sociologica consiste nella sistematica applicazione delle nuove
concezioni di classe, se non alla storia umana nel suo complesso, perlomeno a grandi fasi
della storia relative ad almeno uno o più secoli. In questo senso, si tratta di una vera e propria
rivoluzione nelle scienze sociali, che combina i progressi storiografici con una migliore
comprensione della struttura e della dinamica delle società. Marx ed Engels sono, grazie a
questo, gli eredi della storiografia sociologica francese, come lo sono della filosofia classica
tedesca.
Ma pur rappresentando incontestabilmente un grande progresso della scienza storica e di
quella della società, l’opera degli storici francesi dell’inizio del XIX secolo implica ancora
grandi lacune per quel che riguarda un’interpretazione scientifica della storia, come pure
alcune flagranti contraddizioni nella comprensione della realtà socio-politica – e dunque
storica – della loro epoca, quella del capitalismo trionfante:
a) I concetti di “classi sociali” e di “conflitto tra classi sociali” sono impiegati in modo
sostanzialmente descrittivo. Pur non negando la base materiale di questi conflitti, e pur
se questa è evidenziata correttamente, specie per quanto riguarda determinate
contrapposizioniscontri di classe nella società feudale (non tutte!), non si individua
chiaramente il nesso strutturale, organico, tra la collocazione delle classi sociali nella
società, innanzitutto nella produzione, i loro interessi materiali, il loro ruolo sociale e
le lotte politiche.
b) Le lotte ideologiche, gli scontri tra sistemi di idee, i “valori spirituali” (Dio, la
Religione, la Libertà con la “L” maiuscola, il Bene Comune, il Bello, o la Nazione) si
considerano in genere come sovrapposti ai conflitti di interessi materiali, come
disgiunti da questi, e come aventi un loro significato, che sarebbe intrinseco, o
addirittura di valore eterno.
c) Gli interessi e le lotte degli strati (classi) più poveri della società, che in passato non
sono mai riusciti ad imporsi in modo durevole, eterni sconfitti delle rivoluzioni o delle
lotte sociali e politiche, in genere non sono affrontati, o lo sono in maniera marginale.
Se vengono descritti, lo sono il più delle volte senza capirli, alla luce di pregiudizi,
quando non di espliciti odi di classe.
Malgrado i loro aspetti a volte grotteschi, in questo modo ogni generazione di cronisti
e di storici trasmette numerose calunnie alla generazione successiva. Citiamo
indistintamente e a caso: la leggenda secondo cui i Catari avrebbero sia rifiutato di
avere rapporti sessuali, sia praticato l’infanticidio su larga scala; la leggenda secondo
cui i popoli slavi dell’Alto Medioevo sarebbero stati incapaci di costituire Stati,
“qualità” che si presumeva riservata ai popoli germanici; la leggenda secondo cui gli
ebrei sarebbero privi di “doti marziali”; la leggenda secondo cui gli Anabattisti
avrebbero “socializzato le donne” a Münster; la leggenda secondo cui gli Indios
messicani avrebbero praticato il sacrificio umano su larghissima scala; la leggenda
sulla “crudeltà” dei Pelle-Rossa dell’America settentrionale, e quella della “pigrizia
congenita” dei Neri, che si sarebbero rifiutati di lavorare se non fossero stati sottoposti
alla schiavitù.
La storiografia – tranne quella influenzata dal marxismo – ha decisamente prodotto
una storia riscritta dai vincitori, a detrimento, insieme, della verità storica e dell’onore
dei vinti.
d) Più in particolare, l’applicazione delle stesse nozioni di classe e di lotta di classe
avviene in forma sempre più reticente, via via che si tratta di riferire sugli antagonismi
tra il Capitale e il Lavoro salariato; a mano a mano che si avvicina il XIX secolo e si
tratta di analizzare le lotte sociali contemporanee, storiografia e sociologia sfociano
così inevitabilmente nella politica. A partire da quel momento, e sotto la pressione
evidente dei loro stessi interessi di classe, i grandi storici/sociologi borghesi negano
che, operando in politica come fanno, difendono specifici interessi materiali, diversi
da quelli di altre classi sociali: Si trasformano improvvisamente in sostenitori di un
“Ordine Sociale” eterno, del “Bene Comune”, dell’“Interesse generale della nazione”,
dei “supremi valori spirituali”.
I loro avversari di classe non sono più presentati come tali, ma come “seminatori di
disordine”, come “anarchici sanguinari” (poi si dirà: “bolscevichi-con-il-coltello-tra-identi-e-che-tagliano-le-dita-ai-bambini-e-le-mettono-nella-zuppa”, ed anche: “quelli
che incarnano l’Impero del Male”), come “fautori della violenza”, insomma come
“barbari” che si oppongono alla “civiltà”. Gli ideologi politici razzisti e fascisti
diranno ancor più nettamente: dei “subumani”, esseri privi della qualità umana, il che
permette di giustificare il modo disumano con cui sono trattati questi avversari.
e) Non si rivelano le origini delle classi sociali e dello Stato. Di colpo, le classi sociali e
lo Stato vengono presentati come più o meno eterni, tranne forse negli stadi più
primitivi dell’esistenza umana. Se ne considera impossibile la scomparsa, o “contraria
alla natura umana”.
Sviluppando la teoria del materialismo storico, Marx ed Engels hanno superato questa lacune
e queste contraddizioni della storiografia sociologica francese, così come hanno arricchito e
precisato i concetti di classi sociali e di lotta di classe:
a) Le classi sociali non sono istituzioni sociali eterne e inamovibili della società
(dell’esistenza) umana. Sorgono in una fase determinata dello sviluppo della società.
Si sviluppano e si trasformano di formazione sociale in formazione sociale. Sono
chiamate a sparire. L’organizzazione sociale passa e passerà per gli stadi successivi
della società primitiva senza classi, di differenti forme di società di classe, e della
futura società (comunista) senza classi.
b) Per capire questo percorso generale della storia, cioè l’origine, lo sviluppo, l’acuirsi e
il deperire della divisione in classi della società, bisogna partire dalla priorità, per il
genere umano come per qualsiasi specie vivente, della sopravvivenza materiale.
Tuttavia, in questo distinguendosi da tutte le altre specie, la specie umana produce
essa stessa la propria sopravvivenza (la sua normale sussistenza e la riproduzione della
specie) attraverso l’azione collettiva deliberata: il lavoro sociale. Esso crea un
prodotto sociale che si suddivide in prodotto necessario e in sovraprodotto sociale.
Il prodotto necessario consente di mantenere (quindi di riprodurre) la forza lavoro e gli
strumenti lavorativi esistenti. Il sovraprodotto sociale è l’insieme dei beni
comunemente prodotti non indispensabili a questo mantenimento. Finché il
sovrapprodotto sociale è insignificante, è impossibile la divisione della società in
classi, se questo vuol dire che una frangia della società si svincola dalla necessità di
produrre la propria sussistenza (è mantenuta grazie al sovraprodotto sociale). Finché il
sovraprodotto sociale è reale, anche crescente, ma insufficiente per liberare la
stragrande maggioranza della società dall’obbligo di dedicare l’essenziale dei suoi
sforzi alla produzione/riproduzione della sua esistenza materiale (dell’esistenza
materiale di tutta la società), è inevitabile la divisione della società in classi. A partire
dal momento in cui il sovraprodotto sociale diventa così ampio e rilevante che il
prodotto necessario non è più se non il risultato di uno sforzo molto ridotto (alcune ore
di lavoro al giorno), nasce la base materiale per l’avvento della società senza classi.
c) L’ampiezza del prodotto sociale, e quindi anche del sovraprodotto sociale, è in ultima
analisi funzione della produttività sociale del lavoro. Il progresso economico è
misurabile con questa produttività del lavoro, nonché con la speranza media di vita (la
longevità relativa) degli esseri umani. Il livello della produttività media del lavoro
dipende essenzialmente dal livello di sviluppo delle forze produttive, vale a dire
delle forze produttive oggettive (utensili, strumenti di lavoro, ecc.) e delle forze
produttive umane (numero e qualificazione dei/delle produttori/produttrici). La tecnica
di produzione (tecnologia) è per questo funzione del combinarsi di questi due
elementi, quindi codeterminata dai livelli delle conoscenze tecnologiche (più o meno
scientifiche) e culturali accumulate.
Per questo, la liberazione di una parte della società dalla necessità di dedicare
l’essenziale del proprio tempo alla produzione dei mezzi di sussistenza, nell’accezione
ampia del termine – dunque l’esistenza delle classi dominanti, possidenti – non è solo
sfruttamento e spoliazione, anche se in primo luogo lo è. Essa corrisponde anche
all’oggettiva necessità, per la società, di assicurare l’accumulazione, la trasmissione,
l’accesso alle conoscenze e la possibilità del loro ampliamento. Questa funzione
sociale si può chiamare accumulazione.
A partire da un certo punto dello sviluppo sociale (sviluppo delle forze produttive), la
funzione dell’accumulazione, un tempo esercitata dalle piccole comunità in modo
collettivo e gratuito, viene accaparrata da una frangia della società che si appropria
nello stesso tempo dei mezzi di produzione e di una parte del sovraprodotto sociale a
fini di consumi improduttivi (molto spesso con sperpero). È la base sociale e la
funzione sociale delle classi dominanti. Esse vivono del lavoro altrui,
monopolizzando le funzioni di gestione e accumulazione.
d) Nella produzione della loro vita materiale, nell’organizzazione del lavoro sociale, gli
esseri umani e, a partire da un certo stadio di sviluppo, le classi sociali, instaurano tra
loro determinati rapporti, che Marx ed Engels chiamano rapporti di produzione. Ogni
forma di società, ogni concreta formazione sociale sono contraddistinte da questi
rapporti specifici di produzione, i quali determinano l’insieme dei “rapporti
economici”, vale a dire non solo la produzione immediata, ma anche la circolazione
dei beni e il modo di avere accesso a questi, la forma di appropriazione degli strumenti
di lavoro per la produzione (le unità produttive). L’insieme di tali rapporti di
produzione determina in ultima istanza l’insieme dei rapporti sociali – nella società di
classe – e per ciò stesso anche la struttura della società. È la prima tesi centrale del
materialismo storico.
e) Rapporti stabili di produzione, che si riproducono più o meno automaticamente,
costituiscono distinti modi di produzione. Marx ed Engels individuano una serie di
modi di produzione: quello del comunismo primitivo dell’orda, del clan e della tribù;
il modo schiavista di produzione; il modo di produzione asiatico (oggi i marxisti
preferiscono prevalentemente il termine: modo di produzione tributario); il modo di
produzione feudale; il modo capitalistico di produzione; il modo di produzione
comunista (la cui prima fase sarà costituita dal socialismo compiuto).
Tra questi distinti modi di produzione storicamente distinti, che tuttavia non si
susseguono in modo lineare, né necessariamente nell’ordine indicato, si intercalano
generalmente fasi di transizione caratterizzate da rapporti di produzione meno stabili,
da una più ampia potenzialità di sviluppo. Marx ed Engels chiameranno, ad esempio,
la fase di transizione fra il feudalesimo e il capitalismo “piccola produzione
mercantile”, che ha già conosciuto peraltro un primo slancio al momento dell’apogeo
del modo di produzione schiavista.
Il modo di produzione, tuttavia, è una struttura, non può essere sostanzialmente
modificato in modo graduale. Può essere rovesciato solo da una rivoluzione. Va tra
l’altro notato che, anche quando si è stabilizzato un nuovo modo di produzione,
rapporti di produzione che rappresentano sopravvivenze del passato possono coabitare
con i rapporti di produzione tipici del nuovo modo di produzione. L’affermazione del
nuovo modo di produzione, però, implica appunto che i rapporti di produzione che ne
sono tipici siano egemoni, incorporino tali sopravvivenze e finiscano per assimilarle
(legge dello sviluppo disuguale e combinato).
f) Un modo di produzione “progressista”, superiore cioè a quello che sostituisce dal
punto di vista della civiltà materiale e della cultura, deve alla fine imprimere un
impulso maggiore allo sviluppo delle forze produttive, permettere cioè alla società
di risparmiare lavoro, di ridurre lo sforzo fisico. (Nella società divisa in classi, sono
soprattutto le classi dominanti ad approfittarne per allargare i loro svaghi, i loro
consumi, la loro cultura. Ma le classi produttive possono battersi con un certo successo
per partecipare in modesta misura a questo progresso). È ciò che generalmente
succede nelle fasi di consolidamento e di ascesa di un determinato modo di
produzione. Ma in ragione delle caratteristiche, delle leggi di sviluppo interne, delle
contraddizioni intrinseche di ogni modo di produzione, a queste fasi inevitabilmente
ne succede una di declino. In queste fasi di declino, i rapporti di produzione
esistenti diventano ostacoli ad ogni passo avanti delle forze produttive, sia che
queste cessino di crescere, sia che la loro crescita avvenga “minando”, destabilizzando
in modo sempre più esplosivo, i rapporti di produzione, la struttura sociale, l’“ordine
sociale” esistenti. Si apre allora un periodo di crisi sociale acuta e sempre più
generalizzata, di rivoluzioni e controrivoluzioni sociali.
g) Non vi è alcun nesso automatico tra il livello di sviluppo raggiunto dalla forze
produttive, da un lato, e il mantenimento o la sostituzione dei rapporti di produzione e
del modo di produzione esistenti, dall’altra parte, se non in senso più generale, e cioè
che questo livello limita il ventaglio delle forme di organizzazione sociale possibili (la
fabbrica moderna e il mercato mondiale non erano possibili con la tecnologia del 100
a. C., la schiavitù non si può generalizzare sulla base dell’odierna tecnologia
industriale, il comunismo era impossibile con le tecniche dei secoli XV e XVI, ecc.).
La mediazione tra i due, è la lotta di classe reale e i risultati complessivi in cui
sfocia in determinati momenti.
Gli uomini e lw donne fanno la loro storia. Non la fanno sgombri da ogni
costrizione materiale e con un arco infinito di possibilità. Ma la fanno, e il processo
storico concreto dipende in primo luogo dai risultati delle loro lotte (“fattore
soggettivo della storia”), anche se queste lotte sono “sovradeterminate” da una serie di
fattori storico-sociali sui quali non hanno direttamente incidenza (i “fattori oggettivi
della storia”). Tuttavia, la “sovradeterminazione” non è mai tale da non aprire la strada
se non a un’unica possibilità storica. Marx ed Engels hanno quindi messo in rilievo
come da periodi di rivoluzione sociale acuta – nella fase di declino di un modo di
produzione – possano nascere sia un modo di produzione superiore, un’organizzazione
sociale superiore dal punto di vista della vita e della sopravvivenza del genere umano,
grazie alla vittoria della classe rivoluzionaria, sia la decomposizione congiunta delle
classi sociali in lotta e la generale decadenza della società. È ciò che è accaduto in
particolare con il declino del modo di produzione schiavista nell’antichità. È il
fondamento storico dell’alternativa “socialismo o barbarie”, quella di fronte a cui ci
troviamo attualmente.
h) La lotta di classe è sempre una lotta di classe complessiva, nella maggior parte delle
sfere di attività sociale se non in tutte, indipendentemente dalla consapevolezza che ne
hanno (o non ne hanno) coloro che vi partecipano. Uomini e donne, infatti non
possono stringere rapporti di produzione tra loro senza stabilire al tempo stesso
rapporti di comunicazione. Tutto quel che gli esseri umani fanno e producono “passa
per la loro testa”, è accompagnato da rappresentazioni “ideologiche” (sotto forma di
idee, di sistemi di idee, di speranze, di timori e di altri moti affettivi) che a loro volta
ne influenzano le azioni materiali. Questi “sistemi di rappresentazione del mondo
materiale nella testa degli esseri umani” costituisce parte della sovrastruttura
ideologica di ogni società. È la base sociale (l’infrastruttura), sono i rapporti
sociali di produzione, a determinare in ultima istanza la sovrastruttura sociale, a
determinare cioè lo sviluppo e le forme predominanti del diritto, dei costumi, della
religione, della filosofia, delle scienze, dell’arte, della letteratura di ogni epoca. È
l’esistenza sociale a condizionare la coscienza sociale. Ecco la seconda tesi centrale
del materialismo storico. Poiché la classe dominante controlla il sovraprodotto
sociale e quindi l’intera società, l’ideologia della classe dominante è generalmente
l’ideologia dominante di ogni epoca.
Questo tuttavia non vuol dire che questa sia la sola ideologia esistente in quella data
epoca. Accanto ad essa permangono residui delle ideologie delle vecchie classi
dominanti che possono sopravvivere a lungo dopo la fine della loro dominazione.
Possono esistere ad esempio ideologie di classi intermedie (ad esempio della piccola
borghesia nella società capitalistica) e ideologie di nuove classi in ascesa,
rivoluzionarie rispetto alle classi dominanti esistenti. In genere, un’intensa lotta di
classe ideologica precede e dischiude un’epoca storica di rivoluzione sociale. Prima
però della fase stessa della rivoluzione è impossibile per una classe sociale conquistare
l’egemonia ideologica senza controllare il sovraprodotto sociale, senza cioè
l’egemonia economica. Per questo la borghesia, che aveva prosperato largamente sotto
la monarchia assoluta, poteva diventare ideologicamente egemone prima della vittoria
della rivoluzione borghese, mentre il proletariato non può conquistare un’egemonia
paragonabile prima della rivoluzione che rovesci lo Stato borghese ed espropri il
Capitale.
i) Lo Stato è un prodotto della divisione in classi della società, uno strumento di
consolidamento, di conservazione e di riproduzione della dominazione di una
determinata classe. Ecco la terza tesi centrale del materialismo storico. Lo Stato
non è consustanziale a “società organizzata” o a “civiltà” nell’accezione ampia del
termine. Non è sempre esistito, né sempre esisterà. L’analisi delle origini, dello
sviluppo specifico e del possibile deperimento dello Stato costituisce uno dei
principali contributi del marxismo alle scienze della società.
Le istituzioni statuali sono una componente essenziale della sovrastruttura sociale, e
implicano al tempo stesso elementi di costrizione (esercito, apparati repressivi,
giustizia) ed elementi indispensabili per rendere accettabile per le classi produttive lo
sfruttamento e l’oppressione di classe che subiscono, a mascherare e a “legittimare” la
natura di strumenti di sfruttamento e di oppressione di queste istituzioni. È grosso
modo la funzione delle ideologie dominanti cui abbiamo accennato, e della loro
trasmissione attraverso istituzioni quali l’insegnamento, le Chiese, i mezzi di
comunicazione di massa, la pubblicità in seno alla società borghese. Per ciò stesso,
ogni lotta di classe estesa se non generalizzata è per forza una lotta politica indipendentemente dalla coscienza che ne hanno i protagonisti - , una lotta per la
conservazione, l’indebolimento, o l’effettivo rovesciamento di un determinato potere
statuale, del potere politico di una determinata classe.
l) Tra il rovesciamento del potere statuale e del predominio economico della borghesia si
intercala una fase storica di transizione caratterizzata dalla dittatura del proletariato,
vale a dire dall’esercizio del potere statuale ad opera della classe dei lavoratori
salariati. Essa ha la funzione di impedire che i vecchi sfruttatori riconquistino il potere,
e di organizzare l’economia e la società in vista dell’emancipazione dell’umanità
grazie alla riorganizzazione progressiva e cosciente di tutti gli ambiti dell’attività
sociale, a partire dalla produzione materiale, la distribuzione di beni e servizi, la
gestione dell’economia e dello Stato ad opera degli stessi produttori, la diffusione
della cultura (accesso universale alle conoscenze e alle informazioni), ecc.
3) La trasformazione dell’economia politica inglese
L’assimilazione critica della storiografia sociologica francese aveva portato Marx ed Engels a
collegare i concetti di classi sociali e di lotta di classe a quelli di lavoro sociale e prodotto
sociale. Essi furono spinti, così, ad affrontare i problemi della scienza economica e
dell’analisi economica, al cui interno hanno occupato uno spazio centrale la questione dello
scambio e la sua spiegazione. Dopo qualche esitazione da parte di Marx, si riallacciarono alla
tesi di fondo della scuola economica classica inglese: lo scambio si basa sull’equivalenza (il
confronto) delle quantità di lavoro contenute nelle merci.
La teoria cosiddetta del valore-lavoro ha radici antiche. Era stata grossolanamente
sperimentata nel Medioevo da alcuni teorici scolastici (Tommaso d’Aquino, Alberto Magno)
ed islamici (Ibn Kaldoun). Venne affinata nel XVII secolo da William Petty, ed ottenne poi la
sua forma definitiva nel XIX secolo nell’opera di Adam Smith e all’inizio del XIX secolo in
quella di David Ricardo.
Teoria della borghesia in ascesa e rivoluzionaria, l’economia politica classica si
contraddistinse per l’atteggiamento aperto e franco nei riguardi dei problemi da risolvere.
Affrontò subito la vita economica sotto il capitalismo come un fenomeno oggettivo che
occorreva spiegare, e non come un insieme di principi o di valori “morali” da accettare o
condannare. Ammise che, come ogni scienza, quella economica dovesse partire dai dati
empirici immediati (in particolare dai prezzi) per capire le leggi che spiegano i processi
economici. Così, giustamente collocò il valore delle merci al centro della spiegazione. In
Adam Smith, del resto, le origini storiche dell’economia di mercato costituiscono almeno uno
dei fondamenti della validità della teoria del valore-lavoro.
L’idea che solo il lavoro sia produttivo di valore era stata piegata dai Fisiocratici francesi del
XVIII secolo (Quesnay, Turgot) in un’accezione specifica: soltanto il lavoro agricolo sarebbe
stato produttivo. Il restringimento del concetto rifletteva chiaramente il prevalere
dell’agricoltura sull’industria nella Francia prerivoluzionaria. Essa tuttavia suscitò progressi
notevoli della scienza economica rispetto all’acquisizione dell’economia politica inglese: i
redditi delle classi dominanti (proprietari fondiari e commercianti/industriali) furono concepiti
come detrazione del prodotto del lavoro della sola classe produttiva (per i fisiocratici: la
classe contadina); la vita economica fu ripresentata nell’insieme come un flusso e riflusso di
prodotti e di redditi che governano sia la produzione presente sia quella futura, cioè la
riproduzione. Marx si sarebbe ispirato a questi avanzamenti per perfezionare la propria teoria
economica.
Doveva infatti risolvere parecchie contraddizioni e debolezze di fondo, per le quali Adam
Smith e Ricardo non avevano trovato soluzioni:
a) La loro stessa definizione del valore era incompleta, insoddisfacente e caduca. Per
l’economia politica inglese classica, il valore era, in fondo, un semplice strumento di
misura, un sistema che consente di ridurre a un solo “fattore” i diversi elementi di
costo delle merci o i redditi delle diverse classi sociali. Smith e Ricardo non risposero
alla domanda: quale è l’essenza, la natura di questo misterioso valore?
b) L’imprecisione sulla natura del valore porta Smith a un’inevitabile contraddizione –
un vero e proprio circolo vizioso – nel tentativo di misurare questo valore
quantitativamente. In Ricardo la contraddizione è superata solo in parte. Per Adam
Smith, infatti, il lavoro determina il valore delle merci. Ma il “valore del lavoro” è per
parte sua determinato dal salario. L’impasse è evidente non appena ci si pone la
domanda: che cosa determina il valore del salario, vale a dire quello dei viveri (merci
di sussistenza) che l’operaio acquista con il proprio salario?
c) L’economia capitalistica è vista come se fosse essenzialmente statica. Le uniche
perturbazioni dell’equilibrio previste sono quelle derivanti o da un’imperfezione della
concorrenza, cioè la sopravvivenza di ogni genere di monopoli, o quelle dipendenti da
fenomeni monetari. Non si coglie minimamente, per non dire si spiega, la dinamica di
fondo della concorrenza come fonte dello squilibrio semicostante tra offerta e
domanda, con l’una che supera quasi sempre l’altra, e lo sbocco in crisi periodiche di
sovrapproduzione. Questo non riflette solamente il fatto che sia Smith che Ricardo
siano vissuti prima che il fenomeno delle crisi cicliche si fosse manifestato in tutta la
sua pienezza, ma è dovuto innanzitutto all’incomprensione di fondo del modo in cui la
concorrenza capitalistica si basi, nel processo di produzione, sulla costante
trasformazione della tecnologia e dunque dei costi di produzione, vale a dire su rapide
trasformazioni del valore delle merci.
d) La teoria del salario propria dell’economia politica classica – teoria di Malthus e
Ricardo – è anch’essa sostanzialmente statica. Il salario oscilla intorno al minimo
vitale fisiologico. Si tratta, del resto, di una teoria meno economica che non
demografica del salario. Si crede che siano le fluttuazioni della natalità e della
mortalità infantile a regolare l’offerta di manodopera sul “mercato del lavoro”. Ogni
aumento dei salari oltre il minimo vitale fisiologico provocherebbe un aumento di
questa offerta sufficiente a comportare la diminuzione dei salari, che ricadrebbero così
più o meno automaticamente verso il minimo fisiologico. Il socialista tedesco
Ferdinand Lassalle riprenderà questa errata teoria dei salari nella formula della “legge
ferrea dei salari” (Eisernes Lohngesetz). Andrebbe sottolineato come questa teoria dei
salari, basandosi su quanto avviene in una economia capitalistica ancora
essenzialmente preindustriale o subindustriale (enorme sottoccupazione permanente e
strutturale), razionalizzi l’interesse della giovane borghesia e i suoi tentativi di fare
scendere i salari a un bassissimo livello (pauperizzazione assoluta del proletariato).
e) Il principale esponente dell’economia politica classica, David Ricardo, sostiene
un’errata teoria della moneta: la cosiddetta teoria quantitativa della moneta, che
introduce una contraddizione di fondo in tutta la sua analisi economica (nell’intero suo
sistema di pensiero). Da un lato, Ricardo è un sostenitore sistematico e coerente della
teoria del valore-lavoro. Secondo lui, il valore di tutte le merci è determinato dalla
quantità di lavoro che rappresentano. Dall’altro lato, tuttavia, il valore della moneta
aurea è determinato dalla quantità d’oro in circolazione. È però incontestabile che
anche l’oro è una merce frutto del lavoro umano. Come è allora possibile che il suo
valore non sia determinato dalla quantità di lavoro che contiene, ma dall’ampiezza
della sua circolazione?
f) L’economia classica tedesca si ritiene sostanzialmente oggettiva. Essa rende conto di
ciò che è, a volte in modo brusco tanto da sfiorare il cinismo, specie
nell’identificazione del lavoro produttivo con il “lavoro” produttore di profitto. Ma
quando si scontra con la realtà della lotta operaia e dell’organizzazione operaia,
soprattutto in favore degli aumenti salariali e della riduzione dell’orario di lavoro,
smette improvvisamente di limitarsi a rendere conto di una realtà innegabile e
ridiventa normativa, soggettiva, moraleggiante. Tende a condannare le organizzazioni
e le lotte operaie come “ostacoli per la concorrenza”, “cospirazioni”, “utopie contrarie
alle leggi economiche” (leggi del mercato) inesorabili, “attentati all’ordine pubblico”,
ecc. A questo scopo, deve negare un aspetto fondamentale della realtà economica e
sociale che i suoi più lucidi esponenti, la “sinistra radicale” (i discepoli più radicali di
David Ricardo), tendono invece a svelare: cioè, la natura sfruttatrice del modo
capitalistico di produzione, che acuisce inevitabilmente lo scontro di classe tra padroni
e salariati/e, portando non meno inevitabilmente questi ultimi a raggrupparsi, a
coalizzarsi, per difendere i loro interessi. Se la libertà (borghese) implica il diritto di
tutti/e di sostenere i propri interessi economici “egoistici”, perché i/le salariati/e non
dovrebbero godere del medesimo diritto? Perché sarebbe legittimo che i padroni
cerchino di aumentare i loro profitti e non sarebbe legittimo che i/le salariati/e
cerchino di aumentare i loro salari?
Marx ed Engels sono riusciti a superare tutte queste contraddizioni insite nell’economia
politica classica grazie a due fondamentali scoperte scientifiche di Marx e alle conseguenze
che ne derivano: l’elaborazione di un sistema coerente di analisi economica che comporta la
spiegazione e la critica coerenti, senza pecche, del sistema capitalistico di produzione e delle
sue tendenze di sviluppo.
Marx ha stabilito che il lavoro non è innanzitutto l’unità per la comune misura di tutti gli
elementi dei costi di produzione delle merci. È l’essenza stessa del valore. Il valore è lavoro,
più precisamente una frazione del potenziale lavorativo (della massa delle giornate/ore di
lavoro) disponibile in una data società per un dato periodo.
Ogni società umana vive e sopravvive grazie a questo lavoro sociale astratto (facendo
astrazione, cioè, dalla professione specifica di ogni singolo lavoratore). In una società basata
sulla proprietà privata, il potenziale sociale lavorativo nel suo complesso è frammentato in
lavori privati effettuati da individui o da unità produttive indipendentemente tra loro. La
suddivisione dei compiti (frammentazione del lavoro sociale complessivo) non avviene in
modo consapevole, ma spontaneo. Viene poi corretta tramite la mediazione del mercato. Gli
individui devono far riconoscere il lavoro che hanno effettivamente eseguito come lavoro
sociale. Il lavoro privato è sempre una particella del lavoro sociale, ma ogni quantità di lavoro
privato non è riconosciuta automaticamente come tale. È appunto il valore delle merci a
governare questo riconoscimento. Il valore delle merci è la quantità di lavoro socialmente
necessario a produrle (la formula “socialmente necessario” si basa sulla produttività media
del lavoro in ogni singola branca produttiva).
Da questa prima grande scoperta di Marx ne discende un’altra. Il/la salariato/a, il/la
proletario/a, non vendono “lavoro” ma la loro forza lavoro, la loro capacità di produzione. . È
questa forza lavoro che la società borghese trasforma in merce. Essa ha quindi un suo proprio
valore, oggettivamente dato come il valore di ogni altra merce: i propri costi di produzione, le
proprie spese di riproduzione. Come ogni merce, essa ha un’utilità (valore d’uso) per il suo
acquirente, utilità che è la precondizione della sua vendita, ma che non determina
assolutamente il prezzo (il valore) della merce venduta.
Ora, l’utilità, il valore d’uso, della forza lavoro per il suo acquirente, il capitalista, è appunto
quella di produrre valore, poiché per definizione ogni lavoro in una società mercantile
aggiunge valore al valore delle macchine e delle materie prime alle quali si applica. Ogni
salariato produce, dunque, “valore aggiunto”, Poiché, però, il capitalista paga un salario
all’operaio e all’operaia – il salario che rappresenta il costo di riproduzione della forza lavoro
– acquisterà questa forza lavoro solo se il “valore aggiunto” dall’operaio o dall’operaia supera
il valore della forza lavoro stessa. Marx chiama plusvalore questa frazione di lavoro
nuovamente prodotta dal salariato. Il plusvalore è la differenza tra il valore nuovamente
prodotto dalla forza lavoro e il valore proprio di questa forza lavoro, vale a dire la differenza
tra il valore nuovamente prodotto dal/dalla lavoratore/lavoratrice e i costi di
riproduzione della forza lavoro.
Il plusvalore, cioè la somma totale dei redditi della classe possidente (profitti + interessi +
rendita fondiaria), è quindi la deduzione (o il residuo) del prodotto sociale, una volta garantita
la riproduzione della forza lavoro, una volta coperte le spese del suo mantenimento. Non è
quindi nient’altro se non la forma monetaria del sovraprodotto sociale, che costituisce la parte
delle classi possidenti nella ripartizione del prodotto sociale dell’intera società classista: i
redditi dei proprietari di schiavi in una società schiavista; la rendita fondiaria feudale in una
società feudale; il tributo nel modo di produzione tributario, ecc.
La scoperta del plusvalore come categoria fondamentale della società borghese e del suo
modo di produzione, nonché la spiegazione della sua natura (risultato del pluslavoro, del
lavoro non compensato, non retribuito, fornito dal salariato) e delle sue origini (costrizione
economica per il /la lavoratore/lavoratrice a vendere la propria forza lavoro come una merce
al capitalista) costituiscono il principale apporto di Marx alla scienza economica e alle scienze
sociali in generale. Essa tuttavia costituisce a sua volta l’applicazione della teoria perfezionata
del valore-lavoro allo specifico caso di una particolare merce, la forza lavoro.
La rigorosa applicazione della teoria del valore-lavoro al caso della merce “forza lavoro”
richiede tuttavia un’analisi più approfondita delle peculiarità di questa merce. La “forza
lavoro”, la capacità lavorativa, non è solo una capacità semplicemente fisica che si possa
completamente misurare in termini di energia (consumo di calorie e produzione di energia che
queste consentono). L’operaio e l’operaia non sono solamente dotati di muscoli, ma anche di
nervi e di un cervello; se la riproduzione della loro capacità di lavoro puramente fisica è
indispensabile perché effettuino il lavoro che si aspetta il padrone da loro, è perlopiù
insufficiente a garantire, da sola la quantità di lavoro che il padrone vuole ottenere.
Il lavoro domestico delle donne nella famiglia contribuisce alla riproduzione della forza
lavoro, di generazione in generazione, di pasto in pasto, da malattia a malattia, ecc., ma non
producendo merci non entra nella contabilità delle quantità di lavoro spese per la produzione
di merci in un’economia di mercato, contabilità che Marx studia e spiega, senza
evidentemente approvarla o identificarsi con essa.
L’utilizzazione piena della forza lavoro dipende inoltre dall’applicazione e dall’attenzione che
non sono dati puramente fisiologici. L’operaio o l’operaia devono essere disposti a lavorare a
un certo ritmo, con una certa applicazione ed attenzione, con un minimo di qualificazione
(tranne per la manodopera meno pagata, ecc.). Tutte queste condizioni richiedono a loro volta
“spese di riproduzione” che rientrano nella determinazione del salario. È evidente per i costi
di qualificazione (apprendistato, ecc.), ma vale anche per un minimo di attenzione, di
applicazione, di cura prestata all’utensile, ecc.
Certamente, i capitalisti cercano di ottenere queste qualità al minor costo, grazie alla paura
degli operai di perdere il loro posto di lavoro, con la disciplina imposta dal personale di
controllo (capireparto, capetti, cronometristi, ecc.). Tuttavia, l’esperienza conferma che queste
qualità supplementari della forza lavoro, al di là della semplice capacità fisiologica di
produrre energia, richiedono a loro volta una serie di beni e servizi di consumo per essere
normalmente prodotte e riprodotte.
Quindi, il valore della forza lavoro comporta due elementi, il valore di due categorie di merci:
quelle che consentono di soddisfare le esigenze fisiche più elementari dell’operaio, che
assicurano cioè il minimo vitale nel più stretto senso del termine, e quelle che consentono di
soddisfare bisogni che Marx chiama “morali-storici”, incorporati nel salario medio grazie allo
sviluppo storico, alle lotte operaie, e che variano da paese a paese e di epoca in epoca.
Lungi dallo scendere automaticamente e in permanenza verso il minimo fisiologico, i salari
oscillano dunque, secondo Marx, e tendono, sia in funzione della congiuntura economica sia
in funzione della tendenza a lungo termine di questo elemento “morale-storico” che
comprendono, a crescere o a contrarsi. Le oscillazioni hanno come paletto il minimo
fisiologico assoluto, al di sotto del quale la capacità fisica di lavoro dell’operaio si deteriora
(perde peso, sviene sul lavoro, si ammala). Hanno per tetto il livello a partire dal quale
sparisce il profitto.
La teoria dei salari di Marx stabilisce che i salari oscillino, da un lato, a seconda dell’entità
dell’esercito industriale di riserva (l’ampiezza della disoccupazione e la massa dei/delle
salariati/e potenziali ma non virtuali, ad esempio le casalinghe disposte a vendere la propria
forza lavoro, la sovrappopolazione rurale, ecc.) e, dall’altro lato, a seconda degli effetti
periodici delle lotte tra il Capitale e il Lavoro salariato sui rapporti di forza tra queste classi.
Le oscillazioni dell’esercito industriale di riserva sono determinate in ultima analisi dagli alti
e bassi dell’accumulazione del capitale. Si tratta quindi di un progresso enorme rispetto alla
teoria dei salari di Malthus-Ricardo, perché non è più l’andamento demografico da solo ma
l’insieme della dinamica economica del capitalismo a determinare ora la dinamica salariale
(non solo la dinamica dell’offerta di manodopera ma anche quella della domanda di
manodopera).
Inserendo inoltre le periodiche modifiche dei rapporti di forza tra il Capitale e il Lavoro nella
determinazione dei salari, Marx ed Engels superano il determinismo economico
meccanicistico e angusto dell’economia politica classica. La lotta di classe diventa una
determinante (variabile) parzialmente autonoma del divenire del modo capitalistico di
produzione. Si instaura una vera e propria dialettica tra le forze motrici economiche di questo
modo di produzione e la lotta di classe. L’analisi economica consente così di spiegare e
legittimare al contempo la lotta operaia da un punto di vista oggettivo, scientifico. La scienza
diventa un’arma di lotta proletaria.
Anche il modo in cui Marx risolve le contraddizioni della teoria ricardiana della moneta
rappresenta un progresso considerevole della scienza economica. Per Marx, soltanto una
merce che abbia il suo proprio valore (il suo valore intrinseco) può costituire il “pilastro” del
sistema monetario. Questa merce è l’oro. Avendo l’oro un suo proprio valore (il numero di
ore di lavoro socialmente necessario a produrre un oncia d’oro), i prezzi evolvono a lungo
termine in funzione del rapporto tra l’andamento della produttività del lavoro nell’industria e
nell’agricoltura, da un lato e quello della produttività del lavoro nelle miniere aurifere,
dall’altro lato. La teoria quantitativa della moneta non ha alcuna validità per la moneta
metallica.
Se vi è “eccedente” aureo in un paese, rispetto alle esigenze della circolazione e dei
pagamenti dovuti, l’oro “non perde” il suo valore: Viene in parte ritirato dalla circolazione,
tesaurizzato. Nella teoria marxista della moneta, le funzione delle riserva auree (quantità di
moneta tesaurizzate) svolgono il ruolo di regolatore che (ri)stabilisce l’equilibrio tra la massa
monetaria in circolazione e il valore della merce con la quale si deve scambiare, tenendo
conto dei pagamenti da effettuare e della rapidità di circolazione di questa moneta. Tuttavia,
in stretta applicazione della teoria del valore-lavoro, la moneta cartacea, quanto a lei, perde
effettivamente “valore” – vale a dire che un’unità di moneta cartacea rappresenta una minore
quantità d’oro – se la si emette in eccesso (inflazione di carta-moneta).
Partendo da queste due scoperte scientifiche, Marx è riuscito a sviluppare le principali
tendenze di sviluppo del modo di produzione capitalistico, di cui hanno brillantemente
confermato la validità 125 anni di storia economica e sociale dopo la redazione del tomo 1 del
Capitale:
a) La tendenza a rivoluzionare continuamente la tecnica di produzione e l’organizzazione
del lavoro attraverso un progresso tecnologico che punta fondamentalmente a
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
i)
l)
risparmiare il lavoro (labor-saving), che cioè sostituisce fondamentalmente il lavoro
vivo con macchine.
La tendenza a subordinare tutte le decisioni di investimento delle imprese alla ricerca
di ulteriori profitti. Il capitale è assetato di plusvalore perché il plusvalore è la sola
fonte ultima dei profitti, e l’ascesa verso la massimizzazione dei profitti dipende
inevitabilmente dalla concorrenza e dalla proprietà privata.
L’accumulazione del capitale (la crescita della massa dei capitali) è il fine e lo sbocco
non meno inevitabile di tutti i meccanismi economici capitalistici.
L’accumulazione del capitale assume la forma della concentrazione e della
centralizzazione progressive dei capitali. I capitali crescono di ampiezza. Al tempo
stesso, tuttavia, un numero crescente di piccoli e medi capitalisti sono fagocitati da un
numero sempre più ridotto di società gigantesche.
Nella crescita dei capitali, la quota di questi destinata all’acquisto della forza lavoro
(capitale variabile) cresce meno rapidamente di quella destinata all’acquisto di
macchine, materie prime e ausiliarie, energia, ecc. (capitale costante). La
composizione organica del capitale (rapporto capitale costante/capitale variabile)
tende, alla lunga, ad aumentare.
Il rapporto tra la frazione del plusvalore complessivo assegnato ad ogni branca di
attività capitalista e i capitali che vi sono investiti tende a diventare pari: è la tendenza
alla perequazione del saggio di profitto, al formarsi di un saggio medio di profitto,
perlomeno in ogni paese e per un determinato periodo.
Il saggio medio di profitto tende a diminuire con il crescere della composizione
organica del capitale: la tendenza al calo è compensata da una serie di forze operanti in
senso inverso, innanzitutto la crescita del saggio di sfruttamento della forza lavoro, la
crescita del saggio del plusvalore (rapporto tra il pluslavoro e il lavoro necessario nel
processo di produzione corrente). Ma, alla lunga, la tendenza alla diminuzione prevale.
Dalla diminuzione del saggio medio di profitto derivano inevitabilmente periodiche
crisi di sovrapproduzione di merci e di sovraccumulazione di capitali, che finora si
sono verificate 21 volte dal 1825, vale a dire dopo la prima crisi sul mercato mondiale
dei prodotti industriali. La durata del “ciclo industriale” (susseguirsi di fasi di crisi, di
stagnazione, di ripresa economica, di prosperità, di surriscaldamento e di crisi) è
variata finora tra i 6 e i 9 anni, una media cioè di 7 anni e mezzo.
Analogamente alle crisi economiche, le crisi sociali, cioè lotte periodiche di grande
ampiezza tra il Capitale e il Lavoro, sono inevitabili in regime capitalistico, data la
tendenza del capitale ad aumentare i profitti a spese dei salari e a provocare crisi e
disoccupazione, e la non meno inevitabile risposta dei/delle lavoratori/lavoratrici
salariati/e che cercano di difendere e di aumentare i salari e di ridurre la durata media
del lavoro.
Crisi politiche periodiche, cioè mobilitazioni oggettivamente rivoluzionarie del
proletariato e tentativi controrivoluzionari della borghesia, scoppiano ciclicamente
dopo fasi di relativa stabilità politica del capitalismo. Con il proletariato, il capitalismo
genera il suo stesso affossatore. Non può avere una crescita forte e stabile senza che
cresca con forza e stabilmente il proletariato, senza che si sviluppi la lotta di classe
proletaria. Il proletariato tende, del resto, a costituire un settore sempre più
maggioritario della popolazione attiva, perlomeno nei paesi industrializzati e semiindustrializzati.
IV – IL SUPERAMENTO DEL SOCIALISMO UTOPISTA
Uno dei più noti luoghi comuni utilizzati contro il socialismo è che sarebbe “contrario alla
natura umana”. La proprietà privata sarebbe “innata” nella specie umana. Sarebbero sempre
esistiti ricchi e poveri e avrebbero sempre continuato ad esistere.
Eppure, l’antropologia, l’archeologia, la preistoria, l’etnologia ci insegnano che le cose non
stanno così. Degli esseri umani sono vissuti per milioni di anni senza proprietà privata dei
mezzi di produzione, senza economia di mercato, senza società divisa in classi. L’homo
sapiens, il tipo umano fisicamente più evoluto, ha fatto la stessa cosa per decine di migliaia di
anni. La proprietà privata e la divisione in classi della società coprono sicuramente meno di
10.000 anni e, questo, per una parte assai ridotta della specie umana, vale a dire un’infima
porzione nell’arco di tempo della presenza umana sulla terra.
La tesi apologetica dell’inevitabilità della disuguaglianza sociale è ugualmente battuta in
breccia da un fenomeno successivo all’emergere della divisione della società in classi. La
disuguaglianza sociale è stata sempre contestata all’interno stesso della società classista.
Si può interpretare questa contestazione nel modo più vario. Vi si può vedere l’espressione
degli interessi oggettivi degli sfruttati, anche se questi – e i loro portavoce – non sempre
percepiscono così le loro esperienze. Vi si può vedere l’espressione di uno dei fondamenti
della nostra natura antropologica, l’istintiva tendenza alla collaborazione inter-umana, senza
cui il lavoro sociale e la sopravvivenza della nostra specie sarebbero impossibili. Si può dire
che l’aspirazione alla giustizia – e quindi allai ribellione all’ingiustizia sociale –
corrispondano, a livello della psicologia individuale, a questa esigenza sociale e si aprano la
strada verso la consapevolezza, almeno in alcuni individui, a seconda delle vicissitudini della
loro storia personale (in particolare ciò che accade nella loro infanzia). La si può spiegare
secondo una combinazione ponderata di tutti questi fattori.
In ogni caso, va constatato che da almeno 5.000 anni, la società divisa in classi è stata
contestata non solo dalla critica ideologica, ma anche e soprattutto nella pratica, con
periodiche rivolte degli sfruttati e degli oppressi. Esse vanno dalle rivolte e dai primi scioperi
dei contadini nell’Egitto dei Faraoni alle rivolte di schiavi in Grecia e a Roma nell’antichità,
tra cui la più famosa resta quella di Spartaco nel primo secolo a. C. Ci sono poi i poderosi
movimenti di schiavi che contribuiscono al crollo dell’Impero romano, quelli dei Bagaudi in
Europa occidentale e dei Donatisti in Africa settentrionale.
L’India e soprattutto la Cina classica sono state segnate da innumerevoli sollevazioni
contadine, molte delle quali, vincenti, hanno dato origine a nuove dinastie imperiali. In
Giappone, all’epoca dei Tokugawa, si sono avute tra il 1603 e il 1863 più di 1.100 rivolte
contadine. Anche la Russia zarista ha conosciuto numerose sollevazioni contadine, tra le più
celebri delle quali c’è quella di Pugaciov in Ucraina, nel XVII secolo.
Nell’America colonizzata dagli spagnoli e dai portoghesi sono spesso insorti gli Indios
sottoposti al servaggio e gli schiavi. La più nota di queste rivolte è stata quella degli Indios
peruviani capeggiata da Tupac Amaru, nella metà del XVIII secolo. C’è stata la rivolta
vittoriosa degli schiavi neri ad Haiti, i Giacobini Neri, alla fine del XVIII secolo. Ci sono state
numerose rivolte di schiavi neri nel XIX secolo nell’America del Nord, soprattutto quella
diretta da Nat Turner nel 1831.
In Europa occidentale e centrale, una catena pressoché ininterrotta di jacqueries (rivolte
contadine, ad esempio quella diretta da John Ball in Inghilterra, nel 1381) e di sollevazioni di
artigiani e lavoranti contro il regno della nobiltà e dei ricchi mercanti, si estendono dal XIII al
XVI secolo. Esse sfociarono nelle grandi rivoluzione borghesi, quella dei Paesi Bassi,
dell’Inghilterra, degli Stati Uniti e della Francia, con le quali si intrecciarono, inserendovi del
resto profonde contraddizioni, con un’embrionale dinamica di rivoluzione permanente.
Tutte le contestazioni religiose e ideologiche, incluso il socialismo utopista, corrispondono in
ultima analisi a questi moti di rivolta concreta dei contadini liberi sottomessi a tributi e
corvées di Stato, di schiavi, di artigiani e di lavoranti e dei primi antenati salariati e
semisalariati del proletariato moderno.
In questa lunga serie di rivolte si ritrovano voci che si sono levate contro la disuguaglianza
sociale con maggiore o minore veemenza, basandosi sulla memoria di una società più
ugualitaria. Il mito o la leggenda dell’“ètà dell’oro”, di una società fraternamente unificata,
che avrebbe preceduto la società divisa in gruppi in lotta gli uni contro gli altri, ha ispirato
l’antico poeta Esiodo (VII secolo a. C.). Un tema che si ripete nella mitologia di tanti popoli.
Spesso la contestazione si è espressa in forma religiosa. I primi Padri della Chiesa cristiana
erano ferventi “partigiani”, contrari alla proprietà privata, fautori della comunione dei beni. La
celebre frase: “La proprietà è un furto”, di solito attribuita a Proudhon, che la ha ripresa da
Brissot (girondino eletto alla Convenzione nazionale), proviene in realtà dal vescovo di
Bisanzio Giovanni Crisostomo (“Giovanni dalla bocca d’oro”), vissuto nel III secolo d. C.
Quei Padri della Chiesa erano gli eredi diretti delle sette radicali ebraiche, che pullulavano in
Palestina dopo la conquista romana, che a loro volta continuavano nel solco dei profeti ebraici
più radicali.
Più tardi ritroveremo violente imprecazioni contro la disuguaglianza sociale nelle sette
dissidenti di tutte le principali religioni. Citiamo soprattutto i Donatisti in Africa settentrionale
e i Mazdei in Iran.
Durante le guerre di religione del XV e XVI secolo, la denuncia della disuguaglianza sociale
sarà particolarmente virulenta tra gli Hussiti boemi e gli Anabattisti tedeschi. Durante la
rivoluzione inglese del 1640-1688 si sono levate molte voci, specie quelle dei Livellatori, per
denunciare lo sfruttamento dei poveri che persisteva nonostante l’estendersi dei diritti politici.
Sarebbe errato presentare questa tradizione socialista - nel senso più generale della parola che attraversa millenni, come risultato della “sottocultura dei poveri” che accompagnerebbe in
ogni società di classe la cultura dei ricchi. In primo luogo perché la maggior parte degli autori
citati non sono affatto poveri – in genere incolti in quelle società – ma provengono piuttosto
da settori delle stesse classi possidenti, o da ceti medi intellettuali (scribi, sacerdoti, filosofi,
scienziati). Sarebbe più corretto parlare di un’ideologia delle classi sfruttate susseguentesi,
che si sviluppa lungo la storia parallelamente all’ideologia delle classi dominanti, e in
contrapposizione a queste, limitata a una ristretta minoranza della società.
Ma da queste grida di protesta e di rivolta si delineano a poco a poco modelli sistematici di
riorganizzazione della società basata sulla proprietà collettiva. Si può considerare La
Repubblica del filosofo greco Platone come l’antesignana di questi modelli. Il prototipo di
queste “utopie” è tuttavia l’opera del cancelliere inglese Tommaso Moro (Thomas More),
giustiziato da Enrico VIII nel 1535, successivamente santificato dalla Chiesa cattolica,
un’opera appunto intitolata Utopia (descrizione di un omonimo paese in cui si è instaurata una
società comunitaria).
Varianti di questa prima utopia, più o meno ispirate ad essa, sono state scritte più tardi:
dall’italiano Campanella (1568-1639), La città del sole; dall’inglese James Harringon (16111677, The Commonwealth of Oceana (La Repubbblica di Oceana); e dai francesi: Fénelon
(1651-1715), La Télémachie (Le avventure di Telemaco); Jean Meslier (1664-1729), Le
Testament (Il Testamento); e Morelly, La Basiliade (1753) e Le Code de la Nature (1754) (Il
codice della natura). Queste ultime sono sicuramente le due utopie socialiste più significative,
soprattutto perché nel Codice della natura Morelly descrive una società senza Stato, in cui le
condizioni economiche sono esplicitamente concepite come quelle che determinano le
condizioni politiche. Il francese Mably (1709-1785) sarà l’ispiratore diretto di Charles
Fourier.
Tutti questi autori, da Moro a Mably, hanno però in comune il fatto che si limitano a
descrivere sul piano semplicemente letterario una società migliore. Tuttavia, dopo Morelly e
Mably nascono i socialisti utopisti propriamente detti, che non si limitano più a queste
descrizioni, ma le abbinano alla lotta pratica per la loro realizzazione. I principali fra questi
sono:
 Il francese conte di Saint-Simon (1760-1825), piuttosto ideologo della giovane
borghesia industriale che non della nascente classe operaia. Egli denuncia soprattutto i
misfatti della monarchia, della nobiltà, del clero, dei banchieri e dei ricchi
imprenditori. Diventa l’aedo degli “operai”, ma in questa categoria egli mette insieme
i veri e propri operai e gli imprenditori industriali direttamente impegnati nelle
fabbriche. Diventa anche il cantore del credito a buon mercato e della presa del potere
da parte di tutti gli operai. L’industria, il lavoro, ecco per Saint Simon la base di ogni
progresso. I suoi discepoli avranno un ruolo importante fra i politici borghesi liberali
degli anni 1830-1860 in vari paesi.
 L’industriale inglese Robert Owen (1771-1858) era mosso da un profondo sentimento
di ribellione contro la miseria operaia in Gran Bretagna. Per porvi rimedio, caldeggiò,
nell’ordine, la legislazione sociale, la fondazione di colonie comuniste in America, la
centralizzazione dei sindacati inglesi in un’unica confederazione nazionale (Grand
National Union, 1834) e infine la creazione di cooperative operaie di produzione, la
prima delle quali fu fondata a Rochester nel 1839. È soprattutto come padre del
movimento cooperativo che Robert Owen è entrato nella storia.
 Il piccolo commerciante francese Charles Fourier (1772-1837) e il suo discepolo
Victor Considérant, sono tra i critici più radicali della società borghese e dei suoi
fondamenti ultimi: la proprietà privata; la divisione sociale del lavoro tra agricoltura e
industria (tra città e campagna); la produzione mercantile; l’economia monetaria, fonte
di venalità e di corruzione universali; l’oppressione delle donne in seno alla famiglia
patriarcale. Secondo lui, la soluzione della questione sociale sta nella creazione di
falansteri, delle collettività di produttori-consumatori di 1.000-2.000 persone che si
gestiscono da sole e lavorano al tempo stesso come agricoltori, artigiani ed artisti.
Mentre i primi altri socialisti basarono i loro sistemi esclusivamente sulla ragione,
Fourier, anticipando Freud, la psicologia dell’inconscio e il femminismo radicale
moderni, attribuisce grande importanza alla soddisfazione umanistica e alla
sublimazione degli istinti e delle passioni nel consolidamento della società socialista.
 L’avvocato francese Etienne Cabet (1788-1956), cui spetta il merito di avere
impiegato per primo il termine comunista per descrivere la sua dottrina e la futura
società. Fra tutti gli autori elencati, Cabet eserciterà durante la sua vita l’influenza
maggiore in ambiente operaio. Il suo Voyage en Icarie (Viaggio in Icaria) è stato letto
da migliaia di lavoratori (lui stesso stimava di aver fatto 200.000 adepti, una cifra
naturalmente esagerata). Ha segnato profondamente la coscienza operaia in Francia
alla vigilia della rivoluzione del 1848. La sua descrizione di un’economia pianificata
dallo Stato - contrapposta a quella di mercato – eserciterà un’influenza diretta su
socialdemocratici francesi come Louis Blanc e tedeschi come Ferdinand Lassalle.
Alcuni vi scorgono anche il modello della pianificazione burocratica staliniana, come
funzionava in Urss e in altre società modellate su quella dell’Urss.
 Infine, l’operaia francese Flora Tristan (1803-1844) auspica in L’Union Ouvrière
(L’Unità operaia) la creazione di “edifici di operai” in tutte le città, in cui si
realizzerebbe la più assoluta uguaglianza ed entrambi i sessi riceverebbero
un’istruzione comune. Tristan operò una critica radicale delle condizioni delle donne
all’epoca, descrivendole come “le proletarie degli stessi proletari”. Le sue idee
avrebbero ispirato i tentativi “di organizzazione del lavoro” fatti nel corso della
rivoluzione del 1848, e Marx prese le difese del suo femminismo contro chi lo
criticava.
Come si vede, questi autori, e in generale i “socialisti” utopisti nel complesso, non meritano il
rimprovero di essersene stati con la testa nelle nuvole, di essere rimasti sganciati dalla realtà
sociale ed economica del loro tempo, o di non avere avuto preoccupazioni pratiche. Al
contrario, risultano critici lucidi della società borghese, e colgono tratti essenziali dei suoi
sviluppi a lungo termine e delle sue contraddizioni; sono degli anticipatori ancor più
chiaroveggenti delle trasformazioni indispensabili per l’avvento di una società senza classi.
Marx ed Engels devono loro molto. Hanno imparato tanto da loro. Ne hanno recuperato
parecchie idee, che poi hanno sviluppato. Questo però non significa che il socialismo utopista
non sia meno marcato da profonde contraddizioni. Quelle che seguono sono le debolezze
principali del socialismo utopista che i fondatori del socialismo scientifico hanno dovuto
superare:
a) Il progetto della società socialista è opposto alla società borghese, senza un rapporto
con le conquiste e le contraddizioni di quest’ultima. Per Marx ed Engels, l’avvento
della società senza classi risulterà (potrà risultare) invece da fonti economiche
(sviluppo delle forze produttive, socializzazione del lavoro) e socio-politiche
(maturazione e organizzazione del proletariato, sbocco della lotta di classe tra Capitale
e Lavoro) che emergono esattamente da quelle conquiste e da quelle contraddizioni.
b) Per i socialisti utopisti, il motore essenziale dell’avvento della nuova società è
l’educazione e la propaganda, fenomeni innanzitutto individuali e sovrastrutturali.
In quanto si crede che l’impegno personale punti a risultati numerici più ampi, esso è
concepito come un fenomeno di “propaganda attraverso l’azione”, concezione ripreso
in seguito dai gruppi rivoluzionari anarchici e terroristi. Di qui l’importanza attribuita
dai socialisti utopisti all’immediata realizzazione di “cellule della futura società”,
cooperative e colonie comuniste, ecc.
Per Marx ed Engels, viceversa, la società borghese non si può che abolire nel suo
complesso, non fabbrica per fabbrica, villaggio per villaggio, fattoria per fattoria. C’è
quindi bisogno dell’impegno attivo della maggioranza della popolazione. Marx ed
Engels, pur non avendo minimamente contestato il valore dimostrativo di queste
esperienze comuniste – che confermano che una società senza padroni, senza
produzione di merci e senza denaro è possibile - hanno sostenuto che erano destinate
all’insuccesso (ad essere riassorbite dalla società borghese) finché fossero rimaste
isolate.
c) I socialisti utopisti esagerano il peso della ragione (e, per Fourier, della ragione e delle
passioni) nel determinare l’iniziativa delle larghe masse: Non si rendono a sufficienza
conto che quel che può essere determinante per individui presi singolarmente rischia
di essere ampiamente neutralizzato quando operano insieme un grande numero di
persone, non foss’altro che per il gioco delle leggi della probabilità (dei grandi
numeri). Passioni diverse e ragionamenti diversi si elidono reciprocamente come
fattori determinanti di quelle azioni. Marx ed Engels si basano quindi sugli interessi
comuni di persone appartenenti a una classe sociale destinata ad essere maggioritaria
nella società borghese per aprire la strada all’avvento della società socialista: il
proletariato. Ma questa impostazione non esclude l’importanza della propaganda e
dell’educazione, né quella della ragione e di una serie di moti affettivi nella lotta per il
socialismo, nella misura in cui tutte queste forze debbono facilitare gradualmente, e a
diversi livelli, la presa di coscienza degli interessi di classe da parte del proletariato: la
conquista della coscienza di classe.
d) La principale debolezza dei socialisti utopisti che deriva da tutte quelle precedenti e
spiega in ultima analisi perché siano stati condannati all’insuccesso, è che in essi la
società senza classi sembra come elargita a masse consenzienti o anche
recalcitranti da regimi essenzialmente autoritari, se non tirannici e dispotici. Dalla
Repubblica di Platone e dall’Utopia di Moro all’Icaria di Cabet, i filosofi, i sapienti,
gli scienziati, gli educatori la fanno da padroni, a volte esplicitamente da dittatori. La
repressione, la sanzione e le prigioni, l’esercito, la guerra, in queste utopie rimangono.
Solo i falansteri di Fourier, le cooperative di Owen e la visione di Flora Tristan
costituiscono una rispettabile eccezione – almeno in parte – alla regola.
Marx ed Engels, viceversa, concepiscono l’avvento della società senza classi come risultante
del movimento reale di autorganizzazione e di autoemancipazione della grande massa.
“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi; proletari di tutto il mondo
unitevi!”. Ecco ciò che sintetizza l’apporto più rivoluzionario, più originale del marxismo al
pensiero e alla storia umani, quello che segna la rottura più radicale con tutte le altre dottrine.
Per capire il socialismo utopista, le sue radici, le sue acquisizioni e le sue insufficienze,
occorre esplicitarne la natura sociale. Essenzialmente, costituisce l’espressione ideologica di
una rivolta contro la società di classe, contro la disuguaglianza sociale, da parte di classi
sociali pre-proletarie, che non dispongono ancora della forza economica materiale o della
sufficiente coesione sociale indispensabili per garantire stabilmente la vittoria di un sistema
senza proprietà privata.
Di fatto, la società divisa in classi non è stata contestata solo a livello della critica ideologica,
ma è stata soprattutto contestata nella pratica, come si è visto, da rivolte periodiche degli
sfruttati e degli oppressi. Non si trattava di movimenti sparsi di gruppuscoli di desperados. Si
trattava di poderosi movimenti di massa, che coinvolgevano migliaia, a volte milioni, di
persone e che a varie riprese hanno anche strappato la vittoria. Ma, nonostante il coraggio, la
devozione, l’idealismo, la straordinaria audacia della visione sociale che hanno
contraddistinto tanti di questi movimenti, sono tutti falliti nel senso che non sono riusciti ad
instaurare stabilmente una società senza classi. O hanno perso il potere a vantaggio dei loro
nemici, dopo averlo conservato per vari anni (Hussiti a Tabor; Anabattisti a Münster; ecc.)
oppure, restando al potere, hanno finito per ristabilire fondamentalmente un regime classista
analogo a quello che avevano cercato di rovesciare (dinastie Han e Tang in Cina).
Un caso particolarmente clamoroso è quello dei Cosacchi del Don e di Crimea. All’origine si
trattava di servi scappati che riconquistarono la propria libertà e ricostituirono una società
tribale indipendente, ugualitaria, resistendo ferocemente ad ogni tentativo degli zar di
sottometterli. Finirono tuttavia per diventare il principale strumento dello zarismo per
sottomettere e opprimere le società tribali del Caucaso e della Siberia.
L’insuccesso storico di tutte queste rivolte contro la disuguaglianza sociale è stata spiegata da
Marx ed Engels sulla base dell’interpretazione materialista della storia. Nelle concrete
condizioni in cui si sono svolte quelle rivolte, l’insufficiente sviluppo delle forze produttive
rese possibile solo questa alternativa: o un “comunismo della miseria” cui avrebbe posto fine
ogni nuovo progresso economico; o la sostituzione di una classe possidente privilegiata con
un’altra. È solo con lo sviluppo delle forze produttive realizzato dal capitalismo che nasce per
la prima volta nella storia la possibilità materiale di instaurare stabilmente una società senza
classi a un livello non di miseria ma di abbondanza (saturazione dei bisogni fondamentali).
I limiti e le contraddizioni del socialismo utopista riflettono dunque, in ultima analisi,
l’immaturità delle condizioni materiali (economiche e sociali) in cui delle classi oppresse preproletarie si sono battute per una società senza classi. Il suo “utopismo” riguarda in definitiva
non lo scopo da raggiungere ma le condizioni necessarie per raggiungerlo.
Vuol dire che, nell’ottica del materialismo storico, le rivolte degli sfruttati, delle classi
popolari più povere del passato erano condannate, o perlomeno inutili, perché utopiche, non
potevano cioè approdare ad instaurare stabilmente una società senza classi?
Una simile versione meccanicistica di un “marxismo” volgare non corrisponde assolutamente
al pensiero di Marx ed Engels – cosa che, peraltro, riconoscono molti critici del marxismo,
vedendo in questo una contraddizione tra Marx ed Engels “uomini di scienza” e Marx ed
Engel “appassionati moralisti della rivoluzione”. In realtà, non vi è alcuna contraddizione tra
l’incondizionata e incontestabile presa di posizione di Marx ed Engels in favore di Spartaco,
delle Jacqueries, di Thomas Münzer, di Babeuf, dei Taï-Ping e dei Sepoys indiani, e
l’ammissione dell’impossibilità di vittoria stabile di quei movimenti rivoluzionari.
In primo luogo, è dar prova di miopia credere che solo la conquista del potere possa
influenzare stabilmente la storia. Anche rivoluzioni sconfitte sono riuscite a cambiare il
corso storico. Sono riuscite ad accelerare la marcia degli avvenimenti, sono riuscite ad
imporre agli stessi vincitori la realizzazione di parte dei loro obiettivi, se corrispondevano a
delle necessità storiche, soprattutto economiche, all’interesse di una maggioranza della
società, e se i vinti si battevano con energia e ostinazione per quegli obiettivi. L’abolizione
della schiavitù nonostante la sconfitta delle rivolte di schiavi; la realizzazione dell’unità
tedesca malgrado la sconfitta della rivoluzione del 1848, ne forniscono due esempi clamorosi.
Inoltre, le rivolte di massa e le rivoluzioni popolari danno alle idee – e quindi al progetto di
una società ugualitaria senza classi – una risonanza e una forza d’urto senza possibile
confronto con quelle che risultano dalla sola propaganda verbale e letteraria. Le rivoluzioni
popolari del passato, malgrado gli insuccessi, hanno contribuito ad arricchire il patrimonio
socialista dell’umanità quanto non sarebbe mai riuscita a fare l’opera di filosofi e di filantropi.
Senza queste rivolte e queste rivoluzioni, lo sviluppo del socialismo utopista, lo sviluppo del
socialismo scientifico e quello della coscienza di classe proletaria avrebbero conosciuto un
ritardo notevole.
Infine, il compito che ha di fronte il proletariato moderno è quello più difficile che una classe
sociale abbia mai dovuto realizzare storicamente: costruire una nuova società senza aver mai
esercitato prima né il potere economico, né il potere politico, né il potere culturale-ideologico.
La realizzazione di questo difficile compito sarebbe ancor più difficile se la lotta di
emancipazione del proletariato non si potesse concepire come l’erede legittima, l’esecutrice
testamentaria di migliaia d’anni di tentativi di emancipazione dell’umanità lavoratrice, di
tentativi non solo sconfitti ma che hanno anche prodotto numerosi progressi sociali reali.
In definitiva, quel che è alla base di questa concezione di Marx ed Engels delle rivoluzioni del
passato e del socialismo utopista è innanzitutto una complessa concezione dialettica e non
lineare, meramente economicistica e meccanicistica, del progresso storico. È anche una
constatazione che comporta un impegno morale.
Gli sfruttati e gli oppressi si sono ribellati, si ribellano e si ribelleranno comunque contro le
loro insopportabili condizioni, checché ne pensino gli ideologhi, o checché prevedano certi
“educatori”, sulle loro possibilità di successo. Il dovere di ogni socialista, di ogni uomo e di
ogni donna che ami l’umanità, è quello di combattere al loro fianco e di cercare di accrescere
al massimo la lucidità e le speranze di successo dei combattenti. Non vi è niente di romantico
in questo impegno. L’altro polo dell’alternativa è quello di tollerare lo sfruttamento e
l’oppressione esistenti come minor male rispetto al tentativo di emancipazione delle loro
vittime.
V- LA TRASFORMAZIONE PROLETARIA DELL’AZIONE
E DELL’ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIE
Lo sviluppo del socialismo utopistico aveva prodotto tre figure di spicco, che rappresentano la
transizione dalla filantropia e dal propagandismo pre-proletario all’azione proletaria vera e
propria: il tedesco Weitling e i francesi Pierre-Joseph Prudhon e Auguste Blanqui. Due di
questi socialisti, Blanqui e Weitling, rientrano forse meno nella continuità del socialismo
utopista (da cui Weitling dipende ancora in parte), che non in quella della tradizione
rivoluzionaria sorta dalle rivoluzioni americana e francese.
Nel corso di queste rivoluzioni, l’estrema sinistra piccolo-borghese (giacobina) e preproletaria, incarnata soprattutto da Sam Adams e Thomas Paine in Inghilterra e da Gracchus
Babeuf in Francia, aveva progettato un tipo di organizzazione rivoluzionaria che avrebbe
dovuto tendere a protrarre l’azione politica oltre il consolidamento delle principali conquiste
rivoluzionarie.
L’agitazione di Tom Paine e dei suoi compagni sfociò, in seguito, nella costituzione della
London Corresponding Society, diretta da Thomas Hardy, e di numerose associazioni
analoghe in Gran Bretagna, la più importante delle quali fu quella degli United Irishmen in
Irlanda, diretta da Wolfe Tone. Mentre la LCS era rigorosamente legale, gli United Irishmen e
altri gruppi provinciali si costituirono in lega clandestina. Tutte, però, avevano in comune il
carattere politico-democratico delle loro principali rivendicazioni sociali (la conquista del
suffragio universale per la LCD; il suffragio universale e l’emancipazione nazionale per gli
United Irishmen). Le rivendicazioni economiche, in favore delle classi lavoratrici, non
andarono oltre quella di un riforma della società borghese.
Per il capo della Congiura degli uguali, Babeuf, e per i suoi compagni, si trattava invece già
chiaramente della conquista rivoluzionaria del potere, non della conquista delle sole libertà
democratiche. Puntarono inoltre su obiettivi collettivistici, tendenti a soddisfare le
rivendicazioni economiche e sociali degli strati più poveri e più sfruttati della popolazione, in
primo luogo il pre-proletariato (semi-proletariato) e il nascente proletariato. Queste
organizzazioni rivoluzionarie sorsero tuttavia in modo indipendente dall’autorganizzazione
dei salariati nel senso proprio del termine.
I babuvisti cercarono di impadronirsi del potere con un colpo di Stato in piena
controrivoluzione termidoriana, nel 1797, e furono schiacciati dalla repressione. Uno dei
sopravvissuti della Congiura degli uguali cercò di salvare la continuità dei principi e dei
progetti rivoluzionari di Babeuf nella Società delle stagioni, che comparve a Parigi dopo il
crollo dei Borboni, al’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento e il cui leader indiscusso fu
Auguste Blanqui.
Blanqui è stato il più grande rivoluzionario francese del XIX secolo. Militante con una
convinzione, una fermezza, un coraggio e un’onestà intellettuale incrollabili, fu una sorta di
incarnazione delle aspirazioni e dell’azione rivoluzionaria del proletariato francese,
soprattutto di quello parigino. Cercò di conquistare il potere con una serie di colpi di Stato, fu
arrestato più volte – alla fine trascorse più di vent’anni in prigione – ma riuscì a conservare la
continuità della sua organizzazione clandestina. Quando esplose la Comune di Parigi, nel
marzo 1871, era ancora in prigione, nel territorio controllato dal governo controrivoluzionario
di Thiers. Considerato da tutti – Marx incluso – come il dirigente naturale della Comune, al
cui interno i suoi sostenitori costituirono una minoranza raccolta intorno a Vaillant, ne fu
richiesta la liberazione a Thiers in cambio di tutti gli ostaggi presi, compreso l’arcivescovo di
Parigi. Thiers rifiutò, dimostrando così fino a qual punto la borghesia francese temesse la
capacità di organizzazione e di animazione del grande rivoluzionario, e gli effetti delle sue
doti di dirigente sull’esito della guerra civile. Negli anni 1880-1890, la tendenza blanquista
alla fine si fuse con quella marxista nel corso del processo di creazione del partito operaio
socialista di massa in Francia.
Il tedesco Wilhelm Weitling, contrariamente a Blanqui, era un operaio autodidatta, che
pervenne alle sue conclusioni comuniste e rivoluzionarie non solo in base allo studio, ma
anche partendo dall’esperienza vissuta della condizione proletaria. Alcuni lavoranti-artigiani
tedeschi itineranti in tutt’Europa – che grazie a questo modo di vivere riuscirono a superare
per primi l’orizzonte localista e professional/corporativo ristretto ai primi strati proletari del
loro paese – crearono a Parigi nel 1834 (per influenza della Società delle stagioni blanquista )
una Lega dei proscritti (Bund der Geächteten), una società segreta da cui emergerà nel 1838
la Lega dei giusti (Bund der Gerechten) diretta da Weitling. Questa si diede un programma
socialista utopico intitolato “L’umanità com’è e come dovrebbe essere”.
Questa società segreta abbandonò i suoi vaghi progetti di lotta per il potere dopo il fallimento
della cospirazione blanquista del 1839 e si orientò piuttosto verso obiettivi di impianto di
cooperative e colonie comuniste, sotto l’influenza di Owen e di Cabet. Ma come per il
babuvismo in Francia, la tradizione dell’organizzazione rivoluzionaria clandestina fu
conservata. La Lega dei giusti fu ribattezzata Lega dei comunisti (Bund der Kommunisten)
nel 1847, nel momento in cui Marx ed Engels vi aderirono formalmente (il Comitato
comunista di corrispondenza che avevano costituito all’inizio del 1846 a Bruxelles aveva
preso contatto fin dall’inizio con la Lega dei giusti).
Le organizzazioni rivoluzionarie babuviste, blanquiste e tedesche rappresentano un anello
indispensabile che porta dalle rivoluzioni borghesi del XVI, XVII e XVIII secolo all’azione
rivoluzionaria proletaria del XIX e XX secolo. Le loro principali acquisizioni sono state:
1) La presa di coscienza della necessità dell’azione politica per la conquista del potere,
presa di coscienza sorta dalla comprensione dei principali insegnamenti da trarre
esattamente dalle rivoluzioni borghesi, se non da tutte le rivoluzioni della storia. Non
tutti/e condivisero questa lezione, che non fu né largamente diffusa fra gli adepti del
socialismo, né largamente accolta in seno alla giovane classe operaia salariata. Al
contrario, in entrambi questi ambienti prevalse l’apoliticismo, sia per scetticismo e
disgusto per la tradizionale azione politica borghese e piccolo-borghese (“gli operai
sono sempre ingannati dai politici e dalla politica”), sia in seguito a un bilancio lucido
ma incompleto ricavato dalle stesse rivoluzioni contemporanee. Per la classe operaia,
infatti, queste erano approdate alla sostituzione di un gruppo di sfruttatori con un altro,
e assolutamente non in una reale emancipazione. Socialisti utopisti e operai in via di
autorganizzazione ne trassero la conclusione che l’azione politica fosse deludente ed
inutile: bisognava concentrare lo sforzo sull’emancipazione economica: Il tipo di
organizzazione doveva essere adeguato a questo scopo.
2) Babeuf, Blanqui, Weitling capirono invece, a livelli diversi, il ruolo chiave del potere
politico nel consolidamento dello sfruttamento subito dai proletari e pre-proletari. Per
questo, caldeggiarono un’azione politica di tipo nuovo, rivoluzionario proletario, al
fine di rovesciare lo Stato borghese: Babeuf, Blanqui e Weitling erano convinti che
solo un nucleo di rivoluzionari profondamente motivati, saldi, disciplinati potesse
avere la meglio sul potente nemico. Secondo loro, il principale insegnamento da trarre
dalla sconfitta politica del “Quarto Stato” durante la Rivoluzione francese e
all’indomani del 1830 non era l’inutilità delle rivoluzioni popolari che si volevano
condannate alla sconfitta, ma l’inevitabilità della sconfitta delle classi popolari se
affrontano i ricchi senza direzione e organizzazioni ferree. Erano convinti che diretti
da un minoranza del genere ben preparata al suo compito storico, le classi popolari
potessero trionfare nelle esplosioni rivoluzionarie del futuro. In questo senso, Babeuf,
e soprattutto Blanqui, sono evidentemente i precursori del concetto leninista di
“rivoluzionari di professione”.
3) La difesa della tradizione e la continuità rivoluzionaria. Termidoro, il Consolato e
l’Impero, successivi ai progressi della grande Rivoluzione francese tra il 1789 e il
1793, avevano provocato un’immensa delusione in seno alle masse popolari e
dell’intelligentsia progressista in Francia e in Europa, paragonabile per certi aspetti
alle ondate di disillusione, di scetticismo, di cinismo e di “rientro nel privato”
conosciute dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848-1850, dopo la presa di
coscienza della realtà del Termidoro in URSS negli anni Trenta e Quaranta del secolo
scorso, e dopo il riflusso della speranza di rivoluzione in Europa a partire dal 19751976. Intellettuali altamente rappresentativi della propria epoca, come il filosofo
tedesco Kant e il poeta inglese Wordsworth, che erano stati sostenitori entusiastici
della rivoluzione, si trasformarono in avversari reazionari di questa. Ci furono
comunque alcune eccezioni, ad esempio il poeta inglese Shelley, che rimase un
rivoluzionario convinto.
4) Fra i democratici radicali impegnati nell’azione politica, fra i salariati impegnati
nell’azione sindacale, questa ondata di reazione ideologica provocò in genere un
riflusso verso concezioni puramente legalitarie e riformiste (gradualiste) dell’azione e
dell’organizzazione. Di fronte all’ondata di adattamento capitolardo all’ideologia della
classe dominante, i primi nuclei rivoluzionari pre-proletari e proletari conservarono la
tradizione rivoluzionaria del XVIII secolo, introducendovi il massimo di autocritica a
portata dei rivoluzionari dell’epoca. Tale continuità ha enormemente facilitato
l’emergere di una nuova concezione e tradizione rivoluzionarie, squisitamente
proletarie, a partire dalla rivoluzione del 1848.
Insieme ai loro meriti, tuttavia, vanno sottolineate le lacune dei progetti rivoluzionari di
Babeuf, Blanqui e di Weitling:
a) La lotta per il potere politico si concepisce essenzialmente come emanazione di una
minoranza molto ristretta della società e dello stesso proletariato. Da ciò il carattere
necessariamente cospirativo e violento dell’azione rivoluzionaria progettata, la
“tecnica del colpo di Stato” che prevaleva sull’effettiva azione politica di massa. Con
ciò stesso la lotta assume una natura putschista e utopista, essendo scarsissime le
probabilità che un gruppetto di cospiratori potesse riuscire ad eliminare in un colpo
solo il poderoso apparato repressivo di Stati come quello francese o prussiano.
b) L’organizzazione rivoluzionaria auspicata per questo tipo di azione politica era
necessariamente clandestina ed elitaria, risultato di una severa selezione alla quale,
alla lunga, sono poche le persone che resistono. Il carattere ristretto e segreto
dell’organizzazione rafforza, a propria volta, il carattere putschista dell’azione e la
tendenza a una sua scarsa connessione con gli ampi movimenti spontanei delle masse,
con le lotte di classe economiche, ecc.
c) Organizzazione essenzialmente clandestina e azione essenzialmente insurrezionale
sfociano in una visione nettamente elitaria e autoritaria dello Stato che emerge dalla
vittoria rivoluzionaria. Si tratta di un potere al servizio del popolo, per il popolo, ma
non immediatamente esercitato dal popolo (Weitling, più direttamente proletario di
Blanqui, era più cauto al riguardo). Ancora una volta manca, o è insufficiente, il nesso
con il movimento di concreta emancipazione dei salariati.
d) Gli obiettivi economici e sociali che la rivoluzione deve raggiungere restano
imprecisati (specie in Blanqui) o utopici (in Weitling), vista la mancanza di adeguate
conoscenze economiche e soprattutto vista l’analisi insufficiente della natura del
capitalismo e delle sue contraddizioni. Da questo punto di vista, Babeuf, Blanqui e
Weitling restano addirittura indietro rispetto ai socialisti utopisti o ai più arditi degli
economisti post-ricardiani
Tali debolezze e lacune dei primi nuclei rivoluzionari pre-proletari e proletari si spiegano, in
ultima analisi, con la loro natura sociale e il contesto in cui si sviluppano. Si tratta di
organizzazioni espresse dal proletariato pre-industriale, artigianale e manifatturiero, che
non hanno ancora potuto generalizzare, o apprendere, le prime esperienze di lotta e
organizzazione di massa del proletariato industriale propriamente detto. Cercano, infatti, di
combinare la tradizione giacobina piccolo-borghese delle grandi rivoluzioni del XVIII secolo
con l’esperienza di organizzazione del proletariato pre-industriale, non di ricavare conclusioni
dalla prime esperienze rivoluzionarie del proletariato industriale stesso.
Marx ed Engels hanno dovuto superare questi limiti in modo sistematico, elaborando le
proprie concezioni dall’esperienza d’organizzazione e dall’azione rivoluzionaria del
proletariato, approdando, dopo la rivoluzione del 1848-1850, a una loro concezione della
rivoluzione proletaria:
a) Ritengono che l’azione politica rivoluzionaria – la lotta per la conquista del potere –
debba per l’essenziale risultare dall’azione di larghe masse, quelle dei salariati e dei
loro diretti alleati, ma in primo luogo dei proletari stessi. Il potenziale economico dei
salariati è determinante (“Alle Räder stehen still, wen Dein Starker Arme es will” –
“Tutte le strade si bloccano quando lo vuole il braccio forte”); il loro rafforzamento
numerico, fino a diventare maggioranza della nazione, è visto come una delle
precondizioni della vittoria stabile della rivoluzione.
b) Per questo, l’organizzazione politica legale – il costituirsi del proletariato in partito
politico indipendente dalla borghesia e dalla democrazia piccolo-borghese – è
considerata un elemento essenziale nella vittoria rivoluzionaria. L’organizzazione
delle società segrete è screditata, tranne in condizioni di repressione estrema, e anche
in tal caso solo allo scopo di mantenere la continuità, non come strumento della presa
del potere. Il putschismo è condannato decisamente.
c) Elemento prioritario è il progetto di autorganizzazione del proletariato, per prepararsi
all’esercizio del potere, per conquistarlo e per esercitarlo. Elitismo e autoritarismo
sono esclusi, come pure una visione troppo “insurrezionalista” dello Stato. Laddove
Babeuf e Blanqui erano piuttosto sostenitori di uno Stato forte nella tradizione
giacobina, Marx ed Engels, per l’influenza della rivoluzione del 1848-1850, e
soprattutto per quella della Comune di Parigi, caldeggeranno la concezione della
distruzione dell’apparato statale e la dittatura del proletariato – concetto derivato da
Blanqui - come uno Stato che comincia a deperire fin dal suo nascere.
d) Emancipazione politica (rivoluzione politica) ed emancipazione economica e sociale
sono strettamente connesse in Marx ed Engels. Il programma della presa del potere
rivoluzionario è legato, fin dal Manifesto comunista, a una serie di trasformazioni
economiche e sociali che debbono consentire ai produttori di liberarsi dalle catene
della condizione proletaria, di godere delle condizioni materiali indispensabili per
l’esercizio del potere e lo sviluppo di tutte le loro capacità personali. Senza che si
realizzino queste condizioni socio-economiche, resta utopico l’avvento di una vera
società senza classi.
Il superamento delle concezioni rivoluzionarie dei primi nuclei proletari pre-industriali da
parte di Marx ed Engels non è solo il prodotto di un’esperienza rivoluzionaria più vasta e di
una comprensione più profonda della dinamica della società borghese, delle condizioni per la
vittoria del socialismo, vale a dire di tutte le acquisizioni del materialismo storico. Esso
evidentemente corrisponde allo stesso interesse di classe del proletariato, di cui esprime la
specifica mentalità.
VI – LA FUSIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO REALE E DEL SOCIALISMO SCIENTIFICO
L’organizzazione di massa dei lavoratori da parte dei lavoratori stessi sorge in Gran Bretagna,
culla della rivoluzione industriale e della grande industria. In realtà, è precedente
all’espandersi delle grandi fabbriche; risale già alla seconda metà del XVIII secolo, durante il
quale il proletariato britannico è ancora soprattutto artigianale, manifatturiero e agricolo.
La sua principale forma organizzativa è quella dell’associazione di corporazioni artigianali
che rappresentano realmente il ponte tra le corporazioni semifeudali e il sindacato moderno.
Riflettono il passato per il loro spirito e i loro interessi angusti, il loro localismo e
corporativismo. Annunciano il futuro con le loro principali forme di lotta, che comprendono
gli scioperi e l’azione contro i crumiri, la tenace solidarietà, il tentativo di conquistare un
minimo di forza finanziaria autodifensiva, e i loro statuti e il loro spirito sempre più
democratici: assemblee generali, elezione dei dirigenti, costituzione di comitati, controllo
della tesoreria, ecc.
Il padronato britannico si spaventò per queste associazioni e questi scioperi, dato soprattutto il
turbolento carattere politico all’epoca, l’impopolarità delle guerre contro la rivoluzione
francese, l’influenza delle associazioni filogiacobine quali la London Corresponding Society.
Con una legge del 1799 le associazioni operaie furono vietate. In Francia, in piena
rivoluzione, c’era stato un analogo divieto con il voto della Legge Le Chapelier nel 1791,
cosa che ben confermava il carattere borghese della grande rivoluzione.
Il voto di questa legge ostacolò l’organizzazione del giovane proletariato inglese, ma non la
impedì assolutamente. La costrinse a passare alla clandestinità, e impresse un carattere più
violento alle lotte in difesa degli interessi materiali dei lavoratori. Questo si manifestò subito
nel movimento dei Luddisti (1811-1812), incentrato soprattutto nella regione di Nottingham,
notevolmente organizzato e quasi impenetrabile ai poliziotti, alle spie e ai crumiri.
Contrariamente alla leggenda diffusa dal nemico di classe, i Luddisti non erano in alcun modo
ostili alle macchine per principio. Lo scopo delle loro azioni non era affatto l’eliminazione
delle macchine nell’industria tessile, ma l’aumento dei salari, la lotta contro il carovita e la
disoccupazione, e altri classici obiettivi dei primi sindacati. La tattica di rendere inutilizzabili
le macchine si impose perché ancora i lavoratori prendevano perlopiù le macchine in affitto
dai padroni per utilizzarle a domicilio. In quelle condizioni, il fatto di rendere inservibili le
macchine si ritenne un sistema efficace per combattere i crumiri, l’umico modo per rendere lo
sciopero veramente generale. La borghesia inglese fu talmente spaventata dai “distruttori delle
macchine” da far votare una legge che li puniva con la pena di morte.
Dopo la caduta di Napoleone e il ristabilirsi della pace vi fu una prolungata depressione
economica in Gran Bretagna che condannò alla disoccupazione centinaia di migliaia di operai,
provocò una forte diminuzione dei salari e violente rivolte della fame. Poiché queste lotte si
combinarono con la ripresa dell’agitazione per il suffragio universale, la borghesia raddoppiò
la repressione. A St Peter Field’s, vicino Manchester, ebbe luogo nel 1919 una grande
manifestazione, che venne repressa nel sangue dal duca di Wellington, vincitore della
battaglia di Waterloo, cosa che indusse i pamphlettisti radicali a ribattezzarla “massacro di
Peterloo”. Molti storici considerano quel massacro come la scintilla che fece nascere il
movimento operaio moderno in Gran Bretagna.
Da quel momento, quest’ultimo seguì una duplice traiettoria. Da un lato, si moltiplicarono i
sindacati clandestini e semilegali, nonché gli scioperi economici. La pressione contro la
Legge sulle coalizioni si amplificò sempre più, incluso fra i padroni più intelligenti, che
capivano che era preferibile avere davanti a sé interlocutori rappresentativi e legali in caso di
sciopero, con i quali se ne poteva trattare la rapida chiusura, piuttosto che vederli trascinarsi a
lungo. Nel 1825 la legge fu finalmente soppressa. Le associazioni professionali operaie
assunsero sistematicamente la denominazione di trades unions (unione dei mestieri), a partire
dal 1824-1825. Rapidamente queste superarono il loro carattere strettamente localistico e
corporativo.
Dall’altro lato, l’agitazione di William Cobbett nel periodo 1815-1819, che era approdata al
raggruppamento di Peterloo, fu raggiunta nel 1830-1832 da una nuova campagna in favore del
suffragio universale, che culminerà questa volta nel Reform Bill del 1832, una Legge redatta
dai Liberali, che aumentava la rappresentanza delle città. Dopo l’insuccesso dei Liberali al
Parlamento, l’agitazione si sarebbe conclusa con la creazione del primo partito operaio di
massa, il partito cartista. Questo mutuò dall’agitazione degli anni 1815-1819 la petizione di
massa come principale strumento di lotta. Si trattava di raccoglier firme in favore di una
Carta che reclamava il suffragio universale. Avviata nel 1837-1838, l’agitazione debuttò con
un’impressionante manifestazione a Glasgow, in Scozia, che raccoglieva 150.000 persone. In
questa città, la fusione delle lotte economiche con la lotta politica della classe operaia aveva,
del resto, conosciuto un primo successo fin dal 1819-1820, con lo sciopero di 60.000 operai in
favore del suffragio universale, soprattutto operai delle miniere.
Contemporaneamente, anche nel continente europeo e negli Stati Uniti si verificarono i primi
tentativi autonomi di organizzazione e di azione della classe operaia. Artigiani di Filadelfia,
negli Stati Uniti, costituirono nel 1828 il primo partito operaio della storia. Nel 1831 si
verificò nei sobborghi operai di Lione, capitale dell’industria francese della seta, la prima
insurrezione esclusivamente operaia, quella dei “canuts”, i tessitori del quartiere della Croix
Rousse, che si impadronirono per vari giorni della città. Nel 1844 vi fu la rivolta dei tessitori
della Slesia in Germania, immortalata dal grande poeta Heinrich Heine
In Belgio, il paese più industrializzato del continente europeo, gli operai delle filature del
tessile di Gand tentarono di creare sindacati operai fin dal 1810-1815. All’indomani della
rivoluzione del 1830, da operai di questa città furono inviate petizioni alla Camera per
rivendicare il suffragio universale, la libertà di associazione, la completa libertà di stampa,
una tassa sull’eredità. La appoggiarono lavoratori di Bruxelles e di Liegi. Nel 1836 si svolse il
primo raduno operaio pubblico a Bruxelles, promosso da Jacob Kats, autore del primo
catechismo operaio, che ha incontestabilmente influenzato i giovani autori del Manifesto
comunista, redatto a Bruxelles.
Va, infine, segnalata la comparsa, fra le sette socialiste utopiste, della corrente di Prudhon in
Francia che, in contrasto con quelle di Saint-Simon, Fourier ed Owen, è di origine puramente
operaia. Prudhon, al pari di Weitling, era un operaio autodidatta, sia pure un operaio
artigianale. Arrivato più tardi dei suoi grandi predecessori sulla scena storica, cercò, come
Marx ed Engels, di incorporare conclusioni ricavate dalla filosofia tedesca classica e
dall’economia politica inglese nella dottrina socialista. Lo fece, però, sulla base di conoscenze
scarse e male assimilate, con un’evidente carenza di maturazione scientifica, che rifletteva in
ultima analisi la specifica situazione sociale dell’artigianato e del pre-proletariato francesi.
Si trattava, per lui, di emancipare l’operaio/artigiano dal predominio del denaro (del capitale),
senza abolire la produzione mercantile e la concorrenza: illusione tipicamente
artigianale/piccolo borghese. Pur se Prudhon è stato a volte, non a torto, presentato come il
padre dell’idea di autogestione operaia, l’impasse del “socialismo di mercato”, evidente in
Yugoslavia dal 1970, è già potenzialmente delineata nelle sue concezioni. Lo stesso per
quanto riguarda il pericolo economico e sociale che accompagna questa impasse economica:
il rischio di frazionare la classe operaia in gruppi in contrapposizione tra loro tramite la
concorrenza, con i loro redditi monetari dipendenti dai successi sul mercato.
Malgrado la loro grandissima diversità, tutti questi tentativi iniziali di azione e di
organizzazione autonome dei lavoratori/produttori diretti presentano un certo numero di tratti
comuni, che ne fanno i veri promotori del moderno movimento operaio. Esso è dunque nato
prima di Marx ed Engels, ed indipendentemente da loro, così come è nato indipendentemente
dall’azione di qualsiasi agitatore o “teorico” (utopista) intellettuale. È il prodotto diretto dello
sfruttamento e della miseria subiti dagli operai per l’esistenza del sistema capitalista, il
prodotto immediato della società borghese.
Se bisogna rendere qualcuno “responsabile“della lotta della classe operaia, questo
responsabile è il padronato, cioè la lotta quotidiana, permanente, spietata che il Capitale e il
suo Stato conducono contro il Lavoro salariato.
Il grande merito delle prime azioni e organizzazioni dei lavoratori salariati che abbiamo
richiamato, è la conquista dell’indipendenza di classe, la presa di coscienza della necessità
da parte degli operai di organizzarsi tra loro, separatamente dai padroni, grandi o piccoli, per
difendere i loro propri interessi, che sono diversi da quelli della borghesia e della piccola
borghesia, inclusa la loro ala politica più radicale. Così, migliaia di operai hanno raggiunto un
primo livello di coscienza di classe: la coscienza di classe, economica, sindacale, che va
considerata un enorme passo avanti non appena essa acquista un carattere di massa e
permanente, rispetto alla situazione atomizzata e disorganizzata dell’esistenza e della prima
resistenza operaie.
Per finire, da questi primi tentativi di azione collettiva e di organizzazione stabile della classe
operaia sorgono le forme di lotta essenziali del proletariato, che segnano fino ad oggi lo
scontro di classe, in tutto il mondo: scioperi e forme organizzative adeguate al successo degli
scioperi (costituzione di casse di mutuo soccorso e di resistenza; picchetti di sciopero;
propaganda e azione contro i crumiri; educazione alla solidarietà collettiva; ecc.);
manifestazioni e cortei di massa; assemblee e comizi di massa; stampa di massa (in
Inghilterra, uno dei primi propagandisti politici della classe operaia e precursore del cartismo,
William Cobbett, pubblicò nel 1816 un numero speciale del suo giornale, Political Register,
con tiratura di 200.000 copie, contenente la sua Lettera ai Manovali e agli Operai salariati);
le più svariate petizioni e agitazioni in favore del suffragio universale e della generalizzazione
delle libertà democratiche; e così via.
Tuttavia, queste prime manifestazioni di azione e di organizzazione di classe indipendenti
degli stessi lavoratori salariati sono anch’esse segnate da una serie di debolezze, che sono in
pratica comuni a tutte:
a) L’azione e l’organizzazione sono discontinue. Anche i sindacati, tranne alcuni
sindacati di categorie particolarmente qualificate - che di fatto dispongono di un
monopolio molto stretto sul mercato del lavoro, e che lo difendono spesso con metodi
corporativi dall’accesso di altri/e operai/e, soprattutto cercando di escludere le donne
da impieghi stabili qualificati - non durano a lungo quasi mai. Questi sindacati
tendono a rafforzarsi in una fase di alta congiuntura e a sparire in un periodo di crisi e
di disoccupazione. Le lotte ampie e violente coincidono in genere con i periodi di crisi
e si attenuano in fase di alta congiuntura. Al carattere discontinuo dell’organizzazione
corrisponde in genere la sua natura geograficamente frammentata, soprattutto locale o
regionale. Solo i cartisti appaiono come un movimento di classe veramente nazionale.
b) L’azione e l’organizzazione sono largamente minoritarie. Coinvolgono ancora
un’infima frangia dell’insieme del proletariato. Per ciò stesso, tendono a riflettere
specificità di gruppi distinti, sia nelle loro rivendicazioni, sia nelle loro forme
d’azione, anziché essere l’espressione di quel che è comune all’intera classe.
c) Se le loro rivendicazioni esprimono in generale interessi reali dei lavoratori, il più
delle volte si tratta di interessi immediati o a medio termine. Quando si fa il tentativo
di abbozzare un “programma massimo”, cioè di prospettare l’immagine di una società
in cui verrebbe eliminato lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, lo si va
generalmente in termini vaghi e insufficienti, mutuando idee o dai socialisti utopisti, o
dagli economisti post-ricardiani più critici, o a volte da puri e semplici ciarlatani.
d) Se la conquista della coscienza di classe è quasi interamente sul piano della lotta e
dell’organizzazione economica in seno ai primi veri sindacati (il caso delle prime
cooperative è già più complesso), lo stesso non avviene nel campo della lotta e
dell’organizzazione politica. La separazione della democrazia proletaria rispetto alla
democrazia piccolo-borghese è un processo estremamente complicato, discontinuo,
irregolare, che passa per alti e bassi successivi, conoscendo sussulti e ricadute verso
organizzazioni interclassiste.
e) Il caso più tipico è quello dell’Inghilterra, dove gli operai politicamente più attivi
sostennero dapprima la campagna di agitazione piccolo-borghese in favore del
suffragio universale, poi la lotta del partito liberale Whig in favore del Reform Bill, per
poi costituire il loro partito politico indipendente con il cartismo e ricadere, a partire
dagli anni Cinquanta dell’Ottocento e per una lunga fase, nella dipendenza politica dal
partito liberale.
Lo stesso accadde per quasi un ventennio in Germania, dove il primo partito operaio
indipendente stabile fu fondato da Ferdinand Lassalle solo nel 1863, sulla base della
rivendicazione del suffragio universale; nel 1875 si fuse con il cosiddetto partito
comunista di Liebknecht e Bebel.
In Francia e in Belgio, si è dovuto attendere ancora più a lungo prima che si
formassero partiti operai indipendenti di massa stabili. Negli Stati Uniti e in altri paesi
in cui è forte il movimento sindacale, ad esempio in Argentina, questo secondo stadio
della coscienza di classe del proletariato ancora oggi non è stato conquistato.
Marx ed Engels hanno intrapreso uno sforzo gigantesco e permanente, nel corso di un mezzo
secolo, per venire a capo di queste debolezze. Vi sono alla fine riusciti ampiamente,
perlomeno in un numero importante di paesi (tutti i paesi industrializzati nel XIX secolo,
tranne gli Stati Uniti). Possiamo caratterizzare questo sforzo come la fusione graduale,
progressiva del movimento reale di azione e di organizzazione del proletariato con le
principali acquisizioni del socialismo scientifico, così com’erano accessibili alle larghe masse
(non con tutti gli elementi della dottrina marxista):
a) Marx ed Engels parteciparono alla battaglia per fare accettare l’organizzazione
sindacale permanente come forma di organizzazione elementare indispensabile per la
lotta di emancipazione della classe operaia. Dovettero opporsi, su questo, all’influenza
settaria di numerose tendenze: prudhoniani, post-ricardiani, alcune tendenze
cooperativistiche e comuniste dogmatiche; più tardi, ad alcune tendenze
anarchico/libertarie.
b) Marx ed Engels fecero passare il principio dell’organizzazione politica indipendente
(del partito politico indipendente) della classe operaia, e della sua partecipazione,
ovunque possibile, alle lotte politiche legali in corso in ogni paese, incluso (ma non
solo) alle elezioni. Se per quanto riguarda il generalizzarsi dell’organizzazione
sindacale il loro ruolo è stato quello di stimolo, per quanto invece riguarda
l’organizzazione politica indipendente essi hanno svolto un ruolo propulsore
fondamentale, anche se in Germania la prima iniziativa riuscita è venuta da Lassalle.
c) Essi hanno compiuto sforzi per unificare il movimento operaio oltre le barriere
sindacali/politiche, nazionali/statuali, razziali/continentali e tra operai e operaie. La
fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale) nel
1863 costituì il primo sbocco di questo impegno. Essa riunì, oltre ai sindacati
britannici dell’epoca, i primi partiti e nuclei operai di Germania, Svizzera, Belgio,
Italia, Spagna, Francia, ecc., nonché gruppi o corrispondenti socialisti negli Stati Uniti
(soprattutto composti di immigrati tedeschi), in Polonia, in Russia, in Uruguay, in
Argentina, a Cuba, in Messico, ecc. Lo sforzo di unificazione si basava su concezioni
organizzative democratico-pluraliste, senza le quali sarebbe stato irrealizzabile.
d) Essi hanno dato loro chiari e precisi obiettivi a lungo termine, comuni alla larga
maggioranza delle organizzazioni operaie verso la fine del XIX secolo:
l’appropriazione collettiva dei principali mezzi di produzione e di scambio; la
creazione di una società senza classi; la democrazia operaia basata
sull’autorganizzazione del proletariato (“l’emancipazione dei lavoratori sarà opera
degli stessi lavoratori”).
e) Hanno definito una prospettiva chiara e semplice per raggiungere questo scopo, una
prospettiva accolta da milioni di lavoratori sparsi per il mondo agli albori del XX
secolo: organizzazione sempre più ampia delle masse operaie in sindacati e partiti (in
aggiunta, anche cooperative, casse malattia); educazione sempre più efficace di queste
stesse masse grazie alla propaganda, all’agitazione e all’azione di massa; lancio di
lotte sempre più massicce e generalizzate, avviate dai punti di partenza più diversi
(obiettivi democratici, nazionali, economici, contro la guerra, ecc.), e loro
articolazione rispetto alle contraddizioni e crisi inerenti al modo di produzione
capitalistico, finché tutta questa valanga non scateni una lotta per la conquista del
potere che si identifica con una rivoluzione sociale (una profonda trasformazione del
sistema proprietario e dei rapporti di produzione).
f) Hanno fornito un’analisi teorica scientifica delle leggi di sviluppo e delle
contraddizioni interne del sistema capitalistico di produzione, che sottende l’intera
prospettiva, che spiega perché delle crisi pre-rivoluzionarie e rivoluzionarie diventino,
alla lunga, inevitabili all’interno di questo stesso sistema.
g) Hanno, con ciò stesso, permesso l’integrazione tra la lotta dei lavoratori per migliorare
immediatamente la loro sorte e la loro spinta verso una radicale trasformazione della
società. Con ciò, l’unificazione tra il movimento e l’organizzazione reali della classe
(che punta sempre a obiettivi immediati) con lo scopo socialista/comunista diventava
sempre più una realtà. Ciò dava una straordinaria fiducia in se stessa alla classe
operaia, che sentiva di avanzare di successo in successo, in modo pressoché
irresistibile. La formidabile ascesa del movimento operaio nel periodo 1890-anni
Venti (in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti, il punto culminante si sarebbe
raggiunto nel corso degli anni Trenta) è il riflesso di questa fiducia in sé.
Retrospettivamente, possiamo vedere come, pur avendo questa unificazione garantito un
primo impressionante slancio al movimento operaio organizzato, essa non bastasse ad
assicurare la vittoria di rivoluzioni proletarie. Era tuttavia indispensabile, perché si creino le
condizioni di questa vittoria.
VII – L’ITINERARIO PERSONALE DI MARX ED ENGELS
Il marxismo è un prodotto della sua epoca. Non ne è, tuttavia un prodotto né spontaneo né
automatico.
Perché la trasformazione delle scienze sociali, lo sviluppo del socialismo utopista verso il
socialismo scientifico, la trascrescenza della prassi e dell’organizzazione rivoluzionarie
piccolo-borghesi e pre-proletarie si verificassero concretamente, nel momento in cui si sono
verificate, il ruolo di due persone – Marx ed Engels – è stato determinante.
Ovviamente, hanno potuto avere il ruolo che hanno avuto perché “la storia aveva bisogno di
loro”, vale a dire perché la loro attività corrispondeva a un bisogno sentito da molta gente
(naturalmente, i proletari, ma anche i socialisti/comunisti dell’epoca), cosa che è confermata
dal fatto che tentativi che muovevano nella stessa direzione sono stati intrapresi da altri,
perché questi sforzi di sintesi erano nell’aria (del tempo). Tuttavia, la maniera precisa in cui si
sono realizzate queste sintesi e trascrescenze, il loro contenuto e la loro dinamica specifici
dipendono in larga misura dalla personalità peculiare di questi due fondatori del marxismo.
Come accade il più delle volte, la “necessità storica” è filtrata da determinate personalità, che
non possono farla deviare dal suo corso di fondo, ma che possono lasciarle, fino a un
determinato punto, il segno della propria impronta, dei loro tratti personali.
Né Marx né Engels erano proletari. Il primo era figlio di una famiglia facoltosa della piccolaborghesia. È nato nel 1818: il padre era un avvocato liberale con un’influenza nella città
renana di Treviri (Trier), discendente da un’antica famiglia di rabbini, ma convertitosi al
cristianesimo per ragioni di convenienza personale, non per convinzione. Dal lato materno e
da quello della moglie, Jennie Westfalen, Marx era legato piuttosto alla grande borghesia che
non alle classi lavoratrici. La sua evoluzione verso il comunismo, quindi, non è assolutamente
determinata da un’esperienza direttamente vissuta, o da sue proprie condizioni esistenziali di
miseria (che diventeranno tali successivamente a questa adesione, e datano essenzialmente dal
suo secondo esilio a Londra, durante gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento; poi, negli
anni Settanta, la sua condizione materiale migliorerà). La sua scelta è fondamentalmente
determinata dal risultato di un lavoro intellettuale e da motivazioni etiche.
Questo vale ancor più per Engels. Nato nel 1820, proviene da una famiglia borghese di
industriali del tessile di Barmen, nella Ruhr. Visse per la maggior parte della sua vita come
gestore di una fabbrica tessile di proprietà della sua famiglia, in Inghilterra. Ebbe una vita
agiata e lasciò un patrimonio consistente al momento della sua morte, nel 1895. Anche nel
suo caso, l’itinerario verso il comunismo è innanzitutto intellettuale ed etico.
In entrambi i pensatori, però, l’evoluzione, la presa di coscienza progressiva non deriva da un
impegno intellettuale sganciato dalla realtà conflittuale del tempo. La loro motivazione non
solo scientifica ma anche morale deriva, appunto, dal confronto con situazioni sociali –
miseria operaia, ribellioni operaie, lotte politiche – che si sviluppano dinnanzi ai loro occhi,
influenzandoli profondamente. Da questo deriva anche l’impegno, cioè il non avere un
atteggiamento puramente interpretativo, quindi quietista e passivo, di fronte alla miseria
umana in generale e alla “questione sociale” in particolare. Marx ed Engels si sono
rapidamente decisi ad agire, ad adeguare l’attività alle proprie convinzioni, a tendere verso
quell’unità di teoria e prassi che diventa sia un criterio epistemologico (solo la pratica può,
in ultima analisi, confermare il contenuto di verità di una teoria), sia un obbligo morale.
Il loro impegno per e nel movimento operaio diventa, peraltro, la precondizione perché
riescano a realizzare il più importante dei loro contributi alla storia: la fusione progressiva del
movimento operaio reale di emancipazione dei lavoratori con le principali acquisizioni del
socialismo scientifico.
Così, l’itinerario personale di Marx ed Engels si intreccia con una serie di incontri, di
conoscenze di situazione e di conflitti, che li orientano e riorientano successivamente. Insieme
ai risultati delle loro analisi scientifiche critiche – vale a dire, di un esame critico dei dati delle
principali scienza sociali dell’epoca – questi incontri determineranno le loro prese di
posizione teorico-politiche e gli sviluppi di queste, dal neo-hegelismo al radicalismo politico
piccolo-borghese, dalla democrazia piccolo-borghese al socialismo/comunismo, e dal
comunismo rudimentale al socialismo/comunismo scientifico e rivoluzionario della loro
maturità.
a) L’incontro con la condizione proletaria - L’incontro con la miseria operaia si colloca
all’inizio immediato dell’esperienza giornalistica di Marx come redattore (poi
caporedattore) della Rheinische Zeitung (Gazzetta renana), subito dopo i suoi studi
universitari, nel 1842. È ancora più netto in Engels, posto a confronto con la
condizione operaia in Inghilterra fin dal suo arrivo in quel paese. Ne verrà fuori il
primo importante lavoro dei due giovani pensatori, Die Lage der Arbeitenden Klasse
in England (La situazione della classe operaia in Inghilterra), (1845).
b) L’incontro con la resistenza e l’organizzazione proletarie - Esso risale sostanzialmente
al primo esilio di Marx a Parigi, poi a Bruxelles, con il contatto con associazioni
operaie a Parigi e a Gand, ma soprattutto con l’incontro con gli operai della Lega dei
Giusti a Parigi, a Londra e a Bruxelles, negli anni 1846-1847. In Engels, sarà
determinante il contatto con i raggruppamenti cartisti e con gruppi operai
sindacalizzati nella zona di Manchester, come pure contatti più sparsi con nuclei
operai della Lega dei Giusti nella Ruhr, il tutto nel periodo 1844-1847. Entrambi i
fondatori del marxismo saranno, inoltre, fortemente segnati dalle esplosioni operaie
dello stesso periodo, soprattutto dalla rivolta dei tessitori della Slesia, del 1844.
c) L’esperienza diretta della rivoluzione del 1849-1850, acquisita grazie alla
partecipazione personale e attiva di Marx ed Engels agli sviluppi della rivoluzione in
Germania, in Austria, in Ungheria, in Italia, ecc. - Solo dopo l’insurrezione proletaria
del giugno 1848 e il bilancio che ne traggono sul ruolo controrivoluzionario della
borghesia tedesca, essi arrivano a mettere a punto una strategia per la presa del potere
basata su una logica di rivoluzione permanente, nel 1850.
d) L’esperienza di un’organizzazione rivoluzionaria proletaria esistente (la Lega dei
Comunisti), tra il 1847 e i primi anni del secondo esilio di Marx a Londra - Questa
esperienza rese molto più concreta la concezione dell’organizzazione proletaria dei
due amici, predisponendoli ed armandoli a capire i problemi politico-organizzativi che
avrebbero dovuto affrontare nel corso degli anni 1860-1870 e successivamente.
e) L’esperienza dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, tra il 1863 e il 1873 e
soprattutto l’impegno per coinvolgervi i sindacati inglesi – Essa costituì il primo
incontro reale di Marx ed Engels con organizzazioni di massa della classe operaia e
con un ambiente operaio ideologicamente e politicamente diversificato, con i problemi
cioè del pluralismo e della democrazia operai.
f) L’incontro, a partire dagli anni Settanta ma soprattutto nel corso degli anni Settanta,
con nuovi progressi delle scienze etnologiche e naturali (soprattutto tramite Darwin e
Morgan) - Esso permise a Marx ed Engels di affinare la loro concezione del
materialismo storico.
g) L’esperienza della Comune di Parigi - Fu indubbiamente la più importante esperienza
politica della vita di Marx ed Engels, quella che maggiormente contribuì a chiarire la
loro visione, al contempo, della questione teorico-politica dello Stato e del problema
capitale degli obiettivi politici della rivoluzione proletaria: la definizione della forma
della dittatura del proletariato.
h) L’esperienza – propria più del solo Engels – del sorgere della diversità e del potenziale
di unificazione dei partiti operai di massa in numerosi paesi, nel corso degli anni
1875-1895, e dei tanti problemi strategici e tattici posti da questo.
Se per la maggior parte questi incontri furono fecondi, e addirittura esaltanti, per i due
fondatori del marxismo, se consentirono loro di mettere alla prova e di mettere molto meglio a
punto le loro concezioni politiche e le loro ipotesi teoriche, è pur sempre vero che, in molte
occasioni, il loro progresso avvenne attraverso scontri di idee e scontri personali, in cui si
trovarono spesso coinvolti malvolentieri. Questo aspetto “frazionista” dell’attività di Marx ed
Engels è stato spesso denunciato come frutto di loro difetti personali, quando non del loro
“autoritarismo”, o addirittura del loro “terrorismo intellettuale”.
In realtà, l’intera storia conferma come le idee e le organizzazioni non possano progredire se
non tramite il confronto di idee e raggruppamenti, che si differenziano di fronte ad
avvenimenti e problemi nuovi. Pensare che possa accadere diversamente, significherebbe
credere sia che non esistano differenze fra individui e tra interessi sociali, sia credere
nell’infallibilità di alcuni e nell’evidenza di questa infallibilità agli occhi di tutti gli altri. Una
volta scartate queste due ipotesi aberranti, in politica in generale, e in quella operaia in
particolare, le lotte di gruppi e tendenze sono inevitabili.
I conflitti e le rotture susseguenti che più hanno influenzato lo sviluppo intellettuale di Marx
ed Engels sono, in ordine cronologico:
a) I loro contrasti con i “giovani hegeliani” contemplativi e fondamentalmente liberali,
nonché con Moses Hess, con cui Marx ed Engels rompono negli anni 1844-1845. Tale
rottura si manifesta a livello teorico nell’Ideologia tedesca e nelle Tesi su Feuerbach
(1845), vero e proprio atto di nascita del marxismo. Essa si basa sulla vasta
assimilazione critica delle acquisizioni della filosofia tedesca e della storiografia
sociologica francese, ma sull’appropriazione solo parziale dell’economia politica
inglese.
b) Il conflitto con il socialismo utopista di Prudhon e il comunismo non sufficientemente
maturo di Weitling, che occupa il periodo 1846-1848. Esso sfocia nella redazione
della Miseria della filosofia (1846) e del Manifesto comunista (1848). Si combina con
scontri di chiarificazione – meno violenti – in seno alla Lega dei Comunisti, che vanno
oltre la rivoluzione del 1848, sino agli inizi degli anni Cinquanta.
c) Il conflitto – a volte in forma di appropriazione intellettuale critica, a volte in forma di
“dialogo interno” – con gli esponenti principali dell’economia politica post-ricardiana
inglese, Hodgkin, Ravestone e Gray, che sfocerà nella redazione delle principali opere
economiche di Marx, i Grundrisse, il Capitale e le Teorie del Plusvalore, durante i
due decenni che vanno dal 1857 fino alla morte di Marx.
d) Il conflitto con Bakunin e i suoi seguaci in seno alla I Internazionale (1865-1973), che
si protrae fino a poco dopo la sconfitta della Comune di Parigi.
e) Il conflitto con le varie tendenze di destra in seno alla Socialdemocrazia tedesca,
dapprima i lassalliani, poi i primi esponenti del gradualismo riformista, che va dal
congresso di unificazione di Gotha del 1875 fino alla stessa morte di Marx, e che
anche Engels continuerà a portare avanti negli anni Ottanta, fino alla sua morte, nel
1895. I prodotti principali di questo scontro sono la Critica al Programma di Gotha
(1875) di Marx e l’Anti-Dühring (1879) di Engels
La cronologia di questi conflitti si presenta come quella delle principali opere di Marx e di
Engels. Mancano nell’elenco solo i loro scritti politici (ad esempio: Il 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte, Le lotte di classe in Francia, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania), gli
scritti giornalistici e le Origini della Famiglia, della Proprietà privata e dello Stato, nonché la
Dialettica della Natura di Engels.
Tranne un viaggio fatto da Engels negli Stati Uniti verso la fine della sua vita, l’esperienza
vissuta dei due fondatori del marxismo fu esclusivamente europea. Il loro pensiero è
profondamente segnato dalla storia sociale e intellettuale specifica dell’Europa. Di
conseguenza, sono stati spesso rimproverati per il loro “eurocentrismo”, o per il loro
particolarismo tedesco. Si tratta, però, di rimproveri infondati.
Certo, il marxismo è frutto delle contraddizioni della società borghese giunte a maturazione
che si sono incontestabilmente manifestate dapprima in Europa. In questo senso, non poteva
nascere in Asia, in America o in Asia, che per tutto il XIX secolo non conobbero se non uno
sviluppo capitalista rudimentale.
Tuttavia, anche se il capitalismo è nato in Europa, aveva fin dall’inizio una dimensione
internazionale, se non mondiale, che lo rese dipendente da tutto ciò che succedeva in altri
continenti. L’impatto violento, disgregante, distruttivo, disumano esercitato da questo
capitalismo sulle società pre-capitaliste d’America, Asia e Africa va ben oltre quello avuto
sulla società pre-capitalista in Europa occidentale, meridionale, centrale e orientale. Marx ed
Engels erano intellettuali troppo rigorosi e umanisti troppo appassionati per non accorgersene,
indignarsene e ribellarsi a quei crimini abominevoli.
La percezione del “terzo mondo”, del suo degrado e della sua inevitabile rivolta è stata perciò
rapidamente inserita nei loro scritti, pur occupando poco spazio in quelli giovanili. Basti
ricordare, per respingere l’accusa di eurocentrismo, le loro decise prese di posizione in favore
dei Sepoys indiani e dei Taï-ping cinesi, in favore dell’emancipazione degli schiavi in
generale. Del pari, hanno definito la spedizione franco-ispano-britannica in Messico una
“impresa tra le più mostruose degli annali della storia internazionale” (articolo del 23
novembre 1861, in MEW [Marx Engels Werke, “Opere di Marx-Engels”, l’edizione tedesca di
tutti gli scritti dei due autori], vol. XV, p. 366). Lo studio spinto sempre più a fondo della
storia del “modo di produzione asiatico”, dell’etnologia, delle specificità delle civiltà e delle
società non europee, della comunità di villaggio (mir) russa, occupa un posto crescente nel
lavoro intellettuale di Marx ed Engels nel corso degli ultimi due decenni della loro vita, e
segna in maniera sempre più netta la loro opera, incluso il Capitale.
Al tempo stesso, le fonti internazionali, l’attività decisamente internazionalista dei due amici,
consentono di respingere l’accusa profondamente calunniatrice rivolta loro. Le fonti del
marxismo, sul piano delle idee, dipendono dall’Inghilterra e dalla Francia, non meno che dalla
Germania. L’esperienza e l’attività che li situano nella vita politica del loro tempo si sono
svolte in Francia, in Belgio, in Inghilterra, nei paesi dell’Impero austro-ungarico, non meno
che in Germania. Riguardano anche la Polonia, l’Irlanda, l’Ungheria, la Spagna, la Svizzera,
come gli Stati Uniti e la Russia. Quanto alla loro organizzazione, è fin dall’inizio
internazionale, non esclusivamente tedesca. Vale per la Lega dei Comunisti. Vale per
l’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Varrà ancor più per la socialdemocrazia
internazionale dopo il 1885, che sbocca nella II Internazionale. Nei paesi dove i loro seguaci
iniziavano a organizzarsi, Marx ed Engels si sono dati da fare perché studiassero la concreta
formazione sociale del paese, perché si appropriassero delle tradizioni locali di lotta e
traducessero il loro programma nella lingua delle organizzazioni operaie e contestatarie
presenti; è questo il senso generale delle loro Lettere agli Americani, dal 1848 al 1885.
Uno dei grandi successi della loro vita politica, fonte di autentica e legittima fierezza, è stata
la presa di posizione dei loro compagni tedeschi, Bebel e Liebknecht, contro l’annessione
dell’Alsazia-Lorena da parte della Germania nel 1871, contro la prima pace di Versailles.
Stessa cosa, in precedenza, per la prima presa di posizione dell’A.I.T., sindacati britannici in
testa, contro l’atteggiamento filo-sudista del governo britannico durante la Guerra di
Secessione negli Stati Uniti. Portare la classe operaia di ogni paese a sviluppare la propria
politica estera, in base ai propri interessi di classe e ad alcuni grandi principi che ne
discendono (“nessun popolo può essere libero se ne opprime un altro”): questa l’ambizione
costante della loro vita politica, che si pone agli antipodi di ogni nazionalismo, a cominciare
dal nazionalismo tedesco.
Marx ed Engels erano sicuramente il prodotto della loro epoca. Non potevano superarne
completamente tutti i limiti soggettivi, determinati da esperienze ancora troppo frammentarie
dell’emancipazione proletaria e umana. Non erano infallibili. Non potevano capire tutto,
spiegare tutto, prevedere tutto. Pur avendo indubbiamente capito, spiegato, previsto
l’essenziale, hanno avuto punti deboli.
Engels si è sbagliato quando ha trattato le piccole nazionalità slave nel 1848-1849 da “popoli
senza storia”, incapaci di costituire Stati o nazioni realmente indipendenti. La storia gli ha
dato torto in proposito. Marx si è sbagliato plaudendo all’annessione della California e di altri
territori messicani da parte degli Stati Uniti nel 1845, definendo i messicani come oziosi,
incapaci di sfruttare le ricchezze naturali di quei territori. Ha veicolato su questo un
pregiudizio razzista.
In entrambi i casi, l’applicazione accorta del materialismo storico avrebbe permesso di
spiegare il comportamento degli uni e degli altri durante gli anni 1845-1855in modo ben
diverso da quello utilizzato da Marx ed Engels. Avrebbe permesso di spiegare la seconda
rivoluzione messicana (la Reforma), diretta principalmente da Benito Juarez, successiva alla
guerra tra Stati Uniti e Messico presa in considerazione da Marx. Avrebbe permesso di
spiegare la nascita di una sinistra ceca e serbo-croata, antizarista, democratica, a un tempo
ferocemente nazionalista e socialista, di cui Engels aveva negato la possibilità. Nei due casi,
Marx ed Engels non sono stati sufficientemente marxisti. Occorreva interpretare con criteri di
classe fenomeni politici apparentemente sconcertanti, come il cambiamento repentino dei
contadini e dell’intelligentsia ceca e croata durante la rivoluzione del 1848, come l’apparente
passività dei contadini messicani di fronte alla conquista yankee.
Analogamente, pur avendo un’acuta percezione della duplice oppressione subita dalle donne
nella società classista, e protraendo l’analisi delle origini di questa oppressione fino
all’avvento di questa società, Marx ed Engels non sono riusciti ad abbracciare tutti gli aspetti
dell’indispensabile emancipazione femminile, che sarebbero progressivamente emersi solo
nel XX secolo.
Detto questo, il bilancio complessivo dell’impegno sia teorico sia pratico dei due amici è più
che impressionante. Il loro personale contributo al progresso delle scienze sociali,
all’emancipazione proletaria e umana si colloca al vertice del successo dell’umanità. Senza di
loro, la storia del XIX e del XX secolo non sarebbe stata quella che è stata.
VIII - ACCOGLIENZA E DIFFUSIONE DEL MARXISMO NEL MONDO
La spiegazione delle origini, del contenuto e dello sviluppo del marxismo deve
necessariamente concludersi con l’analisi della sua diffusione e della sua effettiva influenza
nel mondo. Sulla lunga distanza, le idee e i sistemi di idee, vale a dire le dottrine, valgono per
quanto vale il loro impatto sulla storia reale. Le idee che non influenzino mai niente e nessuno
sono necessariamente marginali, incluso nella storia spirituale dell’umanità, per non parlare di
quella materiale. “La teoria si trasforma in forza materiale quando investe le masse”, aveva
già detto il giovane Marx.
Da questo ragionamento va evidentemente esclusa la questione del tempo. Idee che
influenzano il mondo in misura crescente cinquanta o cento anni dopo che sono state
formulate, sono più importanti di idee che hanno un impatto immediato ma che poi declinano
fino a sparire progressivamente dalla scena politica.
Quel che importa è che il loro impatto sociale si materializzi prima o poi in modo ampio,
crescente e – per quanto riguarda le idee che rafforzano il movimento operaio, il socialismo,
la causa universale dell’emancipazione umana – su scala mondiale, alla stregua del carattere
mondiale del “problema sociale”, dello sfruttamento dei lavoratori, dell’oppressione del
proletariato e di tutti gli altri gruppi umani oppressi nel mondo: donne, nazionalità e razze
oppresse, ecc.
Infine, le caratteristiche peculiari del proletariato, la sua posizione di subordinazione
economica e ideologica all’interno della società borghese, subordinazione che non è superata
dalla sua organizzazione, dalla sua combattività e dal suo peso sociale crescente, fanno sì che
la versione specifica (e a volte deformata) nella quale viene trasmesso il marxismo alle grandi
organizzazioni operaie e alle masse popolari in una determinata fase storica indiscutibilmente
influenzi lo sviluppo della coscienza di classe. Entrambe vanno in qualche modo insieme,
positivamente o negativamente, a seconda delle circostanze. Tuttavia, questo nesso non può a
propria volta essere scisso dal processo reale dell’organizzazione e della lotta del proletariato,
cioè dal cammino reale della storia.
L’accoglienza e la diffusione del marxismo va quindi esaminata, nell’ordine:
a) sullo stretto piano della diffusione degli scritti di Marx ed Engels;
b) sul piano dell’influenza di queste idee al di fuori del movimento operaio propriamente
detto, e cioè negli ambienti intellettuali, accademici e, in generale, nello “spirito del
tempo” (le ideologie dominanti delle successive fasi attraverso cui è passata la società
borghese);
c) all’interno del movimento operaio organizzato;
d) all’interno della classe operaia larga;
e) a livello internazionale.
Le opere di Marx ed Engels hanno conosciuto una diffusione assai diseguale e fortemente
desincronizzata. Alcuni scritti hanno avuto un impatto relativamente rapido e vasto,
soprattutto il Manifesto comunista, tradotto in tantissime lingue e diffuso in decine, poi
centinaia di migliaia di copie (bisognerà attendere, tuttavia, gli anni ’20 e ’30 del Novecento
perché la diffusione diventi generalizzata e arrivi a milioni di copie). Anche il tomo I del
Capitale ha conosciuto una diffusione relativamente rapida in numerosissime lingue, benché a
una scala ben più ridotta del Manifesto comunista, arrivando ad alcune migliaia se non decine
di migliaia di copie per lingua. La diffusione di praticamente tutte le altre opere, con la
probabile eccezione dell’Anti-Dühring di Engels, è stata più disuguale e molto più ridotta.
Va segnalato in proposito che alcune delle principali opere di Marx ed Engels sono state
pubblicate, incluso per la prima volta e nella loro lingua originale (il tedesco), con grande
ritardo. La Critica del Programma di Gotha, i volumi II e III del Capitale, sono usciti solo
venti anni dopo la loro stesura; l’Ideologia tedesca e i Grundrisse più di ottanta anni dopo
essere stati scritti. Per questo, tra generazioni successive di marxisti non hanno potuto avere
un’adeguata visione d’insieme della dottrina di Marx ed Engels, se non altro per la mancanza
di informazioni e di dati.
Segnaliamo che, fino ad ora, restano inediti alcuni dei manoscritti di Marx. L’ultimo dei suoi
importanti scritti economici è stato pubblicato solo nel 1983.
Molte degli scritti di divulgazione del marxismo hanno in genere avuto un impatto di massa
ben più vasto degli scritti stessi dei grandi maestri. Va riservato qui un posto privilegiato agli
opuscoli di Karl Kautsky, soprattutto La dottrina economica di Karl Marx e il Programma di
Erfurt (del Partito socialista tedesco), diffusi a centinaia di migliaia di copie in numerose
lingue. Altri autori hanno avuto analogo impatto su un piano più limitato, cioè per una o più
lingue. Questo vale per gli scritti di Bebel in tedesco, di Jules Guesde e Lafargue in francese,
di Labriola in italiano, di Iglesias in spagnolo, di Herman Gorter in olandese, di Plekhanov in
russo, di De Leon e Debs negli Stati Uniti, che sono stati letti dalle prime generazioni di
socialisti su scala ben più vasta delle opere degli stessi Marx ed Engels.
L’accoglienza del marxismo negli ambienti accademici e intellettuali è stata ancora più lenta è
sfasata. Non c’è da stupirsene. La resistenza della borghesia e degli strati più elevati della
piccola borghesia a prendere intellettualmente sul serio il marxismo era pari all’opposizione
intransigente di Marx e dei marxisti nei confronti non solo degli interessi materiali della
società borghese, ma anche dei suoi grandi “valori”. Lo stesso dato della crescente influenza
delle idee marxiste sulle masse era un motivo in più per escluderle dall’insegnamento, dalle
università, dai manuali “ufficiali”. Tranne qualche rara eccezione - ad esempio, l’economista
austriaco Böhm-Bawerk, il filosofo italiano Benedetto Croce e il dirigente della borghesia
ceca Thomas Masaryk – gli autorevoli rappresentanti dell’ideologia borghese non si
degnavano di polemizzare con il marxismo a un livello teorico minimamente serio. Occorrerà
attendere la fine della prima Guerra mondiale, la vittoria della Rivoluzione russa, l’ascesa del
movimento operaio europeo degli anni 1918-1923, il sorgere del comunismo in Cina e la crisi
degli anni ’30 perché la situazione cambi. Il marxismo penetra progressivamente
nell’Università, dapprima nell’Europa centrale e in Cina, in India e nel Giappone, poi nei
paesi anglosassoni. In Francia e in America latina, la penetrazione in forza nel mondo
intellettuale avverrà soltanto dopo la seconda Guerra mondiale.
Per tutto il periodo 1875-1900, la polemica sul marxismo sarà, per l’essenziale, una polemica
all’interno stesso del movimento socialista, suscitata da discussioni, tentativi di revisione e
scismi successivi, il più importante dei quali fu quello provocato da uno degli esecutori
testamentari e principali collaboratori intellettuali di Engels, Eduard Bernstein.
In ogni caso, il marxismo influenzerà in misura crescente, sia pure indirettamente, le scienze
sociali accademiche, in primo luogo storiografia e sociologia, imponendo la presa di
coscienza dell’importanza del “fattore economico” e dei gruppi sociali (invece dei “grandi
personaggi”) nella storia. Esso, dunque, modifica la stessa concezione della storia: da una
storia di Stati e di avvenimenti essenzialmente politico-militari, a una storia delle società.
L’impatto del marxismo sulla scienza economica “ufficiale” è stato più tardivo. Si è
manifestato innanzitutto nel campo della teoria delle fluttuazioni economiche (business
cycles), poi in quello delle grosse aggregazioni (teorie macroeconomiche), specie a partire
dagli anni ’30, quindi sul terreno della pianificazione, dell’analisi dell’imperialismo e del
sottosviluppo, poi ancora delle società post-capitaliste.
L’influenza del marxismo all’interno del movimento operaio organizzato si sviluppa in
maniera decisiva solo a partire dalla nascita dei grandi partiti socialdemocratici di massa, nel
corso degli anni 1885-1900 (in Germania, 1875-1900). La sua influenza nei sindacati di
massa dei paesi anglosassoni non è mai stata più che marginale. Lo stesso vale, grosso modo,
per i partiti laburisti emersi successivamente da questi sindacati in Australia, in Gran
Bretagna, in Nuova Zelanda e, più tardi, in Canada.
In generale, i partiti socialdemocratici che finirono per costituire la II Internazionale (due
congressi concorrenti a Parigi, nel 1889; il congresso unitario a Bruxelles nel 1891; il III
congresso, anch’esso unitario, a Zurigo nel 1893) adottarono le tesi di fondo del marxismo nei
loro programmi o dichiarazioni di principi, in genere modellati sul Programma di Erfurt,
scritto da Kautsky in stretta collaborazione con lo stesso Engels.
Si trattava indubbiamente di un marxismo piuttosto sommario, ridotto ad alcune idee centrali
(lotta di classe; finalità socialista di questa, attraverso l’appropriazione collettiva dei principali
mezzi di produzione e di scambio; conquista del potere politico per raggiungere questo scopo;
solidarietà internazionale dei lavoratori): Tuttavia, rispetto alle prime organizzazioni della
classe operaia, sia sindacali e cooperative sia politiche, il complesso comunque coerente di
questa dottrina popolarizzata costituiva un progresso enorme, soprattutto perché,
contrariamente alle prime sette e leghe comuniste, influenzo ampi settori di masse.
La sua debolezza di fondo stava nel suo carattere rigidamente deterministico, tendente al
fatalismo, che vedeva la trascrescenza del capitalismo verso il socialismo in maniera più o
meno inevitabile, per effetto congiunto dello sviluppo economico e dell’organizzazione
socialista (operaia), senza attribuire un’importanza primordiale all’iniziativa politica e
all’azione cosciente del partito. Questo comportava spesso la rinuncia, quando non la
denigrazione, dell’azione diretta delle masse (“Generalstreik ist Generalunsinn”, “sciopero
generale è assurdità generale”, dicevano i dirigenti dei sindacati tedeschi), per non parlare
dell’azione rivoluzionaria o della distruzione dello Stato borghese.
Ci volle la Rivoluzione russa del 1905 perché una vasta corrente internazionale,
essenzialmente incarnata da Rosa Luxemburg e dai socialisti russi Lenin e Trotsky, si
riappropriasse di nuovo della tradizione marxista dell’azione diretta delle masse e
dell’iniziativa rivoluzionaria dei partiti. Nei trent’anni precedenti quella tradizione era stata
emarginata nella socialdemocrazia – tranne in parte in Belgio – rimanendo relegata in
ambienti anarco-sindacalisti e sindacalisti rivoluzionari (Spagna, Gran Bretagna, Argentina,
parzialmente Stati Uniti, Italia e Francia).Tra l’ascesa organizzativa, elettorale e sindacale
della socialdemocrazia internazionale nel quarto di secolo 1875-1900 e la diffusione delle
idee e delle opere di Marx si era a volte verificata un’interazione più diretta. Merita di essere
segnalato un caso speciale: quello della Finlandia. Quel piccolo paese sotto lo stivale dello
zarismo riuscì, nello spazio di un decennio, tra il 1899 e il 1911, a dar vita a uno dei
movimenti operai più potenti e più combattivi del mondo intero. L’ascesa di questo partito
sarebbe, del resto, approdata nel 1917-1918 alla rivoluzione proletaria più profonda e tenace
(come pure la più repressa), a parte la Russia. Alle elezioni parlamentari del 1913, i socialisti
finlandesi ottennero il 43% dei suffragi, il dato più alto d’Europa, superiore alla
socialdemocrazia tedesca. Strapparono alla Dieta la decisione di far pubblicare il tomo I del
Capitale di Marx a spese del parlamento.
La penetrazione delle idee e della dottrina marxiste in seno alle larghe masse operaie
dell’epoca della II Internazionale è stata in genere esagerata dagli storici, compresi quelli del
movimento operaio. Le masse si formarono le proprie convinzioni politico-sindacali grazie a
due vagli: le loro normali lotte per obiettivi immediati (obiettivi economici e suffragio
universale; in alcuni paesi vi si aggiungono obiettivi nazional-democratici); la formazione
quotidiana dispensata dalla stampa e nelle riunioni socialiste. Dal marxismo come dottrina
coerente al marxismo sommario dei programmi socialdemocratici c’era già un vasto margine.
Da quei programmi alla pratica, l’esperienza e l’educazione quotidiane dei lavoratori la
distanza era ben più considerevole ancora.
La sistematica formazione teorica dei lavoratori fu tra le più esigue. Le riviste teoriche
marxiste, inclusa la più prestigiosa di queste, la Neue Zeit, arrivarono solo a poche migliaia di
abbonati (10.000 la Neue Zeit). Le scuole centrali di partito, comprese quella del Partito
socialista tedesco che contava un milione di iscritti, non ebbero mai più partecipanti
dell’attuale scuola della IV Internazionale.
Un esempio illustra la debole penetrazione del marxismo fra le masse. A Milano, fortezza del
socialismo italiano, nel corso del 1910 le biblioteche pubbliche prestarono 264.00 volumi.
Quei prestiti furono fatti per il 44% a operai e per il 32% a studenti. Fra gli autori dei libri dati
in prestito non compaiono i nomi di Marx ed Engels!
Il contributo che il marxismo ha dato alle larghe masse, oltre a forti organizzazioni e alla
sensazione generale del bisogno di saldare indipendenza di classe e l’attività politiche compresa l’attività internazionalista – all’azione sindacale, è stata la sensazione generale di
trovarsi “nella direzione della storia”: la sensazione che il capitalismo fosse condannato a
finire e che gli sarebbe succeduto il socialismo.
Sul modo in cui dovesse avvenire il passaggio dall’uno all’altro non c’erano né idee precise
né un dibattito approfondito Questo si limitava alle cerchie dei militanti politici più attivi, o ai
vertici del partito. Riguardava migliaia di persone quando già il movimento socialista ne
raccoglieva milioni. Non sarebbe riuscito a penetrare a fondo nelle masse se non verso la fine
della Guerra mondiale del 1914-1918, e cioè quando era posto nella pratica dall’impatto
congiunto di questa guerra e delle grandi rivoluzioni proletarie che ne scaturirono: le
rivoluzioni russa, finlandese, austriaca, ungherese, nonché la crisi rivoluzionaria in Italia.
Vi fu, però, un effetto profondo della dottrina marxista sulle masse, operante a volte
attraverso mediazioni indirette e impreviste, che non va neanch’esso sottovalutato. Un
esempio è fornito dalla lotta per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore.
Marx fu il principale propagandista e pedagogo del movimento operaio internazionale per
quanto riguarda il valore educativo della riduzione della giornata di lavoro. La stessa idea di
un’azione internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici per un obiettivo di classe comune ai
proletari di tutti i paesi è un’idea di origine chiaramente marxista. In pratica, tuttavia, la
decisione di fare del Primo Maggio in tutti i paesi una giorno di sciopero internazionale per la
giornata di otto ore si diffuse solo dopo la condanna a morte, e poi l’esecuzione, di cinque
capi anarchici a Chicago, i martiri di Haymarket, accusati nel 1886 di avere scagliato una
bomba contro la polizia. Ci volle quella tragedia per infiammare l’immaginazione e la
sensibilità operaie su grande scala. Fu questa a scatenare un movimento poderoso e, alla
lunga, irresistibile (la giornata di otto ore alla fine fu strappata praticamente in tutti i paesi
industrializzati); fu merito solo di quella tragedia, mentre la scintilla del pensiero e della
propaganda marxisti si era dimostrata insufficiente.
Il fatto che il contenuto rivoluzionario della dottrina di Marx ed Engels abbia cominciato ad
essere battuto in breccia alla fine del XIX secolo, nella socialdemocrazia, dal revisionismo di
Bernstein e dall’esaltazione della collaborazione ministeriale, poi praticata da Millerand in
Francia e da Bissolati in Italia, suscitò fra le masse una certa confusione, tanto più accentuata
in quanto il revisionismo, per quanto combattuto sul piano delle idee dalla maggior parte dei
dirigenti socialdemocratici noti che si dicevano marxisti, corrispondeva in misura crescente
alla loro pratica di tutti i giorni. Questo vale soprattutto per Anseele e Vandervelde in Belgio,
Troelstra in Olanda, Branting in Svezia, Stauning in Danimarca, Greulich in Svizzera,
Palacios e Justo in Argentina e, in larga misura, per Victor Adler in Austria. Solo Bebel in
Germania, Guesde in Francia, Sen Katayama in Giappone mantennero in quella fase una
coerenza più intransigente di fronte alla teoria e alla pratica revisioniste. Quell’intransigenza,
tuttavia, si infranse, per Bebel e Guesde, all’indomani della rivoluzione russa del 1905,
intorno al 1910 (Guesde divenne ministro in un governo di coalizione borghese, cosiddetto di
“union sacrée”, nel 1914). Katayama rimase un marxista intransigente.
Pur essendo vero che la teoria marxista non fu ampiamente diffusa fra le masse nella sua
versione originale e integrale, va però respinta anche un’altra leggenda, quella secondo cui le
poche idee chiave del marxismo che furono largamente riprese dai primi partiti
socialdemocratici di massa non influenzarono concretamente la coscienza delle masse stesse.
È particolarmente falso per quanto riguarda l’internazionalismo. All’apogeo della II
Internazionale vi furono impressionanti manifestazioni pratiche di internazionalismo
proletario. È esattamente grazie a questa pratica che il tradimento dell’agosto 1914 risultò così
disorientante per le grandi masse e mostruoso per la sinistra socialista.
Poco dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Giappone, i dirigenti socialisti di entrambi i
paesi, Plechanov e Sen Katayama si abbracciarono al Congresso di Amsterdam
dell’Internazionale e proclamarono la loro comune opposizione alla guerra e alle classi
possidenti dei rispettivi paesi che l’avevano scatenata. Quando scoppiò la rivoluzione russa
del 1905, suscitò un forte movimento di solidarietà internazionale. Fu, del resto, il detonatore
della radicalizzazione delle lotte operaie in vari paesi, soprattutto di uno sciopero generale in
Austria per il suffragio universale. Allorché la borghesia svedese volle vietare con
l’intervento militare il movimento per l’indipendenza della Norvegia, nel 1906, il congresso
del partito socialdemocratico svedese decise di opporsi alla guerra con ogni mezzo, incluso lo
sciopero generale, e organizzò una grandiosa manifestazione di massa a Stoccolma che fece
arretrare il governo.
Nel 1911 il Partito socialista italiano, contro una potente ondata sciovinista sorretta da un
terzo del proprio gruppo parlamentare, organizzò uno sciopero generale contro la spedizione
colonialista a Tripoli (Libia)
L’educazione marxista, l’approfondimento del marxismo, la sua applicazione ai problemi
analitici e strategici nuovi posti dall’avvio dell’era imperialista, continuarono per l’essenziale
in seno alla sinistra socialista. Si sviluppò soprattutto in seno agli stessi partiti
socialdemocratici fino al 1914 (1917 e anche 1920), ma approdò ormai a scissioni in vari
paesi prima della prima Guerra mondiale: Russia, Polonia, Olanda, Bulgaria. In altre parti,
correnti sindacaliste rivoluzionarie svilupparono alcuni aspetti del marxismo al di fuori dei
partiti socialisti. Questa sinistra marxista sfociò nella costruzione della III Internazionale
all’indomani delle grandi rivoluzioni del 1917-1919.
Il fenomeno che colpisce maggiormente di tutto questo periodo di ascesa dei partiti politici di
massa influenzato dal marxismo è l’estensione mondiale della sua presa, passata
successivamente dall’Europa occidentale agli Stati Uniti, all’Europa meridionale e orientale
(Russia, Balcani), all’Asia (Armenia, Georgia, Iran, Giappone, Cina, India, Indonesia),
all’America latina (Argentina, Uruguay, Brasile, Messico, Cuba, Cile), all’Oceania (Australia,
Nuova Zelanda) e all’Africa (Egitto, Tunisia, Sud-Africa)
Indirettamente, la problematica specifica dei paesi coloniali e semicoloniali fu
progressivamente inserita nell’analisi e nella prassi marxiste, specie a partire dalla rivoluzioni
russa, iraniana e cinese del 1905-1912. Si noti che questo non si verificò durante la
rivoluzione messicana del 1910-1917, che fu l’ultima grande rivoluzione contemporanea in
cui non si formò una corrente marxista pronunciata. Al termine del III congresso
dell’Internazionale socialista a Zurigo, il 12 agosto 1893, Friedrich Engels, seduto in sala
come semplice delegato, fu portato alla tribuna da un’immensa ovazione. Il vecchio militante,
commosso, dopo essersi rammaricato che il suo vecchio compagno di lotta Karl Marx non
avesse potuto vivere quel progresso del movimento operaio mondiale organizzato, espresse la
sua incrollabile fiducia nella «nuova, più forte, invincibile Internazionale». Dando uno
sguardo indietro ai cinquantadue anni della sua vita politica, rivedendo le città di Vienna,
Berlino, Parigi, Londra, poteva proclamare «che Marx e lui non avevano lottato invano, che
potevano guardare indietro alla loro opera con fierezza e soddisfazione». E concluse: «Non
c’è paese, non un solo grande Stato in cui la socialdemocrazia non sia oggi una forza con cui
tutti devono fare i conti. Siamo, anche noi, “una grande potenza” di cui hanno paura. Il futuro
dipende ben più da questa e da noi che da qualsiasi altra “grande potenza” borghese!».