IL POSTO DEL MARXISMO NELLA STORIA Ernest Mandel Per capire il marxismo è necessario in primo luogo collocarlo nel suo contesto storico. Occorre capire quando è nato e come è venuto fuori. Bisogna spiegarne la comparsa e lo sviluppo attraverso il gioco delle forze sociali: la loro natura economica, i loro interessi, la loro ideologia, le personalità che ne hanno articolato le aspirazioni. In altri termini, occorre applicare l’interpretazione materialista delle storia allo stesso marxismo, non pensare che la sua comparsa vada da sé, capire che richiede una spiegazione, e cercarle di fornirla. Stabilendo così il posto del marxismo nella storia, potremo coglierne meglio il contenuto e la portata storica. I - IL CONTESTO STORICO GENERALE Il marxismo, in ultima analisi, è il portato della comparsa del modo di produzione capitalistico a partire dai secoli XV e XVI in alcune aree dell’Europa occidentale (Italia settentrionale e centrale, Paesi Bassi, Inghilterra, parti della Francia, della Germania, della Boemia e della Catalogna), sulla cui base emerge una società borghese che progressivamente domina la vita sociale in tutti i campi dell’attività umana. Il sistema di produzione capitalistico si basa sull’appropriazione privata dei grandi mezzi di produzione e di sussistenza (strumenti di lavoro, terra, alimenti) da parte dei capitalisti (vale a dire dei detentori di rilevanti somme di denaro). Essi impiegano parte del loro capitale per acquistare la forza lavoro di un’altra classe sociale, il proletariato, costretto a vendere questa forza lavoro in quanto non ha più accesso ai mezzi di produzione per produrre la propria sussistenza. È questo rapporto antagonistico tra Capitale e Lavoro salariato, reso possibile dal generalizzarsi della produzione mercantile (la trasformazione dei mezzi di produzione e della forza lavoro in merci) a fondare il nuovo sistema di produzione. Esso sorge in seno a una società – la società feudale – la cui lenta decadenza dischiude una fase di transizione lunga e contraddittoria che si estende, in alcune delle regioni dell’Europa occidentale citate, dal XIII al XVI secolo, quando non fino al XVIII secolo, ma alcuni dei cui aspetti continuano ad operare molto più a lungo. Questa fase si indica spesso come “società semifeudale”. Si base sulla piccola produzione di merci, al cui interno i principali produttori – i contadini e gli artigiani – sono produttori liberi e non servi, che dispongono di propri strumenti di produzione. Il modo di produzione capitalistico compare solo quando questi liberi produttori vengono progressivamente privati dei loro mezzi di produzione e del libero accesso alla terra. Il modo di produzione capitalistico nasce agli inizi nella forma dell’impresa agricola commerciale, dell’industria a domicilio e della manifattura. Nella prima, il produttore (il contadino) viene spossessato degli strumenti di lavoro (la terra, gli animali, gli strumenti) e impiegato come operaio agricolo o come domestico di fattoria da un fattore-imprenditore che produce per il mercato. Nella seconda, il produttore, anche qui spossessato, produce per un accomandatario capitalista. Dentro la terza, produttori spossessati sono ormai concentrati in gran numero sotto uno stesso tetto. Fattori, mercanti e imprenditori, così come i loro salariati, cominciano a costituire un mercato interno per le merci (viveri, tessuti, utensili, beni di consumo). Va tuttavia rilevato che questo modo di produzione capitalistico, dal XIII agli inizi del XVIII secolo, non è né egemone né consolidato. In questa fase dello sviluppo storico, non ha ancora conquistato da nessuna parte il potere politico, tranne nell’Olanda del Nord e in alcune città come Ginevra; ma, questo, tramite la sua frangia più aristocratica, la borghesia dei banchieri e dei grossi mercanti. Lo Stato resta uno Stato semifeudale (spesso una monarchia assoluta). Si mantiene la maggior parte dei privilegi della nobiltà e del clero, benché queste classi dominanti della società feudale si impoveriscano progressivamente rispetto alla borghesia e lentamente si decompongano. Soprattutto, i proletari propriamente detti costituiscono solo un’esigua minoranza fra i produttori, che sono, nella stragrande maggioranza, contadini, sia liberi (piccoli produttori mercantili), sia ancora parzialmente sottoposti a residui servili. È solo con la rivoluzione industriale, che si situa nella seconda metà del XVIII secolo, che il nuovo modo di produzione capitalistico si consoliderà e s’imporrà definitivamente. È a partire dal sistema dell’officina (della fabbrica) basata sui macchinari che si espanderà per il mondo, che esprimerà appieno tutte le sue caratteristiche fondamentali. Solo a partire da quel momento lo si potrà comprendere appieno, se ne potranno cogliere le leggi di sviluppo (la logica, la dialettica interna). I macchinari, che sono la base della moderna fabbrica capitalista, risultano da una lenta trasformazione degli strumenti di lavoro artigianali/industriali a partire dal XIII secolo (mulini ad acqua, tecniche di coltivazione e di allevamento, tecniche minerarie, ecc.), che sfocia alla fine nell’impiego di una nuova fonte di energia nella produzione: quella del vapore. Questa trasformazione è stimolata a partire dal XVI secolo dal celere progresso delle scienze naturali e dalla loro crescente utilizzazione nella tecnica di produzione e di circolazione delle merci. Uno dei risultati più clamorosi del progresso delle scienze applicate è l’affermarsi della scienza della navigazione e della costruzione navale, che rende possibili le grandi spedizioni di scoperta e di saccheggio a partire dall’Europa verso l’Africa meridionale e orientale, l’Asia e le Americhe nel XVI secolo (1492, “scoperta” dell’America di Cristoforo Colombo), che scatena una grande espansione del commercio internazionale. Nasce così un vero e proprio mercato mondiale per prodotti cosiddetti coloniali, mentre il mercato alimentare si estende a tutta l’Europa, seguito successivamente da quello dei prodotti manifatturieri. Questo mercato mondiale stimolerà a propria volta l’espandersi del sistema capitalistico di produzione. Tuttavia, il celere progresso delle scienze naturali, correlato all’espansione del sistema capitalistico di produzione, sconvolge via via anche le forme di vita, di attività e di pensiero delle masse urbane, quelle della nuova borghesia come quelle della piccola borghesia e dei primi precursori del proletariato moderno, non mancando di influenzare anche settori delle masse rurali, perlomeno in determinati paesi. La società feudale era essenzialmente contraddistinta da una notevole stabilità dell’esistenza umana. Ognuno “aveva il suo posto “ e “restava al posto suo”. I figli dei servi erano servi; quelli della nobiltà erano nobili o appartenenti all’alto clero; i figli degli artigiani diventavano artigiani. Un’ideologia religiosa non meno statica, la religione cattolica consolidata dalla scolastica, mascherava, razionalizzava e giustificava questa società con una struttura fortemente gerarchica. Non si trattava, certamente, di rigidità assolute. Come la tecnica, il pensiero e la contestazione sociale hanno conosciuto anch’esse significativi progressi in seno alla società feudale in Europa (specie nel XIII secolo). Si sono avuti progressi nel campo filosofico; ad esempio, la “sinistra avicenniana”, di origine islamica, si avvicinò al materialismo. L’espansione del commercio internazionale diede impulso a pratiche intellettuali (la contabilità!) generatrici di pensiero razionalista. Ma tutti questi progressi sono stati lenti, contraddittori, soggetti a pronunciate ricadute verso il controllo religioso (il sorgere dell’Inquisizione) e l’oscurantismo, in particolare nel XV secolo, connesse alla crisi generalizzata della società feudale. A partire dal XVI secolo e dalla comparsa del modo capitalistico di produzione, cambia il clima ideologico e culturale, in stretta connessione con il radicale cambiamento della vita quotidiana e dei modi di pensare delle popolazioni urbane. La sensazione che tutto cambi rapidamente si sostituisce a quella di un ordine stabilito eterno. Progressivamente si generalizzano il dubbio, la rimessa in discussione dei “valori stabiliti”, l’esame critico delle presunte “leggi divine” come anche delle istituzioni umane. Sono i dogmi religiosi i primi ad essere sottoposti a revisione, per l’effetto congiunto delle conquiste delle scienze naturali, dell’espandersi dello spirito critico e delle ribellioni agli abusi, ai privilegi e alla corruzione del clero. È così che si sviluppano fianco a fianco l’umanesimo semiateo, la Riforma (luterana, anglicana, calvinista, puritana) e la filosofia razionalista-naturalista (Galileo, Cartesio, Spinoza). In ultima analisi, questi movimenti ideologici esprimono le aspirazioni delle nuove classi urbane e rurali che si sviluppano con il sistema capitalistico di produzione: la borghesia, la piccola borghesia di funzionari e ideologi (insegnanti, dotti, artisti), l’artigianato indipendente, il proletariato (con un salario solo per una parte dell’anno), i fattori imprenditori. Ognuna di esse si riconoscerà, in tutto o in parte, in una delle varianti della nuova religione e delle nuove tendenze filosofiche. Questa lotta ideologica ha assunto essenzialmente una forma religiosa, e questo si spiega con il ruolo della religione come ideologia egemone in seno alla società feudale, ideologia che permea profondamente tutte le classi attraverso l’educazione e nella vita quotidiana. Si tratta, però, di una vera e propria lotta di classe, come dimostrano i grandi scontri sociali e politici in cui sfociano questi conflitti religiosi, conflitti che arrivano fino a guerre civili e a vere e proprie rivoluzioni: rivolta degli Hussiti in Boemia nel XV secolo; guerra dei contadini in Germania, rivoluzioni dei Paesi Bassi, insurrezioni della Comune di Gand e di quella di Münster (movimento degli anabattisti) nel XVI secolo; guerre di religione in Francia nei secoli XVI e XVII; il tutto con l’approdo alla rivoluzione inglese del 1640-1688. Data la relativa debolezza della borghesia nei secoli XVI e XVII, questi movimenti sono solo in parte vincenti. Spesso approdano a sconfitte. Alla Riforma succede la Controriforma, che trionfa con i Gesuiti in Italia, in Spagna, nei Paesi Bassi del Sud, in Austria, in una parte della Germania. Sul piano politico, è la monarchia assoluta ad espandersi, non la Repubblica borghese. Permangono molte sopravvivenze del Medioevo – la servitù, l’arbitrio giudiziario, incluse l’Inquisizione e la tortura, la censura e la messa all’indice dei libri “sediziosi”. Galileo deve pubblicamente confessare di essersi sbagliato quando ha dimostrato, in contrasto con l’opinione della Bibbia, che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa. Progressi ed arretramenti si combinano, del resto, in tutto il mondo. La colonizzazione europea sfocia nello sterminio degli indiani d’America. Il capitalismo commerciale organizza la tratta dei Neri, devasta l’Africa ed estende piantagioni e manifatture in America grazie a milioni di schiavi e non di proletari liberi. Solo con l’avvento del capitalismo industriale nella seconda metà del XVIII secolo l’attesa del progresso e l’ottimismo sociale si generalizzano rapidamente. Sotto la direzione della borghesia e dei suoi ideologi rivoluzionari, tutto ciò che resta dell’ordine semifeudale viene agevolmente contestato, attaccato, ridicolizzato. L’assalto contro la monarchia assoluta si trasforma in un assalto generale contro l’ordine sociale ad essa sotteso, nel trionfo sempre più vasto della nuova società borghese in tutti i campi della vita sociale. I successi nella trasformazione dei costumi, delle idee, dei “valori” riconosciuti sfoceranno nelle grandi rivoluzioni borghesi del XVIII secolo: la Rivoluzione americana del 1776 e la Rivoluzione francese del 1789. Il movimento proseguirà in Europa e in America latina agli inizi del XIX secolo, con esito diseguale a seconda dei paesi. Queste rivoluzioni costituiscono inoltre lo sbocco di una vasta presa di coscienza di strati borghesi, piccolo borghesi e proletari: vale a dire che l’umanità può decidere il proprio destino, che questo non è predeterminato dalla divina Provvidenza o da qualsivoglia fatalità. Fede nella ragione umana come motore dell’emancipazione umana: ecco come si può sintetizzare lo “spirito del tempo” (Zeitgeist) del Secolo dell’Illuminismo. Dopo essersi affermato nelle scienze naturali e nella tecnica, questo “spirito del tempo” si afferma nella critica delle istituzioni statuali, nell’attività filosofica e letteraria, nella lotta politica. Sorretta dal radicale rovesciamento dei rapporti di forza tra la borghesia, da una parte, la monarchia, la nobiltà e il clero, dall’altra, la spinta emancipatrice troverà la sua espressione più alta nelle due grandi rivoluzioni del XVIII secolo. Tuttavia, a mano a mano che il sistema di produzione capitalistico si espande, cominciano ad apparire in piena luce l’aspetto contraddittorio della società borghese, il carattere ambiguo, non meno contraddittorio, del progresso economico e politico incarnato dall’espansione della società borghese e delle rivoluzioni borghesi. Il capitalismo non è solo il colossale ampliarsi delle conoscenze, delle ricchezze, dei diritti umani. È anche l’accumularsi di miserie, di ingiustizie, di oppressioni, di negazione dei più elementari diritti umani. La polarizzazione della società tra ricchi e poveri è clamorosamente evidente agli occhi di tutti gli osservatori, ivi compresi scrittori di opinioni reazionarie, come Balzac, e di ideologi conservatori. La presa di coscienza è accompagnata da una nuova prassi sociale: la lotta di classe degli operaiartigiani, dei pre-proletari (sans-culottes, bras-nus) e dei proletari contro i capitalisti, del “Quarto Stato” che progressivamente emerge contro il “Terzo Stato”, mentre fino ad allora stata la lotta del Terzo Stato contro la monarchia, la nobiltà e l’alto clero a dominare la scena politica e sociale. L’indebolimento delle monarchie assolute e la comparsa di movimenti rivoluzionari di massa consentono a vari strati sociali oppressi di esprimere le proprie rivendicazioni, spesso basandosi su un’interpretazione più radicale dei principi della democrazia. L’uguaglianza tra individui va applicata ai sessi. In piena rivoluzione francese appare, ad esempio, la “Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina”. Essa non deve permettere alcuna discriminazione di casta o di razza: così si delineano l’emancipazione degli ebrei, il movimento per la soppressione della schiavitù, l’estensione del suffragio universale. Essa implica, infine, l’uguaglianza tra le nazioni e il loro diritto all’autodecisione, da cui l’emergere di movimenti democratici nazionali, soprattutto in Irlanda, in Italia, in Germania. Una realtà economica e una prassi politica nuove generano, così, una nuova ricerca scientifica insieme a nuove ideologie. L’emancipazione deve limitarsi al “cittadino”, ai diritti umani giuridici e politici? Non deve estendersi al produttore, allo sfruttato, all’“uomo (e alla donna) economico”? Così, al termine del Secolo dei Lumi nasce la questione sociale, la questione dell’emancipazione economica e, con essa, il socialismo come corrente di idee e come movimento reale operante ai fini di questa emancipazione. Dall’emergere del modo di produzione capitalistico alla nascita del macchinismo e della fabbrica moderna; dall’emergere del proletariato concentrato nelle fabbriche alla lotta di classe proletaria elementare; dalle resistenze dei popoli colonizzati contro le nuove forme di sfruttamento capitalistiche ai movimenti indipendentisti radicali (America Latina, Irlanda, ecc.); dalla comparsa, nel momento culminante delle grandi rivoluzioni borghesi, di rivoluzionari che non si collocano più esclusivamente rispetto ai fini della borghesia rivoluzionaria, all’avvio di una serie di obiettivi socialisti in favore del giovane proletariato; dal razionalismo borghese radicale al suo “superamento” grazie a scienze sociali critiche e lucide che cominciano a rivelare tutte le molle segrete della storia e dell’“ordine sociale” in generale (e cioè, la società divisa in classi antagoniste, la proprietà privata) senza limitarsi alla critica dell’ordine semifeudale: questo lo sviluppo e il contesto storico che rendono possibile la nascita del marxismo. Il socialismo, l’idea del “ritorno all’età dell’oro”, vale a dire a una società senza classi, sono molto più vecchi del capitalismo industriale. Sono, in pratica, altrettanto vecchi della stessa società divisa in classi. Ne ritroviamo echi nell’antica poesia greca, tra i profeti ebraici, fra i primi padri della Chiesa cattolica, in numerosi pensatori della Cina classica e dell’Islam. Nel corso del Medioevo e nei grandi movimenti ideologici a partire dal XV secolo, questa tradizione si estende in misura crescente. È ancora confortata dall’esistenza di società relativamente ugualitarie incontrate dagli Europei durante i loro viaggi di esplorazioni o campagne di colonizzazione. Il marxismo si colloca sicuramente nel solco di questa vecchia e venerabile tradizione di sogno e di lotta per l’emancipazione dei poveri, degli sfruttati e degli oppressi, con i quali condivide problemi, proteste, preoccupazioni, rivolte collettive. Ma tutto quel che è specifico del marxismo si spiega, in ultima analisi, solo con ciò che è nuovo a partire dal XVIII secolo e che è intimamente connesso al consolidarsi del modo capitalistico di produzione con la rivoluzione industriale: la definitiva comparsa del proletariato come classe sociale basata sul lavoro salariato; la radicale presa di coscienza della “questione sociale” sorta dal nuovo antagonismo sociale, quello del Capitale e del Lavoro salariato. II - LE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL MARXISMO Il marxismo si presenta, al contempo, come trasformazione rivoluzionaria e progressiva unificazione: delle scienza umane, più precisamente delle scienze sociali; del movimento politico di emancipazione, innanzitutto delle organizzazioni rivoluzionarie, sorte dall’estrema sinistra della Rivoluzione francese; del movimento operaio elementare e spontaneo, creato dagli stessi lavoratori al di fuori di qualsiasi teoria filosofica o sociologica; del socialismo pre-marxista, dell’elaborazione cioè di progetti di una società migliore, di “soluzioni della questione sociale” essenzialmente a livello teorico e ideologico: teorie filosofiche, sociologiche, economiche, combinate con attività educative e filantropiche (fondazione delle prime colonie “comuniste”). In ognuno di questi ambiti, Marx ed Engels partono da quel che c’è già, assimilano appieno le acquisizioni accumulate sottoponendole a un esame critico. Trasformano così radicalmente queste acquisizioni, ma conservando tutto ciò che secondo loro contengono di fondamentalmente valido. Nel campo delle scienze sociali, l’assimilazione critica riguarda soprattutto la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese e la storiografia sociologica francese, che aveva scoperto e applicato i concetti di classi sociali e di lotte di classe. Nel campo del movimento di emancipazione sociale, Marx ed Engels perseguono la continuità dell’azione rivoluzionaria e dell’organizzazione rivoluzionaria così come nascono dal babuvismo e dal blanquismo, pur combinandole con gli insegnamenti derivanti dalle prime organizzazioni rivoluzionarie tedesche di cui hanno esperienza e che approderanno alla creazione della Lega Comunista, alla quale aderiscono. Raccolgono da parte loro le rivendicazioni radicali democratiche delle organizzazioni che, contro l’assolutismo, vogliono instaurare la repubblica democratica in Italia, in Irlanda e in Spagna, abolire la schiavitù negli Stati Uniti, in Brasile e nelle colonie europee. Cercano di inserire anche gli insegnamenti ricavabili dalla prima esperienza di un partito operaio di massa, il partito cartista della Gran Bretagna. Nel campo del pensiero e dell’organizzazione socialisti (in genere non rivoluzionari e non politici), cercano di introdurre l’analisi scientifica della società borghese, delle sue tendenze di sviluppo, del suo divenire, delle contraddizioni che ne determineranno il declino e la caduta. Applicano questo metodo in particolare all’analisi dell’oppressione della donna, avviata dalle femministe socialiste utopiste. Si tratta dell’impegno per trasformare il socialismo essenzialmente utopistico in socialismo scientifico. Al tempo stesso, Marx ed Engels cercano di imperniare il pensiero e l’organizzazione socialisti sulla necessità dell’azione politica, di fondere cioè il pensiero con l’organizzazione e l’iniziativa rivoluzionarie. Infine, nel movimento elementare di autorganizzazione della classe operaia, Marx ed Engels cercano di introdurre in primo luogo il programma (i principi) del socialismo scientifico, del comunismo, e quindi insistono insieme sulla finalità socialista accanto agli obiettivi immediati, e sull’azione politica rivoluzionaria accanto a quella economica (sindacale, mutualistica) ed educativa. Il marxismo si presenta così come una quadrupla sintesi: sintesi tra le principali scienze sociali; sintesi tra le scienze sociali e il progetto di emancipazione dell’umanità; sintesi tra il progetto di emancipazione umana e il movimento reale di autorganizzazione e di autoemancipazione del proletariato moderno; sintesi tra questo movimento operaio reale e l’azione, come pure l’organizzazione politica, rivoluzionarie. Non si tratta di sintesi compiute una volta per tutte. Non essendo dogmatiche, non partendo da nessun partito preso a priori e automatico, se non quello dell’essere umano e del suo fine ultimo, sola misura ultima dell’intera azione umana, sono continuamente sottoposte alla prova della pratica. Devono essere costantemente riesaminate alla luce della rinnovata esperienza e dei nuovi dati relativi a un passato ancora insufficientemente conosciuto. Nella stessa direzione, tuttavia, tutto quel che in questa sintesi si basa già su un enorme corpo di esperienze e di dati empirici, non può essere rimesso in questione alla leggera alla luce di dati parziali, congiunturali, vale a dire in maniera sostanzialmente impressionistica. Una rimessa in causa del genere va a sua volta criticata e sottoposta a revisione, alla luce di fatti ulteriori, se questi confermano la sintesi iniziale. Più in generale, queste sintesi si basano sulla visione complessiva della società borghese e della storia umana nei suoi successivi modi di produzione, cioè sulla capacità di ricavare determinate leggi di sviluppo di una particolare società considerata nella sua totalità. Ogni approccio frammentario che cerchi di “eludere” tale visione d’insieme è ben poco attendibile e sfocia quasi sempre fatalmente in analisi sbagliate e in previsioni smentite dai fatti. Queste sintesi, inoltre, implicano sempre l’assunzione critica dei dati delle scienze accademiche più avanzate, nonché l’analisi critica del movimento di emancipazione sia a livello delle organizzazioni rivoluzionarie, sia a quello dei tentativi di risolvere la”questione sociale” e degli sforzi elementari di autorganizzazione e di autoemancipazione della classe operaia. In questa assunzione critica c’è una continua oscillazione dialettica tra il recupero e l’innovazione. Nello spirito del marxismo, dato il metodo di approccio alla realtà (al divenire sociale) adottato da Marx ed Engels, l’oscillazione è inevitabile. Il marxismo non crede nella scienza infusa e ancor meno nella conoscenza intuitiva. E neanche si comporta da “educatore”, né rispetto al proletariato, né rispetto al movimento storico (alle peripezie della lotta di classe). Impara costantemente dal reale, che è in continua trasformazione. Si rende conto che gli stessi educatori hanno bisogno di essere educati, che solo la prassi rivoluzionaria collettiva, radicata nella prassi scientifica, per un verso, in quella rivoluzionaria del proletariato, per altro verso, consente l’autoeducazione dei rivoluzionari e dell’intera umanità lavoratrice. III – LA TRASFORMAZIONE DELLE SCIENZE SOCIALI AD OPERA DEL MARXISMO 1. La trasformazione della filosofia classica tedesca Il principale apporto della filosofia classica tedesca al marxismo è la dialettica di Hegel, che Marx ed Engels hanno ampiamente recuperato, pur trasformandola, “rimettendola sui suoi piedi”. La dialettica ha origini antichissime. La si ritrova fin dagli albori del pensiero filosofico, soprattutto nel filosofo greco Eraclito (“tutto cambia”, “tutto scorre”, “tutto si muove: πάντα ρεϊ, panta rei, in greco) e in vari pensatori cinesi come Kung-sun Lung e Taï-chen. È stata poi sviluppata dal filosofo ebreo-olandese Spinoza (XVII secolo). Ha raggiunto l’apice con la filosofia classica tedesca, incarnata da Hegel, uno dei maggiori pensatori di tutti i tempi. Le acquisizioni del pensiero dialettico sono soprattutto: la concezione di ogni realtà come in continuo mutamento, non come somma di fatti ma come combinazione di processi; la concezione di ogni realtà come totalità in movimento, nessuna delle cui parti può essere compresa isolatamente, al di fuori delle sue interconnessioni, dei suoi rapporti con altre parti; la concezione del movimento come risultante di contraddizioni interne di questa totalità: la concezione della conoscenza come apprendimento del reale tramite il pensiero (tramite l’attività umana), cioè come interazione tra soggetto e oggetto. Il soggetto tende a trasformare il reale apprendendolo, ma è trasformato a sua volta dall’attività di ricerca, di apprendimento e di trasformazione del reale; la concezione della conoscenza come la scoperta, grazie all’analisi e all’azione, di leggi di sviluppo inerenti ai processi appresi. La dialettica del pensiero deve conformarsi alla dialettica del reale (al movimento reale) per poterlo capire. Questa metodologia generale del pensiero efficace, scientifico, del pensiero che consente di accostarsi per approssimazioni successive alla comprensione della realtà nella sua totalità, costituisce un enorme passo avanti rispetto al metodo puramente analitico del sapere frammentario, specializzato al massimo, essenzialmente basato sulla sperimentazione parziale e sulla logica formale. La dialettica non rifiuta la sperimentazione parziale e la logica formale. Le incorpora ma, al tempo stesso, ne coglie i limiti. Essa permette così un progresso pluridisciplinare della conoscenza che il marxismo realizza soprattutto nel campo delle scienze che hanno per oggetto la società nel suo insieme e che raggiungerà prima o poi nell’insieme delle scienze umane. Il pensiero di Hegel, stimolato dall’esperienza acquisita dal grande filosofo tedesco dalla Rivoluzione francese (in gioventù Hegel aveva anche fatto parte di un gruppo rivoluzionario pregiacobino) arriva fin sull’orlo di un “salto di qualità” in vari campi chiave, in particolare in quelli del ruolo motore svolto dal lavoro nella storia dell’umanità. Ma la vittoria della controrivoluzione politica in Francia e in Europa e il carattere ancora insufficientemente maturo della società borghese e della lotta di classe proletaria nel corso del primo ventennio del XIX secolo non hanno permesso al grande genio di superare alcuni limiti del suo pensiero, che resta contraddistinto dalle seguenti debolezze: a) La dialettica è concepita in maniera essenzialmente idealistica. Il movimento del pensiero è concepito come fondamentale rispetto a quello della realtà materiale. Di fatto, spesso reale e ideale si identificano. La dialettica storica si riduce in ultima analisi alla dialettica dell’“idea assoluta”. La realizzazione della libertà concepita come finalità della storia – Hegel condivide questa concezione con il Secolo dei Lumi - vale a dire con il progetto di emancipazione umana che sottendeva l’intera lotta della borghesia rivoluzionaria, è la realizzazione della libertà spirituale: “Lo schiavo spiritualmente libero può essere più libero del padrone”. b) La filosofia della storia derivante da questa concezione idealistica della dialettica acquista quindi una dimensione troppo astratta, semimetafisica. Non sono più l’uomo e la donna concreti, così come vivono, lavorano, sono sfruttati, soffrono e al tempo stesso pensano ed hanno la loro “vita interiore” e i loro “stati d’animo”, ad essere i protagonisti della storia, gli oggetti di studio e i soggetti del movimento di emancipazione. Sono gli “esseri spirituali” ad occupare troppo spesso questo posto, vale a dire le idee, le ideologie, comprese le religioni. Per la verità, questa debolezza metafisica della filosofia della storia di Hegel è mitigata da intuizioni geniali sui rapporti tra il lavoro (la produzione), l’organizzazione della vita materiale, e lo Stato (la struttura sociale), intuizioni che portano la filosofia tedesca fin sull’orlo di un’analisi diciamo pure materialistica di tanti fenomeni storici. c) Una filosofia idealista della storia, basata sulla concezione idealista della dialettica, può degenerare facilmente in visione apologetica della realtà sociale e soprattutto dello Stato (lo Stato prussiano) in cui il filosofo è inserito. La celebre formulazione di Hegel “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale”, non è automaticamente apologetica, se si concepisce il verbo “essere” dialetticamente come “divenire, trasformarsi, crescere, poi declinare e sparire”. Essa può significare: “Tutto ciò che è reale non sopravvive se non nella misura in cui questa realtà corrisponde a una necessità e, in questa misura, alla sua propria razionalità. Nella misura in cui questa razionalità declina e si decompone, nella misura in cui le sue contraddizioni si manifestano sempre più e diventano sempre più esplosive, questa realtà diviene sempre più ‘irreale’, vale a dire comincia a decomporsi, e quindi a sparire, a lasciare il posto a una realtà nuova, più razionale”. E parallelamente: “Tutto ciò che è razionale, anche se non è ancora realizzato appieno, anche se è ancora solo potenziale, embrionale, diventerà sempre più reale, si realizzerà progressivamente nei fatti”. Tuttavia, questa stessa formulazione, potenzialmente rivoluzionaria, può anche essere interpretata in senso profondamente conservatore, e diventa allora: “Ogni realtà è razionale (altrimenti non esisterebbe), cioè necessaria (l’inevitabile risultato di processi che l’hanno prodotta). Non va quindi messa in discussione. Tutto quel che è razionale e necessario è già realizzato. Quel che non lo è (o non lo è ancora) non è né razionale né necessario, altrimenti sarebbe già stato realizzato”. In realtà, le due interpretazioni parallele si sovrappongono nel pensiero dello stesso Hegel. La prima predomina nelle sue opere giovanili, la seconda in quelle senili. Esse hanno dato vita a due scuole, a due famiglie di discepoli. La seconda segna la scuola dei “Vecchi hegeliani”, sostenitori della monarchia prussiana, della religione e dello Stato considerato l’incarnazione della “virtù” (come in Platone e Aristotele) e del “bene comune”, contrapposto all’egoismo economico e sociale che domina la “società civile”. La prima dà vita alla scuola dei “Giovani hegeliani”, filosofi radicali, ostili all’establishment, contestatori, atei (soprattutto con Feuerbach), fra i quali si arruola il giovane Marx, che ne continuerà l’opera di spietata critica filosofica, storica, sociale, economica, politica. In uno dei suoi lavori giovanili meno noti, Der Geist des Christentums (Lo spirito del Cristianesimo), Hegel arriva a scrivere: “Solo ciò che è oggetto di libertà è l’Idea. Va dunque superato lo Stato! Qualsiasi Stato è infatti chiamato a trattare degli esseri umani liberi come se si trattasse di pezzi meccanici (Räderwerk): E non dovrebbe essere così. Esso (lo Stato) dovrebbe quindi cessare (…). Al tempo stesso, io intendo qui stabilire i principi di una storia dell’umanità, vale a dire tutto il miserevole lavoro umano dello Stato, della costituzione, del governo, della legislazione – e denudarlo fino alla pelle!”(G. W. F. Hegel, Der Geist… cit., Ullstein, 1978, p. 341). d) Una dialettica idealista sganciata dalla realtà materiale rischia di non avere più alcun criterio epistemologico, alcun criterio di verifica in ultima istanza. Al tempo stesso, rischia di chiudersi in un ragionamento circolare, se non nel solipsismo. Rischia di assumere un atteggiamento dogmatico, dove la sola coerenza interna del ragionamento funge da giustificazione ultima del sistema di pensiero, da dimostrazione finale del suo grado di verità, della sua veridicità. Marx ed Engels hanno cercato di correggere queste fragilità della dialettica idealista “rimettendola sui suoi piedi” (sottinteso: Hegel l’aveva messa sulla testa, a testa in giù). Hanno anche con ciò stesso trasformato la dialettica idealista in dialettica materialista. Essa si basa sulle seguenti constatazioni: a) La realtà materiale (la natura e la società) esiste indipendentemente dai desideri, dalle passioni, dalle intenzioni e dalle idee di coloro che cercano di interpretarla. È una realtà oggettiva, che il pensiero cerca di spiegare. Va da sé che i processi di conquista di conoscenze (quindi le scienze, inclusa quella socialista) sono, anch’essi, processi oggettivi, potenziali oggetti di analisi scientifica critica. b) Il pensiero non può mai identificarsi completamente con la realtà oggettiva, non foss’altro perché questa è in continua trasformazione e perché la trasformazione del reale precede sempre inevitabilmente nel tempo il progresso del pensiero. Ma può avvicinarsi sempre più ad essa. Il reale è perciò comprensibile. I progressi del pensiero, della scienza (non necessariamente un progresso lineare e permanente) sono possibili e si verificano concretamente, praticamente, nella storia umana, attraverso le loro conseguenze (previsioni verificate, applicazioni realizzate, ecc.), attraverso cioè i loro risultati pratici. Il criterio ultimo del grado di veridicità del pensiero, della scienza è dunque pratico. Il pensiero è efficace (scientifico) nella misura in cui la spiegazione dei processi reali non è solo coerente al fine di spiegare quel che già esiste, ma serve anche a prevedere quel che non esiste ancora, a inserire questa previsione nell’interpretazione del processo reale preso nella sua totalità, e a modificare, trasformare la realtà in funzione di un obiettivo prefissato. In ultima analisi, la conoscenza è uno strumento di sopravvivenza del genere umano, uno strumento per modificare il posto di questa specie nella natura, per aumentarne la vivibilità. c) La dialettica della storia è una dialettica di esseri umani reali e concreti, non una dialettica dell’“uomo in generale”, “dell’uomo o della donna come esseri essenzialmente spirituali”. Gli esseri umani reali e concreti sono esseri umani socialmente e storicamente specifici, vale a dire determinati dalle specifiche condizioni sociali in cui vivono, condizioni che mutano a seconda dell’epoca storica. d) Il movimento di emancipazione reale che si realizza progressivamente attraverso la storia, con balzi in avanti cui seguono gravi arretramenti, non è esclusivamente né essenzialmente, e neanche soprattutto, il movimento di emancipazione spirituale. Non è in primo luogo una conquista progressiva di libertà dello spirito, ma una conquista progressiva di spazio materiale di vita e di libertà, di possibilità di godimento, fra cui i piaceri spirituali, estetici, ecc. occupano sicuramente un posto rilevante. Ma la loro soddisfazione è condizionata dalla soddisfazione preliminare degli elementari bisogni di cibo, di protezione, di salute, dei bisogni sessuali, di istruzione, di accesso alla cultura, ecc. Si tratta di liberare gli individui dai condizionamenti imposti loro dalla stretta dipendenza dalle forze della natura. Si tratta di liberarli dalle costrizioni imposte loro dalla stretta dipendenza da altri uomini. e) La libertà spirituale dello schiavo è certamente vitale per la sua sopravvivenza. Ma la lotta per la sua liberazione materiale, e cioè per l’abolizione della schiavitù come istituzione sociale e di tutta la realtà sociale ad essa sottesa lo è di gran lunga di più. In ogni caso, è presente nella storia un movimento reale di emancipazione materiale da parte degli schiavi stessi. Il programma che Marx ed Engels si sono prefissi fin dalle loro opere giovanili, e al quale sono rimasti fedeli per tutta la vita, è quello di combatte tutte le istituzioni e tutte le condizioni nelle quali un essere umano è un essere miserando, sfruttato, oppresso, alienato e quindi mutilo, incapace di realizzare tutte le sue potenzialità umane. Si tratta dunque di una radicale rottura con ogni utilizzazione apologetica della dialettica. Il fondersi della dialettica materialista con le principali scoperte della storiografia sociologica francese, alimentata a propria volta dalla principale acquisizione dell’economia politica inglese – la centralità del lavoro sociale nell’esistenza umana – ha permesso a Marx ed Engels di elaborare in maniera coerente la loro teoria del divenire sociale dell’umanità: la teoria del materialismo storico, detta anche “interpretazione materialista della storia”. 2. La trasformazione della storiografia sociologica francese La constatazione che non sono “i grandi uomini a fare la storia”, ma che questa dipende fondamentalmente da conflitti che contrappongono numerosi individui, cioè conflitti di forze sociali, si è imposta alla storiografia fin dalle sue origini. In certi storici greci, ad esempio Tucidide, troviamo già una formulazione simile: ogni città è divisa tra una città dei ricchi e una città dei poveri, tra cui avviene una guerra permanente. Alcuni autori cinesi sono rapidamente pervenuti alla stessa comprensione. La ritroveremo anche tra i maggiori pensatori del mondo islamico, innanzitutto i grandi storici/sociologi Al Biruni e IbnKhaldoun, che giungono fino alla soglia del materialismo storico. È l’esperienza delle grandi rivoluzioni borghesi, dal XVI al XVIII secolo, sono gli insegnamenti che se ne traggono e che alimentano preoccupazioni politiche correnti, ad indurre soprattutto la storiografia francese dell’inizio del XIX secolo a dar vita alle nozioni di classi sociali e di conflitti tra classi sociali, vale a dire della lotta di classe, come strumenti per capire il cammino della storia. Così, di volta in volta, maneggiano queste nozioni François Quesnay, Augustin Thierry, Mignet, Guizot, Thiers, nei loro saggi sulla rivoluzione inglese, sulla conquista dell’Inghilterra ad opera dei Normanni, sulla rivoluzione francese e sulla restaurazione dei Borboni nel 1815. Erano stati, del resto, preceduti su questa strada da alcuni altri inglesi e tedeschi, in particolare Schiller nel suo studio sulla rivoluzione dei Paesi Bassi nel XVI secolo. Alcuni grandi pensatori dell’Illuminismo, soprattutto Voltaire e Montesquieu, avevano già stabilito che la storia è determinata in ultima analisi dalle condizioni materiali in cui si svolge. Essi tendevano però a privilegiare le condizioni naturali (clima, situazione geografica, razze, ecc.) e politiche (costituzionali) piuttosto che le condizioni sociali ed economiche. Jean-Jacques Rousseau e Condorcet si spinsero più oltre lungo questa strada. Il merito della storiografia sociologica consiste nella sistematica applicazione delle nuove concezioni di classe, se non alla storia umana nel suo complesso, perlomeno a grandi fasi della storia relative ad almeno uno o più secoli. In questo senso, si tratta di una vera e propria rivoluzione nelle scienze sociali, che combina i progressi storiografici con una migliore comprensione della struttura e della dinamica delle società. Marx ed Engels sono, grazie a questo, gli eredi della storiografia sociologica francese, come lo sono della filosofia classica tedesca. Ma pur rappresentando incontestabilmente un grande progresso della scienza storica e di quella della società, l’opera degli storici francesi dell’inizio del XIX secolo implica ancora grandi lacune per quel che riguarda un’interpretazione scientifica della storia, come pure alcune flagranti contraddizioni nella comprensione della realtà socio-politica – e dunque storica – della loro epoca, quella del capitalismo trionfante: a) I concetti di “classi sociali” e di “conflitto tra classi sociali” sono impiegati in modo sostanzialmente descrittivo. Pur non negando la base materiale di questi conflitti, e pur se questa è evidenziata correttamente, specie per quanto riguarda determinate contrapposizioniscontri di classe nella società feudale (non tutte!), non si individua chiaramente il nesso strutturale, organico, tra la collocazione delle classi sociali nella società, innanzitutto nella produzione, i loro interessi materiali, il loro ruolo sociale e le lotte politiche. b) Le lotte ideologiche, gli scontri tra sistemi di idee, i “valori spirituali” (Dio, la Religione, la Libertà con la “L” maiuscola, il Bene Comune, il Bello, o la Nazione) si considerano in genere come sovrapposti ai conflitti di interessi materiali, come disgiunti da questi, e come aventi un loro significato, che sarebbe intrinseco, o addirittura di valore eterno. c) Gli interessi e le lotte degli strati (classi) più poveri della società, che in passato non sono mai riusciti ad imporsi in modo durevole, eterni sconfitti delle rivoluzioni o delle lotte sociali e politiche, in genere non sono affrontati, o lo sono in maniera marginale. Se vengono descritti, lo sono il più delle volte senza capirli, alla luce di pregiudizi, quando non di espliciti odi di classe. Malgrado i loro aspetti a volte grotteschi, in questo modo ogni generazione di cronisti e di storici trasmette numerose calunnie alla generazione successiva. Citiamo indistintamente e a caso: la leggenda secondo cui i Catari avrebbero sia rifiutato di avere rapporti sessuali, sia praticato l’infanticidio su larga scala; la leggenda secondo cui i popoli slavi dell’Alto Medioevo sarebbero stati incapaci di costituire Stati, “qualità” che si presumeva riservata ai popoli germanici; la leggenda secondo cui gli ebrei sarebbero privi di “doti marziali”; la leggenda secondo cui gli Anabattisti avrebbero “socializzato le donne” a Münster; la leggenda secondo cui gli Indios messicani avrebbero praticato il sacrificio umano su larghissima scala; la leggenda sulla “crudeltà” dei Pelle-Rossa dell’America settentrionale, e quella della “pigrizia congenita” dei Neri, che si sarebbero rifiutati di lavorare se non fossero stati sottoposti alla schiavitù. La storiografia – tranne quella influenzata dal marxismo – ha decisamente prodotto una storia riscritta dai vincitori, a detrimento, insieme, della verità storica e dell’onore dei vinti. d) Più in particolare, l’applicazione delle stesse nozioni di classe e di lotta di classe avviene in forma sempre più reticente, via via che si tratta di riferire sugli antagonismi tra il Capitale e il Lavoro salariato; a mano a mano che si avvicina il XIX secolo e si tratta di analizzare le lotte sociali contemporanee, storiografia e sociologia sfociano così inevitabilmente nella politica. A partire da quel momento, e sotto la pressione evidente dei loro stessi interessi di classe, i grandi storici/sociologi borghesi negano che, operando in politica come fanno, difendono specifici interessi materiali, diversi da quelli di altre classi sociali: Si trasformano improvvisamente in sostenitori di un “Ordine Sociale” eterno, del “Bene Comune”, dell’“Interesse generale della nazione”, dei “supremi valori spirituali”. I loro avversari di classe non sono più presentati come tali, ma come “seminatori di disordine”, come “anarchici sanguinari” (poi si dirà: “bolscevichi-con-il-coltello-tra-identi-e-che-tagliano-le-dita-ai-bambini-e-le-mettono-nella-zuppa”, ed anche: “quelli che incarnano l’Impero del Male”), come “fautori della violenza”, insomma come “barbari” che si oppongono alla “civiltà”. Gli ideologi politici razzisti e fascisti diranno ancor più nettamente: dei “subumani”, esseri privi della qualità umana, il che permette di giustificare il modo disumano con cui sono trattati questi avversari. e) Non si rivelano le origini delle classi sociali e dello Stato. Di colpo, le classi sociali e lo Stato vengono presentati come più o meno eterni, tranne forse negli stadi più primitivi dell’esistenza umana. Se ne considera impossibile la scomparsa, o “contraria alla natura umana”. Sviluppando la teoria del materialismo storico, Marx ed Engels hanno superato questa lacune e queste contraddizioni della storiografia sociologica francese, così come hanno arricchito e precisato i concetti di classi sociali e di lotta di classe: a) Le classi sociali non sono istituzioni sociali eterne e inamovibili della società (dell’esistenza) umana. Sorgono in una fase determinata dello sviluppo della società. Si sviluppano e si trasformano di formazione sociale in formazione sociale. Sono chiamate a sparire. L’organizzazione sociale passa e passerà per gli stadi successivi della società primitiva senza classi, di differenti forme di società di classe, e della futura società (comunista) senza classi. b) Per capire questo percorso generale della storia, cioè l’origine, lo sviluppo, l’acuirsi e il deperire della divisione in classi della società, bisogna partire dalla priorità, per il genere umano come per qualsiasi specie vivente, della sopravvivenza materiale. Tuttavia, in questo distinguendosi da tutte le altre specie, la specie umana produce essa stessa la propria sopravvivenza (la sua normale sussistenza e la riproduzione della specie) attraverso l’azione collettiva deliberata: il lavoro sociale. Esso crea un prodotto sociale che si suddivide in prodotto necessario e in sovraprodotto sociale. Il prodotto necessario consente di mantenere (quindi di riprodurre) la forza lavoro e gli strumenti lavorativi esistenti. Il sovraprodotto sociale è l’insieme dei beni comunemente prodotti non indispensabili a questo mantenimento. Finché il sovrapprodotto sociale è insignificante, è impossibile la divisione della società in classi, se questo vuol dire che una frangia della società si svincola dalla necessità di produrre la propria sussistenza (è mantenuta grazie al sovraprodotto sociale). Finché il sovraprodotto sociale è reale, anche crescente, ma insufficiente per liberare la stragrande maggioranza della società dall’obbligo di dedicare l’essenziale dei suoi sforzi alla produzione/riproduzione della sua esistenza materiale (dell’esistenza materiale di tutta la società), è inevitabile la divisione della società in classi. A partire dal momento in cui il sovraprodotto sociale diventa così ampio e rilevante che il prodotto necessario non è più se non il risultato di uno sforzo molto ridotto (alcune ore di lavoro al giorno), nasce la base materiale per l’avvento della società senza classi. c) L’ampiezza del prodotto sociale, e quindi anche del sovraprodotto sociale, è in ultima analisi funzione della produttività sociale del lavoro. Il progresso economico è misurabile con questa produttività del lavoro, nonché con la speranza media di vita (la longevità relativa) degli esseri umani. Il livello della produttività media del lavoro dipende essenzialmente dal livello di sviluppo delle forze produttive, vale a dire delle forze produttive oggettive (utensili, strumenti di lavoro, ecc.) e delle forze produttive umane (numero e qualificazione dei/delle produttori/produttrici). La tecnica di produzione (tecnologia) è per questo funzione del combinarsi di questi due elementi, quindi codeterminata dai livelli delle conoscenze tecnologiche (più o meno scientifiche) e culturali accumulate. Per questo, la liberazione di una parte della società dalla necessità di dedicare l’essenziale del proprio tempo alla produzione dei mezzi di sussistenza, nell’accezione ampia del termine – dunque l’esistenza delle classi dominanti, possidenti – non è solo sfruttamento e spoliazione, anche se in primo luogo lo è. Essa corrisponde anche all’oggettiva necessità, per la società, di assicurare l’accumulazione, la trasmissione, l’accesso alle conoscenze e la possibilità del loro ampliamento. Questa funzione sociale si può chiamare accumulazione. A partire da un certo punto dello sviluppo sociale (sviluppo delle forze produttive), la funzione dell’accumulazione, un tempo esercitata dalle piccole comunità in modo collettivo e gratuito, viene accaparrata da una frangia della società che si appropria nello stesso tempo dei mezzi di produzione e di una parte del sovraprodotto sociale a fini di consumi improduttivi (molto spesso con sperpero). È la base sociale e la funzione sociale delle classi dominanti. Esse vivono del lavoro altrui, monopolizzando le funzioni di gestione e accumulazione. d) Nella produzione della loro vita materiale, nell’organizzazione del lavoro sociale, gli esseri umani e, a partire da un certo stadio di sviluppo, le classi sociali, instaurano tra loro determinati rapporti, che Marx ed Engels chiamano rapporti di produzione. Ogni forma di società, ogni concreta formazione sociale sono contraddistinte da questi rapporti specifici di produzione, i quali determinano l’insieme dei “rapporti economici”, vale a dire non solo la produzione immediata, ma anche la circolazione dei beni e il modo di avere accesso a questi, la forma di appropriazione degli strumenti di lavoro per la produzione (le unità produttive). L’insieme di tali rapporti di produzione determina in ultima istanza l’insieme dei rapporti sociali – nella società di classe – e per ciò stesso anche la struttura della società. È la prima tesi centrale del materialismo storico. e) Rapporti stabili di produzione, che si riproducono più o meno automaticamente, costituiscono distinti modi di produzione. Marx ed Engels individuano una serie di modi di produzione: quello del comunismo primitivo dell’orda, del clan e della tribù; il modo schiavista di produzione; il modo di produzione asiatico (oggi i marxisti preferiscono prevalentemente il termine: modo di produzione tributario); il modo di produzione feudale; il modo capitalistico di produzione; il modo di produzione comunista (la cui prima fase sarà costituita dal socialismo compiuto). Tra questi distinti modi di produzione storicamente distinti, che tuttavia non si susseguono in modo lineare, né necessariamente nell’ordine indicato, si intercalano generalmente fasi di transizione caratterizzate da rapporti di produzione meno stabili, da una più ampia potenzialità di sviluppo. Marx ed Engels chiameranno, ad esempio, la fase di transizione fra il feudalesimo e il capitalismo “piccola produzione mercantile”, che ha già conosciuto peraltro un primo slancio al momento dell’apogeo del modo di produzione schiavista. Il modo di produzione, tuttavia, è una struttura, non può essere sostanzialmente modificato in modo graduale. Può essere rovesciato solo da una rivoluzione. Va tra l’altro notato che, anche quando si è stabilizzato un nuovo modo di produzione, rapporti di produzione che rappresentano sopravvivenze del passato possono coabitare con i rapporti di produzione tipici del nuovo modo di produzione. L’affermazione del nuovo modo di produzione, però, implica appunto che i rapporti di produzione che ne sono tipici siano egemoni, incorporino tali sopravvivenze e finiscano per assimilarle (legge dello sviluppo disuguale e combinato). f) Un modo di produzione “progressista”, superiore cioè a quello che sostituisce dal punto di vista della civiltà materiale e della cultura, deve alla fine imprimere un impulso maggiore allo sviluppo delle forze produttive, permettere cioè alla società di risparmiare lavoro, di ridurre lo sforzo fisico. (Nella società divisa in classi, sono soprattutto le classi dominanti ad approfittarne per allargare i loro svaghi, i loro consumi, la loro cultura. Ma le classi produttive possono battersi con un certo successo per partecipare in modesta misura a questo progresso). È ciò che generalmente succede nelle fasi di consolidamento e di ascesa di un determinato modo di produzione. Ma in ragione delle caratteristiche, delle leggi di sviluppo interne, delle contraddizioni intrinseche di ogni modo di produzione, a queste fasi inevitabilmente ne succede una di declino. In queste fasi di declino, i rapporti di produzione esistenti diventano ostacoli ad ogni passo avanti delle forze produttive, sia che queste cessino di crescere, sia che la loro crescita avvenga “minando”, destabilizzando in modo sempre più esplosivo, i rapporti di produzione, la struttura sociale, l’“ordine sociale” esistenti. Si apre allora un periodo di crisi sociale acuta e sempre più generalizzata, di rivoluzioni e controrivoluzioni sociali. g) Non vi è alcun nesso automatico tra il livello di sviluppo raggiunto dalla forze produttive, da un lato, e il mantenimento o la sostituzione dei rapporti di produzione e del modo di produzione esistenti, dall’altra parte, se non in senso più generale, e cioè che questo livello limita il ventaglio delle forme di organizzazione sociale possibili (la fabbrica moderna e il mercato mondiale non erano possibili con la tecnologia del 100 a. C., la schiavitù non si può generalizzare sulla base dell’odierna tecnologia industriale, il comunismo era impossibile con le tecniche dei secoli XV e XVI, ecc.). La mediazione tra i due, è la lotta di classe reale e i risultati complessivi in cui sfocia in determinati momenti. Gli uomini e lw donne fanno la loro storia. Non la fanno sgombri da ogni costrizione materiale e con un arco infinito di possibilità. Ma la fanno, e il processo storico concreto dipende in primo luogo dai risultati delle loro lotte (“fattore soggettivo della storia”), anche se queste lotte sono “sovradeterminate” da una serie di fattori storico-sociali sui quali non hanno direttamente incidenza (i “fattori oggettivi della storia”). Tuttavia, la “sovradeterminazione” non è mai tale da non aprire la strada se non a un’unica possibilità storica. Marx ed Engels hanno quindi messo in rilievo come da periodi di rivoluzione sociale acuta – nella fase di declino di un modo di produzione – possano nascere sia un modo di produzione superiore, un’organizzazione sociale superiore dal punto di vista della vita e della sopravvivenza del genere umano, grazie alla vittoria della classe rivoluzionaria, sia la decomposizione congiunta delle classi sociali in lotta e la generale decadenza della società. È ciò che è accaduto in particolare con il declino del modo di produzione schiavista nell’antichità. È il fondamento storico dell’alternativa “socialismo o barbarie”, quella di fronte a cui ci troviamo attualmente. h) La lotta di classe è sempre una lotta di classe complessiva, nella maggior parte delle sfere di attività sociale se non in tutte, indipendentemente dalla consapevolezza che ne hanno (o non ne hanno) coloro che vi partecipano. Uomini e donne, infatti non possono stringere rapporti di produzione tra loro senza stabilire al tempo stesso rapporti di comunicazione. Tutto quel che gli esseri umani fanno e producono “passa per la loro testa”, è accompagnato da rappresentazioni “ideologiche” (sotto forma di idee, di sistemi di idee, di speranze, di timori e di altri moti affettivi) che a loro volta ne influenzano le azioni materiali. Questi “sistemi di rappresentazione del mondo materiale nella testa degli esseri umani” costituisce parte della sovrastruttura ideologica di ogni società. È la base sociale (l’infrastruttura), sono i rapporti sociali di produzione, a determinare in ultima istanza la sovrastruttura sociale, a determinare cioè lo sviluppo e le forme predominanti del diritto, dei costumi, della religione, della filosofia, delle scienze, dell’arte, della letteratura di ogni epoca. È l’esistenza sociale a condizionare la coscienza sociale. Ecco la seconda tesi centrale del materialismo storico. Poiché la classe dominante controlla il sovraprodotto sociale e quindi l’intera società, l’ideologia della classe dominante è generalmente l’ideologia dominante di ogni epoca. Questo tuttavia non vuol dire che questa sia la sola ideologia esistente in quella data epoca. Accanto ad essa permangono residui delle ideologie delle vecchie classi dominanti che possono sopravvivere a lungo dopo la fine della loro dominazione. Possono esistere ad esempio ideologie di classi intermedie (ad esempio della piccola borghesia nella società capitalistica) e ideologie di nuove classi in ascesa, rivoluzionarie rispetto alle classi dominanti esistenti. In genere, un’intensa lotta di classe ideologica precede e dischiude un’epoca storica di rivoluzione sociale. Prima però della fase stessa della rivoluzione è impossibile per una classe sociale conquistare l’egemonia ideologica senza controllare il sovraprodotto sociale, senza cioè l’egemonia economica. Per questo la borghesia, che aveva prosperato largamente sotto la monarchia assoluta, poteva diventare ideologicamente egemone prima della vittoria della rivoluzione borghese, mentre il proletariato non può conquistare un’egemonia paragonabile prima della rivoluzione che rovesci lo Stato borghese ed espropri il Capitale. i) Lo Stato è un prodotto della divisione in classi della società, uno strumento di consolidamento, di conservazione e di riproduzione della dominazione di una determinata classe. Ecco la terza tesi centrale del materialismo storico. Lo Stato non è consustanziale a “società organizzata” o a “civiltà” nell’accezione ampia del termine. Non è sempre esistito, né sempre esisterà. L’analisi delle origini, dello sviluppo specifico e del possibile deperimento dello Stato costituisce uno dei principali contributi del marxismo alle scienze della società. Le istituzioni statuali sono una componente essenziale della sovrastruttura sociale, e implicano al tempo stesso elementi di costrizione (esercito, apparati repressivi, giustizia) ed elementi indispensabili per rendere accettabile per le classi produttive lo sfruttamento e l’oppressione di classe che subiscono, a mascherare e a “legittimare” la natura di strumenti di sfruttamento e di oppressione di queste istituzioni. È grosso modo la funzione delle ideologie dominanti cui abbiamo accennato, e della loro trasmissione attraverso istituzioni quali l’insegnamento, le Chiese, i mezzi di comunicazione di massa, la pubblicità in seno alla società borghese. Per ciò stesso, ogni lotta di classe estesa se non generalizzata è per forza una lotta politica indipendentemente dalla coscienza che ne hanno i protagonisti - , una lotta per la conservazione, l’indebolimento, o l’effettivo rovesciamento di un determinato potere statuale, del potere politico di una determinata classe. l) Tra il rovesciamento del potere statuale e del predominio economico della borghesia si intercala una fase storica di transizione caratterizzata dalla dittatura del proletariato, vale a dire dall’esercizio del potere statuale ad opera della classe dei lavoratori salariati. Essa ha la funzione di impedire che i vecchi sfruttatori riconquistino il potere, e di organizzare l’economia e la società in vista dell’emancipazione dell’umanità grazie alla riorganizzazione progressiva e cosciente di tutti gli ambiti dell’attività sociale, a partire dalla produzione materiale, la distribuzione di beni e servizi, la gestione dell’economia e dello Stato ad opera degli stessi produttori, la diffusione della cultura (accesso universale alle conoscenze e alle informazioni), ecc. 3) La trasformazione dell’economia politica inglese L’assimilazione critica della storiografia sociologica francese aveva portato Marx ed Engels a collegare i concetti di classi sociali e di lotta di classe a quelli di lavoro sociale e prodotto sociale. Essi furono spinti, così, ad affrontare i problemi della scienza economica e dell’analisi economica, al cui interno hanno occupato uno spazio centrale la questione dello scambio e la sua spiegazione. Dopo qualche esitazione da parte di Marx, si riallacciarono alla tesi di fondo della scuola economica classica inglese: lo scambio si basa sull’equivalenza (il confronto) delle quantità di lavoro contenute nelle merci. La teoria cosiddetta del valore-lavoro ha radici antiche. Era stata grossolanamente sperimentata nel Medioevo da alcuni teorici scolastici (Tommaso d’Aquino, Alberto Magno) ed islamici (Ibn Kaldoun). Venne affinata nel XVII secolo da William Petty, ed ottenne poi la sua forma definitiva nel XIX secolo nell’opera di Adam Smith e all’inizio del XIX secolo in quella di David Ricardo. Teoria della borghesia in ascesa e rivoluzionaria, l’economia politica classica si contraddistinse per l’atteggiamento aperto e franco nei riguardi dei problemi da risolvere. Affrontò subito la vita economica sotto il capitalismo come un fenomeno oggettivo che occorreva spiegare, e non come un insieme di principi o di valori “morali” da accettare o condannare. Ammise che, come ogni scienza, quella economica dovesse partire dai dati empirici immediati (in particolare dai prezzi) per capire le leggi che spiegano i processi economici. Così, giustamente collocò il valore delle merci al centro della spiegazione. In Adam Smith, del resto, le origini storiche dell’economia di mercato costituiscono almeno uno dei fondamenti della validità della teoria del valore-lavoro. L’idea che solo il lavoro sia produttivo di valore era stata piegata dai Fisiocratici francesi del XVIII secolo (Quesnay, Turgot) in un’accezione specifica: soltanto il lavoro agricolo sarebbe stato produttivo. Il restringimento del concetto rifletteva chiaramente il prevalere dell’agricoltura sull’industria nella Francia prerivoluzionaria. Essa tuttavia suscitò progressi notevoli della scienza economica rispetto all’acquisizione dell’economia politica inglese: i redditi delle classi dominanti (proprietari fondiari e commercianti/industriali) furono concepiti come detrazione del prodotto del lavoro della sola classe produttiva (per i fisiocratici: la classe contadina); la vita economica fu ripresentata nell’insieme come un flusso e riflusso di prodotti e di redditi che governano sia la produzione presente sia quella futura, cioè la riproduzione. Marx si sarebbe ispirato a questi avanzamenti per perfezionare la propria teoria economica. Doveva infatti risolvere parecchie contraddizioni e debolezze di fondo, per le quali Adam Smith e Ricardo non avevano trovato soluzioni: a) La loro stessa definizione del valore era incompleta, insoddisfacente e caduca. Per l’economia politica inglese classica, il valore era, in fondo, un semplice strumento di misura, un sistema che consente di ridurre a un solo “fattore” i diversi elementi di costo delle merci o i redditi delle diverse classi sociali. Smith e Ricardo non risposero alla domanda: quale è l’essenza, la natura di questo misterioso valore? b) L’imprecisione sulla natura del valore porta Smith a un’inevitabile contraddizione – un vero e proprio circolo vizioso – nel tentativo di misurare questo valore quantitativamente. In Ricardo la contraddizione è superata solo in parte. Per Adam Smith, infatti, il lavoro determina il valore delle merci. Ma il “valore del lavoro” è per parte sua determinato dal salario. L’impasse è evidente non appena ci si pone la domanda: che cosa determina il valore del salario, vale a dire quello dei viveri (merci di sussistenza) che l’operaio acquista con il proprio salario? c) L’economia capitalistica è vista come se fosse essenzialmente statica. Le uniche perturbazioni dell’equilibrio previste sono quelle derivanti o da un’imperfezione della concorrenza, cioè la sopravvivenza di ogni genere di monopoli, o quelle dipendenti da fenomeni monetari. Non si coglie minimamente, per non dire si spiega, la dinamica di fondo della concorrenza come fonte dello squilibrio semicostante tra offerta e domanda, con l’una che supera quasi sempre l’altra, e lo sbocco in crisi periodiche di sovrapproduzione. Questo non riflette solamente il fatto che sia Smith che Ricardo siano vissuti prima che il fenomeno delle crisi cicliche si fosse manifestato in tutta la sua pienezza, ma è dovuto innanzitutto all’incomprensione di fondo del modo in cui la concorrenza capitalistica si basi, nel processo di produzione, sulla costante trasformazione della tecnologia e dunque dei costi di produzione, vale a dire su rapide trasformazioni del valore delle merci. d) La teoria del salario propria dell’economia politica classica – teoria di Malthus e Ricardo – è anch’essa sostanzialmente statica. Il salario oscilla intorno al minimo vitale fisiologico. Si tratta, del resto, di una teoria meno economica che non demografica del salario. Si crede che siano le fluttuazioni della natalità e della mortalità infantile a regolare l’offerta di manodopera sul “mercato del lavoro”. Ogni aumento dei salari oltre il minimo vitale fisiologico provocherebbe un aumento di questa offerta sufficiente a comportare la diminuzione dei salari, che ricadrebbero così più o meno automaticamente verso il minimo fisiologico. Il socialista tedesco Ferdinand Lassalle riprenderà questa errata teoria dei salari nella formula della “legge ferrea dei salari” (Eisernes Lohngesetz). Andrebbe sottolineato come questa teoria dei salari, basandosi su quanto avviene in una economia capitalistica ancora essenzialmente preindustriale o subindustriale (enorme sottoccupazione permanente e strutturale), razionalizzi l’interesse della giovane borghesia e i suoi tentativi di fare scendere i salari a un bassissimo livello (pauperizzazione assoluta del proletariato). e) Il principale esponente dell’economia politica classica, David Ricardo, sostiene un’errata teoria della moneta: la cosiddetta teoria quantitativa della moneta, che introduce una contraddizione di fondo in tutta la sua analisi economica (nell’intero suo sistema di pensiero). Da un lato, Ricardo è un sostenitore sistematico e coerente della teoria del valore-lavoro. Secondo lui, il valore di tutte le merci è determinato dalla quantità di lavoro che rappresentano. Dall’altro lato, tuttavia, il valore della moneta aurea è determinato dalla quantità d’oro in circolazione. È però incontestabile che anche l’oro è una merce frutto del lavoro umano. Come è allora possibile che il suo valore non sia determinato dalla quantità di lavoro che contiene, ma dall’ampiezza della sua circolazione? f) L’economia classica tedesca si ritiene sostanzialmente oggettiva. Essa rende conto di ciò che è, a volte in modo brusco tanto da sfiorare il cinismo, specie nell’identificazione del lavoro produttivo con il “lavoro” produttore di profitto. Ma quando si scontra con la realtà della lotta operaia e dell’organizzazione operaia, soprattutto in favore degli aumenti salariali e della riduzione dell’orario di lavoro, smette improvvisamente di limitarsi a rendere conto di una realtà innegabile e ridiventa normativa, soggettiva, moraleggiante. Tende a condannare le organizzazioni e le lotte operaie come “ostacoli per la concorrenza”, “cospirazioni”, “utopie contrarie alle leggi economiche” (leggi del mercato) inesorabili, “attentati all’ordine pubblico”, ecc. A questo scopo, deve negare un aspetto fondamentale della realtà economica e sociale che i suoi più lucidi esponenti, la “sinistra radicale” (i discepoli più radicali di David Ricardo), tendono invece a svelare: cioè, la natura sfruttatrice del modo capitalistico di produzione, che acuisce inevitabilmente lo scontro di classe tra padroni e salariati/e, portando non meno inevitabilmente questi ultimi a raggrupparsi, a coalizzarsi, per difendere i loro interessi. Se la libertà (borghese) implica il diritto di tutti/e di sostenere i propri interessi economici “egoistici”, perché i/le salariati/e non dovrebbero godere del medesimo diritto? Perché sarebbe legittimo che i padroni cerchino di aumentare i loro profitti e non sarebbe legittimo che i/le salariati/e cerchino di aumentare i loro salari? Marx ed Engels sono riusciti a superare tutte queste contraddizioni insite nell’economia politica classica grazie a due fondamentali scoperte scientifiche di Marx e alle conseguenze che ne derivano: l’elaborazione di un sistema coerente di analisi economica che comporta la spiegazione e la critica coerenti, senza pecche, del sistema capitalistico di produzione e delle sue tendenze di sviluppo. Marx ha stabilito che il lavoro non è innanzitutto l’unità per la comune misura di tutti gli elementi dei costi di produzione delle merci. È l’essenza stessa del valore. Il valore è lavoro, più precisamente una frazione del potenziale lavorativo (della massa delle giornate/ore di lavoro) disponibile in una data società per un dato periodo. Ogni società umana vive e sopravvive grazie a questo lavoro sociale astratto (facendo astrazione, cioè, dalla professione specifica di ogni singolo lavoratore). In una società basata sulla proprietà privata, il potenziale sociale lavorativo nel suo complesso è frammentato in lavori privati effettuati da individui o da unità produttive indipendentemente tra loro. La suddivisione dei compiti (frammentazione del lavoro sociale complessivo) non avviene in modo consapevole, ma spontaneo. Viene poi corretta tramite la mediazione del mercato. Gli individui devono far riconoscere il lavoro che hanno effettivamente eseguito come lavoro sociale. Il lavoro privato è sempre una particella del lavoro sociale, ma ogni quantità di lavoro privato non è riconosciuta automaticamente come tale. È appunto il valore delle merci a governare questo riconoscimento. Il valore delle merci è la quantità di lavoro socialmente necessario a produrle (la formula “socialmente necessario” si basa sulla produttività media del lavoro in ogni singola branca produttiva). Da questa prima grande scoperta di Marx ne discende un’altra. Il/la salariato/a, il/la proletario/a, non vendono “lavoro” ma la loro forza lavoro, la loro capacità di produzione. . È questa forza lavoro che la società borghese trasforma in merce. Essa ha quindi un suo proprio valore, oggettivamente dato come il valore di ogni altra merce: i propri costi di produzione, le proprie spese di riproduzione. Come ogni merce, essa ha un’utilità (valore d’uso) per il suo acquirente, utilità che è la precondizione della sua vendita, ma che non determina assolutamente il prezzo (il valore) della merce venduta. Ora, l’utilità, il valore d’uso, della forza lavoro per il suo acquirente, il capitalista, è appunto quella di produrre valore, poiché per definizione ogni lavoro in una società mercantile aggiunge valore al valore delle macchine e delle materie prime alle quali si applica. Ogni salariato produce, dunque, “valore aggiunto”, Poiché, però, il capitalista paga un salario all’operaio e all’operaia – il salario che rappresenta il costo di riproduzione della forza lavoro – acquisterà questa forza lavoro solo se il “valore aggiunto” dall’operaio o dall’operaia supera il valore della forza lavoro stessa. Marx chiama plusvalore questa frazione di lavoro nuovamente prodotta dal salariato. Il plusvalore è la differenza tra il valore nuovamente prodotto dalla forza lavoro e il valore proprio di questa forza lavoro, vale a dire la differenza tra il valore nuovamente prodotto dal/dalla lavoratore/lavoratrice e i costi di riproduzione della forza lavoro. Il plusvalore, cioè la somma totale dei redditi della classe possidente (profitti + interessi + rendita fondiaria), è quindi la deduzione (o il residuo) del prodotto sociale, una volta garantita la riproduzione della forza lavoro, una volta coperte le spese del suo mantenimento. Non è quindi nient’altro se non la forma monetaria del sovraprodotto sociale, che costituisce la parte delle classi possidenti nella ripartizione del prodotto sociale dell’intera società classista: i redditi dei proprietari di schiavi in una società schiavista; la rendita fondiaria feudale in una società feudale; il tributo nel modo di produzione tributario, ecc. La scoperta del plusvalore come categoria fondamentale della società borghese e del suo modo di produzione, nonché la spiegazione della sua natura (risultato del pluslavoro, del lavoro non compensato, non retribuito, fornito dal salariato) e delle sue origini (costrizione economica per il /la lavoratore/lavoratrice a vendere la propria forza lavoro come una merce al capitalista) costituiscono il principale apporto di Marx alla scienza economica e alle scienze sociali in generale. Essa tuttavia costituisce a sua volta l’applicazione della teoria perfezionata del valore-lavoro allo specifico caso di una particolare merce, la forza lavoro. La rigorosa applicazione della teoria del valore-lavoro al caso della merce “forza lavoro” richiede tuttavia un’analisi più approfondita delle peculiarità di questa merce. La “forza lavoro”, la capacità lavorativa, non è solo una capacità semplicemente fisica che si possa completamente misurare in termini di energia (consumo di calorie e produzione di energia che queste consentono). L’operaio e l’operaia non sono solamente dotati di muscoli, ma anche di nervi e di un cervello; se la riproduzione della loro capacità di lavoro puramente fisica è indispensabile perché effettuino il lavoro che si aspetta il padrone da loro, è perlopiù insufficiente a garantire, da sola la quantità di lavoro che il padrone vuole ottenere. Il lavoro domestico delle donne nella famiglia contribuisce alla riproduzione della forza lavoro, di generazione in generazione, di pasto in pasto, da malattia a malattia, ecc., ma non producendo merci non entra nella contabilità delle quantità di lavoro spese per la produzione di merci in un’economia di mercato, contabilità che Marx studia e spiega, senza evidentemente approvarla o identificarsi con essa. L’utilizzazione piena della forza lavoro dipende inoltre dall’applicazione e dall’attenzione che non sono dati puramente fisiologici. L’operaio o l’operaia devono essere disposti a lavorare a un certo ritmo, con una certa applicazione ed attenzione, con un minimo di qualificazione (tranne per la manodopera meno pagata, ecc.). Tutte queste condizioni richiedono a loro volta “spese di riproduzione” che rientrano nella determinazione del salario. È evidente per i costi di qualificazione (apprendistato, ecc.), ma vale anche per un minimo di attenzione, di applicazione, di cura prestata all’utensile, ecc. Certamente, i capitalisti cercano di ottenere queste qualità al minor costo, grazie alla paura degli operai di perdere il loro posto di lavoro, con la disciplina imposta dal personale di controllo (capireparto, capetti, cronometristi, ecc.). Tuttavia, l’esperienza conferma che queste qualità supplementari della forza lavoro, al di là della semplice capacità fisiologica di produrre energia, richiedono a loro volta una serie di beni e servizi di consumo per essere normalmente prodotte e riprodotte. Quindi, il valore della forza lavoro comporta due elementi, il valore di due categorie di merci: quelle che consentono di soddisfare le esigenze fisiche più elementari dell’operaio, che assicurano cioè il minimo vitale nel più stretto senso del termine, e quelle che consentono di soddisfare bisogni che Marx chiama “morali-storici”, incorporati nel salario medio grazie allo sviluppo storico, alle lotte operaie, e che variano da paese a paese e di epoca in epoca. Lungi dallo scendere automaticamente e in permanenza verso il minimo fisiologico, i salari oscillano dunque, secondo Marx, e tendono, sia in funzione della congiuntura economica sia in funzione della tendenza a lungo termine di questo elemento “morale-storico” che comprendono, a crescere o a contrarsi. Le oscillazioni hanno come paletto il minimo fisiologico assoluto, al di sotto del quale la capacità fisica di lavoro dell’operaio si deteriora (perde peso, sviene sul lavoro, si ammala). Hanno per tetto il livello a partire dal quale sparisce il profitto. La teoria dei salari di Marx stabilisce che i salari oscillino, da un lato, a seconda dell’entità dell’esercito industriale di riserva (l’ampiezza della disoccupazione e la massa dei/delle salariati/e potenziali ma non virtuali, ad esempio le casalinghe disposte a vendere la propria forza lavoro, la sovrappopolazione rurale, ecc.) e, dall’altro lato, a seconda degli effetti periodici delle lotte tra il Capitale e il Lavoro salariato sui rapporti di forza tra queste classi. Le oscillazioni dell’esercito industriale di riserva sono determinate in ultima analisi dagli alti e bassi dell’accumulazione del capitale. Si tratta quindi di un progresso enorme rispetto alla teoria dei salari di Malthus-Ricardo, perché non è più l’andamento demografico da solo ma l’insieme della dinamica economica del capitalismo a determinare ora la dinamica salariale (non solo la dinamica dell’offerta di manodopera ma anche quella della domanda di manodopera). Inserendo inoltre le periodiche modifiche dei rapporti di forza tra il Capitale e il Lavoro nella determinazione dei salari, Marx ed Engels superano il determinismo economico meccanicistico e angusto dell’economia politica classica. La lotta di classe diventa una determinante (variabile) parzialmente autonoma del divenire del modo capitalistico di produzione. Si instaura una vera e propria dialettica tra le forze motrici economiche di questo modo di produzione e la lotta di classe. L’analisi economica consente così di spiegare e legittimare al contempo la lotta operaia da un punto di vista oggettivo, scientifico. La scienza diventa un’arma di lotta proletaria. Anche il modo in cui Marx risolve le contraddizioni della teoria ricardiana della moneta rappresenta un progresso considerevole della scienza economica. Per Marx, soltanto una merce che abbia il suo proprio valore (il suo valore intrinseco) può costituire il “pilastro” del sistema monetario. Questa merce è l’oro. Avendo l’oro un suo proprio valore (il numero di ore di lavoro socialmente necessario a produrre un oncia d’oro), i prezzi evolvono a lungo termine in funzione del rapporto tra l’andamento della produttività del lavoro nell’industria e nell’agricoltura, da un lato e quello della produttività del lavoro nelle miniere aurifere, dall’altro lato. La teoria quantitativa della moneta non ha alcuna validità per la moneta metallica. Se vi è “eccedente” aureo in un paese, rispetto alle esigenze della circolazione e dei pagamenti dovuti, l’oro “non perde” il suo valore: Viene in parte ritirato dalla circolazione, tesaurizzato. Nella teoria marxista della moneta, le funzione delle riserva auree (quantità di moneta tesaurizzate) svolgono il ruolo di regolatore che (ri)stabilisce l’equilibrio tra la massa monetaria in circolazione e il valore della merce con la quale si deve scambiare, tenendo conto dei pagamenti da effettuare e della rapidità di circolazione di questa moneta. Tuttavia, in stretta applicazione della teoria del valore-lavoro, la moneta cartacea, quanto a lei, perde effettivamente “valore” – vale a dire che un’unità di moneta cartacea rappresenta una minore quantità d’oro – se la si emette in eccesso (inflazione di carta-moneta). Partendo da queste due scoperte scientifiche, Marx è riuscito a sviluppare le principali tendenze di sviluppo del modo di produzione capitalistico, di cui hanno brillantemente confermato la validità 125 anni di storia economica e sociale dopo la redazione del tomo 1 del Capitale: a) La tendenza a rivoluzionare continuamente la tecnica di produzione e l’organizzazione del lavoro attraverso un progresso tecnologico che punta fondamentalmente a b) c) d) e) f) g) h) i) l) risparmiare il lavoro (labor-saving), che cioè sostituisce fondamentalmente il lavoro vivo con macchine. La tendenza a subordinare tutte le decisioni di investimento delle imprese alla ricerca di ulteriori profitti. Il capitale è assetato di plusvalore perché il plusvalore è la sola fonte ultima dei profitti, e l’ascesa verso la massimizzazione dei profitti dipende inevitabilmente dalla concorrenza e dalla proprietà privata. L’accumulazione del capitale (la crescita della massa dei capitali) è il fine e lo sbocco non meno inevitabile di tutti i meccanismi economici capitalistici. L’accumulazione del capitale assume la forma della concentrazione e della centralizzazione progressive dei capitali. I capitali crescono di ampiezza. Al tempo stesso, tuttavia, un numero crescente di piccoli e medi capitalisti sono fagocitati da un numero sempre più ridotto di società gigantesche. Nella crescita dei capitali, la quota di questi destinata all’acquisto della forza lavoro (capitale variabile) cresce meno rapidamente di quella destinata all’acquisto di macchine, materie prime e ausiliarie, energia, ecc. (capitale costante). La composizione organica del capitale (rapporto capitale costante/capitale variabile) tende, alla lunga, ad aumentare. Il rapporto tra la frazione del plusvalore complessivo assegnato ad ogni branca di attività capitalista e i capitali che vi sono investiti tende a diventare pari: è la tendenza alla perequazione del saggio di profitto, al formarsi di un saggio medio di profitto, perlomeno in ogni paese e per un determinato periodo. Il saggio medio di profitto tende a diminuire con il crescere della composizione organica del capitale: la tendenza al calo è compensata da una serie di forze operanti in senso inverso, innanzitutto la crescita del saggio di sfruttamento della forza lavoro, la crescita del saggio del plusvalore (rapporto tra il pluslavoro e il lavoro necessario nel processo di produzione corrente). Ma, alla lunga, la tendenza alla diminuzione prevale. Dalla diminuzione del saggio medio di profitto derivano inevitabilmente periodiche crisi di sovrapproduzione di merci e di sovraccumulazione di capitali, che finora si sono verificate 21 volte dal 1825, vale a dire dopo la prima crisi sul mercato mondiale dei prodotti industriali. La durata del “ciclo industriale” (susseguirsi di fasi di crisi, di stagnazione, di ripresa economica, di prosperità, di surriscaldamento e di crisi) è variata finora tra i 6 e i 9 anni, una media cioè di 7 anni e mezzo. Analogamente alle crisi economiche, le crisi sociali, cioè lotte periodiche di grande ampiezza tra il Capitale e il Lavoro, sono inevitabili in regime capitalistico, data la tendenza del capitale ad aumentare i profitti a spese dei salari e a provocare crisi e disoccupazione, e la non meno inevitabile risposta dei/delle lavoratori/lavoratrici salariati/e che cercano di difendere e di aumentare i salari e di ridurre la durata media del lavoro. Crisi politiche periodiche, cioè mobilitazioni oggettivamente rivoluzionarie del proletariato e tentativi controrivoluzionari della borghesia, scoppiano ciclicamente dopo fasi di relativa stabilità politica del capitalismo. Con il proletariato, il capitalismo genera il suo stesso affossatore. Non può avere una crescita forte e stabile senza che cresca con forza e stabilmente il proletariato, senza che si sviluppi la lotta di classe proletaria. Il proletariato tende, del resto, a costituire un settore sempre più maggioritario della popolazione attiva, perlomeno nei paesi industrializzati e semiindustrializzati. IV – IL SUPERAMENTO DEL SOCIALISMO UTOPISTA Uno dei più noti luoghi comuni utilizzati contro il socialismo è che sarebbe “contrario alla natura umana”. La proprietà privata sarebbe “innata” nella specie umana. Sarebbero sempre esistiti ricchi e poveri e avrebbero sempre continuato ad esistere. Eppure, l’antropologia, l’archeologia, la preistoria, l’etnologia ci insegnano che le cose non stanno così. Degli esseri umani sono vissuti per milioni di anni senza proprietà privata dei mezzi di produzione, senza economia di mercato, senza società divisa in classi. L’homo sapiens, il tipo umano fisicamente più evoluto, ha fatto la stessa cosa per decine di migliaia di anni. La proprietà privata e la divisione in classi della società coprono sicuramente meno di 10.000 anni e, questo, per una parte assai ridotta della specie umana, vale a dire un’infima porzione nell’arco di tempo della presenza umana sulla terra. La tesi apologetica dell’inevitabilità della disuguaglianza sociale è ugualmente battuta in breccia da un fenomeno successivo all’emergere della divisione della società in classi. La disuguaglianza sociale è stata sempre contestata all’interno stesso della società classista. Si può interpretare questa contestazione nel modo più vario. Vi si può vedere l’espressione degli interessi oggettivi degli sfruttati, anche se questi – e i loro portavoce – non sempre percepiscono così le loro esperienze. Vi si può vedere l’espressione di uno dei fondamenti della nostra natura antropologica, l’istintiva tendenza alla collaborazione inter-umana, senza cui il lavoro sociale e la sopravvivenza della nostra specie sarebbero impossibili. Si può dire che l’aspirazione alla giustizia – e quindi allai ribellione all’ingiustizia sociale – corrispondano, a livello della psicologia individuale, a questa esigenza sociale e si aprano la strada verso la consapevolezza, almeno in alcuni individui, a seconda delle vicissitudini della loro storia personale (in particolare ciò che accade nella loro infanzia). La si può spiegare secondo una combinazione ponderata di tutti questi fattori. In ogni caso, va constatato che da almeno 5.000 anni, la società divisa in classi è stata contestata non solo dalla critica ideologica, ma anche e soprattutto nella pratica, con periodiche rivolte degli sfruttati e degli oppressi. Esse vanno dalle rivolte e dai primi scioperi dei contadini nell’Egitto dei Faraoni alle rivolte di schiavi in Grecia e a Roma nell’antichità, tra cui la più famosa resta quella di Spartaco nel primo secolo a. C. Ci sono poi i poderosi movimenti di schiavi che contribuiscono al crollo dell’Impero romano, quelli dei Bagaudi in Europa occidentale e dei Donatisti in Africa settentrionale. L’India e soprattutto la Cina classica sono state segnate da innumerevoli sollevazioni contadine, molte delle quali, vincenti, hanno dato origine a nuove dinastie imperiali. In Giappone, all’epoca dei Tokugawa, si sono avute tra il 1603 e il 1863 più di 1.100 rivolte contadine. Anche la Russia zarista ha conosciuto numerose sollevazioni contadine, tra le più celebri delle quali c’è quella di Pugaciov in Ucraina, nel XVII secolo. Nell’America colonizzata dagli spagnoli e dai portoghesi sono spesso insorti gli Indios sottoposti al servaggio e gli schiavi. La più nota di queste rivolte è stata quella degli Indios peruviani capeggiata da Tupac Amaru, nella metà del XVIII secolo. C’è stata la rivolta vittoriosa degli schiavi neri ad Haiti, i Giacobini Neri, alla fine del XVIII secolo. Ci sono state numerose rivolte di schiavi neri nel XIX secolo nell’America del Nord, soprattutto quella diretta da Nat Turner nel 1831. In Europa occidentale e centrale, una catena pressoché ininterrotta di jacqueries (rivolte contadine, ad esempio quella diretta da John Ball in Inghilterra, nel 1381) e di sollevazioni di artigiani e lavoranti contro il regno della nobiltà e dei ricchi mercanti, si estendono dal XIII al XVI secolo. Esse sfociarono nelle grandi rivoluzione borghesi, quella dei Paesi Bassi, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti e della Francia, con le quali si intrecciarono, inserendovi del resto profonde contraddizioni, con un’embrionale dinamica di rivoluzione permanente. Tutte le contestazioni religiose e ideologiche, incluso il socialismo utopista, corrispondono in ultima analisi a questi moti di rivolta concreta dei contadini liberi sottomessi a tributi e corvées di Stato, di schiavi, di artigiani e di lavoranti e dei primi antenati salariati e semisalariati del proletariato moderno. In questa lunga serie di rivolte si ritrovano voci che si sono levate contro la disuguaglianza sociale con maggiore o minore veemenza, basandosi sulla memoria di una società più ugualitaria. Il mito o la leggenda dell’“ètà dell’oro”, di una società fraternamente unificata, che avrebbe preceduto la società divisa in gruppi in lotta gli uni contro gli altri, ha ispirato l’antico poeta Esiodo (VII secolo a. C.). Un tema che si ripete nella mitologia di tanti popoli. Spesso la contestazione si è espressa in forma religiosa. I primi Padri della Chiesa cristiana erano ferventi “partigiani”, contrari alla proprietà privata, fautori della comunione dei beni. La celebre frase: “La proprietà è un furto”, di solito attribuita a Proudhon, che la ha ripresa da Brissot (girondino eletto alla Convenzione nazionale), proviene in realtà dal vescovo di Bisanzio Giovanni Crisostomo (“Giovanni dalla bocca d’oro”), vissuto nel III secolo d. C. Quei Padri della Chiesa erano gli eredi diretti delle sette radicali ebraiche, che pullulavano in Palestina dopo la conquista romana, che a loro volta continuavano nel solco dei profeti ebraici più radicali. Più tardi ritroveremo violente imprecazioni contro la disuguaglianza sociale nelle sette dissidenti di tutte le principali religioni. Citiamo soprattutto i Donatisti in Africa settentrionale e i Mazdei in Iran. Durante le guerre di religione del XV e XVI secolo, la denuncia della disuguaglianza sociale sarà particolarmente virulenta tra gli Hussiti boemi e gli Anabattisti tedeschi. Durante la rivoluzione inglese del 1640-1688 si sono levate molte voci, specie quelle dei Livellatori, per denunciare lo sfruttamento dei poveri che persisteva nonostante l’estendersi dei diritti politici. Sarebbe errato presentare questa tradizione socialista - nel senso più generale della parola che attraversa millenni, come risultato della “sottocultura dei poveri” che accompagnerebbe in ogni società di classe la cultura dei ricchi. In primo luogo perché la maggior parte degli autori citati non sono affatto poveri – in genere incolti in quelle società – ma provengono piuttosto da settori delle stesse classi possidenti, o da ceti medi intellettuali (scribi, sacerdoti, filosofi, scienziati). Sarebbe più corretto parlare di un’ideologia delle classi sfruttate susseguentesi, che si sviluppa lungo la storia parallelamente all’ideologia delle classi dominanti, e in contrapposizione a queste, limitata a una ristretta minoranza della società. Ma da queste grida di protesta e di rivolta si delineano a poco a poco modelli sistematici di riorganizzazione della società basata sulla proprietà collettiva. Si può considerare La Repubblica del filosofo greco Platone come l’antesignana di questi modelli. Il prototipo di queste “utopie” è tuttavia l’opera del cancelliere inglese Tommaso Moro (Thomas More), giustiziato da Enrico VIII nel 1535, successivamente santificato dalla Chiesa cattolica, un’opera appunto intitolata Utopia (descrizione di un omonimo paese in cui si è instaurata una società comunitaria). Varianti di questa prima utopia, più o meno ispirate ad essa, sono state scritte più tardi: dall’italiano Campanella (1568-1639), La città del sole; dall’inglese James Harringon (16111677, The Commonwealth of Oceana (La Repubbblica di Oceana); e dai francesi: Fénelon (1651-1715), La Télémachie (Le avventure di Telemaco); Jean Meslier (1664-1729), Le Testament (Il Testamento); e Morelly, La Basiliade (1753) e Le Code de la Nature (1754) (Il codice della natura). Queste ultime sono sicuramente le due utopie socialiste più significative, soprattutto perché nel Codice della natura Morelly descrive una società senza Stato, in cui le condizioni economiche sono esplicitamente concepite come quelle che determinano le condizioni politiche. Il francese Mably (1709-1785) sarà l’ispiratore diretto di Charles Fourier. Tutti questi autori, da Moro a Mably, hanno però in comune il fatto che si limitano a descrivere sul piano semplicemente letterario una società migliore. Tuttavia, dopo Morelly e Mably nascono i socialisti utopisti propriamente detti, che non si limitano più a queste descrizioni, ma le abbinano alla lotta pratica per la loro realizzazione. I principali fra questi sono: Il francese conte di Saint-Simon (1760-1825), piuttosto ideologo della giovane borghesia industriale che non della nascente classe operaia. Egli denuncia soprattutto i misfatti della monarchia, della nobiltà, del clero, dei banchieri e dei ricchi imprenditori. Diventa l’aedo degli “operai”, ma in questa categoria egli mette insieme i veri e propri operai e gli imprenditori industriali direttamente impegnati nelle fabbriche. Diventa anche il cantore del credito a buon mercato e della presa del potere da parte di tutti gli operai. L’industria, il lavoro, ecco per Saint Simon la base di ogni progresso. I suoi discepoli avranno un ruolo importante fra i politici borghesi liberali degli anni 1830-1860 in vari paesi. L’industriale inglese Robert Owen (1771-1858) era mosso da un profondo sentimento di ribellione contro la miseria operaia in Gran Bretagna. Per porvi rimedio, caldeggiò, nell’ordine, la legislazione sociale, la fondazione di colonie comuniste in America, la centralizzazione dei sindacati inglesi in un’unica confederazione nazionale (Grand National Union, 1834) e infine la creazione di cooperative operaie di produzione, la prima delle quali fu fondata a Rochester nel 1839. È soprattutto come padre del movimento cooperativo che Robert Owen è entrato nella storia. Il piccolo commerciante francese Charles Fourier (1772-1837) e il suo discepolo Victor Considérant, sono tra i critici più radicali della società borghese e dei suoi fondamenti ultimi: la proprietà privata; la divisione sociale del lavoro tra agricoltura e industria (tra città e campagna); la produzione mercantile; l’economia monetaria, fonte di venalità e di corruzione universali; l’oppressione delle donne in seno alla famiglia patriarcale. Secondo lui, la soluzione della questione sociale sta nella creazione di falansteri, delle collettività di produttori-consumatori di 1.000-2.000 persone che si gestiscono da sole e lavorano al tempo stesso come agricoltori, artigiani ed artisti. Mentre i primi altri socialisti basarono i loro sistemi esclusivamente sulla ragione, Fourier, anticipando Freud, la psicologia dell’inconscio e il femminismo radicale moderni, attribuisce grande importanza alla soddisfazione umanistica e alla sublimazione degli istinti e delle passioni nel consolidamento della società socialista. L’avvocato francese Etienne Cabet (1788-1956), cui spetta il merito di avere impiegato per primo il termine comunista per descrivere la sua dottrina e la futura società. Fra tutti gli autori elencati, Cabet eserciterà durante la sua vita l’influenza maggiore in ambiente operaio. Il suo Voyage en Icarie (Viaggio in Icaria) è stato letto da migliaia di lavoratori (lui stesso stimava di aver fatto 200.000 adepti, una cifra naturalmente esagerata). Ha segnato profondamente la coscienza operaia in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848. La sua descrizione di un’economia pianificata dallo Stato - contrapposta a quella di mercato – eserciterà un’influenza diretta su socialdemocratici francesi come Louis Blanc e tedeschi come Ferdinand Lassalle. Alcuni vi scorgono anche il modello della pianificazione burocratica staliniana, come funzionava in Urss e in altre società modellate su quella dell’Urss. Infine, l’operaia francese Flora Tristan (1803-1844) auspica in L’Union Ouvrière (L’Unità operaia) la creazione di “edifici di operai” in tutte le città, in cui si realizzerebbe la più assoluta uguaglianza ed entrambi i sessi riceverebbero un’istruzione comune. Tristan operò una critica radicale delle condizioni delle donne all’epoca, descrivendole come “le proletarie degli stessi proletari”. Le sue idee avrebbero ispirato i tentativi “di organizzazione del lavoro” fatti nel corso della rivoluzione del 1848, e Marx prese le difese del suo femminismo contro chi lo criticava. Come si vede, questi autori, e in generale i “socialisti” utopisti nel complesso, non meritano il rimprovero di essersene stati con la testa nelle nuvole, di essere rimasti sganciati dalla realtà sociale ed economica del loro tempo, o di non avere avuto preoccupazioni pratiche. Al contrario, risultano critici lucidi della società borghese, e colgono tratti essenziali dei suoi sviluppi a lungo termine e delle sue contraddizioni; sono degli anticipatori ancor più chiaroveggenti delle trasformazioni indispensabili per l’avvento di una società senza classi. Marx ed Engels devono loro molto. Hanno imparato tanto da loro. Ne hanno recuperato parecchie idee, che poi hanno sviluppato. Questo però non significa che il socialismo utopista non sia meno marcato da profonde contraddizioni. Quelle che seguono sono le debolezze principali del socialismo utopista che i fondatori del socialismo scientifico hanno dovuto superare: a) Il progetto della società socialista è opposto alla società borghese, senza un rapporto con le conquiste e le contraddizioni di quest’ultima. Per Marx ed Engels, l’avvento della società senza classi risulterà (potrà risultare) invece da fonti economiche (sviluppo delle forze produttive, socializzazione del lavoro) e socio-politiche (maturazione e organizzazione del proletariato, sbocco della lotta di classe tra Capitale e Lavoro) che emergono esattamente da quelle conquiste e da quelle contraddizioni. b) Per i socialisti utopisti, il motore essenziale dell’avvento della nuova società è l’educazione e la propaganda, fenomeni innanzitutto individuali e sovrastrutturali. In quanto si crede che l’impegno personale punti a risultati numerici più ampi, esso è concepito come un fenomeno di “propaganda attraverso l’azione”, concezione ripreso in seguito dai gruppi rivoluzionari anarchici e terroristi. Di qui l’importanza attribuita dai socialisti utopisti all’immediata realizzazione di “cellule della futura società”, cooperative e colonie comuniste, ecc. Per Marx ed Engels, viceversa, la società borghese non si può che abolire nel suo complesso, non fabbrica per fabbrica, villaggio per villaggio, fattoria per fattoria. C’è quindi bisogno dell’impegno attivo della maggioranza della popolazione. Marx ed Engels, pur non avendo minimamente contestato il valore dimostrativo di queste esperienze comuniste – che confermano che una società senza padroni, senza produzione di merci e senza denaro è possibile - hanno sostenuto che erano destinate all’insuccesso (ad essere riassorbite dalla società borghese) finché fossero rimaste isolate. c) I socialisti utopisti esagerano il peso della ragione (e, per Fourier, della ragione e delle passioni) nel determinare l’iniziativa delle larghe masse: Non si rendono a sufficienza conto che quel che può essere determinante per individui presi singolarmente rischia di essere ampiamente neutralizzato quando operano insieme un grande numero di persone, non foss’altro che per il gioco delle leggi della probabilità (dei grandi numeri). Passioni diverse e ragionamenti diversi si elidono reciprocamente come fattori determinanti di quelle azioni. Marx ed Engels si basano quindi sugli interessi comuni di persone appartenenti a una classe sociale destinata ad essere maggioritaria nella società borghese per aprire la strada all’avvento della società socialista: il proletariato. Ma questa impostazione non esclude l’importanza della propaganda e dell’educazione, né quella della ragione e di una serie di moti affettivi nella lotta per il socialismo, nella misura in cui tutte queste forze debbono facilitare gradualmente, e a diversi livelli, la presa di coscienza degli interessi di classe da parte del proletariato: la conquista della coscienza di classe. d) La principale debolezza dei socialisti utopisti che deriva da tutte quelle precedenti e spiega in ultima analisi perché siano stati condannati all’insuccesso, è che in essi la società senza classi sembra come elargita a masse consenzienti o anche recalcitranti da regimi essenzialmente autoritari, se non tirannici e dispotici. Dalla Repubblica di Platone e dall’Utopia di Moro all’Icaria di Cabet, i filosofi, i sapienti, gli scienziati, gli educatori la fanno da padroni, a volte esplicitamente da dittatori. La repressione, la sanzione e le prigioni, l’esercito, la guerra, in queste utopie rimangono. Solo i falansteri di Fourier, le cooperative di Owen e la visione di Flora Tristan costituiscono una rispettabile eccezione – almeno in parte – alla regola. Marx ed Engels, viceversa, concepiscono l’avvento della società senza classi come risultante del movimento reale di autorganizzazione e di autoemancipazione della grande massa. “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi; proletari di tutto il mondo unitevi!”. Ecco ciò che sintetizza l’apporto più rivoluzionario, più originale del marxismo al pensiero e alla storia umani, quello che segna la rottura più radicale con tutte le altre dottrine. Per capire il socialismo utopista, le sue radici, le sue acquisizioni e le sue insufficienze, occorre esplicitarne la natura sociale. Essenzialmente, costituisce l’espressione ideologica di una rivolta contro la società di classe, contro la disuguaglianza sociale, da parte di classi sociali pre-proletarie, che non dispongono ancora della forza economica materiale o della sufficiente coesione sociale indispensabili per garantire stabilmente la vittoria di un sistema senza proprietà privata. Di fatto, la società divisa in classi non è stata contestata solo a livello della critica ideologica, ma è stata soprattutto contestata nella pratica, come si è visto, da rivolte periodiche degli sfruttati e degli oppressi. Non si trattava di movimenti sparsi di gruppuscoli di desperados. Si trattava di poderosi movimenti di massa, che coinvolgevano migliaia, a volte milioni, di persone e che a varie riprese hanno anche strappato la vittoria. Ma, nonostante il coraggio, la devozione, l’idealismo, la straordinaria audacia della visione sociale che hanno contraddistinto tanti di questi movimenti, sono tutti falliti nel senso che non sono riusciti ad instaurare stabilmente una società senza classi. O hanno perso il potere a vantaggio dei loro nemici, dopo averlo conservato per vari anni (Hussiti a Tabor; Anabattisti a Münster; ecc.) oppure, restando al potere, hanno finito per ristabilire fondamentalmente un regime classista analogo a quello che avevano cercato di rovesciare (dinastie Han e Tang in Cina). Un caso particolarmente clamoroso è quello dei Cosacchi del Don e di Crimea. All’origine si trattava di servi scappati che riconquistarono la propria libertà e ricostituirono una società tribale indipendente, ugualitaria, resistendo ferocemente ad ogni tentativo degli zar di sottometterli. Finirono tuttavia per diventare il principale strumento dello zarismo per sottomettere e opprimere le società tribali del Caucaso e della Siberia. L’insuccesso storico di tutte queste rivolte contro la disuguaglianza sociale è stata spiegata da Marx ed Engels sulla base dell’interpretazione materialista della storia. Nelle concrete condizioni in cui si sono svolte quelle rivolte, l’insufficiente sviluppo delle forze produttive rese possibile solo questa alternativa: o un “comunismo della miseria” cui avrebbe posto fine ogni nuovo progresso economico; o la sostituzione di una classe possidente privilegiata con un’altra. È solo con lo sviluppo delle forze produttive realizzato dal capitalismo che nasce per la prima volta nella storia la possibilità materiale di instaurare stabilmente una società senza classi a un livello non di miseria ma di abbondanza (saturazione dei bisogni fondamentali). I limiti e le contraddizioni del socialismo utopista riflettono dunque, in ultima analisi, l’immaturità delle condizioni materiali (economiche e sociali) in cui delle classi oppresse preproletarie si sono battute per una società senza classi. Il suo “utopismo” riguarda in definitiva non lo scopo da raggiungere ma le condizioni necessarie per raggiungerlo. Vuol dire che, nell’ottica del materialismo storico, le rivolte degli sfruttati, delle classi popolari più povere del passato erano condannate, o perlomeno inutili, perché utopiche, non potevano cioè approdare ad instaurare stabilmente una società senza classi? Una simile versione meccanicistica di un “marxismo” volgare non corrisponde assolutamente al pensiero di Marx ed Engels – cosa che, peraltro, riconoscono molti critici del marxismo, vedendo in questo una contraddizione tra Marx ed Engels “uomini di scienza” e Marx ed Engel “appassionati moralisti della rivoluzione”. In realtà, non vi è alcuna contraddizione tra l’incondizionata e incontestabile presa di posizione di Marx ed Engels in favore di Spartaco, delle Jacqueries, di Thomas Münzer, di Babeuf, dei Taï-Ping e dei Sepoys indiani, e l’ammissione dell’impossibilità di vittoria stabile di quei movimenti rivoluzionari. In primo luogo, è dar prova di miopia credere che solo la conquista del potere possa influenzare stabilmente la storia. Anche rivoluzioni sconfitte sono riuscite a cambiare il corso storico. Sono riuscite ad accelerare la marcia degli avvenimenti, sono riuscite ad imporre agli stessi vincitori la realizzazione di parte dei loro obiettivi, se corrispondevano a delle necessità storiche, soprattutto economiche, all’interesse di una maggioranza della società, e se i vinti si battevano con energia e ostinazione per quegli obiettivi. L’abolizione della schiavitù nonostante la sconfitta delle rivolte di schiavi; la realizzazione dell’unità tedesca malgrado la sconfitta della rivoluzione del 1848, ne forniscono due esempi clamorosi. Inoltre, le rivolte di massa e le rivoluzioni popolari danno alle idee – e quindi al progetto di una società ugualitaria senza classi – una risonanza e una forza d’urto senza possibile confronto con quelle che risultano dalla sola propaganda verbale e letteraria. Le rivoluzioni popolari del passato, malgrado gli insuccessi, hanno contribuito ad arricchire il patrimonio socialista dell’umanità quanto non sarebbe mai riuscita a fare l’opera di filosofi e di filantropi. Senza queste rivolte e queste rivoluzioni, lo sviluppo del socialismo utopista, lo sviluppo del socialismo scientifico e quello della coscienza di classe proletaria avrebbero conosciuto un ritardo notevole. Infine, il compito che ha di fronte il proletariato moderno è quello più difficile che una classe sociale abbia mai dovuto realizzare storicamente: costruire una nuova società senza aver mai esercitato prima né il potere economico, né il potere politico, né il potere culturale-ideologico. La realizzazione di questo difficile compito sarebbe ancor più difficile se la lotta di emancipazione del proletariato non si potesse concepire come l’erede legittima, l’esecutrice testamentaria di migliaia d’anni di tentativi di emancipazione dell’umanità lavoratrice, di tentativi non solo sconfitti ma che hanno anche prodotto numerosi progressi sociali reali. In definitiva, quel che è alla base di questa concezione di Marx ed Engels delle rivoluzioni del passato e del socialismo utopista è innanzitutto una complessa concezione dialettica e non lineare, meramente economicistica e meccanicistica, del progresso storico. È anche una constatazione che comporta un impegno morale. Gli sfruttati e gli oppressi si sono ribellati, si ribellano e si ribelleranno comunque contro le loro insopportabili condizioni, checché ne pensino gli ideologhi, o checché prevedano certi “educatori”, sulle loro possibilità di successo. Il dovere di ogni socialista, di ogni uomo e di ogni donna che ami l’umanità, è quello di combattere al loro fianco e di cercare di accrescere al massimo la lucidità e le speranze di successo dei combattenti. Non vi è niente di romantico in questo impegno. L’altro polo dell’alternativa è quello di tollerare lo sfruttamento e l’oppressione esistenti come minor male rispetto al tentativo di emancipazione delle loro vittime. V- LA TRASFORMAZIONE PROLETARIA DELL’AZIONE E DELL’ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIE Lo sviluppo del socialismo utopistico aveva prodotto tre figure di spicco, che rappresentano la transizione dalla filantropia e dal propagandismo pre-proletario all’azione proletaria vera e propria: il tedesco Weitling e i francesi Pierre-Joseph Prudhon e Auguste Blanqui. Due di questi socialisti, Blanqui e Weitling, rientrano forse meno nella continuità del socialismo utopista (da cui Weitling dipende ancora in parte), che non in quella della tradizione rivoluzionaria sorta dalle rivoluzioni americana e francese. Nel corso di queste rivoluzioni, l’estrema sinistra piccolo-borghese (giacobina) e preproletaria, incarnata soprattutto da Sam Adams e Thomas Paine in Inghilterra e da Gracchus Babeuf in Francia, aveva progettato un tipo di organizzazione rivoluzionaria che avrebbe dovuto tendere a protrarre l’azione politica oltre il consolidamento delle principali conquiste rivoluzionarie. L’agitazione di Tom Paine e dei suoi compagni sfociò, in seguito, nella costituzione della London Corresponding Society, diretta da Thomas Hardy, e di numerose associazioni analoghe in Gran Bretagna, la più importante delle quali fu quella degli United Irishmen in Irlanda, diretta da Wolfe Tone. Mentre la LCS era rigorosamente legale, gli United Irishmen e altri gruppi provinciali si costituirono in lega clandestina. Tutte, però, avevano in comune il carattere politico-democratico delle loro principali rivendicazioni sociali (la conquista del suffragio universale per la LCD; il suffragio universale e l’emancipazione nazionale per gli United Irishmen). Le rivendicazioni economiche, in favore delle classi lavoratrici, non andarono oltre quella di un riforma della società borghese. Per il capo della Congiura degli uguali, Babeuf, e per i suoi compagni, si trattava invece già chiaramente della conquista rivoluzionaria del potere, non della conquista delle sole libertà democratiche. Puntarono inoltre su obiettivi collettivistici, tendenti a soddisfare le rivendicazioni economiche e sociali degli strati più poveri e più sfruttati della popolazione, in primo luogo il pre-proletariato (semi-proletariato) e il nascente proletariato. Queste organizzazioni rivoluzionarie sorsero tuttavia in modo indipendente dall’autorganizzazione dei salariati nel senso proprio del termine. I babuvisti cercarono di impadronirsi del potere con un colpo di Stato in piena controrivoluzione termidoriana, nel 1797, e furono schiacciati dalla repressione. Uno dei sopravvissuti della Congiura degli uguali cercò di salvare la continuità dei principi e dei progetti rivoluzionari di Babeuf nella Società delle stagioni, che comparve a Parigi dopo il crollo dei Borboni, al’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento e il cui leader indiscusso fu Auguste Blanqui. Blanqui è stato il più grande rivoluzionario francese del XIX secolo. Militante con una convinzione, una fermezza, un coraggio e un’onestà intellettuale incrollabili, fu una sorta di incarnazione delle aspirazioni e dell’azione rivoluzionaria del proletariato francese, soprattutto di quello parigino. Cercò di conquistare il potere con una serie di colpi di Stato, fu arrestato più volte – alla fine trascorse più di vent’anni in prigione – ma riuscì a conservare la continuità della sua organizzazione clandestina. Quando esplose la Comune di Parigi, nel marzo 1871, era ancora in prigione, nel territorio controllato dal governo controrivoluzionario di Thiers. Considerato da tutti – Marx incluso – come il dirigente naturale della Comune, al cui interno i suoi sostenitori costituirono una minoranza raccolta intorno a Vaillant, ne fu richiesta la liberazione a Thiers in cambio di tutti gli ostaggi presi, compreso l’arcivescovo di Parigi. Thiers rifiutò, dimostrando così fino a qual punto la borghesia francese temesse la capacità di organizzazione e di animazione del grande rivoluzionario, e gli effetti delle sue doti di dirigente sull’esito della guerra civile. Negli anni 1880-1890, la tendenza blanquista alla fine si fuse con quella marxista nel corso del processo di creazione del partito operaio socialista di massa in Francia. Il tedesco Wilhelm Weitling, contrariamente a Blanqui, era un operaio autodidatta, che pervenne alle sue conclusioni comuniste e rivoluzionarie non solo in base allo studio, ma anche partendo dall’esperienza vissuta della condizione proletaria. Alcuni lavoranti-artigiani tedeschi itineranti in tutt’Europa – che grazie a questo modo di vivere riuscirono a superare per primi l’orizzonte localista e professional/corporativo ristretto ai primi strati proletari del loro paese – crearono a Parigi nel 1834 (per influenza della Società delle stagioni blanquista ) una Lega dei proscritti (Bund der Geächteten), una società segreta da cui emergerà nel 1838 la Lega dei giusti (Bund der Gerechten) diretta da Weitling. Questa si diede un programma socialista utopico intitolato “L’umanità com’è e come dovrebbe essere”. Questa società segreta abbandonò i suoi vaghi progetti di lotta per il potere dopo il fallimento della cospirazione blanquista del 1839 e si orientò piuttosto verso obiettivi di impianto di cooperative e colonie comuniste, sotto l’influenza di Owen e di Cabet. Ma come per il babuvismo in Francia, la tradizione dell’organizzazione rivoluzionaria clandestina fu conservata. La Lega dei giusti fu ribattezzata Lega dei comunisti (Bund der Kommunisten) nel 1847, nel momento in cui Marx ed Engels vi aderirono formalmente (il Comitato comunista di corrispondenza che avevano costituito all’inizio del 1846 a Bruxelles aveva preso contatto fin dall’inizio con la Lega dei giusti). Le organizzazioni rivoluzionarie babuviste, blanquiste e tedesche rappresentano un anello indispensabile che porta dalle rivoluzioni borghesi del XVI, XVII e XVIII secolo all’azione rivoluzionaria proletaria del XIX e XX secolo. Le loro principali acquisizioni sono state: 1) La presa di coscienza della necessità dell’azione politica per la conquista del potere, presa di coscienza sorta dalla comprensione dei principali insegnamenti da trarre esattamente dalle rivoluzioni borghesi, se non da tutte le rivoluzioni della storia. Non tutti/e condivisero questa lezione, che non fu né largamente diffusa fra gli adepti del socialismo, né largamente accolta in seno alla giovane classe operaia salariata. Al contrario, in entrambi questi ambienti prevalse l’apoliticismo, sia per scetticismo e disgusto per la tradizionale azione politica borghese e piccolo-borghese (“gli operai sono sempre ingannati dai politici e dalla politica”), sia in seguito a un bilancio lucido ma incompleto ricavato dalle stesse rivoluzioni contemporanee. Per la classe operaia, infatti, queste erano approdate alla sostituzione di un gruppo di sfruttatori con un altro, e assolutamente non in una reale emancipazione. Socialisti utopisti e operai in via di autorganizzazione ne trassero la conclusione che l’azione politica fosse deludente ed inutile: bisognava concentrare lo sforzo sull’emancipazione economica: Il tipo di organizzazione doveva essere adeguato a questo scopo. 2) Babeuf, Blanqui, Weitling capirono invece, a livelli diversi, il ruolo chiave del potere politico nel consolidamento dello sfruttamento subito dai proletari e pre-proletari. Per questo, caldeggiarono un’azione politica di tipo nuovo, rivoluzionario proletario, al fine di rovesciare lo Stato borghese: Babeuf, Blanqui e Weitling erano convinti che solo un nucleo di rivoluzionari profondamente motivati, saldi, disciplinati potesse avere la meglio sul potente nemico. Secondo loro, il principale insegnamento da trarre dalla sconfitta politica del “Quarto Stato” durante la Rivoluzione francese e all’indomani del 1830 non era l’inutilità delle rivoluzioni popolari che si volevano condannate alla sconfitta, ma l’inevitabilità della sconfitta delle classi popolari se affrontano i ricchi senza direzione e organizzazioni ferree. Erano convinti che diretti da un minoranza del genere ben preparata al suo compito storico, le classi popolari potessero trionfare nelle esplosioni rivoluzionarie del futuro. In questo senso, Babeuf, e soprattutto Blanqui, sono evidentemente i precursori del concetto leninista di “rivoluzionari di professione”. 3) La difesa della tradizione e la continuità rivoluzionaria. Termidoro, il Consolato e l’Impero, successivi ai progressi della grande Rivoluzione francese tra il 1789 e il 1793, avevano provocato un’immensa delusione in seno alle masse popolari e dell’intelligentsia progressista in Francia e in Europa, paragonabile per certi aspetti alle ondate di disillusione, di scetticismo, di cinismo e di “rientro nel privato” conosciute dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848-1850, dopo la presa di coscienza della realtà del Termidoro in URSS negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, e dopo il riflusso della speranza di rivoluzione in Europa a partire dal 19751976. Intellettuali altamente rappresentativi della propria epoca, come il filosofo tedesco Kant e il poeta inglese Wordsworth, che erano stati sostenitori entusiastici della rivoluzione, si trasformarono in avversari reazionari di questa. Ci furono comunque alcune eccezioni, ad esempio il poeta inglese Shelley, che rimase un rivoluzionario convinto. 4) Fra i democratici radicali impegnati nell’azione politica, fra i salariati impegnati nell’azione sindacale, questa ondata di reazione ideologica provocò in genere un riflusso verso concezioni puramente legalitarie e riformiste (gradualiste) dell’azione e dell’organizzazione. Di fronte all’ondata di adattamento capitolardo all’ideologia della classe dominante, i primi nuclei rivoluzionari pre-proletari e proletari conservarono la tradizione rivoluzionaria del XVIII secolo, introducendovi il massimo di autocritica a portata dei rivoluzionari dell’epoca. Tale continuità ha enormemente facilitato l’emergere di una nuova concezione e tradizione rivoluzionarie, squisitamente proletarie, a partire dalla rivoluzione del 1848. Insieme ai loro meriti, tuttavia, vanno sottolineate le lacune dei progetti rivoluzionari di Babeuf, Blanqui e di Weitling: a) La lotta per il potere politico si concepisce essenzialmente come emanazione di una minoranza molto ristretta della società e dello stesso proletariato. Da ciò il carattere necessariamente cospirativo e violento dell’azione rivoluzionaria progettata, la “tecnica del colpo di Stato” che prevaleva sull’effettiva azione politica di massa. Con ciò stesso la lotta assume una natura putschista e utopista, essendo scarsissime le probabilità che un gruppetto di cospiratori potesse riuscire ad eliminare in un colpo solo il poderoso apparato repressivo di Stati come quello francese o prussiano. b) L’organizzazione rivoluzionaria auspicata per questo tipo di azione politica era necessariamente clandestina ed elitaria, risultato di una severa selezione alla quale, alla lunga, sono poche le persone che resistono. Il carattere ristretto e segreto dell’organizzazione rafforza, a propria volta, il carattere putschista dell’azione e la tendenza a una sua scarsa connessione con gli ampi movimenti spontanei delle masse, con le lotte di classe economiche, ecc. c) Organizzazione essenzialmente clandestina e azione essenzialmente insurrezionale sfociano in una visione nettamente elitaria e autoritaria dello Stato che emerge dalla vittoria rivoluzionaria. Si tratta di un potere al servizio del popolo, per il popolo, ma non immediatamente esercitato dal popolo (Weitling, più direttamente proletario di Blanqui, era più cauto al riguardo). Ancora una volta manca, o è insufficiente, il nesso con il movimento di concreta emancipazione dei salariati. d) Gli obiettivi economici e sociali che la rivoluzione deve raggiungere restano imprecisati (specie in Blanqui) o utopici (in Weitling), vista la mancanza di adeguate conoscenze economiche e soprattutto vista l’analisi insufficiente della natura del capitalismo e delle sue contraddizioni. Da questo punto di vista, Babeuf, Blanqui e Weitling restano addirittura indietro rispetto ai socialisti utopisti o ai più arditi degli economisti post-ricardiani Tali debolezze e lacune dei primi nuclei rivoluzionari pre-proletari e proletari si spiegano, in ultima analisi, con la loro natura sociale e il contesto in cui si sviluppano. Si tratta di organizzazioni espresse dal proletariato pre-industriale, artigianale e manifatturiero, che non hanno ancora potuto generalizzare, o apprendere, le prime esperienze di lotta e organizzazione di massa del proletariato industriale propriamente detto. Cercano, infatti, di combinare la tradizione giacobina piccolo-borghese delle grandi rivoluzioni del XVIII secolo con l’esperienza di organizzazione del proletariato pre-industriale, non di ricavare conclusioni dalla prime esperienze rivoluzionarie del proletariato industriale stesso. Marx ed Engels hanno dovuto superare questi limiti in modo sistematico, elaborando le proprie concezioni dall’esperienza d’organizzazione e dall’azione rivoluzionaria del proletariato, approdando, dopo la rivoluzione del 1848-1850, a una loro concezione della rivoluzione proletaria: a) Ritengono che l’azione politica rivoluzionaria – la lotta per la conquista del potere – debba per l’essenziale risultare dall’azione di larghe masse, quelle dei salariati e dei loro diretti alleati, ma in primo luogo dei proletari stessi. Il potenziale economico dei salariati è determinante (“Alle Räder stehen still, wen Dein Starker Arme es will” – “Tutte le strade si bloccano quando lo vuole il braccio forte”); il loro rafforzamento numerico, fino a diventare maggioranza della nazione, è visto come una delle precondizioni della vittoria stabile della rivoluzione. b) Per questo, l’organizzazione politica legale – il costituirsi del proletariato in partito politico indipendente dalla borghesia e dalla democrazia piccolo-borghese – è considerata un elemento essenziale nella vittoria rivoluzionaria. L’organizzazione delle società segrete è screditata, tranne in condizioni di repressione estrema, e anche in tal caso solo allo scopo di mantenere la continuità, non come strumento della presa del potere. Il putschismo è condannato decisamente. c) Elemento prioritario è il progetto di autorganizzazione del proletariato, per prepararsi all’esercizio del potere, per conquistarlo e per esercitarlo. Elitismo e autoritarismo sono esclusi, come pure una visione troppo “insurrezionalista” dello Stato. Laddove Babeuf e Blanqui erano piuttosto sostenitori di uno Stato forte nella tradizione giacobina, Marx ed Engels, per l’influenza della rivoluzione del 1848-1850, e soprattutto per quella della Comune di Parigi, caldeggeranno la concezione della distruzione dell’apparato statale e la dittatura del proletariato – concetto derivato da Blanqui - come uno Stato che comincia a deperire fin dal suo nascere. d) Emancipazione politica (rivoluzione politica) ed emancipazione economica e sociale sono strettamente connesse in Marx ed Engels. Il programma della presa del potere rivoluzionario è legato, fin dal Manifesto comunista, a una serie di trasformazioni economiche e sociali che debbono consentire ai produttori di liberarsi dalle catene della condizione proletaria, di godere delle condizioni materiali indispensabili per l’esercizio del potere e lo sviluppo di tutte le loro capacità personali. Senza che si realizzino queste condizioni socio-economiche, resta utopico l’avvento di una vera società senza classi. Il superamento delle concezioni rivoluzionarie dei primi nuclei proletari pre-industriali da parte di Marx ed Engels non è solo il prodotto di un’esperienza rivoluzionaria più vasta e di una comprensione più profonda della dinamica della società borghese, delle condizioni per la vittoria del socialismo, vale a dire di tutte le acquisizioni del materialismo storico. Esso evidentemente corrisponde allo stesso interesse di classe del proletariato, di cui esprime la specifica mentalità. VI – LA FUSIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO REALE E DEL SOCIALISMO SCIENTIFICO L’organizzazione di massa dei lavoratori da parte dei lavoratori stessi sorge in Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e della grande industria. In realtà, è precedente all’espandersi delle grandi fabbriche; risale già alla seconda metà del XVIII secolo, durante il quale il proletariato britannico è ancora soprattutto artigianale, manifatturiero e agricolo. La sua principale forma organizzativa è quella dell’associazione di corporazioni artigianali che rappresentano realmente il ponte tra le corporazioni semifeudali e il sindacato moderno. Riflettono il passato per il loro spirito e i loro interessi angusti, il loro localismo e corporativismo. Annunciano il futuro con le loro principali forme di lotta, che comprendono gli scioperi e l’azione contro i crumiri, la tenace solidarietà, il tentativo di conquistare un minimo di forza finanziaria autodifensiva, e i loro statuti e il loro spirito sempre più democratici: assemblee generali, elezione dei dirigenti, costituzione di comitati, controllo della tesoreria, ecc. Il padronato britannico si spaventò per queste associazioni e questi scioperi, dato soprattutto il turbolento carattere politico all’epoca, l’impopolarità delle guerre contro la rivoluzione francese, l’influenza delle associazioni filogiacobine quali la London Corresponding Society. Con una legge del 1799 le associazioni operaie furono vietate. In Francia, in piena rivoluzione, c’era stato un analogo divieto con il voto della Legge Le Chapelier nel 1791, cosa che ben confermava il carattere borghese della grande rivoluzione. Il voto di questa legge ostacolò l’organizzazione del giovane proletariato inglese, ma non la impedì assolutamente. La costrinse a passare alla clandestinità, e impresse un carattere più violento alle lotte in difesa degli interessi materiali dei lavoratori. Questo si manifestò subito nel movimento dei Luddisti (1811-1812), incentrato soprattutto nella regione di Nottingham, notevolmente organizzato e quasi impenetrabile ai poliziotti, alle spie e ai crumiri. Contrariamente alla leggenda diffusa dal nemico di classe, i Luddisti non erano in alcun modo ostili alle macchine per principio. Lo scopo delle loro azioni non era affatto l’eliminazione delle macchine nell’industria tessile, ma l’aumento dei salari, la lotta contro il carovita e la disoccupazione, e altri classici obiettivi dei primi sindacati. La tattica di rendere inutilizzabili le macchine si impose perché ancora i lavoratori prendevano perlopiù le macchine in affitto dai padroni per utilizzarle a domicilio. In quelle condizioni, il fatto di rendere inservibili le macchine si ritenne un sistema efficace per combattere i crumiri, l’umico modo per rendere lo sciopero veramente generale. La borghesia inglese fu talmente spaventata dai “distruttori delle macchine” da far votare una legge che li puniva con la pena di morte. Dopo la caduta di Napoleone e il ristabilirsi della pace vi fu una prolungata depressione economica in Gran Bretagna che condannò alla disoccupazione centinaia di migliaia di operai, provocò una forte diminuzione dei salari e violente rivolte della fame. Poiché queste lotte si combinarono con la ripresa dell’agitazione per il suffragio universale, la borghesia raddoppiò la repressione. A St Peter Field’s, vicino Manchester, ebbe luogo nel 1919 una grande manifestazione, che venne repressa nel sangue dal duca di Wellington, vincitore della battaglia di Waterloo, cosa che indusse i pamphlettisti radicali a ribattezzarla “massacro di Peterloo”. Molti storici considerano quel massacro come la scintilla che fece nascere il movimento operaio moderno in Gran Bretagna. Da quel momento, quest’ultimo seguì una duplice traiettoria. Da un lato, si moltiplicarono i sindacati clandestini e semilegali, nonché gli scioperi economici. La pressione contro la Legge sulle coalizioni si amplificò sempre più, incluso fra i padroni più intelligenti, che capivano che era preferibile avere davanti a sé interlocutori rappresentativi e legali in caso di sciopero, con i quali se ne poteva trattare la rapida chiusura, piuttosto che vederli trascinarsi a lungo. Nel 1825 la legge fu finalmente soppressa. Le associazioni professionali operaie assunsero sistematicamente la denominazione di trades unions (unione dei mestieri), a partire dal 1824-1825. Rapidamente queste superarono il loro carattere strettamente localistico e corporativo. Dall’altro lato, l’agitazione di William Cobbett nel periodo 1815-1819, che era approdata al raggruppamento di Peterloo, fu raggiunta nel 1830-1832 da una nuova campagna in favore del suffragio universale, che culminerà questa volta nel Reform Bill del 1832, una Legge redatta dai Liberali, che aumentava la rappresentanza delle città. Dopo l’insuccesso dei Liberali al Parlamento, l’agitazione si sarebbe conclusa con la creazione del primo partito operaio di massa, il partito cartista. Questo mutuò dall’agitazione degli anni 1815-1819 la petizione di massa come principale strumento di lotta. Si trattava di raccoglier firme in favore di una Carta che reclamava il suffragio universale. Avviata nel 1837-1838, l’agitazione debuttò con un’impressionante manifestazione a Glasgow, in Scozia, che raccoglieva 150.000 persone. In questa città, la fusione delle lotte economiche con la lotta politica della classe operaia aveva, del resto, conosciuto un primo successo fin dal 1819-1820, con lo sciopero di 60.000 operai in favore del suffragio universale, soprattutto operai delle miniere. Contemporaneamente, anche nel continente europeo e negli Stati Uniti si verificarono i primi tentativi autonomi di organizzazione e di azione della classe operaia. Artigiani di Filadelfia, negli Stati Uniti, costituirono nel 1828 il primo partito operaio della storia. Nel 1831 si verificò nei sobborghi operai di Lione, capitale dell’industria francese della seta, la prima insurrezione esclusivamente operaia, quella dei “canuts”, i tessitori del quartiere della Croix Rousse, che si impadronirono per vari giorni della città. Nel 1844 vi fu la rivolta dei tessitori della Slesia in Germania, immortalata dal grande poeta Heinrich Heine In Belgio, il paese più industrializzato del continente europeo, gli operai delle filature del tessile di Gand tentarono di creare sindacati operai fin dal 1810-1815. All’indomani della rivoluzione del 1830, da operai di questa città furono inviate petizioni alla Camera per rivendicare il suffragio universale, la libertà di associazione, la completa libertà di stampa, una tassa sull’eredità. La appoggiarono lavoratori di Bruxelles e di Liegi. Nel 1836 si svolse il primo raduno operaio pubblico a Bruxelles, promosso da Jacob Kats, autore del primo catechismo operaio, che ha incontestabilmente influenzato i giovani autori del Manifesto comunista, redatto a Bruxelles. Va, infine, segnalata la comparsa, fra le sette socialiste utopiste, della corrente di Prudhon in Francia che, in contrasto con quelle di Saint-Simon, Fourier ed Owen, è di origine puramente operaia. Prudhon, al pari di Weitling, era un operaio autodidatta, sia pure un operaio artigianale. Arrivato più tardi dei suoi grandi predecessori sulla scena storica, cercò, come Marx ed Engels, di incorporare conclusioni ricavate dalla filosofia tedesca classica e dall’economia politica inglese nella dottrina socialista. Lo fece, però, sulla base di conoscenze scarse e male assimilate, con un’evidente carenza di maturazione scientifica, che rifletteva in ultima analisi la specifica situazione sociale dell’artigianato e del pre-proletariato francesi. Si trattava, per lui, di emancipare l’operaio/artigiano dal predominio del denaro (del capitale), senza abolire la produzione mercantile e la concorrenza: illusione tipicamente artigianale/piccolo borghese. Pur se Prudhon è stato a volte, non a torto, presentato come il padre dell’idea di autogestione operaia, l’impasse del “socialismo di mercato”, evidente in Yugoslavia dal 1970, è già potenzialmente delineata nelle sue concezioni. Lo stesso per quanto riguarda il pericolo economico e sociale che accompagna questa impasse economica: il rischio di frazionare la classe operaia in gruppi in contrapposizione tra loro tramite la concorrenza, con i loro redditi monetari dipendenti dai successi sul mercato. Malgrado la loro grandissima diversità, tutti questi tentativi iniziali di azione e di organizzazione autonome dei lavoratori/produttori diretti presentano un certo numero di tratti comuni, che ne fanno i veri promotori del moderno movimento operaio. Esso è dunque nato prima di Marx ed Engels, ed indipendentemente da loro, così come è nato indipendentemente dall’azione di qualsiasi agitatore o “teorico” (utopista) intellettuale. È il prodotto diretto dello sfruttamento e della miseria subiti dagli operai per l’esistenza del sistema capitalista, il prodotto immediato della società borghese. Se bisogna rendere qualcuno “responsabile“della lotta della classe operaia, questo responsabile è il padronato, cioè la lotta quotidiana, permanente, spietata che il Capitale e il suo Stato conducono contro il Lavoro salariato. Il grande merito delle prime azioni e organizzazioni dei lavoratori salariati che abbiamo richiamato, è la conquista dell’indipendenza di classe, la presa di coscienza della necessità da parte degli operai di organizzarsi tra loro, separatamente dai padroni, grandi o piccoli, per difendere i loro propri interessi, che sono diversi da quelli della borghesia e della piccola borghesia, inclusa la loro ala politica più radicale. Così, migliaia di operai hanno raggiunto un primo livello di coscienza di classe: la coscienza di classe, economica, sindacale, che va considerata un enorme passo avanti non appena essa acquista un carattere di massa e permanente, rispetto alla situazione atomizzata e disorganizzata dell’esistenza e della prima resistenza operaie. Per finire, da questi primi tentativi di azione collettiva e di organizzazione stabile della classe operaia sorgono le forme di lotta essenziali del proletariato, che segnano fino ad oggi lo scontro di classe, in tutto il mondo: scioperi e forme organizzative adeguate al successo degli scioperi (costituzione di casse di mutuo soccorso e di resistenza; picchetti di sciopero; propaganda e azione contro i crumiri; educazione alla solidarietà collettiva; ecc.); manifestazioni e cortei di massa; assemblee e comizi di massa; stampa di massa (in Inghilterra, uno dei primi propagandisti politici della classe operaia e precursore del cartismo, William Cobbett, pubblicò nel 1816 un numero speciale del suo giornale, Political Register, con tiratura di 200.000 copie, contenente la sua Lettera ai Manovali e agli Operai salariati); le più svariate petizioni e agitazioni in favore del suffragio universale e della generalizzazione delle libertà democratiche; e così via. Tuttavia, queste prime manifestazioni di azione e di organizzazione di classe indipendenti degli stessi lavoratori salariati sono anch’esse segnate da una serie di debolezze, che sono in pratica comuni a tutte: a) L’azione e l’organizzazione sono discontinue. Anche i sindacati, tranne alcuni sindacati di categorie particolarmente qualificate - che di fatto dispongono di un monopolio molto stretto sul mercato del lavoro, e che lo difendono spesso con metodi corporativi dall’accesso di altri/e operai/e, soprattutto cercando di escludere le donne da impieghi stabili qualificati - non durano a lungo quasi mai. Questi sindacati tendono a rafforzarsi in una fase di alta congiuntura e a sparire in un periodo di crisi e di disoccupazione. Le lotte ampie e violente coincidono in genere con i periodi di crisi e si attenuano in fase di alta congiuntura. Al carattere discontinuo dell’organizzazione corrisponde in genere la sua natura geograficamente frammentata, soprattutto locale o regionale. Solo i cartisti appaiono come un movimento di classe veramente nazionale. b) L’azione e l’organizzazione sono largamente minoritarie. Coinvolgono ancora un’infima frangia dell’insieme del proletariato. Per ciò stesso, tendono a riflettere specificità di gruppi distinti, sia nelle loro rivendicazioni, sia nelle loro forme d’azione, anziché essere l’espressione di quel che è comune all’intera classe. c) Se le loro rivendicazioni esprimono in generale interessi reali dei lavoratori, il più delle volte si tratta di interessi immediati o a medio termine. Quando si fa il tentativo di abbozzare un “programma massimo”, cioè di prospettare l’immagine di una società in cui verrebbe eliminato lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, lo si va generalmente in termini vaghi e insufficienti, mutuando idee o dai socialisti utopisti, o dagli economisti post-ricardiani più critici, o a volte da puri e semplici ciarlatani. d) Se la conquista della coscienza di classe è quasi interamente sul piano della lotta e dell’organizzazione economica in seno ai primi veri sindacati (il caso delle prime cooperative è già più complesso), lo stesso non avviene nel campo della lotta e dell’organizzazione politica. La separazione della democrazia proletaria rispetto alla democrazia piccolo-borghese è un processo estremamente complicato, discontinuo, irregolare, che passa per alti e bassi successivi, conoscendo sussulti e ricadute verso organizzazioni interclassiste. e) Il caso più tipico è quello dell’Inghilterra, dove gli operai politicamente più attivi sostennero dapprima la campagna di agitazione piccolo-borghese in favore del suffragio universale, poi la lotta del partito liberale Whig in favore del Reform Bill, per poi costituire il loro partito politico indipendente con il cartismo e ricadere, a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento e per una lunga fase, nella dipendenza politica dal partito liberale. Lo stesso accadde per quasi un ventennio in Germania, dove il primo partito operaio indipendente stabile fu fondato da Ferdinand Lassalle solo nel 1863, sulla base della rivendicazione del suffragio universale; nel 1875 si fuse con il cosiddetto partito comunista di Liebknecht e Bebel. In Francia e in Belgio, si è dovuto attendere ancora più a lungo prima che si formassero partiti operai indipendenti di massa stabili. Negli Stati Uniti e in altri paesi in cui è forte il movimento sindacale, ad esempio in Argentina, questo secondo stadio della coscienza di classe del proletariato ancora oggi non è stato conquistato. Marx ed Engels hanno intrapreso uno sforzo gigantesco e permanente, nel corso di un mezzo secolo, per venire a capo di queste debolezze. Vi sono alla fine riusciti ampiamente, perlomeno in un numero importante di paesi (tutti i paesi industrializzati nel XIX secolo, tranne gli Stati Uniti). Possiamo caratterizzare questo sforzo come la fusione graduale, progressiva del movimento reale di azione e di organizzazione del proletariato con le principali acquisizioni del socialismo scientifico, così com’erano accessibili alle larghe masse (non con tutti gli elementi della dottrina marxista): a) Marx ed Engels parteciparono alla battaglia per fare accettare l’organizzazione sindacale permanente come forma di organizzazione elementare indispensabile per la lotta di emancipazione della classe operaia. Dovettero opporsi, su questo, all’influenza settaria di numerose tendenze: prudhoniani, post-ricardiani, alcune tendenze cooperativistiche e comuniste dogmatiche; più tardi, ad alcune tendenze anarchico/libertarie. b) Marx ed Engels fecero passare il principio dell’organizzazione politica indipendente (del partito politico indipendente) della classe operaia, e della sua partecipazione, ovunque possibile, alle lotte politiche legali in corso in ogni paese, incluso (ma non solo) alle elezioni. Se per quanto riguarda il generalizzarsi dell’organizzazione sindacale il loro ruolo è stato quello di stimolo, per quanto invece riguarda l’organizzazione politica indipendente essi hanno svolto un ruolo propulsore fondamentale, anche se in Germania la prima iniziativa riuscita è venuta da Lassalle. c) Essi hanno compiuto sforzi per unificare il movimento operaio oltre le barriere sindacali/politiche, nazionali/statuali, razziali/continentali e tra operai e operaie. La fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale) nel 1863 costituì il primo sbocco di questo impegno. Essa riunì, oltre ai sindacati britannici dell’epoca, i primi partiti e nuclei operai di Germania, Svizzera, Belgio, Italia, Spagna, Francia, ecc., nonché gruppi o corrispondenti socialisti negli Stati Uniti (soprattutto composti di immigrati tedeschi), in Polonia, in Russia, in Uruguay, in Argentina, a Cuba, in Messico, ecc. Lo sforzo di unificazione si basava su concezioni organizzative democratico-pluraliste, senza le quali sarebbe stato irrealizzabile. d) Essi hanno dato loro chiari e precisi obiettivi a lungo termine, comuni alla larga maggioranza delle organizzazioni operaie verso la fine del XIX secolo: l’appropriazione collettiva dei principali mezzi di produzione e di scambio; la creazione di una società senza classi; la democrazia operaia basata sull’autorganizzazione del proletariato (“l’emancipazione dei lavoratori sarà opera degli stessi lavoratori”). e) Hanno definito una prospettiva chiara e semplice per raggiungere questo scopo, una prospettiva accolta da milioni di lavoratori sparsi per il mondo agli albori del XX secolo: organizzazione sempre più ampia delle masse operaie in sindacati e partiti (in aggiunta, anche cooperative, casse malattia); educazione sempre più efficace di queste stesse masse grazie alla propaganda, all’agitazione e all’azione di massa; lancio di lotte sempre più massicce e generalizzate, avviate dai punti di partenza più diversi (obiettivi democratici, nazionali, economici, contro la guerra, ecc.), e loro articolazione rispetto alle contraddizioni e crisi inerenti al modo di produzione capitalistico, finché tutta questa valanga non scateni una lotta per la conquista del potere che si identifica con una rivoluzione sociale (una profonda trasformazione del sistema proprietario e dei rapporti di produzione). f) Hanno fornito un’analisi teorica scientifica delle leggi di sviluppo e delle contraddizioni interne del sistema capitalistico di produzione, che sottende l’intera prospettiva, che spiega perché delle crisi pre-rivoluzionarie e rivoluzionarie diventino, alla lunga, inevitabili all’interno di questo stesso sistema. g) Hanno, con ciò stesso, permesso l’integrazione tra la lotta dei lavoratori per migliorare immediatamente la loro sorte e la loro spinta verso una radicale trasformazione della società. Con ciò, l’unificazione tra il movimento e l’organizzazione reali della classe (che punta sempre a obiettivi immediati) con lo scopo socialista/comunista diventava sempre più una realtà. Ciò dava una straordinaria fiducia in se stessa alla classe operaia, che sentiva di avanzare di successo in successo, in modo pressoché irresistibile. La formidabile ascesa del movimento operaio nel periodo 1890-anni Venti (in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti, il punto culminante si sarebbe raggiunto nel corso degli anni Trenta) è il riflesso di questa fiducia in sé. Retrospettivamente, possiamo vedere come, pur avendo questa unificazione garantito un primo impressionante slancio al movimento operaio organizzato, essa non bastasse ad assicurare la vittoria di rivoluzioni proletarie. Era tuttavia indispensabile, perché si creino le condizioni di questa vittoria. VII – L’ITINERARIO PERSONALE DI MARX ED ENGELS Il marxismo è un prodotto della sua epoca. Non ne è, tuttavia un prodotto né spontaneo né automatico. Perché la trasformazione delle scienze sociali, lo sviluppo del socialismo utopista verso il socialismo scientifico, la trascrescenza della prassi e dell’organizzazione rivoluzionarie piccolo-borghesi e pre-proletarie si verificassero concretamente, nel momento in cui si sono verificate, il ruolo di due persone – Marx ed Engels – è stato determinante. Ovviamente, hanno potuto avere il ruolo che hanno avuto perché “la storia aveva bisogno di loro”, vale a dire perché la loro attività corrispondeva a un bisogno sentito da molta gente (naturalmente, i proletari, ma anche i socialisti/comunisti dell’epoca), cosa che è confermata dal fatto che tentativi che muovevano nella stessa direzione sono stati intrapresi da altri, perché questi sforzi di sintesi erano nell’aria (del tempo). Tuttavia, la maniera precisa in cui si sono realizzate queste sintesi e trascrescenze, il loro contenuto e la loro dinamica specifici dipendono in larga misura dalla personalità peculiare di questi due fondatori del marxismo. Come accade il più delle volte, la “necessità storica” è filtrata da determinate personalità, che non possono farla deviare dal suo corso di fondo, ma che possono lasciarle, fino a un determinato punto, il segno della propria impronta, dei loro tratti personali. Né Marx né Engels erano proletari. Il primo era figlio di una famiglia facoltosa della piccolaborghesia. È nato nel 1818: il padre era un avvocato liberale con un’influenza nella città renana di Treviri (Trier), discendente da un’antica famiglia di rabbini, ma convertitosi al cristianesimo per ragioni di convenienza personale, non per convinzione. Dal lato materno e da quello della moglie, Jennie Westfalen, Marx era legato piuttosto alla grande borghesia che non alle classi lavoratrici. La sua evoluzione verso il comunismo, quindi, non è assolutamente determinata da un’esperienza direttamente vissuta, o da sue proprie condizioni esistenziali di miseria (che diventeranno tali successivamente a questa adesione, e datano essenzialmente dal suo secondo esilio a Londra, durante gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento; poi, negli anni Settanta, la sua condizione materiale migliorerà). La sua scelta è fondamentalmente determinata dal risultato di un lavoro intellettuale e da motivazioni etiche. Questo vale ancor più per Engels. Nato nel 1820, proviene da una famiglia borghese di industriali del tessile di Barmen, nella Ruhr. Visse per la maggior parte della sua vita come gestore di una fabbrica tessile di proprietà della sua famiglia, in Inghilterra. Ebbe una vita agiata e lasciò un patrimonio consistente al momento della sua morte, nel 1895. Anche nel suo caso, l’itinerario verso il comunismo è innanzitutto intellettuale ed etico. In entrambi i pensatori, però, l’evoluzione, la presa di coscienza progressiva non deriva da un impegno intellettuale sganciato dalla realtà conflittuale del tempo. La loro motivazione non solo scientifica ma anche morale deriva, appunto, dal confronto con situazioni sociali – miseria operaia, ribellioni operaie, lotte politiche – che si sviluppano dinnanzi ai loro occhi, influenzandoli profondamente. Da questo deriva anche l’impegno, cioè il non avere un atteggiamento puramente interpretativo, quindi quietista e passivo, di fronte alla miseria umana in generale e alla “questione sociale” in particolare. Marx ed Engels si sono rapidamente decisi ad agire, ad adeguare l’attività alle proprie convinzioni, a tendere verso quell’unità di teoria e prassi che diventa sia un criterio epistemologico (solo la pratica può, in ultima analisi, confermare il contenuto di verità di una teoria), sia un obbligo morale. Il loro impegno per e nel movimento operaio diventa, peraltro, la precondizione perché riescano a realizzare il più importante dei loro contributi alla storia: la fusione progressiva del movimento operaio reale di emancipazione dei lavoratori con le principali acquisizioni del socialismo scientifico. Così, l’itinerario personale di Marx ed Engels si intreccia con una serie di incontri, di conoscenze di situazione e di conflitti, che li orientano e riorientano successivamente. Insieme ai risultati delle loro analisi scientifiche critiche – vale a dire, di un esame critico dei dati delle principali scienza sociali dell’epoca – questi incontri determineranno le loro prese di posizione teorico-politiche e gli sviluppi di queste, dal neo-hegelismo al radicalismo politico piccolo-borghese, dalla democrazia piccolo-borghese al socialismo/comunismo, e dal comunismo rudimentale al socialismo/comunismo scientifico e rivoluzionario della loro maturità. a) L’incontro con la condizione proletaria - L’incontro con la miseria operaia si colloca all’inizio immediato dell’esperienza giornalistica di Marx come redattore (poi caporedattore) della Rheinische Zeitung (Gazzetta renana), subito dopo i suoi studi universitari, nel 1842. È ancora più netto in Engels, posto a confronto con la condizione operaia in Inghilterra fin dal suo arrivo in quel paese. Ne verrà fuori il primo importante lavoro dei due giovani pensatori, Die Lage der Arbeitenden Klasse in England (La situazione della classe operaia in Inghilterra), (1845). b) L’incontro con la resistenza e l’organizzazione proletarie - Esso risale sostanzialmente al primo esilio di Marx a Parigi, poi a Bruxelles, con il contatto con associazioni operaie a Parigi e a Gand, ma soprattutto con l’incontro con gli operai della Lega dei Giusti a Parigi, a Londra e a Bruxelles, negli anni 1846-1847. In Engels, sarà determinante il contatto con i raggruppamenti cartisti e con gruppi operai sindacalizzati nella zona di Manchester, come pure contatti più sparsi con nuclei operai della Lega dei Giusti nella Ruhr, il tutto nel periodo 1844-1847. Entrambi i fondatori del marxismo saranno, inoltre, fortemente segnati dalle esplosioni operaie dello stesso periodo, soprattutto dalla rivolta dei tessitori della Slesia, del 1844. c) L’esperienza diretta della rivoluzione del 1849-1850, acquisita grazie alla partecipazione personale e attiva di Marx ed Engels agli sviluppi della rivoluzione in Germania, in Austria, in Ungheria, in Italia, ecc. - Solo dopo l’insurrezione proletaria del giugno 1848 e il bilancio che ne traggono sul ruolo controrivoluzionario della borghesia tedesca, essi arrivano a mettere a punto una strategia per la presa del potere basata su una logica di rivoluzione permanente, nel 1850. d) L’esperienza di un’organizzazione rivoluzionaria proletaria esistente (la Lega dei Comunisti), tra il 1847 e i primi anni del secondo esilio di Marx a Londra - Questa esperienza rese molto più concreta la concezione dell’organizzazione proletaria dei due amici, predisponendoli ed armandoli a capire i problemi politico-organizzativi che avrebbero dovuto affrontare nel corso degli anni 1860-1870 e successivamente. e) L’esperienza dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, tra il 1863 e il 1873 e soprattutto l’impegno per coinvolgervi i sindacati inglesi – Essa costituì il primo incontro reale di Marx ed Engels con organizzazioni di massa della classe operaia e con un ambiente operaio ideologicamente e politicamente diversificato, con i problemi cioè del pluralismo e della democrazia operai. f) L’incontro, a partire dagli anni Settanta ma soprattutto nel corso degli anni Settanta, con nuovi progressi delle scienze etnologiche e naturali (soprattutto tramite Darwin e Morgan) - Esso permise a Marx ed Engels di affinare la loro concezione del materialismo storico. g) L’esperienza della Comune di Parigi - Fu indubbiamente la più importante esperienza politica della vita di Marx ed Engels, quella che maggiormente contribuì a chiarire la loro visione, al contempo, della questione teorico-politica dello Stato e del problema capitale degli obiettivi politici della rivoluzione proletaria: la definizione della forma della dittatura del proletariato. h) L’esperienza – propria più del solo Engels – del sorgere della diversità e del potenziale di unificazione dei partiti operai di massa in numerosi paesi, nel corso degli anni 1875-1895, e dei tanti problemi strategici e tattici posti da questo. Se per la maggior parte questi incontri furono fecondi, e addirittura esaltanti, per i due fondatori del marxismo, se consentirono loro di mettere alla prova e di mettere molto meglio a punto le loro concezioni politiche e le loro ipotesi teoriche, è pur sempre vero che, in molte occasioni, il loro progresso avvenne attraverso scontri di idee e scontri personali, in cui si trovarono spesso coinvolti malvolentieri. Questo aspetto “frazionista” dell’attività di Marx ed Engels è stato spesso denunciato come frutto di loro difetti personali, quando non del loro “autoritarismo”, o addirittura del loro “terrorismo intellettuale”. In realtà, l’intera storia conferma come le idee e le organizzazioni non possano progredire se non tramite il confronto di idee e raggruppamenti, che si differenziano di fronte ad avvenimenti e problemi nuovi. Pensare che possa accadere diversamente, significherebbe credere sia che non esistano differenze fra individui e tra interessi sociali, sia credere nell’infallibilità di alcuni e nell’evidenza di questa infallibilità agli occhi di tutti gli altri. Una volta scartate queste due ipotesi aberranti, in politica in generale, e in quella operaia in particolare, le lotte di gruppi e tendenze sono inevitabili. I conflitti e le rotture susseguenti che più hanno influenzato lo sviluppo intellettuale di Marx ed Engels sono, in ordine cronologico: a) I loro contrasti con i “giovani hegeliani” contemplativi e fondamentalmente liberali, nonché con Moses Hess, con cui Marx ed Engels rompono negli anni 1844-1845. Tale rottura si manifesta a livello teorico nell’Ideologia tedesca e nelle Tesi su Feuerbach (1845), vero e proprio atto di nascita del marxismo. Essa si basa sulla vasta assimilazione critica delle acquisizioni della filosofia tedesca e della storiografia sociologica francese, ma sull’appropriazione solo parziale dell’economia politica inglese. b) Il conflitto con il socialismo utopista di Prudhon e il comunismo non sufficientemente maturo di Weitling, che occupa il periodo 1846-1848. Esso sfocia nella redazione della Miseria della filosofia (1846) e del Manifesto comunista (1848). Si combina con scontri di chiarificazione – meno violenti – in seno alla Lega dei Comunisti, che vanno oltre la rivoluzione del 1848, sino agli inizi degli anni Cinquanta. c) Il conflitto – a volte in forma di appropriazione intellettuale critica, a volte in forma di “dialogo interno” – con gli esponenti principali dell’economia politica post-ricardiana inglese, Hodgkin, Ravestone e Gray, che sfocerà nella redazione delle principali opere economiche di Marx, i Grundrisse, il Capitale e le Teorie del Plusvalore, durante i due decenni che vanno dal 1857 fino alla morte di Marx. d) Il conflitto con Bakunin e i suoi seguaci in seno alla I Internazionale (1865-1973), che si protrae fino a poco dopo la sconfitta della Comune di Parigi. e) Il conflitto con le varie tendenze di destra in seno alla Socialdemocrazia tedesca, dapprima i lassalliani, poi i primi esponenti del gradualismo riformista, che va dal congresso di unificazione di Gotha del 1875 fino alla stessa morte di Marx, e che anche Engels continuerà a portare avanti negli anni Ottanta, fino alla sua morte, nel 1895. I prodotti principali di questo scontro sono la Critica al Programma di Gotha (1875) di Marx e l’Anti-Dühring (1879) di Engels La cronologia di questi conflitti si presenta come quella delle principali opere di Marx e di Engels. Mancano nell’elenco solo i loro scritti politici (ad esempio: Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Le lotte di classe in Francia, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania), gli scritti giornalistici e le Origini della Famiglia, della Proprietà privata e dello Stato, nonché la Dialettica della Natura di Engels. Tranne un viaggio fatto da Engels negli Stati Uniti verso la fine della sua vita, l’esperienza vissuta dei due fondatori del marxismo fu esclusivamente europea. Il loro pensiero è profondamente segnato dalla storia sociale e intellettuale specifica dell’Europa. Di conseguenza, sono stati spesso rimproverati per il loro “eurocentrismo”, o per il loro particolarismo tedesco. Si tratta, però, di rimproveri infondati. Certo, il marxismo è frutto delle contraddizioni della società borghese giunte a maturazione che si sono incontestabilmente manifestate dapprima in Europa. In questo senso, non poteva nascere in Asia, in America o in Asia, che per tutto il XIX secolo non conobbero se non uno sviluppo capitalista rudimentale. Tuttavia, anche se il capitalismo è nato in Europa, aveva fin dall’inizio una dimensione internazionale, se non mondiale, che lo rese dipendente da tutto ciò che succedeva in altri continenti. L’impatto violento, disgregante, distruttivo, disumano esercitato da questo capitalismo sulle società pre-capitaliste d’America, Asia e Africa va ben oltre quello avuto sulla società pre-capitalista in Europa occidentale, meridionale, centrale e orientale. Marx ed Engels erano intellettuali troppo rigorosi e umanisti troppo appassionati per non accorgersene, indignarsene e ribellarsi a quei crimini abominevoli. La percezione del “terzo mondo”, del suo degrado e della sua inevitabile rivolta è stata perciò rapidamente inserita nei loro scritti, pur occupando poco spazio in quelli giovanili. Basti ricordare, per respingere l’accusa di eurocentrismo, le loro decise prese di posizione in favore dei Sepoys indiani e dei Taï-ping cinesi, in favore dell’emancipazione degli schiavi in generale. Del pari, hanno definito la spedizione franco-ispano-britannica in Messico una “impresa tra le più mostruose degli annali della storia internazionale” (articolo del 23 novembre 1861, in MEW [Marx Engels Werke, “Opere di Marx-Engels”, l’edizione tedesca di tutti gli scritti dei due autori], vol. XV, p. 366). Lo studio spinto sempre più a fondo della storia del “modo di produzione asiatico”, dell’etnologia, delle specificità delle civiltà e delle società non europee, della comunità di villaggio (mir) russa, occupa un posto crescente nel lavoro intellettuale di Marx ed Engels nel corso degli ultimi due decenni della loro vita, e segna in maniera sempre più netta la loro opera, incluso il Capitale. Al tempo stesso, le fonti internazionali, l’attività decisamente internazionalista dei due amici, consentono di respingere l’accusa profondamente calunniatrice rivolta loro. Le fonti del marxismo, sul piano delle idee, dipendono dall’Inghilterra e dalla Francia, non meno che dalla Germania. L’esperienza e l’attività che li situano nella vita politica del loro tempo si sono svolte in Francia, in Belgio, in Inghilterra, nei paesi dell’Impero austro-ungarico, non meno che in Germania. Riguardano anche la Polonia, l’Irlanda, l’Ungheria, la Spagna, la Svizzera, come gli Stati Uniti e la Russia. Quanto alla loro organizzazione, è fin dall’inizio internazionale, non esclusivamente tedesca. Vale per la Lega dei Comunisti. Vale per l’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Varrà ancor più per la socialdemocrazia internazionale dopo il 1885, che sbocca nella II Internazionale. Nei paesi dove i loro seguaci iniziavano a organizzarsi, Marx ed Engels si sono dati da fare perché studiassero la concreta formazione sociale del paese, perché si appropriassero delle tradizioni locali di lotta e traducessero il loro programma nella lingua delle organizzazioni operaie e contestatarie presenti; è questo il senso generale delle loro Lettere agli Americani, dal 1848 al 1885. Uno dei grandi successi della loro vita politica, fonte di autentica e legittima fierezza, è stata la presa di posizione dei loro compagni tedeschi, Bebel e Liebknecht, contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena da parte della Germania nel 1871, contro la prima pace di Versailles. Stessa cosa, in precedenza, per la prima presa di posizione dell’A.I.T., sindacati britannici in testa, contro l’atteggiamento filo-sudista del governo britannico durante la Guerra di Secessione negli Stati Uniti. Portare la classe operaia di ogni paese a sviluppare la propria politica estera, in base ai propri interessi di classe e ad alcuni grandi principi che ne discendono (“nessun popolo può essere libero se ne opprime un altro”): questa l’ambizione costante della loro vita politica, che si pone agli antipodi di ogni nazionalismo, a cominciare dal nazionalismo tedesco. Marx ed Engels erano sicuramente il prodotto della loro epoca. Non potevano superarne completamente tutti i limiti soggettivi, determinati da esperienze ancora troppo frammentarie dell’emancipazione proletaria e umana. Non erano infallibili. Non potevano capire tutto, spiegare tutto, prevedere tutto. Pur avendo indubbiamente capito, spiegato, previsto l’essenziale, hanno avuto punti deboli. Engels si è sbagliato quando ha trattato le piccole nazionalità slave nel 1848-1849 da “popoli senza storia”, incapaci di costituire Stati o nazioni realmente indipendenti. La storia gli ha dato torto in proposito. Marx si è sbagliato plaudendo all’annessione della California e di altri territori messicani da parte degli Stati Uniti nel 1845, definendo i messicani come oziosi, incapaci di sfruttare le ricchezze naturali di quei territori. Ha veicolato su questo un pregiudizio razzista. In entrambi i casi, l’applicazione accorta del materialismo storico avrebbe permesso di spiegare il comportamento degli uni e degli altri durante gli anni 1845-1855in modo ben diverso da quello utilizzato da Marx ed Engels. Avrebbe permesso di spiegare la seconda rivoluzione messicana (la Reforma), diretta principalmente da Benito Juarez, successiva alla guerra tra Stati Uniti e Messico presa in considerazione da Marx. Avrebbe permesso di spiegare la nascita di una sinistra ceca e serbo-croata, antizarista, democratica, a un tempo ferocemente nazionalista e socialista, di cui Engels aveva negato la possibilità. Nei due casi, Marx ed Engels non sono stati sufficientemente marxisti. Occorreva interpretare con criteri di classe fenomeni politici apparentemente sconcertanti, come il cambiamento repentino dei contadini e dell’intelligentsia ceca e croata durante la rivoluzione del 1848, come l’apparente passività dei contadini messicani di fronte alla conquista yankee. Analogamente, pur avendo un’acuta percezione della duplice oppressione subita dalle donne nella società classista, e protraendo l’analisi delle origini di questa oppressione fino all’avvento di questa società, Marx ed Engels non sono riusciti ad abbracciare tutti gli aspetti dell’indispensabile emancipazione femminile, che sarebbero progressivamente emersi solo nel XX secolo. Detto questo, il bilancio complessivo dell’impegno sia teorico sia pratico dei due amici è più che impressionante. Il loro personale contributo al progresso delle scienze sociali, all’emancipazione proletaria e umana si colloca al vertice del successo dell’umanità. Senza di loro, la storia del XIX e del XX secolo non sarebbe stata quella che è stata. VIII - ACCOGLIENZA E DIFFUSIONE DEL MARXISMO NEL MONDO La spiegazione delle origini, del contenuto e dello sviluppo del marxismo deve necessariamente concludersi con l’analisi della sua diffusione e della sua effettiva influenza nel mondo. Sulla lunga distanza, le idee e i sistemi di idee, vale a dire le dottrine, valgono per quanto vale il loro impatto sulla storia reale. Le idee che non influenzino mai niente e nessuno sono necessariamente marginali, incluso nella storia spirituale dell’umanità, per non parlare di quella materiale. “La teoria si trasforma in forza materiale quando investe le masse”, aveva già detto il giovane Marx. Da questo ragionamento va evidentemente esclusa la questione del tempo. Idee che influenzano il mondo in misura crescente cinquanta o cento anni dopo che sono state formulate, sono più importanti di idee che hanno un impatto immediato ma che poi declinano fino a sparire progressivamente dalla scena politica. Quel che importa è che il loro impatto sociale si materializzi prima o poi in modo ampio, crescente e – per quanto riguarda le idee che rafforzano il movimento operaio, il socialismo, la causa universale dell’emancipazione umana – su scala mondiale, alla stregua del carattere mondiale del “problema sociale”, dello sfruttamento dei lavoratori, dell’oppressione del proletariato e di tutti gli altri gruppi umani oppressi nel mondo: donne, nazionalità e razze oppresse, ecc. Infine, le caratteristiche peculiari del proletariato, la sua posizione di subordinazione economica e ideologica all’interno della società borghese, subordinazione che non è superata dalla sua organizzazione, dalla sua combattività e dal suo peso sociale crescente, fanno sì che la versione specifica (e a volte deformata) nella quale viene trasmesso il marxismo alle grandi organizzazioni operaie e alle masse popolari in una determinata fase storica indiscutibilmente influenzi lo sviluppo della coscienza di classe. Entrambe vanno in qualche modo insieme, positivamente o negativamente, a seconda delle circostanze. Tuttavia, questo nesso non può a propria volta essere scisso dal processo reale dell’organizzazione e della lotta del proletariato, cioè dal cammino reale della storia. L’accoglienza e la diffusione del marxismo va quindi esaminata, nell’ordine: a) sullo stretto piano della diffusione degli scritti di Marx ed Engels; b) sul piano dell’influenza di queste idee al di fuori del movimento operaio propriamente detto, e cioè negli ambienti intellettuali, accademici e, in generale, nello “spirito del tempo” (le ideologie dominanti delle successive fasi attraverso cui è passata la società borghese); c) all’interno del movimento operaio organizzato; d) all’interno della classe operaia larga; e) a livello internazionale. Le opere di Marx ed Engels hanno conosciuto una diffusione assai diseguale e fortemente desincronizzata. Alcuni scritti hanno avuto un impatto relativamente rapido e vasto, soprattutto il Manifesto comunista, tradotto in tantissime lingue e diffuso in decine, poi centinaia di migliaia di copie (bisognerà attendere, tuttavia, gli anni ’20 e ’30 del Novecento perché la diffusione diventi generalizzata e arrivi a milioni di copie). Anche il tomo I del Capitale ha conosciuto una diffusione relativamente rapida in numerosissime lingue, benché a una scala ben più ridotta del Manifesto comunista, arrivando ad alcune migliaia se non decine di migliaia di copie per lingua. La diffusione di praticamente tutte le altre opere, con la probabile eccezione dell’Anti-Dühring di Engels, è stata più disuguale e molto più ridotta. Va segnalato in proposito che alcune delle principali opere di Marx ed Engels sono state pubblicate, incluso per la prima volta e nella loro lingua originale (il tedesco), con grande ritardo. La Critica del Programma di Gotha, i volumi II e III del Capitale, sono usciti solo venti anni dopo la loro stesura; l’Ideologia tedesca e i Grundrisse più di ottanta anni dopo essere stati scritti. Per questo, tra generazioni successive di marxisti non hanno potuto avere un’adeguata visione d’insieme della dottrina di Marx ed Engels, se non altro per la mancanza di informazioni e di dati. Segnaliamo che, fino ad ora, restano inediti alcuni dei manoscritti di Marx. L’ultimo dei suoi importanti scritti economici è stato pubblicato solo nel 1983. Molte degli scritti di divulgazione del marxismo hanno in genere avuto un impatto di massa ben più vasto degli scritti stessi dei grandi maestri. Va riservato qui un posto privilegiato agli opuscoli di Karl Kautsky, soprattutto La dottrina economica di Karl Marx e il Programma di Erfurt (del Partito socialista tedesco), diffusi a centinaia di migliaia di copie in numerose lingue. Altri autori hanno avuto analogo impatto su un piano più limitato, cioè per una o più lingue. Questo vale per gli scritti di Bebel in tedesco, di Jules Guesde e Lafargue in francese, di Labriola in italiano, di Iglesias in spagnolo, di Herman Gorter in olandese, di Plekhanov in russo, di De Leon e Debs negli Stati Uniti, che sono stati letti dalle prime generazioni di socialisti su scala ben più vasta delle opere degli stessi Marx ed Engels. L’accoglienza del marxismo negli ambienti accademici e intellettuali è stata ancora più lenta è sfasata. Non c’è da stupirsene. La resistenza della borghesia e degli strati più elevati della piccola borghesia a prendere intellettualmente sul serio il marxismo era pari all’opposizione intransigente di Marx e dei marxisti nei confronti non solo degli interessi materiali della società borghese, ma anche dei suoi grandi “valori”. Lo stesso dato della crescente influenza delle idee marxiste sulle masse era un motivo in più per escluderle dall’insegnamento, dalle università, dai manuali “ufficiali”. Tranne qualche rara eccezione - ad esempio, l’economista austriaco Böhm-Bawerk, il filosofo italiano Benedetto Croce e il dirigente della borghesia ceca Thomas Masaryk – gli autorevoli rappresentanti dell’ideologia borghese non si degnavano di polemizzare con il marxismo a un livello teorico minimamente serio. Occorrerà attendere la fine della prima Guerra mondiale, la vittoria della Rivoluzione russa, l’ascesa del movimento operaio europeo degli anni 1918-1923, il sorgere del comunismo in Cina e la crisi degli anni ’30 perché la situazione cambi. Il marxismo penetra progressivamente nell’Università, dapprima nell’Europa centrale e in Cina, in India e nel Giappone, poi nei paesi anglosassoni. In Francia e in America latina, la penetrazione in forza nel mondo intellettuale avverrà soltanto dopo la seconda Guerra mondiale. Per tutto il periodo 1875-1900, la polemica sul marxismo sarà, per l’essenziale, una polemica all’interno stesso del movimento socialista, suscitata da discussioni, tentativi di revisione e scismi successivi, il più importante dei quali fu quello provocato da uno degli esecutori testamentari e principali collaboratori intellettuali di Engels, Eduard Bernstein. In ogni caso, il marxismo influenzerà in misura crescente, sia pure indirettamente, le scienze sociali accademiche, in primo luogo storiografia e sociologia, imponendo la presa di coscienza dell’importanza del “fattore economico” e dei gruppi sociali (invece dei “grandi personaggi”) nella storia. Esso, dunque, modifica la stessa concezione della storia: da una storia di Stati e di avvenimenti essenzialmente politico-militari, a una storia delle società. L’impatto del marxismo sulla scienza economica “ufficiale” è stato più tardivo. Si è manifestato innanzitutto nel campo della teoria delle fluttuazioni economiche (business cycles), poi in quello delle grosse aggregazioni (teorie macroeconomiche), specie a partire dagli anni ’30, quindi sul terreno della pianificazione, dell’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo, poi ancora delle società post-capitaliste. L’influenza del marxismo all’interno del movimento operaio organizzato si sviluppa in maniera decisiva solo a partire dalla nascita dei grandi partiti socialdemocratici di massa, nel corso degli anni 1885-1900 (in Germania, 1875-1900). La sua influenza nei sindacati di massa dei paesi anglosassoni non è mai stata più che marginale. Lo stesso vale, grosso modo, per i partiti laburisti emersi successivamente da questi sindacati in Australia, in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda e, più tardi, in Canada. In generale, i partiti socialdemocratici che finirono per costituire la II Internazionale (due congressi concorrenti a Parigi, nel 1889; il congresso unitario a Bruxelles nel 1891; il III congresso, anch’esso unitario, a Zurigo nel 1893) adottarono le tesi di fondo del marxismo nei loro programmi o dichiarazioni di principi, in genere modellati sul Programma di Erfurt, scritto da Kautsky in stretta collaborazione con lo stesso Engels. Si trattava indubbiamente di un marxismo piuttosto sommario, ridotto ad alcune idee centrali (lotta di classe; finalità socialista di questa, attraverso l’appropriazione collettiva dei principali mezzi di produzione e di scambio; conquista del potere politico per raggiungere questo scopo; solidarietà internazionale dei lavoratori): Tuttavia, rispetto alle prime organizzazioni della classe operaia, sia sindacali e cooperative sia politiche, il complesso comunque coerente di questa dottrina popolarizzata costituiva un progresso enorme, soprattutto perché, contrariamente alle prime sette e leghe comuniste, influenzo ampi settori di masse. La sua debolezza di fondo stava nel suo carattere rigidamente deterministico, tendente al fatalismo, che vedeva la trascrescenza del capitalismo verso il socialismo in maniera più o meno inevitabile, per effetto congiunto dello sviluppo economico e dell’organizzazione socialista (operaia), senza attribuire un’importanza primordiale all’iniziativa politica e all’azione cosciente del partito. Questo comportava spesso la rinuncia, quando non la denigrazione, dell’azione diretta delle masse (“Generalstreik ist Generalunsinn”, “sciopero generale è assurdità generale”, dicevano i dirigenti dei sindacati tedeschi), per non parlare dell’azione rivoluzionaria o della distruzione dello Stato borghese. Ci volle la Rivoluzione russa del 1905 perché una vasta corrente internazionale, essenzialmente incarnata da Rosa Luxemburg e dai socialisti russi Lenin e Trotsky, si riappropriasse di nuovo della tradizione marxista dell’azione diretta delle masse e dell’iniziativa rivoluzionaria dei partiti. Nei trent’anni precedenti quella tradizione era stata emarginata nella socialdemocrazia – tranne in parte in Belgio – rimanendo relegata in ambienti anarco-sindacalisti e sindacalisti rivoluzionari (Spagna, Gran Bretagna, Argentina, parzialmente Stati Uniti, Italia e Francia).Tra l’ascesa organizzativa, elettorale e sindacale della socialdemocrazia internazionale nel quarto di secolo 1875-1900 e la diffusione delle idee e delle opere di Marx si era a volte verificata un’interazione più diretta. Merita di essere segnalato un caso speciale: quello della Finlandia. Quel piccolo paese sotto lo stivale dello zarismo riuscì, nello spazio di un decennio, tra il 1899 e il 1911, a dar vita a uno dei movimenti operai più potenti e più combattivi del mondo intero. L’ascesa di questo partito sarebbe, del resto, approdata nel 1917-1918 alla rivoluzione proletaria più profonda e tenace (come pure la più repressa), a parte la Russia. Alle elezioni parlamentari del 1913, i socialisti finlandesi ottennero il 43% dei suffragi, il dato più alto d’Europa, superiore alla socialdemocrazia tedesca. Strapparono alla Dieta la decisione di far pubblicare il tomo I del Capitale di Marx a spese del parlamento. La penetrazione delle idee e della dottrina marxiste in seno alle larghe masse operaie dell’epoca della II Internazionale è stata in genere esagerata dagli storici, compresi quelli del movimento operaio. Le masse si formarono le proprie convinzioni politico-sindacali grazie a due vagli: le loro normali lotte per obiettivi immediati (obiettivi economici e suffragio universale; in alcuni paesi vi si aggiungono obiettivi nazional-democratici); la formazione quotidiana dispensata dalla stampa e nelle riunioni socialiste. Dal marxismo come dottrina coerente al marxismo sommario dei programmi socialdemocratici c’era già un vasto margine. Da quei programmi alla pratica, l’esperienza e l’educazione quotidiane dei lavoratori la distanza era ben più considerevole ancora. La sistematica formazione teorica dei lavoratori fu tra le più esigue. Le riviste teoriche marxiste, inclusa la più prestigiosa di queste, la Neue Zeit, arrivarono solo a poche migliaia di abbonati (10.000 la Neue Zeit). Le scuole centrali di partito, comprese quella del Partito socialista tedesco che contava un milione di iscritti, non ebbero mai più partecipanti dell’attuale scuola della IV Internazionale. Un esempio illustra la debole penetrazione del marxismo fra le masse. A Milano, fortezza del socialismo italiano, nel corso del 1910 le biblioteche pubbliche prestarono 264.00 volumi. Quei prestiti furono fatti per il 44% a operai e per il 32% a studenti. Fra gli autori dei libri dati in prestito non compaiono i nomi di Marx ed Engels! Il contributo che il marxismo ha dato alle larghe masse, oltre a forti organizzazioni e alla sensazione generale del bisogno di saldare indipendenza di classe e l’attività politiche compresa l’attività internazionalista – all’azione sindacale, è stata la sensazione generale di trovarsi “nella direzione della storia”: la sensazione che il capitalismo fosse condannato a finire e che gli sarebbe succeduto il socialismo. Sul modo in cui dovesse avvenire il passaggio dall’uno all’altro non c’erano né idee precise né un dibattito approfondito Questo si limitava alle cerchie dei militanti politici più attivi, o ai vertici del partito. Riguardava migliaia di persone quando già il movimento socialista ne raccoglieva milioni. Non sarebbe riuscito a penetrare a fondo nelle masse se non verso la fine della Guerra mondiale del 1914-1918, e cioè quando era posto nella pratica dall’impatto congiunto di questa guerra e delle grandi rivoluzioni proletarie che ne scaturirono: le rivoluzioni russa, finlandese, austriaca, ungherese, nonché la crisi rivoluzionaria in Italia. Vi fu, però, un effetto profondo della dottrina marxista sulle masse, operante a volte attraverso mediazioni indirette e impreviste, che non va neanch’esso sottovalutato. Un esempio è fornito dalla lotta per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore. Marx fu il principale propagandista e pedagogo del movimento operaio internazionale per quanto riguarda il valore educativo della riduzione della giornata di lavoro. La stessa idea di un’azione internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici per un obiettivo di classe comune ai proletari di tutti i paesi è un’idea di origine chiaramente marxista. In pratica, tuttavia, la decisione di fare del Primo Maggio in tutti i paesi una giorno di sciopero internazionale per la giornata di otto ore si diffuse solo dopo la condanna a morte, e poi l’esecuzione, di cinque capi anarchici a Chicago, i martiri di Haymarket, accusati nel 1886 di avere scagliato una bomba contro la polizia. Ci volle quella tragedia per infiammare l’immaginazione e la sensibilità operaie su grande scala. Fu questa a scatenare un movimento poderoso e, alla lunga, irresistibile (la giornata di otto ore alla fine fu strappata praticamente in tutti i paesi industrializzati); fu merito solo di quella tragedia, mentre la scintilla del pensiero e della propaganda marxisti si era dimostrata insufficiente. Il fatto che il contenuto rivoluzionario della dottrina di Marx ed Engels abbia cominciato ad essere battuto in breccia alla fine del XIX secolo, nella socialdemocrazia, dal revisionismo di Bernstein e dall’esaltazione della collaborazione ministeriale, poi praticata da Millerand in Francia e da Bissolati in Italia, suscitò fra le masse una certa confusione, tanto più accentuata in quanto il revisionismo, per quanto combattuto sul piano delle idee dalla maggior parte dei dirigenti socialdemocratici noti che si dicevano marxisti, corrispondeva in misura crescente alla loro pratica di tutti i giorni. Questo vale soprattutto per Anseele e Vandervelde in Belgio, Troelstra in Olanda, Branting in Svezia, Stauning in Danimarca, Greulich in Svizzera, Palacios e Justo in Argentina e, in larga misura, per Victor Adler in Austria. Solo Bebel in Germania, Guesde in Francia, Sen Katayama in Giappone mantennero in quella fase una coerenza più intransigente di fronte alla teoria e alla pratica revisioniste. Quell’intransigenza, tuttavia, si infranse, per Bebel e Guesde, all’indomani della rivoluzione russa del 1905, intorno al 1910 (Guesde divenne ministro in un governo di coalizione borghese, cosiddetto di “union sacrée”, nel 1914). Katayama rimase un marxista intransigente. Pur essendo vero che la teoria marxista non fu ampiamente diffusa fra le masse nella sua versione originale e integrale, va però respinta anche un’altra leggenda, quella secondo cui le poche idee chiave del marxismo che furono largamente riprese dai primi partiti socialdemocratici di massa non influenzarono concretamente la coscienza delle masse stesse. È particolarmente falso per quanto riguarda l’internazionalismo. All’apogeo della II Internazionale vi furono impressionanti manifestazioni pratiche di internazionalismo proletario. È esattamente grazie a questa pratica che il tradimento dell’agosto 1914 risultò così disorientante per le grandi masse e mostruoso per la sinistra socialista. Poco dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Giappone, i dirigenti socialisti di entrambi i paesi, Plechanov e Sen Katayama si abbracciarono al Congresso di Amsterdam dell’Internazionale e proclamarono la loro comune opposizione alla guerra e alle classi possidenti dei rispettivi paesi che l’avevano scatenata. Quando scoppiò la rivoluzione russa del 1905, suscitò un forte movimento di solidarietà internazionale. Fu, del resto, il detonatore della radicalizzazione delle lotte operaie in vari paesi, soprattutto di uno sciopero generale in Austria per il suffragio universale. Allorché la borghesia svedese volle vietare con l’intervento militare il movimento per l’indipendenza della Norvegia, nel 1906, il congresso del partito socialdemocratico svedese decise di opporsi alla guerra con ogni mezzo, incluso lo sciopero generale, e organizzò una grandiosa manifestazione di massa a Stoccolma che fece arretrare il governo. Nel 1911 il Partito socialista italiano, contro una potente ondata sciovinista sorretta da un terzo del proprio gruppo parlamentare, organizzò uno sciopero generale contro la spedizione colonialista a Tripoli (Libia) L’educazione marxista, l’approfondimento del marxismo, la sua applicazione ai problemi analitici e strategici nuovi posti dall’avvio dell’era imperialista, continuarono per l’essenziale in seno alla sinistra socialista. Si sviluppò soprattutto in seno agli stessi partiti socialdemocratici fino al 1914 (1917 e anche 1920), ma approdò ormai a scissioni in vari paesi prima della prima Guerra mondiale: Russia, Polonia, Olanda, Bulgaria. In altre parti, correnti sindacaliste rivoluzionarie svilupparono alcuni aspetti del marxismo al di fuori dei partiti socialisti. Questa sinistra marxista sfociò nella costruzione della III Internazionale all’indomani delle grandi rivoluzioni del 1917-1919. Il fenomeno che colpisce maggiormente di tutto questo periodo di ascesa dei partiti politici di massa influenzato dal marxismo è l’estensione mondiale della sua presa, passata successivamente dall’Europa occidentale agli Stati Uniti, all’Europa meridionale e orientale (Russia, Balcani), all’Asia (Armenia, Georgia, Iran, Giappone, Cina, India, Indonesia), all’America latina (Argentina, Uruguay, Brasile, Messico, Cuba, Cile), all’Oceania (Australia, Nuova Zelanda) e all’Africa (Egitto, Tunisia, Sud-Africa) Indirettamente, la problematica specifica dei paesi coloniali e semicoloniali fu progressivamente inserita nell’analisi e nella prassi marxiste, specie a partire dalla rivoluzioni russa, iraniana e cinese del 1905-1912. Si noti che questo non si verificò durante la rivoluzione messicana del 1910-1917, che fu l’ultima grande rivoluzione contemporanea in cui non si formò una corrente marxista pronunciata. Al termine del III congresso dell’Internazionale socialista a Zurigo, il 12 agosto 1893, Friedrich Engels, seduto in sala come semplice delegato, fu portato alla tribuna da un’immensa ovazione. Il vecchio militante, commosso, dopo essersi rammaricato che il suo vecchio compagno di lotta Karl Marx non avesse potuto vivere quel progresso del movimento operaio mondiale organizzato, espresse la sua incrollabile fiducia nella «nuova, più forte, invincibile Internazionale». Dando uno sguardo indietro ai cinquantadue anni della sua vita politica, rivedendo le città di Vienna, Berlino, Parigi, Londra, poteva proclamare «che Marx e lui non avevano lottato invano, che potevano guardare indietro alla loro opera con fierezza e soddisfazione». E concluse: «Non c’è paese, non un solo grande Stato in cui la socialdemocrazia non sia oggi una forza con cui tutti devono fare i conti. Siamo, anche noi, “una grande potenza” di cui hanno paura. Il futuro dipende ben più da questa e da noi che da qualsiasi altra “grande potenza” borghese!».