E’ DAVVERO “NUOVA” LA NUOVA POLITICA ESTERA AMERICANA NEOCON? Massimo Teodori L’interrogativo che ha percorso le cancellerie del mondo, i commentatori di politica internazionale e le opinioni pubbliche occidentali durante la travagliata stagione che va dall’11 settembre 2001 all’intervento militare in Iraq, è cosa davvero significasse la politica estera dell’Amministrazione George W. Bush, e in che misura essa costituisse una rottura profonda con la linea relativamente omogenea, se pur coniugata con diversi accenti e stili, che aveva dominato alla Casa Bianca e al Pentagono negli ultimi cinquant’anni. E’ sì vero che dalla fine dell’Unione Sovietica e quindi della Guerra Fredda, pareva che gli Stati Uniti – con le Amministrazioni George Bush (1989-93) e ancor più Bill Clinton (1993-2001) – fossero alla ricerca di un nuovo ruolo e di una nuova immagine internazionale che sostituisse la difesa del “Mondo libero” in contrapposizione al comunismo che aveva segnato la fase precedente, ma nessun rilevante indirizzo di politica estera si era prodotto prima del clamoroso ed inedito evento terroristico piombato sull’America a soli otto mesi dall’insediamento del Presidente Repubblicano. Per comprendere il significato dell’intervento in Iraq dopo quello in Afghanistan, e il suo grado di continuità o rottura con la politica estera americana che qui chiamerò per comodità “tradizionale”, occorre rifarsi alle sue radici teoriche contenute in The National Security Strategy of the United States of America, documento emanato dalla Casa Bianca nel settembre 2002 a un anno dalle Torri-Gemelle. Con chiarezza espositiva e con una stile che a taluni è sembrato troppo diretto, la nuova strategia contiene i cardini della politica estera americana per il futuro che, in sintesi, possono essere così riassunti. Il valore della libertà è universale e riguarda i popoli d’ogni continente. La forza militare e l’influenza politica ed economica degli Stati Uniti sono senza precedenti per cui all’America spetta il compito di difendere la pace combattendo i terroristi ed i tiranni e di estendere la pace incoraggiando in ogni continente le società 1 libere ed aperte. Quel che ha rivoluzionato il quadro internazionale è il terrorismo che ha caratteristiche del tutto diverse dalle minacce del passato: gli Stati Uniti devono colpire queste minacce emergenti prima che si formino. La strada per la pace e la sicurezza è l’azione che estende la libertà nel mondo, un’azione che porta con sé le speranze di democrazia, sviluppo, e del mercato e commercio liberi. L’America è sì impegnata a mantenere istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite, il WTO e la Nato, ma le “coalizioni dei volenterosi” che si formano sulle specifiche missioni intorno a individuate priorità internazionali, servono ad aumentare il potenziale delle istituzioni permanenti. Questa dottrina che si fa risalire ai neoconservatori è stata abbracciata da George W.Bush solo con l’11 settembre. Nei primi mesi della nuova Amministrazione Repubblicana circolava insistentemente l’interrogativo sulla possibile ripresa di una spinta isolazionistica che da sempre costituisce una tendenza radicata nella tradizione dei Repubblicani. Come è noto, ma spesso si tende a dimenticarlo, sono state le Amministrazioni Democratiche che nel Novecento hanno dato vita a politiche interventiste, anche sul piano militare. Così, dopo l’ondeggiante periodo clintoniano, si poteva anche prevedere che l’America si ritirasse in parte dagli impegni internazionali per concentrarsi sugli affari interni. Ed invece il pendolo internazionale americano, da sempre oscillante tra interventismo e isolazionismo, si è decisamente indirizzato sul primo corno del dilemma, secondo quella particolare strategia interventista che il pensiero neoconservatore aveva elaborato dai tempi della Presidenza Reagan a cui aveva suggerito la politica riarmista per mettere alle corde l’Unione Sovietica, come in effetti accadde alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. L’eccezionalità dell’11 settembre nella vicenda storica americana è questione che è stata troppo dibattuta per doverci tornare sopra, ma che deve essere attentamente considerata allorché si vogliano valutare le ragioni profonde delle campagne afghana ed irakena, e degli interventi che magari in futuro seguiranno una logica irrispettosa degli equilibri esistenti. Quel che più interessa è capire in che misura la nuova politica internazionale che da allora è stata assunta sia davvero così “nuova”, una volta spogliata dello stile con cui è stata enunciata, e scontata la singolare novità del suo punto di partenza - il terrorismo islamico che è la vera novità storica con 2 cui si trova a fare i conti. Non c’è dubbio che l’intervento irakeno abbia rotto quello status quo internazionale di cui la superpotenza americana era stata finora la maggiore garante contro i tanti protagonisti “dinamici” che non accettavano l’immobilismo internazionale, ed abbia dunque rappresentato il primo importante banco di prova nella riscrittura delle regole del gioco internazionale. Ma questa rottura è davvero tale? * * * Il mio punto di vista sulla nuova politica estera americana ispirata dai neoconservatori è che in essa vi siano molti più elementi di continuità con il Novecento americano di quanto usualmente si ritenga. L’odierno interventismo statunitense per cui il Paese consapevole della propria forza militare, economica e politica ritiene suo diritto, e suo dovere, uscire dai propri confini per assicurare non solo la sicurezza nazionale ma anche propugnare un nuovo ordine internazionale nel quale si diffonda la democrazia e gli elementi destabilizzanti siano affrontati frontalmente, è tutt’altro che nuovo. Erano certamente ispirati al principio della “esportazione della democrazia” i Quattordici punti del Democratico Woodrow Wilson. La stesso intervento dei soldati US nella prima guerra Mondiale, fu ispirato dalla necessità di combattere accanto alle democrazie europee quel che era al tempo considerato il “male”, gli imperi centrali. La concezione dell’ordine mondiale che ispirò la Società delle Nazioni concepita da Wilson come un’utopica alleanza dei Paesi democratici, doveva fare argine ai Paesi non democratici e fronteggiare la diversa filosofia internazionalista sostenuta negli stessi anni dai bolscevichi di Lenin. Né sono state molto diverse dall’impostazione che oggi regge la strategia americana internazionale, le idee forza che hanno mosso e sostenuto le più rilevanti e significative azioni internazionali degli Stati Uniti lungo l’intero Novecento. Franklin D.Roosevelt fece programmi, contrariamente alla maggior parte dell’opinione pubblica americana e dello stesso Congresso, che la libertà e la democrazia in America non potessero essere difese estraniandosi dal grande scontro allora in atto con il nazismo. Quando nell’ultimo periodo della sua vita, mentre era ancora in corso la durissima guerra in Europa e in Estremo Oriente, Roosevelt progettò i piani per le nazioni vinte 3 (Germania, Giappone e Italia), e concepì con l’ONU la nuova versione dell’internazionalismo istituzionalizzato, prendeva le mosse da alcune convinzioni chiare e radicate che al tempo stesso tenevano in considerazione gli interessi statunitensi sull’assetto del mondo e le idealità democratico-progressiste insite nella rivoluzione newdealista. La prima riguardava la necessità di esportare la democrazia procedendo, dopo la resa senza convinzioni, a progetti di denazificazione, defascistizzazione e demilitarizzazione delle potenze dell’Asse propugnando delle costituzioni democratiche e, possibilmente, federali. La seconda era l’ancoraggio all’organizzazione internazionale come contrappeso al pericolo di un ritorno a quell’isolazionismo che aveva dovuto combattere tra gli anni trenta e quaranta mentre le democrazie europee si estenuavano contro Hitler e che, alla fine della Presidenza Wilson (1920) aveva respinto la partecipazione americana alla società delle Nazioni. E la terza convinzione di Roosevelt faceva perno sulla necessità dell’uso della forza – Hiroshima – come elemento risolutivo per battere i regimi autoritari (prima della Bomba atomica c’erano stati i bombardamenti a tappeto delle città tedesche) e come premessa indispensabile all’organizzazione futura del mondo. L’intera vicenda della Guerra Fredda per quel che riguarda gli Stati Uniti, si compone di capitoli in cui convivono principi e strumenti apparentemente contrastanti in un mix che è il vero DNA americano: l’uso della forza in maniera diretta o deterrente e le profonde convinzioni ideali (ed ideologiche), l’arroganza del potere e le missioni di libertà e democrazia. Certo il radicale cambiamento della minaccia esterna, dal comunismo con il suo territorio, le sue regole interne e un codice per il dialogo esterno, al terrorismo islamico senza regole, senza sensibilità alla deterrenza e senza confini, non consente di stabilire analogie simmetriche tra la stagione che inizia nel 1947 e quella del post-11 settembre. Se dunque in termini geostrategici dalla Guerra Fredda alla Guerra al Terrorismo tutto è cambiato, a me invece pare che non siano così radicalmente mutati quell’insieme di valori, principi, e ispirazioni che nelle due diverse epoche hanno mosso la politica internazionale americana e hanno identificato la stessa surperpotenza, unica sopravvissuta nel Terzo millennio. La “crociata” contro il pericolo esterno è stata alla base della missione dell’America nel mondo, cioè della sua immagine 4 identitaria rispetto al proprio popolo ed agli altri Paesi durante l’intero quarto di secolo che segue la guerra mondiale. L’uso della forza in tutto questo periodo è stato costante: una forza che costituiva la precondizione stessa del dialogo e del negoziato. L’ordine mondiale in un sistema bipolare era un ordine basato niente affatto sul diritto internazionale ma principalmente sulla forza, talora anche preventiva ed usata senza risparmi. Nella guerra di Corea il contenimento del comunismo si trasformò ben presto nello scontro diretto tra Stati Uniti e i suoi alleati orientali e la Cina con le sue propaggini militari ed ideologiche. Ancor prima la minaccia della forza e il suo stesso uso erano serviti a risolvere le crisi di Grecia e Turchia di fronte all’espansionismo sovietico. Nelle crisi di Berlino e di Cuba il più democratico ma anche il più anticomunista dei Presidenti americani del dopoguerra arrivò per ben due volte in mille giorni a mettere in atto un braccio di ferro fino agli estremi margini delle guerra, spingendosi sull’orlo dell’abisso, come aveva teorizzato John Foster Dulles, il passionale segretario di Stato del Presidente Eisenhower. In Vietnam poi lo stesso John F. Kennedy cominciò con l’inviare 18.000 “consiglieri”, un’azione bellica continuata dal suo successore, Lyndon B. Johnson, autentico rappresentante del progressismo liberal all’interno, che portò ad oltre trecentomila soldati il contingente americano in una guerra come non mai direttamente guerreggiata. La stessa mano tesa di Nixon alla Cina arrivò contestualmente ad una serie di attacchi frontali contro il suo diretto alleato e protetto, il Vietnam del Nord, sempre in nome della difesa dei regimi liberi e della esportazione della democrazia stile occidentale. Da ultimo sarebbe arduo negare che la teoria della “ingerenza umanitaria”, sperimentata nel Kosovo ed esaltata da Tony Blair e da tutta la nuova sinistra al di qua e al di la dell’Atlantico come un “nuovo internazionalismo” volto alla difesa dei diritti dell’uomo ovunque minacciati, non avesse qualcosa a che fare con l’esportazione della democrazia e della libertà, così cara alla politica di Bush. * * * L’imperialismo liberale, che ha una dimensione essenzialmente ideologica in quanto mira a diffondere la democrazia ritenuta il migliore avamposto della sicurezza degli Stati Uniti e il più efficace presupposto della pace 5 internazionale, non nasce con i neoconservatori e non è una prerogativa di quello che viene ritenuto il più aggressivo ed estremista dei Presidenti dell’ultimo secolo. I Democratici Wilson, Roosevelt, Truman, Kennedy e Johnson non furono meno sensibili all’uso della forza nella difesa degli interessi e degli ideali americani. E la ragione di questa continuità, pur nella differenza dei contesti storici, sta con ogni probabilità nella eccezionalità della storia americana. LIBERAL - giugno 2003 | Torna agli articoli | Scrivete a [email protected] | 6