L`Iraq cerca l`indipendenza (1940-1958)

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CAP. III - L’IRAQ CERCA L’INDIPENDENZA (1940-1958)
Attrazione fatale per la Germania?
Nell’aprile 1941 in Iraq un colpo di Stato portò al potere Rashid Ali el Kailani, un uomo politico
che aveva giocato un ruolo importante nel decennio precedente. Egli rifiutò di schierare l’Iraq al
fianco della Gran Bretagna nella Guerra mondiale, e fu abbattuto meno di un mese dopo da un
rapidissimo intervento militare inglese. Per molti anni fu considerato da alcuni semplicemente un
agente nazista, da altri fu esaltato come un coerente nazionalista. Ancora oggi la propaganda
bellicista più becera, che punta a demonizzare un intero popolo, presenta Rashid Ali come
precursore di Saddam Hussein, identificando nella storia dell’Iraq un lungo filo nero. Ma la
questione è ben più complessa.
L’Iraq subì sempre una forte influenza tedesca, dovuta a molti fattori. Prima di tutto la Germania
era stata molto presente negli ultimi decenni dell’impero ottomano proprio in quell’area, dove aveva
cominciato a costruire l’asse ferroviario Costantinopoli-Baghdad-Basra, che era in parte già entrato
in funzione prima della Grande Guerra. Intorno alla costruzione di una ferrovia si creavano
molteplici interessi, da quelli dei lavoratori assunti a quelli dei fornitori locali; nell’area erano stati
aperti sportelli bancari che non esaurivano la loro funzione nel fornire un supporto ai lavori, ma
raccoglievano i risparmi dei ceti più agiati della zona, con cui si potevano stringere così utili
rapporti.1
Ditte tedesche avevano anche ottenuto dalla Porta l’incarico di effettuare in una vasta area
dell’impero ottomano lavori di bonifica, come il prosciugamento del lago di Karaviran e
l’irrigazione della pianura di Qonia, dove arrivava un tronco complementare delle ferrovie turcotedesche.2 Ogni presenza di questo tipo lascia tracce, e anche rapporti economici e umani che non si
cancellano, neppure dopo la fine del rapporto privilegiato di tipo coloniale o semicoloniale.3
Ma c’era un’altra ragione politica semplicissima, che può essere sintetizzata nella frase “il nemico
del mio nemico è mio amico”. Negli anni Trenta l’insofferenza per la presenza britannica si era fatta
più forte in Iraq e si era espressa con il colpo di Stato del generale Bakr Sidqi al-Askari e il governo
presieduto da Hikmet Suleiman (definito ancora oggi “progressista” dalla storiografia di
derivazione sovietica), e molti settori delle masse e soprattutto dei notabili e del ceto politico
guardavano con interesse alla rinascita di una forte Germania in grado di colpire la potenza
britannica. I massacri compiuti congiuntamente da britannici e sionisti nei confronti della
popolazione palestinese nel 1936-1939 avevano avuto una forte eco in tutti i paesi arabi limitrofi, e
non era stato difficile per gli agenti nazisti operanti nell’area indirizzare il malcontento contro i
britannici anche in senso antiebraico. Naturalmente sorvolavano sul fatto che il razzismo hitleriano
1
R. Luxenburg, op. cit. pp. 440-446.
Questi lavori erano pagati a carissimo prezzo dal governo ottomano, che assicurava anche un utile chilometrico fisso
molto alto alla compagnia ferroviaria, che veniva garantito concedendo alla “Administration de la Dette Publique
Ottomane” (l’equivalente del Fondo Monetario e della Banca Mondiale in quegli anni) la riscossione delle imposte (le
tradizionali “decime”, aumentate però fino al 12 e 12,5%) in molti vilayet. Ivi, p. 444.
3
Interessante notare a questo proposito che la Germania, pur privata di tutte le colonie africane alla conclusione della
prima Guerra mondiale, ha mantenuto legami all’interno di esse così duraturi che perfino dopo la decolonizzazione
degli anni Sessanta erano stati utilizzati dall’Urss per la penetrazione in quell’area: era infatti alla Germania est che
venivano delegati compiti di “intelligence”, di consulenza militare ed economica nei paesi che si avvicinavano al
“blocco socialista”.
2
26
era rivolto non solo contro gli ebrei ma anche contro tutte le “razze inferiori”, come gli slavi, i
“negri” e gli stessi arabi momentaneamente corteggiati.
Anche Mussolini aveva tentato la stessa operazione, presentandosi per giunta come difensore
dell’Islam (forse per imitazione di quello che aveva fatto Napoleone nel 1798 in Egitto). 4 Aveva
messo sul suo libro paga parecchi giornalisti e uomini politici di diversi paesi arabi, come il siriano
Shekib Arslan, ma in genere senza troppo successo, per il discredito gettato sulla sua politica dalla
feroce repressione del nazionalismo libico. In particolare dopo l’impiccagione dell’indomabile
“Leone del deserto” Omar al-Mukhtar, nel settembre 1931, un vasto movimento di ostilità al
fascismo si sviluppò tra gli intellettuali arabi. Anche l’aggressione all’Etiopia indipendente aveva
reso vani gli sforzi propagandistici del fascismo italiano (anche se qualche arabo auspicò che si
mantenesse la “neutralità” nel conflitto dato che la maggioranza cristiana etiopica aveva spesso
perseguitato le minoranze islamiche). Qualche maggior successo l’Italia fascista aveva ottenuto
nell’ala radicale del nazionalismo indiano di Chandra Bose, che poi, durante la seconda Guerra
mondiale si appoggerà al Giappone contro la dominazione britannica.5
Subbas Chandra Bose peraltro, che in Italia viene considerato “fascista”, per gli indiani è insieme a
Nehru e Gandhi uno dei padri della patria, e dopo l’indipendenza gli è stato eretto un monumento a
Calcutta.
E non furono casi isolati. Il più noto, anche perché utilizzato incessantemente in modo distorto dalla
propaganda sionista, è quello di Hadj Hamin al-Hussein. Nominato Gran Muftì di Gerusalemme –
falsificando il risultato della votazione effettuata dai notabili locali che avevano indicato altri nomi
– dal governatore britannico della Palestina, sir Herbert Samuel (un ebreo che pure simpatizzava
apertamente per la causa sionista), Hadj Hamin al-Hussein dopo molte esitazioni dovute al suo
moderatismo politico e alla sua origine di classe, finì per schierarsi con la rivolta palestinese che
pure lo aveva preoccupato inizialmente per il suo radicalismo, per la sua forte componente
contadina, per l’ostilità manifestata nei confronti dei proprietari terrieri che vendevano le terre ai
sionisti senza curarsi della sorte dei contadini che vi lavoravano da molte generazioni. Quando nel
1937 la rivolta palestinese entrò in una fase più difficile, anche per la interessata “mediazione” dei
sovrani arabi chiamati come arbitri dallo stesso Hussein, e si inasprì la feroce repressione britannica
– spalleggiata dalle milizie sioniste – che costò la vita a migliaia di palestinesi, Hadj Hamin alHussein fuggì all’estero, rifugiandosi inizialmente in Iraq. Dopo il ritorno in forza della Gran
Bretagna in quel paese nel 1941, il Gran Muftì dovette abbandonare il Medio Oriente e finì per
arrivare in Europa, dove chiese e ottenne protezione all’Italia fascista e alla Germania nazista, che
cercò di aiutare a organizzare un reclutamento di fiancheggiatori delle forze dell’Asse tra i
musulmani dei Balcani (anche – va detto come circostanza parzialmente attenuante – per ottenere
una qualche protezione per le popolazioni musulmane dalla ferocia degli Ustascia, che cercavano di
“croatizzarli” convertendoli a forza al cattolicesimo, con la collaborazione di religiosi francescani,
come facevano nei confronti dei serbi ortodossi che non sterminavano).6
4
In quegli anni numerose pubblicazioni in Italia risollevavano la questione palestinese, lamentando che il Mandato
della Società delle Nazioni fosse andato all’Inghilterra protestante e non all’Italia cattolica, e rispolverando
un’improbabile discendenza di Vittorio Emanuele III da uno degli effimeri re di Gerusalemme del tempo delle crociate.
5
Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, il Mulino, Bologna, 1988.
6
Una ricostruzione equilibrata e documentatissima dell’atteggiamento del Gran Muftì si trova in Luigi Goglia,
Questione palestinese e nazionalismo arabo, Argalia, Urbino, 1980, in particolare nei capitoli dedicati a La questione
palestinese tra le due guerre mondiali e La rivolta araba in Palestina nel 1936. Goglia ricostruisce l’atteggiamento
inizialmente filobritannico di Hadj Hamin al-Hussein, e l’appoggio che egli per questo ottenne dal governatore Samuel.
Anche Renzo De Felice nel volume citato smentisce nettamente le interpretazioni ricorrenti di Hamin al-Hussein come
“fascista” nella propaganda sionista e riprese da grossolane volgarizzazioni “storiche” come quella di Nicola Garribba,
Lo Stato di Israele, Editori Riuniti, 1983, che non meriterebbe neppure di essere nominato se questo libercolo non fosse
apparso in una prestigiosa collana della casa editrice del Pci, e diffuso poi in centinaia di migliaia di copie nelle scuole
italiane dall’Ambasciata israeliana (e adottato anche da qualche professore universitario sionista). Sulle falsificazioni di
Garribba si aprì un appassionato dibattito che si concluse con un incontro dei maggiori studiosi italiani di questioni
mediorientali con il direttore della collana, Tullio De Mauro. Un promemoria (ma sarebbe meglio dire una totale
stroncatura) sul libro, preparato per quella riunione, è stato pubblicato successivamente in Antonio Moscato, Israele,
Palestina e la Guerra del Golfo, Sapere 2000, Roma, 1991, pp. 107-126.
27
Ma anche il leader nazionalista tunisino Habib Bourguiba, che fino al 1936 era stato molto vicino al
Partito comunista francese, e che poi era stato deluso profondamente dal rifiuto di affrontare la
questione coloniale dal parte del governo di Fronte Popolare, accettò - sia pur con alcune cautele e
senza schierarsi apertamente con le potenze dell’Asse – di collaborare con esse, parlando ai tunisini
da Radio Bari.
Lo stesso Achmed Sukarno, il padre dell’Indonesia indipendente e suo presidente fino al colpo di
Stato del generale Suharto nel 1965 (che fu accompagnato dal massacro di oltre 500.000 comunisti
o presunti tali e di centinaia di migliaia di appartenenti alla minoranza cinese), aveva accettato
durante la seconda Guerra mondiale qualche collaborazione con il Giappone, che proclamava
“l’Asia agli asiatici” e che comunque faceva parte della coalizione che aveva annientato l’Olanda,
la potenza coloniale che dominava da alcuni secoli l’arcipelago indonesiano.7
Oggi può sembrare strano e scandaloso che dei movimenti di liberazione nazionale chiedessero o
accettassero l’appoggio dei regimi fascisti; ma va ricordato che il comportamento dei Fronti
popolari nel 1936 aveva spinto gran parte dei dirigenti dei movimenti nazionalisti delle colonie a
considerare le potenze “democratiche” e “antifasciste” che li dominavano non diverse da quelle
fasciste, e quindi a ritenere una questione puramente tattica l’utilizzazione di appoggi da parte di
queste.
In una pagina metodologica esemplare Renzo De Felice ha posto il problema in questi termini:
La qualificazione di “fascisti” attribuita anche da studiosi di rilievo al Muftì di Gerusalemme, a el-Gaylani, a
Chandra Bose e ad altri esponenti dei movimenti nazionali asiatici ed africani che furono in contatto con
qualcuna o con tutte le potenze del Tripartito prima e durante la seconda Guerra mondiale non regge a uno
studio ravvicinato delle vicende attraverso le quali si svilupparono i loro contatti e la loro collaborazione e
alla immagine che di essi hanno i loro rispettivi popoli. [...] Per comprendere in termini storici e non
ideologici le ragioni effettive di certi contatti e di certe collaborazioni è necessario rifarsi non a schemi di
tipo politico desunti dalle vicende europee e proiettati in forza di un “vizio” culturale etnocentrico su realtà
storiche e culturali diversissime dalla europea e occidentale in genere, ma alle ragioni profonde di tali realtà
e alle loro manifestazioni politiche: in altri termini alle esigenze di lotta per l’indipendenza nazionale che
muovevano i movimenti che ebbero quei contatti e stabilirono, in funzione, appunto, dell’indipendenza dei
rispettivi paesi, quelle forme di collaborazione. Solo non pretendendo di applicare i nostri schemi e i nostri
parametri culturali, ideologici e politici a realtà ed esperienze nate in tutt’altro contesto è possibile evitare
fraintendimenti e articolare le posizioni, spesso assai diverse, che all’interno di quelle esperienze pure vi
furono e vi sono.8
Il breve governo nazionalista di Rashid Ali el Kailani
La morte del re Ghazi nell’aprile 1939 aveva rafforzato i militari e le tendenze antibritanniche in
Iraq. Anche se probabilmente la sua morte fu occasionale e dovuta a un banale incidente stradale, e
non frutto di un complotto, come si pensò allora, la reazione popolare rivelò che stava maturando
una fortissima ostilità alla Gran Bretagna. Appena si sparse la notizia della morte del re, ad
esempio, una grande folla si radunò davanti al consolato britannico di Mosul e fece a pezzi il
console G. Monck-Mason, che era uscito imprudentemente dall’edificio sperando di tranquillizzare
i manifestanti.9
Il controllo britannico sul regno si indebolì, anche perché fu proclamato re il figlio di Ghazi, con il
nome di Feisal II. Ma dato che aveva solo 4 anni, la reggenza fu affidata al principe Abdulillah,
L’attuale presidente dell’Indonesia, la signora Megawati Sukarnoputri, è la figlia di Achmed Sukarno, che fu destituito
formalmente nel 1966, qualche mese dopo il golpe militare appoggiato dagli Stati Uniti.
8
R. De Felice, op. cit., pp. 12-13. De Felice conclude il ragionamento dicendo che la sottovalutazione di questa
complessità “in un certo senso – non sembri troppo ardito il confronto – è quasi come prospettare un’immagine del
nostro Risorgimento che non tenga conto contemporaneamente di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi e di Vittorio
Emanuele II”. Ivi, p. 13.
9
La reazione del governo britannico fu talmente prudente e moderata da accettare subito senza recriminazioni le scuse
dell’Iraq. J. Dauphin, op. cit., pp. 107-108.
7
28
dotato di scarso prestigio anche se a favore della sua designazione si erano pronunciate la vedova e
la sorella del re morto.
La sconfitta francese nel giugno 1940 aveva poi diffuso la sensazione che presto anche la Gran
Bretagna sarebbe stata sconfitta. Lo stesso Primo ministro Nury Said, pur essendo notoriamente
filobritannico, fiutando l’aria nel settembre 1939 aveva dichiarato che l’Iraq, pur consentendo alle
truppe inglesi il diritto di passaggio in base agli accordi precedenti, non sarebbe entrato in guerra se
non nel caso, definito “improbabile”, di una minaccia diretta al suo territorio.
Tra il 31 marzo 1940 e il 31 gennaio 1941 si forma un governo più nettamente antibritannico,
guidato da Rashid Ali el Kailani, che ha preso il posto di Nury Said (costretto alle dimissioni da
rivelazioni che lo vogliono complice dell’assassino di Rustum Haydar). Le manovre di Nury Said
costringono poco dopo alle dimissioni Rashid Ali el Kailani, ma già il 3 aprile dello stesso anno un
colpo militare riporta quest’ultimo alla testa del governo, mentre il reggente Abulillah fugge
nascosto in un’auto diplomatica statunitense e viene immediatamente deposto e sostituito da un
lontano parente del re, Sherif Sharaf. L’Iraq dichiara che “farà l’impossibile per mantenere relazioni
amichevoli con tutti i paesi”, ma intanto il suo nuovo governo faceva circondare dalle truppe
l’ambasciata della Gran Bretagna.
La reazione inglese è fulminea e dura. Rashid Ali el Kailani, che è stato appoggiato da appelli alla
guerra santa da parte di Haj Hamin al-Huessein, e da altri capi religiosi sunniti e sciiti, si trova
presto in difficoltà. Ha chiesto aiuto alla Germania e all’Italia, che hanno perso tuttavia alcune
settimane prima di decidersi a intervenire su un fronte così lontano, ma anche per ottenere il diritto
di sorvolare la Siria dal governatore francese (che ha aderito al governo di Petain). Il primo pilota
tedesco che arriva a Baghdad viene creduto inglese e abbattuto mentre scende dall’aereo, altri 22
aerei arrivano quando è troppo tardi (quelli italiani a battaglia completamente finita). Il governo
iracheno deve fuggire in Iran, dopo un mese di combattimenti. Rashid Ali el Kailani raggiunge la
Francia attraverso la Siria, poi passa in Germania e alla fine troverà rifugio presso Ibn Saud,
sfuggendo alla condanna a morte pronunciata nei suoi confronti.
L’Iraq, riconquistato dalla Gran Bretagna anche con l’aiuto di truppe provenienti dalla
Transgiordania (compresi alcuni arabi comandati da Glubb Pascià), sarà utilizzato come base per la
riconquista della Siria, che sarà riportata sotto il controllo delle forze fedeli a De Gaulle e degli
stessi inglesi. Prima del rientro a Baghdad della famiglia reale e del reggente Abdulillah, e
soprattutto di Nury Said, che assumerà di nuovo la carica di Primo ministro, la popolazione si sfoga
contro i negozi di ebrei, considerati complici dei britannici. Sarà l’inizio di una lunga tragedia.
Centinaia di esponenti iracheni considerati filonazisti o semplicemente nazionalisti antibritannici
saranno imprigionati, deportati in India o costretti all’esilio.
Così il movimento nazionalista si troverà a lungo indebolito, analogamente a quanto era successo a
quello palestinese. Anche in Egitto i britannici nel 1940 avevano brutalmente destituito il presidente
del consiglio Ali Maher, e disarmato e allontanato dal fronte vari ufficiali (tra cui Aziz el Masri,
l’eroe della resistenza arabo turca all’invasione della Libia); avevano poi imposto al debole re Faruk
la nomina a Primo ministro di un loro uomo, Nahas Pascià. Alcuni giovani ufficiali – tra cui il
futuro presidente Gamal Abdel Nasser e soprattutto quello che dopo la sua morte sarà il suo
successore, Anwar el Sadat - accumularono da quella esperienza un profondo rancore contro i
britannici, i collaborazionisti e il re fantoccio, che sarebbe venuto alla luce nel 1952.
La guerra arabo-israeliana del 1948-1949
Saranno questi eserciti demotivati e mal diretti da ufficiali collaborazionisti o direttamente
britannici (come Glubb Pascià) a perdere la guerra con lo Stato di Israele. Per giunta,
contrariamente alla leggenda amplificata ancora oggi dai tanti amici dei sionisti e dello Stato di
Israele, quest’ultimo non era “Davide in lotta contro Golia”, perché aveva un netto vantaggio dal
punto di vista dell’addestramento (molti sionisti avevano partecipato alla guerra in Europa nei
29
ranghi dell’esercito britannico, mentre gli arabi erano stati emarginati e in genere disarmati), ma
anche per quanto riguarda l’armamento: ad esempio, Israele aveva una flotta aerea numericamente e
qualitativamente superiore a quella dell’insieme dei paesi arabi, addestrata e preparata nel Sudafrica
razzista, che aveva fornito a volte anche piloti non ebrei; un certo numero di ufficiali di marina della
tendenza sionista estremista di Jabotinski e Begin erano stati addestrati nelle accademie dell’Italia
fascista nel corso degli anni Trenta.10
I palestinesi erano per giunta stati per dieci lunghi anni privati di gran parte dei loro dirigenti,
uccisi, deportati o esiliati dopo la rivolta e avevano subìto, disarmati o male armati, gli attacchi
delle formazioni militari sioniste che disponevano, già prima della proclamazione dello Stato di
Israele, di armi pesanti, comprese autoblindo.11
Abbiamo già ricordato che durante la guerra il re di Trangiordania, Abdallah, fratello di Feisal I,
già trattava alle spalle dei palestinesi la spartizione del loro territorio con i dirigenti sionisti. Ma non
fu quella la causa principale della sconfitta araba: paradossalmente le truppe arabe che si batterono
meglio furono – oltre alle piccole e male armate milizie di volontari palestinesi - proprio quelle
giordane, che ovviamente non sapevano niente dei tradimenti del loro re, ma erano state ben
addestrate dai britannici perché considerate più fidate di quelle irachene o egiziane.
Alcuni ufficiali egiziani, amareggiati per la sconfitta, guardarono con ammirazione l’efficienza
dell’esercito sionista, e uno di loro, Gamal Abdel Nasser, durante i lunghi colloqui nelle trattative
per l’armistizio (riprese più volte, dato che gli israeliani avevano accettato numerose tregue solo per
preparare nuove offensive, che consentirono loro di impossessarsi di un territorio ben più ampio di
quello pur esageratamente ampio attribuito loro dal progetto di spartizione delle Nazioni Unite),
aveva stabilito rapporti di stima e amicizia personale con uno degli ufficiali avversari, scambiando
doni in varie ricorrenze o per la nascita di un figlio.
La spiegazione non era solo da ricercare in un legame personale: gli ufficiali repubblicani avevano
attribuito la sconfitta dell’Egitto nel 1948-1949 sia alla corruzione del regime monarchico asservito
ai britannici, sia alla superiorità tecnologica e organizzativa degli israeliani, che avevano ammirato
e con i quali speravano di poter stabilire rapporti di collaborazione, per accelerare quel processo di
modernizzazione del proprio paese che era nei loro programmi.
In definitiva, era il loro rifiuto dei regimi feudali a spingerli a interessarsi a quel nuovo Stato sorto
dal nulla nella loro regione e che pensavano di poter facilmente imitare. Ma il primo colpo alle loro
illusioni era venuto da quello che in Israele viene nominato pudicamente come Eseq bish (“il brutto
affare”), oppure “il caso Allon”. L’Egitto era stato scosso da una serie di attentati contro sedi
britanniche e statunitensi, e anche contro cinema in cui si proiettavano pellicole americane, con il
risultato di fare montare nel mondo una campagna contro i “terroristi arabi” e il governo egiziano
“che li proteggeva”.
Tuttavia, un “incidente tecnico” (un ordigno che si accese anticipatamente) fece scoprire i veri
responsabili: alcuni agenti israeliani, reclutati nella locale comunità ebraica; gli attentati dovevano
servire a preparare un intervento contro l’Egitto. Alcuni agenti confessarono e fecero nomi, uno si
suicidò, un altro morì sotto la tortura. Due di essi furono assolti, ma due furono impiccati, e
10
La bibliografia su questo aspetto è abbondante, ma sistematicamente ignorata per partito preso dai sostenitori della
tesi vittimista di Israele. Ricordo però almeno due titoli significativi: Nakhba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro
terra, Salerno, Ripostes, 1987 (curato da Guido Valabrega per i “Dossier Palestina” della Fondazione internazionale
Lelio Basso), che è il primo libro in Italia basato sul lavoro dei “nuovi storici israeliani; Benny Morris, Vittime. Storia
del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano, 2001. Il libro di Benny Morris, capofila dei nuovi storici, è
contestato da alcuni sostenitori della causa palestinese per le idee politiche che lascia trasparire nei suoi giudizi sulla
storia recente dopo gli “accordi di Oslo” (è un sionista, laburista, entusiasta di Barak), ma è invece utilissimo per la
mole di dati che fornisce con scrupolosità e rigore, sia sul terrorismo sionista, sia sui progetti ricorrenti sull’espulsione
dei palestinesi come unica soluzione. Dalla ricostruzione di Morris dell’eccidio sionista di Deir Yassin, oltre a risultare
la corresponsabilità degli stessi laburisti, emerge appunto che già prima della proclamazione dello Stato di Israele i
sionisti disponevano di blindati e altre armi pesanti. Ivi, p. 223. Per altre indicazioni bibliografiche rinvio a: Antonio
Moscato, Cinzia Nachira, Israele sull’orlo dell’abisso, Sapere 2000, Roma, 2002, che ha anche in Appendice un ampio
stralcio di un mio più esteso saggio sui “Rapporti tra Israele e Sudafrica”, apparso sulla rivista I diritti dei popoli.
11
Ivi, p. 13.
30
considerati a lungo vittime innocenti, finché una faida interna al gruppo dirigente sionista portò
all’ammissione della verità. Ben Gurion addebitò però tutta la responsabilità “dell’infortunio” al suo
rivale, il ministro della Difesa Pinchas Lavon, che forse era assai meno coinvolto nel caso del suo
cinico accusatore.12
La guerra di Suez
I primi passi del regime repubblicano instaurato in Egitto dopo la cacciata del re fantoccio Faruk
(che si rifugiò in Italia, dove riempì le pagine della “cronaca rosa” dei giornali con le sue avventure
con prostitute d’alto bordo) avevano rivelato un atteggiamento cauto nei confronti dello Stato di
Israele e della numerosa e prospera comunità ebraica locale. Il primo presidente della Repubblica, il
gen. Mohammed Naghib, subito dopo essere stato eletto si recò, ad esempio, in visita di cortesia alla
sinagoga del Cairo (ed abbiamo già accennato al rapporto di Nasser con uno degli ufficiali israeliani
conosciuti durante le trattative).
La campagna scandalistica che denunciò in tutto il mondo il processo che fu intentato agli
attentatori come una “montatura dovuta all’antisemitismo” dei dirigenti nazionalisti egiziani, prima
che il regolamento di conti in Israele tra Ben Gurion e il suo rivale Lavon portasse alla luce che gli
attentati erano stati programmati in Israele proprio per bloccare un possibile riavvicinamento tra
Stati Uniti ed Egitto, finì per coinvolgere la comunità ebraica egiziana, fino a quel momento ben
inserita (e in maggioranza non sionista), che fu così costretta a emigrare.
Naturalmente il salto qualitativo avvenne nel 1956. Il canale di Suez, inaugurato nel 1869 con
capitali anche egiziani e soprattutto con il sacrificio di decine di migliaia di contadini che erano
morti lavorando gratuitamente alla sua costruzione, nel 1920 aveva già ripagato otto volte gli
investitori privati stranieri, e la Gran Bretagna, che nel 1875 aveva rilevato il 44% delle azioni
appartenenti al Khedivè, che era stato indotto a indebitarsi dai suggerimenti interessati dei
consiglieri europei (nel 1882 aveva dovuto per la stessa ragione accettare un regime di protettorato
e un’occupazione militare “temporanea” delle truppe britanniche per “garantire l’ordine”, che
sarebbe durata fino all’estate del 1956, cioè oltre trent’anni dopo la concessione di una formale
indipendenza e l’ammissione alla Società delle Nazioni).
Nel 1955 l’Egitto repubblicano aveva rifiutato di partecipare al Patto anticomunista di Baghdad e si
era avvicinato al movimento neutralista dei paesi afroasiatici, che ebbe come prima manifestazione
la conferenza di Bandung dell’aprile di quell’anno. Per punire l’Egitto dapprima furono interrotte
alcune forniture di armi già concordate e in parte pagate, poi fu negato il finanziamento della grande
diga di Assuan, che avrebbe dovuto regolarizzare il corso del Nilo e irrigare un’area molto più vasta
di quella raggiunta dalle piene fin dall’antichità (e che creò poi, contrariamente alle previsioni,
problemi maggiori dei vantaggi).13
Vittime, cit., pp. 356-357. Tra le ricostruzioni dell’episodio si veda: Uri Avneri, Israele senza sionisti, Laterza, Bari,
1970, pp. 118-143 (che fornisce utili indicazioni sui sondaggi avviati da Nasser per arrivare a una soluzione negoziata
della questione palestinese esattamente in quel periodo) e Peretz Merhav Storia del movimento operaio in Israele, La
Nuova Italia, Firenze, pp. 245-254.
13
A distanza di anni, ci si può domandare se è positivo il bilancio di quella diga, che comportò molteplici danni
ambientali (dalla sparizione di molti importanti siti archeologici ricoperti dalle acque, di cui solo una parte fu salvata, a
trasformazioni climatiche notevoli), mentre ridusse la capacità fertilizzante delle acque del Nilo, dato che il limo
proveniente dalle foreste equatoriali in cui nasce si deposita sul fondo del grande lago artificiale. Probabilmente no, ma
va detto che il bilancio va messo in conto non tanto alle specifiche ambizioni dei dirigenti egiziani, quanto a quella
presunzione di poter modificare a piacimento gli assetti naturali che caratterizzò sia l’Europa positivista a cavallo tra il
XIX e il XX secolo, sia l’Unione Sovietica staliniana, con le sue gigantesche dighe che da un lato producevano meno
energia di quanta ne sarebbe stata prodotta usando come combustibile l’erba dei pascoli allagati (che ovviamente
potevano avere una migliore utilizzazione...), dall’altro modificavano il clima. L’ultima di queste costosissime opere,
l’inversione del corso dei fiumi siberiani, che se completata sarebbe stata catastrofica e contro cui da decenni si
scagliavano scienziati e intellettuali sovietici, fu fermata da Gorbaciov, e rappresenta probabilmente l’unico atto
sicuramente positivo del suo governo. Cfr. per questo Antonio Moscato, Gorbaciov. Le ambiguità della perestrojka,
Erre Emme, Roma, 1990, in particolare alle pp. 39-47 sulla “catastrofe ecologica” dell’Urss.
12
31
Non era naturalmente per preoccupazioni ecologiche che il finanziamento già promesso fu negato.
Oltre a tutto i progetti erano già stati approntati da imprese statunitensi ed europee. L’obbiettivo era
quello di costringere l’Egitto a recedere dai suoi programmi di indipendenza totale sul piano
economico e su quello politico, e di “punirlo” per aver acquistato dall’Urss e dalla Cecoslovacchia
le armi che l’Occidente aveva rifiutato di vendere.
La risposta di Nasser, che aveva intanto preso il posto del moderato Naghib, fu decisa e rapida: il 26
luglio 1956 annunciò la nazionalizzazione della “Compagnia del Canale di Suez“ (e non, come fu
detto e viene ripetuto ancora dalla propaganda imperialista, del canale in quanto tale, che era da
oltre vent’anni sotto la completa sovranità egiziana, e da cui l’Inghilterra aveva ritirato le truppe
senza che venisse limitata la libertà di navigazione). Si trattava di recuperare un bene prezioso –
costruito col sudore, il sangue e le risorse dell’Egitto – e che continuava invece ad assicurare profitti
immensi agli azionisti, per usare il ricavato dei pedaggi per lo sviluppo del paese.
Ma anche la risposta dei paesi imperialisti europei fu immediata e brutale. Prima di tutto fu
scatenata una forsennata campagna sulla “libertà di navigazione negata dal nuovo Hitler”, Nasser,
che invece aveva consentito – nonostante non fosse stato ancora firmato un trattato di pace dopo la
guerra del 1948-1949 – a una nave israeliana proveniente da Haifa di traversare il canale per
trasportare merci ad Aqaba sul Mar Rosso. Basta guardare una carta geografica della zona per
capire che non si trattava di una reale necessità, dato che il tragitto via terra è molto più breve, ma di
un sondaggio che, in caso di rifiuto, avrebbe consentito di denunciare al mondo “l’intollerabile
pretesa del barbaro Egitto”.14
Tre mesi dopo, il 29 ottobre, scattava l’aggressione all’Egitto da parte di Israele, Francia e Gran
Bretagna, che approfittavano della crisi ungherese che teneva occupata l’Unione Sovietica. La
tecnica era stata concordata fin nei minimi dettagli il 23 ottobre in una riunione segreta dei massimi
rappresentanti dei tre paesi a Sèvres in Francia, anche se un piano del genere era già stato abbozzato
fin dal 1954. L’esercito dello Stato di Israele invase il Sinai con le sue truppe di terra e con un
lancio di paracadutisti, mentre la Gran Bretagna e la Francia (che era alle prese con la rivoluzione
algerina, e voleva umiliare in Nasser tutto il nazionalismo arabo)15 intimavano ipocritamente a
“entrambe i belligeranti” di ritirarsi a 16 chilometri dal canale (cioè intimavano al solo Egitto di
ritirarsi dal proprio territorio, mentre gli israeliani – tranne in alcuni punti – erano ancora ben
lontani da esso) e intanto attaccavano dal cielo e dal mare le due estremità del canale, Port Said e
Port Fuad, e le occupavano con gravissime perdite egiziane (soprattutto militari), mentre la
popolazione le difendeva con pochissime armi e molta rabbia. Intanto venivano bombardati tutti gli
aeroporti egiziani, privando completamente il paese della sua difesa aerea.
Nel corso della penetrazione in territorio egiziano reparti speciali dell’esercito israeliano
massacravano uomini, donne e bambini in villaggi palestinesi come Kafr Kassem e Khan Yunes;
ma anche a Gaza furono trovate fosse comuni con decine di corpi, e il sindaco denunciò la
scomparsa di 700 persone. Già il 28 febbraio 1955, d’altra parte, c’era stato un attacco rivelatore
alle postazioni egiziane a Gaza.
La guerra dell’ottobre-novembre 1956 doveva dare il colpo definitivo a tutti i tentativi distensivi. I
governi colonialisti di Gran Bretagna e Francia (dove – va detto per spiegare perché la sinistra
francese è finita così male – il premier era il socialista Guy Mollet, sostenuto dal Pcf…) si
14
In realtà il passaggio in una via di comunicazione interna come il Canale di Suez o quello di Panama era sempre stato
vietato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti alle navi di paesi con cui erano in guerra, e così, analogamente, era
avvenuto per lo stretto dei Dardanelli da parte dell’impero ottomano prima e della Turchia successivamente, senza che
nessuno denunciasse per questo “un attentato alla libertà di navigazione”.
15
Non a caso proprio il 26 ottobre, alla vigilia della guerra, con un atto di pirateria la Francia dirottò un aereo che
portava Ben Bella e altri dirigenti del Fln algerino dal Marocco a Tunisi via Spagna, arrestandoli. Dovrà liberarli per
trattare la pace con loro nel 1961, quando ogni speranza di piegare militarmente la resistenza era svanita. Ma intanto nel
FLN, soprattutto nel cosiddetto “esercito dell’esterno” che non aveva praticamente mai combattuto, si era formato un
gruppo di militari professionisti raccolti intorno a Huari Boumedien, che nel giugno 1965 organizzavano un colpo di
Stato contro Ben Bella, liquidando il suo tentativo di socialismo basato sull’autogestione. Ahmed Ben Bella avrebbe
passato ancora 15 anni in carcere nel suo stesso paese. Sarà liberato solo nel 1980, due anni dopo la morte di
Boumedien.
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scontrarono con la forte resistenza popolare egiziana e furono messi in difficoltà anche dalla
protesta dell’Urss (che voleva, con fiere dichiarazioni anticolonialiste, distogliere l’attenzione dal
suo intervento in Ungheria, presentato come “difesa da infiltrazioni imperialiste”). Gli Stati Uniti,
preoccupati delle reazioni nel mondo arabo e interessati ad approfittare delle difficoltà della Gran
Bretagna, alleata ma rivale, si dissociarono dai franco-britannici, che quindi furono costretti a
ritirarsi con la coda tra le gambe.
L’Egitto, il cui esercito (ereditato dal regime semicoloniale) aveva fatto ancora una volta una
pessima prova, uscì dalla guerra come un trionfatore e diventò il catalizzatore di tutto il
nazionalismo arabo. Lo Stato di Israele fu invece smascherato come complice e anzi parte
integrante dell’imperialismo, ma ricavò un vantaggio indiretto, dal momento che centinaia di
migliaia di ebrei dovettero lasciare i paesi arabi in cui vivevano da secoli e – tranne i fortunati
possessori di un passaporto europeo, in genere i più ricchi – non ebbero altro sbocco che quello
Stato di Israele a cui fino a quel momento erano stati indifferenti se non ostili.
Aumentò soprattutto il prestigio di Nasser, che aveva sfidato l’imperialismo ed era sopravvissuto
all’attacco concentrico delle due vecchie potenze coloniali e dell’efficientissimo esercito israeliano,
che era stato dotato dalla Francia dei modernissimi aerei Prestige. Il “nasserismo” accrebbe dunque
la sua influenza su tutti i paesi arabi, compreso l’Iraq, dove le violente manifestazioni popolari di
sostegno all’Egitto aggredito erano state sanguinosamente represse dal governo di Nury Said, che
appariva quindi sempre più un agente del governo di Londra.
Il nasserismo e la repubblica in Iraq
L’Iraq, che era diventato nel secondo dopoguerra una delle pedine più importanti della dominazione
imperialista nell’area, precipitava ormai verso una crisi profonda e irreversibile. Feisal II era stato
incoronato re nel 1953, quando aveva raggiunto 18 anni, ma aveva davanti a sé pochi anni di regno.
Egli era stato sempre considerato nel suo paese soltanto un fantoccio della Gran Bretagna, ancor più
del nonno omonimo e al pari di Nury Said. Nel 1955 questa opinione fu rafforzata dall’appoggio
dato alla costituzione del “Patto di Bagdad” che riuniva, insieme alla Gran Bretagna, la Turchia,
l’Iran dello Scià e il Pakistan (creato artificialmente dai britannici per indebolire l’indipendenza
dell’India), oltre che le due monarchie hascemite di Giordania e Iraq. Il Patto aveva una evidente
funzione di “gendarme dell’ordine imperialista” in una vasta parte del mondo afroasiatico, in chiave
anticomunista ma anche antinazionalista e antineutralista (contro l’Egitto, ma anche contro l’India
di Nehru che si avvicinava all’Urss, e otteneva da Mosca finanziamenti importanti per il suo
sviluppo indipendente).
L’enorme ripercussione del fallimento dell’aggressione del 1956 all’Egitto all’interno di tutti i paesi
arabi e di quello che cominciava ad essere chiamato il “Terzo Mondo”(ad esempio fornì al Fln
algerino un incoraggiamento pari a quello rappresentato dalla sconfitta della Francia a Dien Bien
Phu nel 1954) mise in crisi prima di tutto due dei paesi firmatari del patto di Baghdad, la Giordania
e l’Iraq, insieme a un altro che, per le sue ridotte dimensioni e le sue notevoli contraddizioni interne,
non era stato formalmente associato alla coalizione: il Libano.
Il nasserismo influenza profondamente soprattutto la Siria, in cui i “socialisti arabi” del Baas, divisi
in tre frazioni, governano da qualche anno, dopo la caduta della dittatura del colonnello Shishakli,
ma regolano i conti tra loro con frequenti colpi di Stato, mentre vedono emergere con
preoccupazione un relativamente forte Partito comunista guidato da Khaled Bagdash, che
rappresenta un polo d’attrazione per i ceti medi che erano la clientela tradizionale del Baas. Per
arginarlo chiedono aiuto a Nasser: il 31 gennaio 1958 una delegazione siriana guidata dal presidente
della Repubblica Ahukri Kuatly si reca al Cairo, proponendo l’unificazione con l’Egitto a un Nasser
inizialmente perplesso.
Il giorno successivo, il 1° febbraio, veniva proclamata la Repubblica Araba Unita (Rau), a cui si
unirà poco dopo lo Yemen feudale e conservatore, ma preoccupato per le pressioni e ingerenze
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saudite e britanniche. Venti giorni dopo un referendum preparato in fretta e furia ratificava l’unione
(che tuttavia non avrebbe avuto vita lunga: nel settembre 1961 un colpo di Stato portava la Siria
fuori della Rau).16 Anche l’unione con lo Yemen provocherà una lunga e sanguinosa guerra civile
(con pesanti interferenze dell’Arabia Saudita), che stremerà l’Egitto che nel 1967 – dopo la
sconfitta nella guerra dei sei giorni – dovrà ritirarsi da quel paese.
Ma in un primo momento la costituzione della Rau suscita grandi speranze nelle masse arabe, e
preoccupazione nei ceti più conservatori e soprattutto nelle due monarchie hascemite, che creano
immediatamente con l’appoggio di Gran Bretagna e Stati Uniti una “Unione degli Stati Arabi” che
in realtà comprende solo Giordania e Iraq (che almeno hanno il vantaggio della contiguità
territoriale, mentre Egitto e Siria, e ancor più lo Yemen, non hanno confini tra loro e hanno
profonde differenziazioni culturali, economiche e sociali).
Anche l’Arabia Saudita viene raggiunta dal vento del panarabismo, e per tentare di arginarlo il re
Saud, che nel 1953 ha ereditato la corona dopo la morte del vecchio Ibn Saud, ma che non è
all’altezza di suo padre (il fondatore del regno), viene costretto nel 1958 a cedere i pieni poteri al
fratello Feisal, che avvia una cauta modernizzazione del paese bloccando il tentativo nasseriano di
abbattere la dinastia.17
Anche il Libano sarà profondamente scosso dal vento del panarabismo. Il presidente Camille
Chamoun, esponente della destra maronita, appoggiato dalla Falange di Pierre Gemayel, anch’esso
cristiano maronita e fascisteggiante, accentuò il legame con gli Stati Uniti aderendo nel 1957 alla
“dottrina Eisenhower” per il Medio Oriente. Si scontrò presto con un movimento popolare di
sinistra, che comprendeva i socialisti progressisti del druso Kamal Jumblatt, i nasseriani, il Baas e
altri gruppi. La guerra civile assunse inevitabilmente le caratteristiche di uno scontro tra musulmani
e cristiani (soprattutto maroniti, perché una parte degli ortodossi simpatizzavano invece per la
sinistra), che si accentuò nel luglio 1958, dopo la caduta della monarchia irachena. Chamoun,
terrorizzato, chiese l’intervento degli Stati Uniti, che il 20 luglio inviarono 10.000 marines a Beirut,
mentre gli insorti islamici e progressisti rimanevano padroni di Tripoli nel nord e di Tiro e Sidone
nel sud.
Ma è l’Iraq che conosce lo sconvolgimento più profondo. Il 14 luglio 1958 esplode il malcontento
popolare, preparato da una cospirazione sotterranea ispirata dal Cairo, di cui fa parte anche Rashid
Ali el Kailani, il ribelle del 1941, ma soprattutto un settore importante dell’esercito.
Reparti dell’esercito guidati dal generale Abdel Karim Kassem, appoggiati dalla maggior parte della
popolazione, assaltano il palazzo reale e uccidono sul posto Feisal II e tutti i ministri, tranne Nury
Said, che si rifugia in casa di amici e tenta di fuggire vestito da donna. Riconosciuto da alcuni
soldati, viene abbattuto a raffiche di mitra e sepolto nel cimitero di Baghdad, dove la sua tomba
però viene identificata dopo poche ore. Il suo cadavere viene disseppellito e trascinato per le vie
della città, dove sarà fatto a pezzi dalla furia popolare.
L’Iraq esce immediatamente dal Patto di Baghdad e rompe l’unione con la Giordania, dove un forte
movimento di massa minaccia re Hussein, che l’anno precedente aveva sciolto il governo
progressista guidato da Suleiman Nabulsi, che aveva vinto regolari elezioni. Hussein chiede
l’intervento dei paracadutisti britannici e rompe i rapporti con l’Egitto, considerato responsabile di
tutti i sommovimenti. Ma la Gran Bretagna è troppo malvista, e subito dopo il re dovrà chiedere
l’assistenza economica e militare degli Stati Uniti, a cui si legherà a filo doppio. Comincia una
nuova fase di instabilità in tutto il Medio Oriente.
La causa della rottura fu in primo luogo la eccessiva “egizianizzazione” di un paese con una storia originale e vivace,
sostanzialmente diversa da quella degli altri paesi arabi, ma anche le comprensibili resistenze della burocrazia e
dell’esercito. Inoltre la borghesia siriana cominciava ad avere paura del proclamato “socialismo” di Nasser.
17
Sarà poi deposto nel novembre 1964 dal consiglio degli Ulema, e Feisal diventerà re. Avvierà una cauta
modernizzazione dell’Arabia, ma sarà ucciso nel marzo 1975 da un nipote (non è l’unico assassinio o regolamento dei
conti all’interno di questa dinastia feudale).
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