Storia dell`America del Nord - Appunti

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Lezione 1!
01/03/11
Le origini degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti nascono con la dichiarazione di indipendenza del 2 luglio 1776, resa pubblica il 4 luglio. Sono l’evoluzione
di un sistema coloniale preesistente e i valori di fondo che contraddistinguono la loro società sono soprattutto eredità del
colonialismo britannico e dello spirito dei padri fondatori.
Agli inizi del ‘500 prende il via la penetrazione coloniale nella zona caraibica dell’America centrale e lo scontro di civiltà
tra il modello europeo e quello delle grandi culture autoctone, Maya, Azteca e Inca. La lotta è impari, ad esempio
nell’assedio della capitale azteca Tenochtitlán gli spagnoli di Cortez ottennero una schiacciante vittoria malgrado la netta
inferiorità numerica, grazie all’uso in battaglia di cavalli, armi da fuoco e lame d’acciaio. Lo scontro è tra due civiltà che
non sono in grado di dialogare e il risultato per il modello più debole è devastante. Le popolazioni vengono soggiogate
dai regni di Spagna e Portogallo, che stabiliscono un modus vivendi relativo alla spartizione dell’America centromeridionale. Per la conquista dell’America settentrionale è necessario invece attendere un’evoluzione della capacità di
navigazione che avviene agli inizi del 1600.
Verso il Nord America non migrano avventurieri in cerca di successo, ma gruppi di moderni imprenditori che si rifanno
ad un modello culturale e religioso essenzialmente calvinista: provengono dalle isole britanniche o dall’area delle fiandre
e investono i loro capitali sulla base del credo riformato, per cui il successo terreno è sinonimo di benedizione divina. I
calvinisti esaltano il successo economico come chiave ideale del paradiso e ritengono che l’uomo di successo coincida col
buon credente e viceversa. Il Cristianesimo preesistente non dava la stessa importanza al successo personale, che anzi era
visto in qualche modo con diffidenza 1. In questo primo periodo si crea il valore cardine della società, che implica una
grande religiosità, e si crea quel moralismo fortissimo che caratterizza la vita politica americana e che si manifesta, ad
esempio, nella comparsa su ogni formato della valuta americana del motto «In God we trust» approvata nel 1956 dal
presidente Eisenhower. Le prime regole di convivenza della società americana subiscono per l’appunto l’influenza degli
integralisti calvinisti e i valori di fondo sono infatti: una famiglia numerosa, la profonda osservanza del credo religioso e
il perseguimento del successo terreno come segno di benedizione divina.
I padri fondatori, quelli che con il Mayflower arrivano alla foce del fiume Hudson e fondano New York, hanno questi
valori e sono un’impresa organizzata che arriva in America con una precisa intenzione di investimento economico,
portando con sé capacità finanziarie e tecnologiche molto sviluppate per l’epoca, totalmente distante da quello che un
centinaio di anni prima era lo spirito che muoveva i conquistadores spagnoli. La colonizzazione dell’America del Nord dà
una fortissima impronta al futuro di quelli che saranno gli Stati Uniti. Sulla East Coast si vengono a creare degli
insediamenti che si riconoscono sotto la sovranità della corona inglese, colonie con un loro governatore nominato dal re
inglese, lasciate in una gradevole condizione di autonomia che con un referendum nel 1700 affermano di essere fieri
sudditi di Sua Maestà britannica.
Il tema della sottomissione delle popolazioni locali è considerato una pagina buia della storia americana. La convivenza
con queste popolazioni risulta difficile alla fine del ‘700 perché pochi e deboli sono gli europei mentre molti e poco
organizzati gli indiani. Secondo alcune stime nel 1600 c’erano forse 5 milioni di esseri umani, una cifra ridicola in
rapporto alla vastità dell’America settentrionale. I rapporti sono difficili ma non impossibili: esistono episodi di
matrimoni misti e scambi commerciali, anche se rari.
Con la guerra dei 7 anni i francesi perdono qualsiasi controllo dell’America settentrionale e lasciano la scena
esclusivamente ai britannici; tuttavia da quel momento inizia anche il declino del ruolo dell’Inghilterra in quell’area. La
situazione delle colonie fino alla guerra dei 7 anni vede una realtà urbana molto rarefatta, la New York dell’epoca è una
città di 50-60 mila abitanti, e come attività prevalente l’agricoltura, già potenziale oggetto di forte scontro con le
popolazioni indigene che non la praticano e non concepiscono la proprietà della terra. Gli indiani infatti non praticano
l’agricoltura, ma vivono principalmente di caccia ai bisonti e allevamento.
1
infatti il Rinascimento è stato finanziato ampiamente da individui di religione ebraica
1
Le guerre anche se vinte possono comunque avere delle conseguenze catastrofiche: le spese della guerra con la Francia
sono devastanti per le casse della corona, che cerca di rivalersi sul sistema che controlla. Non c’è ancora un sistema di
democrazia tra stato e suddito, in Europa non esistono cittadini ma solo sudditi e sudditi sono anche coloro che vivono
oltremare. I coloni soggetti all’autorità di Sua Maestà britannica che fino a quel momento avevano goduto di ampia
autonomia con modeste imposizioni dal centro, a causa della guerra si ritrovano in tempi rapidi sostanzialmente
torchiati da tasse prima di allora sconosciute. Viene introdotta una tassa che riguarda il tè, vengono aumentate le tasse
sui macinati, vengono introdotte le marche da bollo sugli atti e viene stretta la morsa fiscale sul territorio. Un’altra
decisione presa da Londra che infastidisce profondamente è la cosiddetta legge sugli Appalachi, monti che delimitano la
fascia costiera orientale degli Stati Uniti. Si tratta di una legge sbrigativa, per evitare problemi, che vieta ai coloni di
espandersi a ovest degli Appalachi, quindi la colonizzazione interna del territorio, perché la percezione del Governo di
Londra è che i coloni sprechino troppe forze nei conflitti con le tribù, gravando sulle casse britanniche, e necessitino poi
di essere supportati attraverso l’invio di truppe e aiuti. Tutto ciò è vissuto con frustrazione dai coloni che miravano ad
appropriarsi delle terre di nessuno dell’area centrale. Un ulteriore inasprimento dei rapporti si ha quando, per
controllare meglio e tassare maggiormente i commerci da e per le colonie americane, viene emanata una legge che
impone che tutti i traffici commerciali passino attraverso i porti britannici. Ciò significa ad esempio che un carico di
tessuti provenienti dall’Italia non può più salpare da Genova alla volta di Boston, ma deve prima passare per
l’Inghilterra e solo in seguito partire. Questo implica un controllo totale del commercio e la possibilità di esercitare
pressione fiscale sulle merci. È una legge economicamente pesante che viene vissuta dai coloni come una terribile
imposizione.
La guerra d’indipendenza
Le grandi rivoluzioni non sono normalmente legate a cause diverse da quelle economico-finanziarie. La rivoluzione
americana cambia l’idea dello Stato prima della rivoluzione francese: le chiavi della Bastiglia furono donate a George
Washington dai francesi rivoluzionari, così come la Statua della Libertà dopo la guerra civile del 1865. Con la rivoluzione
vengono sovvertiti i valori di fondo di una società, e le motivazioni sono essenzialmente economiche. Per uscire dallo
sfruttamento inglese le colonie dovevano creare una nuova realtà che non permettesse l’esistenza di rapporti sudditostato come quelli che gli erano stati imposti fino a quel momento. In questa rivoluzione il proletariato non ha un ruolo
rilevante, è una rivoluzione di commercianti perché sono quelli più colpiti dalle misure britanniche e che hanno anche
dalla loro parte delle concrete disponibilità economiche e delle figure guida in grado di dare una dimensione ideologica
all’azione rivoluzionaria. La realtà economica americana è decisamente avanzata se un’attività definita del terziario, il
commercio, riesce ad avere un ruolo guida di un movimento rivoluzionario.
Da subito, aprile del ’75, la rivoluzione prende i connotati quasi di guerra civile, causando numerosi morti tra la
popolazione a causa della repressione britannica tipica dell’epoca che prevede il massacro degli insorti. Nel 1776 viene
promulgata la dichiarazione di indipendenza, che nasce come una dichiarazione di intenti, da parte delle 13 colonie, a non
identificarsi più in una realtà britannica. Fino al 1781 va avanti una guerra di liberazione non fatta di battaglie campali,
dato che le forze continentali non hanno un vero esercito ma delle milizie di contadini e cacciatori, ma basata su rapidi
scontri, imboscate, occupazione di villaggi, e in questo contesto una serie di episodi in cui gli inglesi perseverano nel non
riconoscere gli Stati Uniti porta questi ultimi ad uno slancio decisivo per una fine vittoriosa della guerra. In questo
contesto viene trovata la prima soluzione per un modello di convivenza interna del nuovo stato: si ipotizza un modello
confederale che porta alla stesura degli articoli di confederazione, regole per la collaborazione fra le tredici ex-colonie. Non
è infatti ritenuto scontato che le tredici colonie divengano un unico stato considerate le differenze che vi sono tra loro e,
dato che la priorità comune è quella di liberarsi della dominazione inglese, per il momento si cerca solo di trovare un
modus vivendi finalizzato ad una collaborazione momentanea, senza future ambizioni di stabilità. Forzare la stesura di un
regolamento definitivo avrebbe potuto infatti portare ad una spaccatura interna delle colonie. Prima che nascano come
stato organizzato bisogna aspettare il 1787 quando viene varata la Costituzione.
La guerriglia procede fino a quando gli inglesi, senza una vittoria statunitense vera e propria, si rendono conto che non
sono più nelle condizioni di sostenere ulteriori anni di guerra civile in America e nel 1783, con il ritiro britannico dopo
quasi un decennio di scontri, gli Stati Uniti vengono lasciati al loro destino e al duro dibattito che nasce da quel momento
fra le ex-colonie per darsi un ordinamento statale.
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Nel 1787 la paura che uno dei tredici stati possa prevalere sugli altri fa si che nessuna delle precedenti capitali di colonia
possa essere riconosciuta come capitale della federazione, per cui George Washington decide di donare le sue terre del
distretto della Columbia alla causa della federazione e viene fondata Washington, la nuova capitale. A Philadelphia,
capitale momentanea ai fini della conduzione del negoziato, nel 1787 viene promulgata la Costituzione degli Stati Uniti,
che ha lo scopo di creare un sistema di pacifica convivenza fra tredici entità profondamente diverse, fiere delle loro
peculiarità e convinte di non potere e di non volere essere sopraffatte dalle altre realtà.
È una costituzione figlia dei suoi tempi, che considera un nero come tre quinti di un bianco e in alcune parti è basata su
concetti obsoleti e assurdi, ma fatto salvo per questo, è una costituzione saggia che permette gli Stati Uniti di crescere a
dismisura fino al 2011 con solo una trentina di emendamenti. Dal 1791, con non più di una ventina di ritocchi, la
Costituzione americana è ancora forte e attuale.
I principi fondanti della costituzione americana sono:
- illuminismo. Fino ad allora era prevalsa l’idea che la teologia era l’unica forma di conoscenza, ma i padri fondatori
impostarono la Costituzione sulla ragione umana e sull’idea che l’uomo sia in grado di conoscere anche a prescindere da
Dio. Taluni sostengono che ciò sia dovuto al fatto che molti dei padri fondatori facevano anche parte della Massoneria.
- cambio di rapporti tra cittadino e Stato. Gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo in cui vi è una sostanziale
parificazione di ruolo e valore tra il cittadino e lo Stato, e forse per alcuni aspetti resta ancora abbastanza isolato. Non vi
è un rapporto di sudditanza e lo Stato è solamente il necessario insieme delle regole che impedisce ai cittadini di
comportarsi secondo il principio homo homini lupus di Hobbes. La Costituzione afferma inoltre che il cittadino può
essere giudicato solo da un collegio di suoi pari.
- il secondo emendamento stabilisce il diritto costituzionale al possesso e al porto d’armi. Come lo Stato ha diritto per la
pubblica utilità a mantenere una milizia armata, così i singoli cittadini hanno diritto di essere armati per potersi
difendere e tutelare.
- il Presidente è un coordinatore della vita pubblica, non ha poteri incontrollati e la sua carica non lo rende un cittadino
superiore agli altri, anzi, è assolutamente soggetto al controllo da parte delle Camere. Se il presidente commette un
reato al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni è stabilito che venga giudicato come qualsiasi altro cittadini,
mentre se lo commette nell’esercizio delle proprie finzioni scatta il meccanismo dell’impeachment. L’unico requisito per
l’elezione è che il candidato sia di origine statunitense. Inizialmente la costituzione prevede che il vicepresidente sia
semplicemente il secondo candidato più votato dagli Stati Uniti, dato che non esistono partiti politici e il voto è di
natura personale. Nel momento in cui si radicalizzano repubblicani e democratici, negli anni ’50 del 1800, si avvia la
prassi per cui il candidato presidente designa anche il suo eventuale vice.
- tripartizione dei poteri. Essendo figlia dell’illuminismo la Costituzione rispetta il principio cardine della tripartizione
dei poteri. Il potere esecutivo è attribuito al Presidente mentre, in assenza di indicazioni specifiche, egli stesso può
designare dei collaboratori per ricoprire gli altri incarichi. I ruoli si sono naturalmente definiti nella prassi, ma i ministri
non sono imposti dalla costituzione al presidente. La Costituzione vuole essere semplice e sintetica e lascia irrisolto il
problema, ricorrente nel corso del ‘800, della Corte Suprema: viene stabilito un sistema incrociato per cui i giudici
vengono nominati dal Presidente, ma con nomina a vita. Per quanto riguarda il sistema legislativo vengono trovati dei
compromessi per accontentare tutte le tredici componenti. Si istituiscono due camere con competenze specifiche e non
sovrapposte. Una camera dei rappresentati, il Congresso, i cui membri vengono eletti su base proporzionale alla
popolazione degli Stati e una camera, il Senato, i cui esponenti sono eletti secondo il principio della rappresentanza
paritetica per cui ogni Stato elegge due senatori. Le questioni delicate come la politica estera sono di competenza del
Senato, mentre le questioni economiche e finanziarie sono gestite dal Congresso, che decide anche lo stato di guerra.
- elezioni del presidente. L’elezione del Presidente si basa su un sistema complesso, maggioritario con correzioni
particolari, nel quale votano i cosiddetti grandi elettori. Questi sono i delegati che si riuniscono per eleggere il Presidente
degli Stati Uniti, sono eletti su base statale e il loro numero è pari alla somma dei senatori e dei deputati dello Stato
stesso. I grandi elettori sono attualmente 535, infatti i senatori sono 100 e i deputati 435. A questi si aggiungono tre
rappresentanti per il Distretto della Columbia in cui si trova la capitale Washington, i cui residenti non eleggono alcun
rappresentante al Senato e al Congresso. L'elezione del Presidente è quindi, tecnicamente, un’elezione di secondo
grado. I grandi elettori di ogni singolo Stato per prassi sono assegnati in blocco al partito che ottiene più consensi in
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quello Stato, ossia lo Stato intero viene dato al candidato che riceve più voti; ciò significa che il Presidente che verrà
eletto potrebbe non essere quello a favore del quale si sono espressi la maggioranza degli elettori statunitensi2. Se
nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta dei voti dei grandi elettori la scelta spetta alla Camera dei
rappresentanti. Dopo la morte di Roosevelt, che coprì quattro mandati, venne imposto il limite di due mandati per ogni
Presidente.
- elezione delle camere. Le elezioni delle camere sono a rotazione e si ha un’elezione suppletiva a metà del mandato, le
elezioni di medio termine, per il rinnovo delle camere, con la possibilità che il presidente si possa venire a trovare in
condizioni di minoranza politica. Si verifica così il cosiddetto governo diviso, che non ha maggioranza parlamentare
favorevole in una o addirittura tutte e due le camere. Tuttavia per quanto riguarda decisioni di un certo rilievo non
viene seguita una logica di partito e l’eventuale minoranza alle camere del Presidente non risulta eccessivamente
problematica.
La Costituzione non prevede alcun riferimento ai diritti della persona, essi sono dati talmente per scontati che vengono
introdotti solo nei dodici emendamenti, di cui solo dieci vengono ratificati, del 1791, il Bill of Rights. Il primo afferma la
tolleranza degli Stati Uniti nei confronti di tutte le religioni, stabilisce la non ingerenza dell’esecutivo in questioni
religiose e che il Presidente non può occuparsi di religione. La figura vista con maggiore sospetto in questo frangente è la
figura del Papa, perché ritenuto capace di un ruolo di ingerenza non solo sulle coscienze e sull’etica religiosa. Questa è la
ragione per cui un presidente come Kennedy avrà difficoltà a essere eletto, perché dichiaratamente cattolico.
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Questa ipotesi si è storicamente realizzata in alcune occasioni, l'ultima delle quali nel 2000 quando il candidato democratico Al Gore
ottenne circa mezzo milione di voti in più rispetto al candidato repubblicano George W. Bush, ma tali consensi erano distribuiti in
modo più uniforme sul territorio della Federazione così che il numero di grandi elettori democratici fu inferiore a quello dei
repubblicani.
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Lezione 2!
08/03/11
Libertà e Impero
La libertà è vero motore iniziale degli Stati Uniti, molto più del concetto di democrazia. Non si può mettere in dubbio che
quella nata alla fine del ‘700 sia una democrazia, ma non è la democrazia lo scopo prioritario e originario dei padri
fondatori; ad esempio, se si pensa alle modalità del diritto di voto all’inizio sono decisamente restrittive perché votano
solo gli uomini al di sopra di un certo livello di reddito. Tutt’ora il voto non è automatico, ma bisogna iscriversi e molti
non lo fanno. Più che il concetto di democrazia, quindi, è esasperato il concetto di libertà; libertà dell’individuo, libertà di
opportunità, di azione, di impresa. In linea teorica ciascuno, proveniente da qualsiasi origine, anche la più umile, può
“arrivare dove vuole”. Gli Stati Uniti sono dunque l’emblema della massima parità di opportunità, un vero e proprio
tempio delle pari opportunità.
La forma di Stato non può che essere quella federale. Nel momento in cui 13 entità decidono di convivere per il loro
sviluppo, progresso e sicurezza, ma presentano differenze sostanziali di costumi e cultura, non possono che scegliere la
via federale. Ciò implica l’esistenza di una sola sovranità internazionale, che sta nel governo centrale dello stato, ma
autonomie molto marcate. Sostanzialmente sono di competenza federale l’intero settore della difesa, della politica estera
e una parte della legislazione fiscale. Per quanto riguarda la legislazione penale viene scelta una via di compromesso, nel
senso che la maggior parte dei reati sono considerati di competenza dei singoli Stati, mentre alcuni reati ritenuti
particolarmente lesivi per l’intero sistema della federazione, sono considerati reati federali e vengono giudicati in base a
leggi federali.
Il rapporto tra centro e periferia, ossia il rapporto tra Federazione e Stati federati, sarà un tema difficile e irrisolto per
lungo tempo e porterà a quella dolorosa resa dei conti che sarà la guerra di secessione del 1861-1865; la guerra civile
rappresenta la vittoria dell’unità nazionale intesa in senso centralista, ossia con un complessivo prevalere degli interessi
centrali rispetto agli interessi periferici. Prevale la posizione che permette di mantenere e rafforzare lo Stato centralista.
Altra caratteristica degli Stati Uniti è la ferma determinazione a prendere le distanze dai giochi politici europei. Chi crea
gli Stati Uniti non vuole che questi siano preda di oscure manovre di gabinetti politici del vecchio continente e per
questo motivo, all’interno della Carta Costituzionale, vi è l’espresso divieto per il Presidente di stipulare alleanze di
qualsiasi tipo in tempo di pace. Viene specificato «in tempo di pace» perché se il congresso vota lo stato di guerra è
strumentale che il presidente si allei con chi è opportuno, ma quello che è vietato al presidente è impegnare
politicamente e forse militarmente il Paese in tempo di pace. Il divieto è forte, tanto che per prendersi la responsabilità
globale insita nell’Alleanza Atlantica dopo la II Guerra Mondiale, è necessaria una modifica costituzionale. Nel giugno
del 1948, con ampia maggioranza del senato, viene modificata la costituzione degli Stati Uniti.
Nel discorso sullo stato dell’unione del 1823 il presidente Monroe enuncia la cosiddetta dottrina Monroe 3, la quale riafferma
che ingerenze politico-militari dal vecchio continente alle Americhe, del nord, centro e sud, non sono gradite. Non a caso
ciò avviene nel 1823: è in corso l’indipendenza di tutta l’America Latina e gli americani del nord hanno capito che ne
faranno una loro appendice. Fino alla metà degli anni ’50, ad esempio, la funzione di intelligence per l’America centromeridionale da parte statunitense era svolta dall’FBI, che notoriamente ha funzioni di polizia federale interna. Tutto ciò
che avviene nell’area americana è di interesse primario dei paesi sovrani dell’area e, implicitamente, soprattutto degli
Stati Uniti d’America. Questi sono tutti criteri assolutamente non superati, ancora validi e vitali, sono caratteristiche
dell’origine degli Stati Uniti: il mito della libertà, una certa diffidenza nei confronti dell’Europa, la dottrina Monroe.
L’attenzione per i diritti umani è considerata inevitabile in un paese moderno come quello che i fondatori stavano
creando e quindi non sono presenti nella costituzione, ma sono contenuti nel Bill of Rights o Carta dei Diritti del 1791,
composto di 10 emendamenti che sanciscono le regole civili e riconoscono espressamente delle libertà, non solo ai
cittadini, ma a chiunque sia sul suolo americano. Si ritenne a Philadelphia nel 1787 che se si fosse inserita nella
costituzione anche la volontà di disciplinare i diritti umani si sarebbe perso troppo tempo; altre e più spinose erano le
priorità.
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elaborata in gran parte dall’abile segretario di Stato John Quincy Adams, che sarà poi a sua volta presidente
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Dall’inizio degli anni ’90
Il primo presidente fu inevitabilmente George Washington perché era stato l’unico in grado di mettere insieme
un’accozzaglia di ex-coloni e in qualche maniera gestirli come forza armata, considerando anche che dovette scontrarsi
con uno dei migliori eserciti del mondo. La capitale venne stabilita sulle sue terre, donate alla federazione e quindi
avulsa da tutte le 13 colonie preesistenti, anche perché nessuno avrebbe accettato che una già grande città divenisse
anche capitale degli Stati Uniti. Questa fu una scelta molto saggia perché qualsiasi grande città che fosse anche la capitale
sarebbe del tutto prevaricatoria sulle altre città americane; si preferì una “piccola” città che facesse solo da capitale.
La vita politica americana di fine ‘700 non prevede l’esistenza di partiti politici, ma è particolarmente attiva per via delle
individualità emergenti e delle lobbies che esse riescono a creare. Da subito si focalizza un bipolarismo fra due
personalità che diventano poi gli stereotipi dei due successivi partiti che si verranno a formare, in senso giuridico, negli
anni ’50 del ‘800. Queste due forti personalità, assolutamente contrastanti fra loro, sono Thomas Jefferson e Alexander
Hamilton, che incarnano le due diverse modalità di sviluppo degli Stati Uniti che si scontreranno nella guerra civile.
Thomas Jefferson. Sarà anche presidente. È il tipico uomo del sud 4, della Virginia, il che significa che è uno schiavista
convinto, anche se illuminato, sostenitore di quella che venia chiamata la «peculiare istituzione», perché il modo di
produzione del sud, agricolo e latifondista, richiede la presenza della manodopera servile. Sostiene la giustizia dell’avere
degli schiavi anche se afferma che questi vanno trattati umanamente. Afferma che il futuro degli Stati Uniti è lo sviluppo
essenzialmente agricolo, evitando assolutamente la concentrazione urbana perché sosteneva che «gli Stati Uniti hanno
bisogno di grandi città come il corpo umano ha bisogno di piaghe». Le grandi città sono qualcosa di patologico, vengono
intese come luogo di ammassamento, di inevitabile conflittualità e malessere per la popolazione. La sua visione del
rapporto tra periferia e centro, federazione e stati federati, è un rapporto fortemente autonomista e nettamente
favorevole alla periferia; egli non rinnega la federazione, ma sostiene che le competenze del governo centrale debbano
essere ridotte al minimo e che le 13 colonie debbano essere lasciate il più libere possibile.
I jeffersoniani sono all’epoca conosciuti come repubblicani, ma saranno poi, da metà ‘800, il partito democratico. L’idea di
sviluppo jeffersoniana, essenzialmente fondata sui valori e problemi dell’agricoltura, è particolarmente sentita e avallata
dove l’agricoltura è importante e quindi nel sud. Questa caratteristica, nel tempo, non rimane così ben definita.
Alexander Hamilton. Incarna il sogno americano della libertà e delle pari opportunità. Dall’area caraibica, non è di
nascita delle colonie britanniche, arriva a New York; lavorando riesce a studiare legge e diventa avvocato. Il suo mito è la
società delle tante opportunità, la vita urbana, il terziario; sostiene la concentrazione industriale nelle grandi città e per
meglio realizzare tutto questo ritiene indispensabili dei poteri centrali forti del governo. Lotta duramente a livello
politico per far nascere la Banca Centrale degli Stati Uniti, perché in molti non ne vedevano l’utilità, ma egli sosteneva
che doveva esserci una forte autorità monetaria centrale per disciplinare meglio la vita economica e finanziaria della
federazione. Sostiene quindi l’industria, i servizi, l’urbanizzazione e i poteri forti dello stato centrale. Riconosce il valore
dell’agricoltura, ma la vede anche come qualcosa di arretrato, che non farà fare un salto di qualità ai neonati Stati Uniti.
Gli hamiltoniani alla fine del ‘700 vengono definiti e si definiscono federalisti e saranno poi, da metà ‘800, il partito
repubblicano.
Quelle di Jefferson e di Hamilton sono due idee che si confrontano e quel confronto porterà alla guerra civile, che sarà la
resa dei conti fra i due modelli: un modello sostanzialmente agricolo e prevalentemente radicato nel sud, ed un modello
prevalentemente industriale sicuramente incarnato meglio nel nord.
La guerra di secessione e la schiavitù
La guerra di secessione non è una guerra per l’abolizione delle schiavitù, ma la schiavitù è strumentale soprattutto per la
propaganda, dato che è il simbolo del modello di sviluppo prevalente al sud. La schiavitù da subito va al centro del
dibattito; alcuni ne fanno anche una questione etica, ma prevalentemente al cittadino medio del nord la schiavitù
semplicemente non interessa, perché non è funzionale al modello di sviluppo della sua zona. Già dall’inizio del ‘800 gli
Stati Uniti firmano la convenzione per l’abolizione della tratta degli schiavi, ma ogni stato è libero di decidere se abolire
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il sud è un concetto socio-politico, non geografico [ad esempio il Delaware è uno stato “del sud” anche se geograficamente è nella
parte nord degli Stati Uniti, mentre la California che è situata nel sud è considerata uno stato nordista].
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o meno la schiavitù al suo interno. Ad inizio ‘800 gli stati del nord aboliscono la schiavitù semplicemente perché non gli
serve; a nord si sviluppa l’industria, l’operaio non può essere uno schiavo perché lo schiavo non ha le capacità per fare
l’operaio e perché soprattutto, passaggio durissimo, l’operaio è prima di tutto consumatore. Lo schiavo che non
guadagna, non consuma e non compra, quindi in un contesto industriale è inutile. Emblematica è l’affermazione del
presidente della guerra di secessione Abramo Lincoln, simbolo del partito repubblicano e del nord, che disse, con
lapidaria sincerità, “non mi importa nulla della schiavitù, mi importa tenere uniti gli Stati Uniti d’America”. Incarna
perfettamente la situazione, non ha nessun problema con la schiavitù, non la ritiene utile per il modello di sviluppo
futuro degli Stati Uniti, ma gli importa solo che questi rimangano uniti. Sarà strumentale all’unità degli Stati Uniti
abolire la schiavitù. La schiavitù verrà abolita soltanto con gli emendamenti del 1867, a due anni dalla fine della guerra,
perché non era l’obiettivo primario.
Modelli di sviluppo
I modelli di sviluppo che si scontreranno nella guerra civile sono:
- un modello essenzialmente legato al latifondo e alla monocoltura, cotone e/o tabacco;
- un modello che diventa rapidamente industriale.
- un terzo modello intermedio si ha nel momento in cui gli Stati Uniti si allargano al centro e si creano delle realtà
agricole di piccole/medie dimensioni dove lo sfruttamento della terra avviene a livello familiare, senza l’utilizzo di schiavi.
Questo modello si crea negli stati del mid-west, che allo scoppio della guerra di secessione si schierano con il nord.
Motivazioni della guerra
Tra le motivazioni della guerra vi è lo strangolamento del sud attuato dalle politiche economiche del nord. La maggioranza
della popolazione è nel nord perché si verifica un fenomeno di concentrazione urbana rilevante e la popolazione è quasi
tripla rispetto a quella del sud. Salvo il senato, dove ogni stato manda due rappresentanti, al congresso la rappresentanza
è proporzionale al numero di abitanti e le politiche economiche sono per lo più oggetto del congresso. Strumentale ad un
rapido sviluppo di un sistema industriale ed economico è una politica protezionista, perché crea una situazione di quasi
monopolio. La politica governativa degli Stati Uniti per tutto l’800 sarà fortemente protezionista, con dazi alle
importazioni elevatissimi; l’agricoltore del sud o del mid-west è quindi praticamente costretto a comprare i prodotti del
nord e a vendere i suoi esclusivamente al nord.
Un altro problema tra centro e periferia che crea grosse tensioni sono le competenze della corte suprema. La corte suprema è
prevista dalla Costituzione, che tuttavia non ne specifica i compiti. Già dagli inizi del ‘800 ci sono una serie di violente
controversie giuridiche sulle competenze di questa corte. In particolare c’è una competenza che è vitale: in caso di
presunta incostituzionalità di una legge interna di uno stato, la sentenza di costituzionalità o di incostituzionalità spetta
a una corte dello stato o alla Corte Suprema degli Stati Uniti? Attribuire ad una corte statale l’autorità per decidere della
costituzionalità di una legge significa attribuire ai singoli stati un potere enorme; il contrario significa accentrare. Intorno
alla fine degli anni ’30 prevale il principio che il controllo sia della Corte Suprema e gli stati del sud vedono privare le
proprie corti di questo potere.
Altro motivo di forte frizione è l’estradizione obbligatoria degli schiavi fuggiaschi che negli anni ’50 sarà un problema
grandissimo tra i vari stati. Se uno schiavo scappa in uno stato nordista gli stati sudisti pretendono che venga
immediatamente restituito per essere condannato, mentre molti degli stati nordisti non accettano questo automatismo.
Allargamento
Gli Stati Uniti nascono in 13 e arrivano a 50 in seguito ad un evidente allargamento. Vi sono due diversi “canali” di
allargamento: uno è l’ampliamento legato all’acquisizione di terre di nessuno, l’altro è l’allargamento in seguito
all’acquisizione di altri stati.
- Allargamento di “tipo 1”: acquisizione di terre di nessuno. Ciò che viene definito dai latini res nullius, cosa di nessuno, è
oggetto di appropriazione a titolo originario da parte di chi ne rivendica per primo il possesso. Questo allargamento
avviene non sulle coste, che sono già state colonizzate, ma nella fascia centrale che non era stata ancora rivendicata da
nessuno. Ovviamente questo è possibile se con il concetto di res nullius si intendono territori sui quali nessuno ha posto
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una sovranità statale, perché le popolazioni autoctone non hanno un sistema statuale con il concetto di sovranità
occidentale. Per queste occupazioni non è necessario un conflitto con altre entità statali.
- Allargamento di “tipo 2”: acquisizione di altri stati che a sua volta si divide in due tipologie, l’acquisizione per acquisto o
compravendita di territori e l’acquisizione con la guerra.
Gli Stati Uniti si allargano perché è nella loro natura, ne hanno la capacità e l’opportunità. Matura in loro un complesso
senso quasi di destinazione divina che dà loro una forza quasi missionaria nell’ingrandirsi.
Viene stabilito già dalla fine del ‘700 il criterio per l’acquisizione di nuovi territori; nuove terre che vengano a chiedere
l’annessione come nuovi Stati della federazione devono passare attraverso una fase intermedia, quella della costituzione
in «territorio». Ciò significa che se un gruppo di cittadini statunitensi dalla costa est si addentra nel mid-west e si
stabilisce in una certa area, che è res nullius, deve prima costituirsi in territorio, ossia realizzare un’entità locale di almeno
6.0000 abitanti dimostrabili con censimento che si dotano di istituzioni civili e democratiche5 . Quando il territorio chiede
poi l’ammissione viene controllato dal governo degli Stati Uniti per alcuni anni, perché ci sia una certa garanzia di
efficienza e democraticità, finché giunge il nullaosta del governo centrale che riconosce la formazione di uno Stato
americano. Anche nel periodo di transizione i cittadini che risiedono nel territorio sono comunque cittadini statunitensi,
senza alcuna differenza con quelli residenti negli Stati. In molti casi lo status di territorio può essere conservato per lungo
tempo, ad esempio le Hawaii sono territorio americano dagli anni ’50 del ‘800 e diventano stato nel 1959, l’Alaska è
comprata dalla Russia nel 1867, diventa il territorio dell’Alaska e nel 1959 con le Hawaii diventano gli ultimi due Stati ad
accedere alla federazione. Più o meno tutto il mid-west passa attraverso questa via.
Allargamento tramite relazioni internazionali
Il primo allargamento, per altro enorme, è la Louisiana. Nel 1800 la Louisiana è un vastissimo territorio, più grande di
tutte le 13 colonie originarie, scarsamente popolato, conteso da secoli da francesi e spagnoli e Napoleone, necessitando di
fondi per finanziare le sue campagne, decide di venderla. Ciò suscita un intenso dibattito a Washington se sia etico o
meno comprare delle terre e, di conseguenza, le persone che vi abitano. Il prezzo era relativamente vantaggioso, 15
milioni di dollari, e gli Stati Uniti decidono di acquistare il territorio della Louisiana, che di lì a qualche anno diventa
Stato della Louisiana, 14° Stato della federazione. Per puro caso si realizza un equilibrio di 7 Stati del sud e 7 Stati del
nord, che hanno già abolito o stanno abolendo la schiavitù. C’è una situazione di equilibrio tra le due diverse posizioni
politico-sociali che si tenta di mantenere il più a lungo possibile. Il primo scossone si ha nel 1820 quando il territorio del
Missouri è pronto per diventare uno Stato, ma vuole entrare come stato sudista. Si ha un momento di enorme tensione
per la possibile fine dell’equilibrio ritenuto talmente prezioso che al Congresso si negozia un compromesso, che passa
alla storia come Compromesso del Missouri, con il quale si inventa un nuovo stato nordista. Dal Massachusetts viene
scorporato un piccolo Stato, il Rhode Island, esclusivamente per mantenere l’equilibrio. Si stabilisce inoltre un criterio
geografico per il quale nessuno Stato che entri a nord del 38° parallelo, che è quello che delimita in parte lo Stato del
Missouri, potrà mai entrare come stato sudista. Si va avanti sul compromesso del Missouri per decenni perché si creano
tanti territori, ma nessuno ha fretta di farli diventare Stati perché inevitabilmente ci sarebbe uno squilibrio. Nel 1844 sono
ormai maturi due nuovi territori, quello del Kansas e quello del Nebraska, e non si trova soluzione se non quella di
ammettere che ogni nuovo accesso alla federazione avverrà come Stato nordista o come Stato sudista (in realtà all’epoca
erano definiti stati schiavisti o stati non schiavisti) in base a referendum popolare; questo fa saltare il sistema
dell’equilibrio. Questa nuova prassi viene ufficializzata con il Kansas-Nebraska Act del 1844. Lo squilibrio durerà poco
perché a breve scoppierà la guerra civile, procurata anche dal Kansas-Nebraska Act che accelererà nel sud la sensazione
di essere prevaricati dagli Stati del nord dato che Kansas e Nebraska sono Stati che entrano come non schiavisti.
L’allargamento non è quindi solo un problema di acquisizione territoriale, ma è il tentativo di mantenere una situazione
di equilibrio tra i due modelli di sviluppo.
Guerra con gli inglesi del 1812-1815
Gli Stati Uniti ritengono che gli inglesi siano talmente presi dalla guerra con Napoleone che non saranno in grado di
occuparsi della scena d’oltreoceano e che quindi potranno avere un’occasione, se non di occupare il Canada, almeno di
5
non è specificato, ma è implicito che ciò significhi dotarsi di un’assemblea legislativa, di un governatore, di uno sceriffo che applichi la
legalità, ecc.
8
ottenere delle concessioni dai territori canadesi. Questa valutazione risulta errata. Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla
Gran Bretagna e gli inglesi sbarcano e danno il via alla guerra del 1812-’15, durante la quale bruciano anche la Casa
Bianca, ma sostanzialmente non vince nessuno dei due schieramenti. Gli inglesi si ritirano firmando un trattato di pace
che lascia la situazione inalterata rispetto all’inizio del conflitto, ma in questa guerra si comincia a creare la capacità
militare degli Stati Uniti e si crea il mito di Andrew Jackson, ardito generale che diventa il simbolo della nascente
capacità militare americana. Negli anni ’30 sarà il simbolo del presidente guerriero.
Nel 1819 Andrew Jackson occupa militarmente l’ampio territorio spagnolo della Florida che diventerà territorio degli
Stati Uniti. La terza grande acquisizione di territori da altri Stati avviene alla metà degli anni ’40 del ‘800. Il Messico
controlla un’ampia parte dell’attuale territorio degli Stati Uniti, quello che all’epoca veniva chiamato Nuovo Messico e
che corrisponde essenzialmente agli attuali Texas, Nevada, New Mexico e Arizona. All’interno del Texas comincia, già
dagli anni ’10 e ’20, un forte movimento di ribellione e rifiuto nei confronti dell’autorità messicana, latente e inefficiente. I
texani vogliono l’indipendenza dal Messico, ma nel corso degli anni ’30 questo indipendentismo si trasforma
progressivamente in un “annessionismo” agli Stati Uniti. Si crea una ribellione su vasta scala con continui episodi di
irredentisti texani che agiscono contro il governo messicano. Un episodio più vistoso degli altri diventa uno dei grandi
momenti simbolici della vita politica degli Stati Uniti: l’episodio di Alamo 6. È il tentativo di un gruppo di irredentisti di
resistere a soverchianti forze mandate dal governo messicano per prendere il controllo del territorio. Diventa
particolarmente simbolico perché vengono uccisi tutti non accettando alcuna ipotesi di resa e tra loro c’è anche un uomo
del congresso, Davy Crockett. È un atto forte, simbolico ed eroico che segna la fine per il Messico perché se fino a quel
momento l’onda irredentista riguardava solo alcune fasce della popolazione, il massacro7 di Alamo fa insorgere
l’opinione pubblica texana che in tempi brevissimi riesce a mettere insieme una forza armata motivata e nel giro di
qualche settimana spazza via le forze messicane dal territorio guidata da Sam Houston. Il Texas si libera da solo dai
messicani e chiede immediatamente, nel 1836, l’annessione agli Stati Uniti ma per alcuni anni resta un territorio
indipendente per evitare un ulteriore conflitto con il Messico. Cambia il clima politico all’interno degli Stati Uniti e a
metà degli anni ’40, durante la presidenza Polk, si decide di procedere con una guerra contro il Messico perché senza di
essa quei territori non potranno essere incorporati. Si avvia così la guerra del 1845-’48 durante la quale gli Stati Uniti
occupano facilmente anche la capitale e costringono il Messico a firmare il trattato di Guadalupe Hidalgo con il quale
accetta l’annessione agli Stati Uniti del territorio del Texas e dei territori del nuovo Messico. Il sud-ovest degli Stati Uniti
viene acquisito con la vittoria contro il Messico entro la metà del ‘800. Viene annessa anche l’ex-colonia spagnola della
California; praticamente tutto il sud e la fascia costiera ovest vengono strappati o negoziati dal Messico e dalla Spagna,
che a quel punto rimane, nell’area dell’America centrale, padrona esclusivamente di Cuba.
Nel 1867, finita la guerra civile con il trionfo degli unionisti, la Russia era bisognosa di soldi e vende l’Alaska agli Stati
Uniti. L’Alaska resta però territorio fino al 1959, come le Hawaii, regno indipendente fino alla metà del ‘800 che all’inizio
degli anni ’90 viene dichiarato territorio degli Stati Uniti senza alcuna opposizione a livello locale.
Tutto ciò rientra nella categoria delle acquisizioni per il completamento del territorio tramite attività internazionali, che
possono essere compravendite o guerre.
Allargamento tramite acquisizione di Res Nullius (epopea del West)
La conquista dei territori interni è stata decisamente sanguinosa. Sotto un profilo storiografico, fino agli anni ’50 o ’60 del
‘900 è prevalsa una corrente interpretativa di questi eventi assolutamente di parte, nel senso governativo del termine, per
cui i nativi venivano considerati esseri sanguinari in contrasto con i bianchi portatori di civiltà e questo è andato avanti
finché non sono state istituite le riserve8. Nel 1968 si ha un’inversione di tendenza e si passa a un iper-revisionismo per
cui si arriva a sostenere che i nativi “erano angioletti e noi li abbiamo massacrati”. Emblematico per questo è il cinema:
da “Ombre rosse” di John Ford (1939) in cui gli indiani suscitano paura, si passa a “Soldato blu” (1970) e “Balla coi
lupi” (1990). Ad oggi gli Stati Uniti non hanno ancora metabolizzato quell’esperienza.
6
detto Forte, in realtà è una missione
7
6.000 regolari dell’esercito messicano contro 185 uomini
8
ad oggi è reato federale uccidere un nativo americano mentre non è reato federale l’assassinio di un cittadino americano di altra etnia,
quasi fossero una specie protetta
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Lezione 3!
15/03/11
I primi ad essere occupati sono i territori costieri. La conquista del west non è considerata tale durante il suo svolgimento:
solo dal 1890, quando gli Stati Uniti si erano già sostanzialmente equiparati alla loro conformazione attuale, si considera
conclusa, con saggi e articoli che introducono a posteriori nella mentalità americana il mito della frontiera. Quello della
frontiera è un concetto tra il geografico e l’immaginario che gli statunitensi hanno progressivamente spostato a ovest
arrivando a congiungere le due coste oceaniche. I caduti fra i coloni durante questa espansione furono molti, ma molti di
più furono i caduti fra i nativi, sterminati dalle armi, dall'alcool e dalle malattie portate dai coloni. Il contrasto con i
nativi nasceva soprattutto dal fatto che questi non accettavano che le terre fossero spartite tra proprietari e recintate, in
quanto non riconoscevano l'istituto della proprietà privata.
È l'evoluzione tecnologica, e in particolar modo quella ferroviaria, a permettere una colonizzazione dell’area centrale del
nord America. La spinta finale alla conquista avviene dopo la guerra di secessione con la costituzione delle linee
ferroviarie coast to coast, la prima è del 1867, per portare in tutti gli Stati Uniti operai con le famiglie e militari. Per
permettere la costruzione di ferrovie fu anche attuato un sistematico sterminio di bisonti, dai quali i nativi traevano il
loro benessere in modo quasi esclusivo: tende, corde degli archi, calzature e vestiti erano tutti derivati del bisonte. Tale
disastro ecologico è visto quindi come profondamente ingiusto dai nativi, che dai bisonti traevano in modo quasi
esclusivo il loro sostentamento e si creano quindi nuovi motivi di frizione con i bianchi. Le armi da fuoco venivano usate
sia dai coloni sia dalle tribù native, entrambi riforniti da trafficanti senza scrupoli. Alcune tribù commisero poi l’errore di
schierarsi durante la guerra di secessione, alcune con il Sud e altre con il Nord. Dal termine della guerra nel 1865 i
nordisti vincitori rafforzano il centralismo e portarono avanti per anni violente spedizioni militari contro gli indiani. Tra
il 1870 e il 1880 tutti i nativi sopravvissuti vengono infine condotti nelle riserve controllate dagli statunitensi. Persino le
sconfitte militari, come quella di Little Big Horn, furono enfatizzate per creare il mito dell'eroismo americano. Proprio
alla fine dell'Ottocento gli Stati Uniti si aprono ad un'autonoma politica estera, quando i pericoli secessionisti sono stati
repressi e i nativi sono stati sconfitti. La politica estera statunitense fu strettamente legata a logiche di tipo commerciale.
La guerra di secessione
Dopo il compromesso fallito tra Sud e Nord, il dibattito sulla schiavitù fra gli stati si accende con maggior vigore. Nel
1820 si tenta la via della mediazione, con il Compromesso del Missouri, fra stati con modelli socio-economici
completamente diversi; quando però l'equilibrio si spezza, c'è il riconoscimento dell'anarchia per quanto riguarda
l'adesione degli stati a uno degli schieramenti. Con il Kansas Nebraska Act si demanda la presa di posizione per Sud o
Nord a referendum popolari. Si registra una prevalenza degli stati del Nord e il Sud, temendo di venire schiacciato dalla
prevalenza del modello economico del Nord, opta per la secessione.
Nasce il partito repubblicano formato dagli ex-federalisti hamiltoniani e visto come il partito del Nord, mentre il partito
democratico era formato dagli ex-jeffersoniani e difendeva gli interessi dei latifondisti del Sud. Quando nel 1860 alle
elezioni vince un poco noto esponente del partito repubblicano, Abraham Lincoln, al Sud si pensa a un tracollo dello
stato in senso sfavorevole ai latifondisti. Questa percezione è scorretta in quanto Lincoln non ha un programma molto
dettagliato ed è disinteressato alla schiavitù, interessandosi solo di mantenere l'unità nazionale. Il casus belli si verifica
quando nella primavera del 1861 un forte unionista, Fort Sumner, è in attesa di rifornimenti, ma le autorità del South
Carolina si rifiutano di far arrivare i rifornimenti come forma di protesta contro il Nord. Lincoln inizia un braccio di ferro
con il governo del South Carolina che tuttavia non risolve la questione e per questo il Presidente ottiene dal Congresso
l’autorizzazione a forzare il blocco e a rifornire in questo modo il forte. Nell'aprile del 1861 il South Carolina proclama la
secessione e il suo esempio è seguito di lì a poco da tutti gli stati schiavisti che si riuniscono in una confederazione, che
prevede legami molto più blandi, quasi minimi, rispetto alla federazione. I legami sono minimi ma resi forti dalla
volontà di separarsi dal sistema Stati Uniti nel quale il Sud non riesce più a riconoscersi e che non è più considerato
portatore dei suoi interessi.
Le forze a confronto
I numeri sono schiaccianti a favore del Nord (21 milioni di cittadini dell'Unione contro 7 milioni di confederati) e tutta
l'industria statunitense è in mano agli unionisti. Inizialmente il Sud, avendo buoni comandanti militari, riesce ad
ottenere una serie di brillati vittorie militari, ma non tali da piegare la resistenza del Nord, che mette in moto il suo
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impressionante complesso industriale e prevale dopo quattro anni di battaglie durissime nel 1865. L'Inghilterra prende
posizione a fianco dei confederati inviando forniture militari e istruttori, mentre la Francia di Napoleone III sostiene gli
unionisti, affinché il paese che aveva ispirato la presa della Bastiglia riuscisse a sopravvivere a quel grave momento di
minaccia e disgregazione. La componente internazionale non è però determinante. La guerra di Secessione è ritenuta un
primo chiaro esempio di conflitto dell’era moderna. Modernità in termini distruttivi e di condotta delle operazioni: si
capisce che bisogna fiaccare la capacità di resistenza della controparte, colpendo popolazioni civili, industrie, raccolti. È
moderna perché ci sono relativamente rapide capacità di movimento tramite ferrovie ben consolidate. Vengono utilizzati
nuovi modelli di comunicazione quali il telegrafo. Si ricorre per la prima volta a navi corazzate, alle artiglierie sui treni e
ai sottomarini. Si adottano nuovi armamenti quali le mitragliatrici e le armi si trasformano nel corso della guerra
dall’avancarica alla retrocarica. È una grande guerra condotta senza esclusione di colpi che provoca vastissime perdite:
quasi 700.000 morti e almeno il doppio tra mutilati e feriti gravi su una popolazione complessiva di 30 milioni di abitanti.
Nel 1863 l’Unione tenta di accelerare la fine delle ostilità cercando di frammentare il fronte confederato emanando la
legge di emancipazione, secondo la quale agli stati del Sud che decidessero di deporre immediatamente le armi sarebbe
concesso il mantenimento della schiavitù, mentre negli stati che continuassero con la guerra sarebbe immediatamente
abolita. I confederati tuttavia non accettano. Nell'aprile del 1865 si ha la resa incondizionata dei confederati con l'inizio di
una difficile transizione pagata a caro prezzo dallo stesso Lincoln che viene assassinato dopo due settimane dalla fine
della guerra dal fanatico sudista John Wilkes Boot. Il riassorbimento della guerra è ad oggi in via di evoluzione e un'idea
di sopruso da parte del Nord è ancora viva in alcune fasce della popolazione del Sud.
La ricostruzione e l’integrazione razziale
Inizia un'operazione di stabilizzazione tramite l’occupazione militare degli stati del Sud e la rimozione dalle posizioni di
comando di tutti i governanti confederati. Ci vorranno 12 anni prima che l'occupazione finisca e che i notabili del sud
possano nuovamente ricoprire mandati istituzionali.
Dal punto di vista sociale vengono varati nel 1867, a due anni dalla fine della guerra, il 13°, 14° e 15° emendamento che
introducono una forte spinta verso la parificazione interna degli Stati Uniti, verso l'eliminazione della disuguaglianza
personale e la schiavitù viene dichiarata illegittima, ma non esiste una presa di posizione giuridica per gestire la nuova
società americana. Non viene attuata nessuna disposizione specifica a tutela degli schiavi liberati, persone analfabete che
si ritrovano improvvisamente a passare da un sistema di vita in cui erano protetti e nutriti a un sistema in cui sono liberi
ma vivono in miseria. Si assiste a una selvaggia urbanizzazione perché si diffonde l’idea che andare a vivere nelle
periferie delle grandi città dia più possibilità di sopravvivere. Gli ex-schiavi sono manodopera non qualificata,
difficilmente trovano lavoro e si crea una massa straordinaria di sbandati, indifferente al nord e malvista negli stati del
sud, nei quali la popolazione non li accetta come suoi pari. Per di più la ritrovata capacità di azione politica dei paesi exconfederati viene vissuta come mezzo per creare degli ostacoli giuridicamente accettabili alla parificazione degli schiavi
liberati. Gli stati del sud inventano dei criteri inoppugnabili, perché apparentemente non discriminanti, per impedire il
voto agli ex-schiavi. Ad esempio per potersi iscrivere alla lista elettorale dovevano dimostrare che anche gli antenati
avevano votato e servivano criteri di alfabetizzazione, il ché escludeva automaticamente gli ex-schiavi. Viene inoltre
introdotto il criterio del reddito perché il vero cittadino negli Stati Uniti è quello che paga le tasse, quindi serve una certa
soglia contributiva per meritare di votare. Questo tagliava fuori qualche bianco ma soprattutto impediva a tutti gli exschiavi di accedere al voto. Tutto ciò rientra nel cosiddetto gioco della legalità; la legalità si presta a utilizzi specifici, il
peggio si riscontra dove si cercano scappatoie illecite per tenere “al loro posto” gli ex-schiavi. Nascono violente
associazioni razziste come il Ku Klux Klan che compiono attentati contro gli afroamericani con la connivenza di poliziotti
e giudici degli stati del sud. Questi sentono la necessità di far loro capire che non sono allo stesso livello dei bianchi. Il
matrimonio misto rimane vietato e se un afroamericano “molesta” una donna bianca può essere picchiato o addirittura
ucciso; alla fine del ‘800 era normale tutto ciò, e difficilmente un giudice di una corte del sud avrebbe emesso una
sentenza di condanna nei confronti di cittadini bianchi che avessero linciato un uomo di colore, anche perché ci
sarebbero state ripercussioni per i giudici stessi in caso di sentenza a favore di un afroamericano. La società americana
successiva all’abolizione della schiavitù rimane una società estremamente segregata sotto il profilo razziale e gli stati del
sud purtroppo derogano ampiamente alle disposizioni costituzionali.
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Nel corso del 1900 ci saranno lotte feroci per superare l’emarginazione, che ad oggi non è del tutto superata. Dato che
ormai la legge lo consente, essendo stata eliminato il principio equal but separate che parificava l’istruzione mantenendo
tuttavia scuole separate per bianchi e afroamericani, nel 1957 in un liceo di Little Rock, capitale dell’Arkansas, si
iscrivono alcuni ragazzi di colore e per garantire le lezioni per alcuni mesi il presidente Eisenhower è costretto ad inviare
la guardia nazionale a presidiare la scuola; i genitori dei ragazzi non volevano assolutamente che ragazzi di colore
andassero a scuola con i loro figli. L’eliminazione della segregazione razziale è stato qualcosa di terribilmente sofferto
negli Stati Uniti: Martin Luther King, profeta della non violenza e della parificazione, viene ucciso; i Kennedy vengono
uccisi, probabilmente per un loro eccesso di modernismo nella parificazione razziale, soprattutto per Robert. In una
prospettiva di pariteticità di diritti non era difendibile il modello della schiavitù, ma per passare dalla società schiavista
alla società integrata serviva una sforzo enorme e per certi aspetti mai del tutto completato. Ancora durante la II Guerra
Mondiale c’erano reparti di colore con ufficiali bianchi e la prima integrazione si ha con la guerra del Vietnam. Gli
afroamericani vengono pienamente integrati nella società americana solo negli anni '70 del ‘900. Significativo è il fatto
che, durante la Prima Guerra del Golfo, Colin Powell sia Capo di Stato Maggiore.
La nascita di una grande potenza
La guerra di secessione fu il più luttuoso evento della storia degli Stati Uniti, tuttavia numerosi studiosi sostengono che
senza il superamento della schiavitù gli Stati Uniti non avrebbero potuto divenire una grande potenza. Il bagno di
sangue che uccide più cittadini statunitensi di tutte le altre guerre a cui hanno preso parte nella storia è comunque stato
un passaggio indispensabile per la modernità: spazzò via ogni eccesso autonomistico dal paese aprendo la strada ad un
governo centrale forte, mentre una vittoria confederata avrebbe dato vita a uno stato incentrato su di un modello
ingiusto come quello basato sulla schiavitù.
Gli Stati Uniti, completata l’unità nazionale, alla fine degli anni ‘90 del’Ottocento sono pronti al decollo, e in questo i
fratelli Wright e il loro storico volo nel 1903 sono stati un simbolo. I primi anni del ‘900 sono anni di straordinaria crescita
economica e le città sono sempre più metropolitane. Il paese è all’avanguardia in tutti i settori produttivi ed è la massima
potenza nella produzione del carbone e dell’acciaio, secondo i criteri quantitativi dell’epoca. Il telefono è già largamente
diffuso e l’automobile di lì a poco sarà un bene di massa perché viene improntato il primo modello di automobile
industriale prodotto su catena di montaggio, la Model T della Ford.
Se gli Stati Uniti stanno per decollare come grande potenza è perché sono evoluti in tutti i settori della produzione e
della ricerca scientifica, tecnologica ed economica. Anche lo sviluppo del terziario è stato notevole e dispongono infatti di
un rodato sistema di assicurazioni e banche. Sono momenti di crescita quasi inarrestabile. Tuttavia sono molto arretrati
per quanto riguarda la legislazione sociale e la protezione dei lavoratori e degli svantaggiati, mentre purtroppo spopola
lo sfruttamento. Il lavoratore non ha diritti e la prima legislazione sociale, sempre peggiore rispetto a quelle europee,
arriva con il New Deal. I sindacalisti sono visti con sospetto, non c’è tutela sindacale di nessun tipo ed è chiaro che la forte
crescita del paese è dipesa anche dall’ignorare i diritti fondamentali dei lavoratori.
Imperialismo americano?
Alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti sono nel pieno della loro crescita e cominciano a guardare oltre, alla politica
mondiale. Qui sorge una problematica di fondo: si stanno avviando a costituire scientemente un loro impero? Non è una
domanda di facile risposta.
Se per disegno imperiale ipotizziamo il controllo e l’assoggettamento di vaste zone del pianeta e con conseguente
annessione al territorio degli Stati Uniti la risposta è no, il modello coloniale non si addice agli Stati Uniti, soprattutto in
quanto ex-colonia. Questi saranno infatti un paese guida nella decolonizzazione dopo la II Guerra Mondiale.
La politica estera statunitense è indirizzata esclusivamente a fini commerciali e finanziari, mira ad esportare il proprio
modello e soprattutto ad intessere rapporti commerciali che difende anche con basi militari dislocate in quasi ogni paese.
Quello americano è dunque un imperialismo subdolo, molto diverso dai precedenti esempi di imperialismo quali quello
dell'antica Roma.
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Lezione 4!
22/03/11
Con la fine del XIX secolo gli Stati Uniti si aprono alla grande politica globale, se poi coscientemente abbiano voluto
programmare un loro ruolo imperiale è complesso a dirsi. Se per impero si intende l’acquisizione di colonie a diretto
controllo territoriale la risposta è ovviamente no, gli Stati Uniti non diventano una potenza tecnicamente colonialista in
quanto sono loro stessi ex-colonie; esistono però senza ombra di dubbio altri mezzi per essere una potenza imperialista.
Nel momento in cui si riesce ad imporre un modello economico, culturale, sociale, ad avere basi commerciali ovunque, il
più potente apparato militare del pianeta, ecc., è ovvio che si possa esercitare un ruolo imperiale anche se non si ha
l’intenzione di essere un conquistatore di terre altrui.
Inizio dell’influenza internazionale
Il primo passo verso una politica estera americana è la guerra contro la Spagna svoltasi nel 1898 a Cuba, dove il governo
del viceré spagnolo era malvisto dalla popolazione e dove agiva un movimento di guerriglia indipendentista. Negli Stati
Uniti scatta un misto di missione divina di modernizzazione e democratizzazione dei popoli del mondo, che può portare
alla degenerazione di essere convinti di poter esportare ovunque la democrazia, assieme a elementi economici reali e
l’intenzione di mandare via la Spagna dalle colonie americane. Il casus belli si ha nel 1898 quando una nave statunitense
ormeggiata al porto dell'Avana esplode, la Spagna viene accusata di non aver tutelato il naviglio statunitense e le viene
dunque dichiarata guerra. I ribelli locali si uniscono agli Stati Uniti che in breve tempo costringono alla resa la malridotta
guarnigione spagnola e ottengono il ritiro della Spagna anche da Porto Rico, da Guam e dalle Filippine. Con la guerra
del 1898 gli americani privano gli spagnoli di Cuba, ma decidono di non annetterla al loro territorio, anche se interessa
loro perché economicamente ricca di zucchero e frutta. Per quanto riguarda gli altri tre territori ottenuti durante le guerra
ispano-americana, Porto Rico e Guam diventano di fatto territori statunitensi e a tutt'oggi sono ancora territori soggetti al
governo degli Stati Uniti, ma non sono mai stati riconosciuti come Stati. Per quanto riguarda invece l’arcipelago delle
Filippine, potevano diventare uno stato degli Stati Uniti, ma si scelse di non farlo perché erano troppo lontane,
indifendibili. Diventano così un governatorato in prospettiva di una futura indipendenza perché le Filippine di inizio
‘900 non sono ritenute in grado di sostenere una vera indipendenza. La visione non è quindi coloniale. Le Filippine
rappresentano un serio banco di prova per la capacità militare degli Stati Uniti perché è presente una forte resistenza
nazionalista locale, all’epoca di nessuna matrice religiosa. Questi gruppi stanchi della dominazione straniera
combattevano già contro la Spagna, ovviamente con metodi di terrorismo, di guerra asimmetrica, e quando arrivano gli
americani vengono percepiti a loro volta come dominatori stranieri e quindi ci sono lunghi anni di feroce guerriglia e
contro-guerriglia che costa agli americani più di 5.000 morti. Tra il 1899 e il 1913 portano avanti una grave operazione
militare nella quale si rendono conto dell’inadeguatezza del loro dispositivo militare. È una lezione, quella filippina, di
cui gli Stati Uniti sanno fare tesoro; vengono istituite una serie di commissioni militari e politiche che studiano la
situazione per avere ragione della guerriglia filippina, rivedono profondamente aspetti tecnici riguardanti l’armamento
delle forze armate e si accorgono che non hanno capacità evolute di comando. Si accorgono che non sono efficienti e che
se ci sono delle vere difficoltà non sono in grado di affrontarle correttamente. C’è dunque il fiorire e il rafforzarsi di tutto
l’apparato di studi militari del paese e delle accademie militari.
Questo permette agli Stati Uniti di entrare poi nella I Guerra Mondiale con un apparato militare, almeno sotto il profilo
tecnologico, in linea con quello degli eserciti europei. Sotto il profilo della capacità di comando, invece, non erano
all’altezza degli europei, tant’è vero che prima di riuscire a inviare truppe efficienti ci metteranno parecchio tempo
perché non erano mai stati abituati ad una guerra delle proporzioni della I Guerra Mondiale, con schieramenti di milioni
di uomini. La guerra delle Filippine è dunque fondamentale per lo sviluppo di quella che in seguito viene definita
superpotenza americana.
I primi anni del ‘900 sono anni di straordinario sviluppo tecnologico, parte l’avventura dell’aviazione, l’automobile si
afferma come mezzo di trasporto in maniera ineguagliata rispetto a qualsiasi altra parte del mondo e questo successo
industriale interno fa si che anche il protagonismo del paese a livello di politica internazionale si vada evolvendo.
Caratteristiche del periodo sono le due presidenze del repubblicano Theodore Roosevelt, dal gennaio del 1901 al gennaio
del 1909, il quale incarna lo spirito arrembante degli Stati Uniti del tempo trasferendo il clima avventuroso dell’epopea
del west a livello di relazioni estere; l’idea del cowboy spavaldo che conquista nuovi territori viene riproposta su scala
internazionale. Con Roosevelt gli Stati Uniti cominciano ad essere presenti sulla grande scena globale. Durante la sua
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prima presidenza completa il teorema della dottrina Monroe portando così la responsabilità statunitense a coprire tutto il
territorio nord centro e sud americano. Questa riveduta teoria prende il nome di Big Stick e sostiene che o con le buone o
con le cattive gli Stati Uniti sono e saranno i gendarmi delle Americhe. Indurimento della dottrina Monroe.
Nel 1904 gli Stati Uniti avviano la costruzione di un canale per congiungere l’oceano Atlantico al Pacifico e, non
fidandosi della Colombia, fanno nascere lo Stato fantoccio e facilmente controllabile di Panama, al cui interno viene
costruito, in 10 anni, il canale.
Tra il 1904 e il 1905 avviene lo scontro russo giapponese, che porta all’umiliazione della potenza russa e che vede come
curatore delle trattative per la pace il presidente americano Theodore Roosevelt. Essendo un contenzioso avvenuto nel
Pacifico e per il controllo del Pacifico, la mediazione è facilmente attribuita all’altra grande potenza, terza rispetto alla
guerra, e cioè gli Stati Uniti, che considerano il Pacifico un bacino di loro grande interesse. Il presidente degli Stati Uniti
aveva ormai una credibilità tale a livello internazionale da poter essere uomo di mediazione in quello che era stato un
grande conflitto di potenze.
Gli Stati Uniti intervengono poi in tutta la crisi marocchina (1905-’06 e 1910-’11) durante la quale la Francia mira a
conquistare il Marocco e i tedeschi, senza avere la diretta ambizione a controllarlo, voglio far pesare la loro forza. La
Francia ottiene infine il Marocco, ma è costretta a cedere il Congo alla Germania. In tutta la vicenda è sempre presente la
mediazione statunitense.
Questi sono i segnali evidenti di una potenza che sta crescendo e si sta consolidando anche come credibilità del proprio
ruolo internazionale. È unanimemente riconosciuto agli inizi del ‘900 che gli Stati Uniti sono già la principale potenza
economica del pianeta. Potenza economica diventa nel tempo sinonimo di capacità militare.
Destino manifesto o eccezionalismo messianico
Il concetto che passa normalmente sotto il nome di «destino manifesto» o di «eccezionalismo messianico» ha origini più
antiche degli inizi del ‘900, ma con l’apertura al mondo degli Stati Uniti avrà motivo d’essere in maniera particolarmente
forte e significativa ed è necessario chiarirlo per capire il ruolo globale degli Stati Uniti. È insita nella politica americana,
a livello di forze profonde9, l’idea che la loro esperienza sulla terra sia stata qualcosa di particolare e di benedetto da Dio
che in qualche misura li costringe a prendere delle posizioni di tipo globale in una prospettiva sostanzialmente salvifica.
Questa teoria si riallaccia all’origine degli Stati Uniti, i cui veri padri sono europei, principalmente britannici, in grande
misura calvinisti per i quali il successo terreno è segno di benedizione divina. Questi termini sono ufficializzati già dalla
metà del ‘800 e un articolo apparso su Democratic Review nel 1845 scritto da John O'Sullivan intitolato proprio «Destino
manifesto» sintetizza e dà diffusione a teorie già ben chiare; come i vecchi coloni europei, con fortuna e capacità
chiaramente benedette da Dio, sono riusciti a realizzare quel “mirabile esperimento” di convivenza civile che sono gli
Stati Uniti d’America, essi altrettanto sono tenuti a fare aiutando a crescere positivamente i popoli che non abbiano avuto
la stessa fortuna e le stesse capacità. È il destino manifesto di essere guida per il resto del mondo. Gli Stati Uniti hanno
dimostrato di essere qualcosa di eccezionale e hanno l’idea che bisogna salvare e, passaggio più recente, democratizzare i
paesi che non riescono a farcela da soli. Gli Stati Uniti sono diventati grandi perché sono riusciti a creare la più evoluta
democrazia del mondo ed hanno quindi l’obbligo che questa straordinaria loro esperienza sia fruibile anche per gli altri.
Questa teoria, che ha un suo riconosciuto nucleo di teorizzazione nell’articolo di John O’Sullivan, è in realtà di gran
lunga preesistente, è connaturata con le origini stesse degli Stati Uniti e l’indubbio successo che questi hanno avuto nel
corso del ‘800 e poi nel ‘900 la legittima e fortifica pesantemente e le vittorie del ‘900 le danno vigore. L’idea è nobile, ma
la sua incarnazione è fatta dagli uomini e spesso la sua attuazione può essere foriera di grossi problemi. Non si può
comunque ignorare l’esistenza e la forza di questa idea, che può avere accezioni religiose, etiche, culturali, economiche,
ma rappresenta in ogni caso una legittimazione di un ruolo di superiorità e di guida degli Stati Uniti nel mondo e sul
mondo. È ovviamente in stretta connessione con il moralismo, inteso come degenerazione della moralità, tipico della
politica americana. Una chiave di lettura che attraversa tutte le fasi della politica estera americana è questo senso di
unzione divina; quando si valutano le azioni degli Stati Uniti sulla scena internazionale bisogna sempre ricordare questa
teoria, che ha il suo spazio in ogni questione, seppur in minima parte.
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il popolo, la forza politica, l'establishment militare
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Seminario: “Il rapporto tra Stati Uniti e Cuba”
dott.ssa
Rapporti tra Stati Uniti e sud America
Gli Stati Uniti, a partire dal 1823 con la dottrina Monroe, iniziano ad interessarsi all’America del sud; questa dottrina
implica che tutte le terre situate nell’emisfero occidentale sono di interesse americano. Da questo prese il via il
panamericanismo, un movimento particolarmente attivo tra il 1899 e il 1946, che voleva tutti i paesi dell’America, da
nord a sud, uniti in un unico grande Stato.
A partire dal 1898 con la guerra ispano-americana il colonialismo spagnolo viene definitivamente allontanato dal
continente e si può parlare di un inizio effettivo dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’America del sud. Gli anni che vanno dal
1901 al 1909, gli anni della presidenza Roosevelt, sono anni caratterizzati dalla dollar diplomacy, per cui gli Stati Uniti
iniziano a dare aiuto economico ai paesi del sud del continente, facendo di conseguenza leva sulla loro politica; a questa
diplomazia del dollaro si intervalla anche la politica detta del big stick, ossia una politica volta all’intervento militare ogni
qualvolta gli Stati Uniti lo ritengono necessario.
Si ha un cambiamento nel periodo che va dal 1933 al 1945, con Franklin Delano Roosevelt, durante il quale si opta per
una politica di buon vicinato coi paesi del sud del continente, limitando gli interventi militari.
Con la fine della II Guerra Mondiale sono cambiati gli equilibri mondiali, si avvia la Guerra Fredda tra le due
superpotenze e quindi cambiano notevolmente le prospettive che regolano i rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi del sud
del continente. Il presidente che vede l’inizio della Guerra Fredda è Henry Truman, che a partire dal 1947 cerca di dare
vita ad un sistema intra-americano istituzionalizzato attraverso la creazione dell’istituto OSA, Organizzazione degli Stati
Americani, che aveva come scopo quello di regolare le eventuali controversie regionali, portare all’innalzamento
economico, sociale e culturale i vari paesi che ne facevano parte e mantenere unito il continente in termini di sicurezza
collettiva in un ottica di containment del comunismo.
Più in generale, a partire dalla seconda metà del ‘800 fino agli inizi della Guerra Fredda gli Stati Uniti avevano un triplice
obiettivo nel gestire le proprie relazioni con gli Stati dell’America centrale e del sud America: politico, che prevedeva il
controllo sui governi della regione; strategico, perché nel corso di questo periodo gli Stati Uniti acquisiscono la maggior
parte delle basi militari di cui dispongono tutt'oggi; economico, perché il sud America produce materie prime che gli
Stati Uniti non producono e di cui hanno bisogno.
Rapporti tra Stati Uniti e Cuba
Con la guerra del 1898 Cuba si libera della dominazione spagnola, ma viene occupata fino al 1902 da un governo militare
provvisorio statunitense. Durante questo periodo viene dotata di una costituzione ispirata a quella degli Stati Uniti che
viene dotata di un emendamento particolare, l’emendamento Platt, che prevede quattro semplici punti fondamentali per il
futuro dell’isola: 1) controllo da parte degli Stati Uniti di tutte le tariffe doganali dell’isola; 2) divieto per il governo
cubano di stipulare trattati internazionali o di contrarre prestiti senza l’approvazione americana; 3) concessione della
base di Guantanamo; 4) diritto di intervento degli Stati Uniti su Cuba al fine di preservare l’indipendenza dell’isola e
mantenere un governo in grado di proteggere la vita, le proprietà e la libertà individuale dei cittadini. In quel periodo
molti cittadini americani si stavano trasferendo a Cuba perché era un territorio vergine dal punto di vista economico, era
il primo produttore mondiale di zucchero, e l’ultimo punto dell’emendamento era quindi maggiormente volto alla
protezione dei cittadini americani piuttosto che cubani.
Cuba dopo questi pochi anni di governatorato statunitense diviene formalmente una repubblica, ma non praticamente.
Nel 1903 viene stipulato un primo trattato di reciprocità commerciale tra i due stati; questo trattato prevedeva la
concessione di tariffe doganali molto vantaggiose nei confronti degli Stati Uniti ed era un primo modo per legare
l’economia dell’isola a quella statunitense. Durante questo periodo di formazione della repubblica vennero tentati, senza
successo, tre colpi di stato nel 1906, nel 1912 e nel 1917.
Nel 1934 entra sulla scena cubana Fulgencio Batista, un sergente che segnerà le sorti dell’isola attuando un colpo di stato e
arrivando al potere negli anni della politica americana del buon vicinato. In questo periodo gli Stati Uniti cercano di
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attuare una politica più morbida. Batista si dichiara portavoce degli interessi americani sull’isola e per questo viene
abrogato l’emendamento che riguardava il diritto di intervento. Sempre nel ’34 viene stipulato un secondo trattato di
reciprocità commerciale, più importante del primo, con il quale agli Stati Uniti viene riconosciuto il diritto di stabilire
delle quote precise di produzione di zucchero di canna che devono essere rivolte annualmente al mercato americano.
Questo costringe però l’economia cubana a basarsi solo sulla produzione di zucchero con conseguente forte
latifondismo, soprattutto americano. Questo trattato prevedeva inoltre che Cuba non potesse in alcun modo rivedere le
tariffe che gli Stati Uniti avevano stabilito per questi scambi.
La costituzione viene rivista nel 1940 riunendo un’assemblea costituente che ne stila una nuova, la quale però non
entrerà mai in vigore, ma diventerà poi parte del manifesto programmatico di Castro. La nuova costituzione prevedeva:
un limite di possessione della terra, che veniva fissato a circa 400 ettari; un limite all’acquisizione di capitale estero, con
conseguente possibilità di restituire la terra ai cubani; il diritto al referendum popolare; la libertà di voto e associazione; il
dovere dello Stato di far fronte alla disoccupazione.
Nel periodo repubblicano si susseguono vari governi, ma il vero potere rimane sempre in mano a Batista che decide di
diventare protagonista indiscusso della politica del paese nel 1952 quando attua un vero e proprio colpo di stato,
riconosciuto ufficialmente dagli Stati Uniti, e prende definitivamente il potere fino al 1959.
Durante il governo di Batista la popolazione era concentrata nella parte nord dell’isola. A l’Havana si concentrava ⅙
della popolazione totale dell’isola e la città era assolutamente diversa da tutte le altre; era quella più americana anche
perché lì risiedeva la maggior parte degli statunitensi che la rendevano fondamentalmente una propaggine della società
americana. Nella parte più ricca dell’isola, quella nord, erano presenti l’assistenza medica e gli istituti scolastici, mentre
tutto il resto della popolazione, il 43% del totale, viveva nella zona sud dell’isola ed era una società pressoché
abbandonata. Non vi erano scuole, né ospedali, il tasso di alfabetizzazione era bassissimo e il potere politico si
manifestava solo attraverso la presenza di caserme volte al mantenimento dell’ordine. La società era in uno stato
permanete di crisi, anche per il problema della coltura della canna da zucchero che prevedeva tempi di lavoro limitati e
lunghi tempi di disoccupazione. Dal punto di vista economico con Batista si ha il momento in cui maggiormente
fioriscono gli investimenti di capitale estero statunitense sull’isola, che passano dal 14% al 40%; ad esempio erano
americane le società che erogavano servizi di pubblica utilità.
Per via di questo contesto socio-economico nascono numerosi movimenti di opposizione al regime, soprattuto in ambito
studentesco. La voce che si sente più di tutte è quella di un giovane avvocato, Fidel Castro, il quale attua il 26 luglio 1953
una prima azione di rivolgimento del regime di Batista. Era il giorno successivo ad una festa nazionale per cui ritiene,
con 150 ribelli, sfruttando l’elemento sorpresa e l’ubriachezza dei soldati, di potersi impossessare della caserma Moncada
di Santiago, nell’estremo sud dell’isola. L’elemento sorpresa non servì a molto trattandosi di forze impari quali 1.000
soldati contro 150 insorti. La maggior parte dei ribelli vengono uccisi o imprigionati mentre Castro ha la fortuna di essere
trovato da un gruppo di soldati a capo dei quali vi era un vecchio compagno di università che lo riconosce e gli salva la
vita, imprigionandolo senza che si sappia la sua identità. Solo al momento del processo viene rivelato il suo nome e
questo evento scuote molto l’opinione pubblica cubana perché Batista nel frattempo aveva pubblicato le foto del
massacro e si trova costretto a concedere la parola durante i processi ai pochi sopravvissuti. Nel momento in cui Castro
viene processato decide di auto-difendersi e parla per ben 5 ore; questo suo discorso di autodifesa è molto importante, è
tutt’ora pubblicato con il titolo «La storia mi assolverà», e delinea le basi del manifesto programmatico del movimento che
lui definisce movimento 26 luglio proprio in onore delle vittime che il tentativo di assalto alla caserma aveva provocato.
Castro innanzitutto dichiarava la figura di Batista illegittima e incostituzionale. Chiedeva l’applicazione della
costituzione del 1940 che non era mai entrata in vigore e conseguentemente chiedeva una riforma agraria che avrebbe
ridistribuito le terre ai cittadini cubani espropriandola agli stranieri. Inoltre voleva una riforma dell’istruzione e la
nazionalizzazione delle società che erogavano servizi pubblici. Viene condannato a 15 anni di carcere e questo discorso
rimane nelle aule del tribunale, ma Castro, attraverso una serie di espedienti10, riesce a trasmetterlo a dei collaboratori
che lo trascrivono in un manifesto e divulgano in tutta l’isola. Castro a quel punto diventa il candidato invisibile che
viene visto come il possibile salvatore della patria cubana, ma che per il momento non può essere eletto.
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scrive alcune parti del suo discorso su bucce di cipolle; scriveva su dei fogli con il succo di limone; ecc.
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Il 1954 è un periodo molto florido per Batista dal punto di vista politico, la relazione economica con gli Stati Uniti gli
procura grandi ricchezze e in questo clima generalmente tranquillo, di fronte alle richieste dei cittadini, accetta di
concedere l’amnistia a Castro e ai suoi seguaci. Castro si rifugia prima negli Stati Uniti e poi in Messico cercando di
divulgare il più possibile il proprio manifesto, di radunare seguaci che possano sostenere la sua causa e di raccogliere
fondi per poter armare l’insurrezione. Alla fine del ’56 Castro decide di compiere un secondo tentativo di rovesciamento
del governo di Batista ed è in questo momento che a lui si affianca anche il medico argentino Ernesto Che Guevara. È un
tentativo quasi folle perché partendo dalle coste del Messico su di uno yacht con 80 uomini cerca di sbarcare a sud
dell’isola, dove era più forte il consenso della popolazione e minore la presenza dello stato, ma non tiene conto delle
maree e lo yacht si arena a qualche centinaio di metri dalla spiaggia. I soldati di Batista hanno quindi tempo di accorgersi
dell’incursione e, ancora una volta, avviene una decimazione degli insorti, di cui ne sopravvivono solo una dozzina. Dal
dicembre ’56 inizia quindi il momento più importante per Castro perché inizia la guerriglia e la resistenza all’interno
della Sierra Maestra, una regione montuosa e ricoperta di una fitta vegetazione situata nella parte meridionale dell’isola
all’interno della quale non veniva esercitato il potere statale perché era un terreno difficile da abitare; malgrado ciò era
comunque abitata da tutti coloro che, non avendo una terra propria, andavano lì per rifugiarsi. Fino alla fine del ’58
Castro e i suoi seguaci riescono a resistere all’interno di questa zona e in questo periodo attuano in parte ciò che poi
riusciranno a mettere in pratica una volta arrivati al governo, ossia si dedicano alla costruzione di piccole scuole, di
piccoli ospedali e in questi anni si fa molto forte il collante tra i ribelli e la popolazione locale.
Nel frattempo Batista cercava in tutti i modi di trovarli e ucciderli e diffondeva false notizie riguardo all’eliminazione dei
ribelli. Diviene molto importate in questo contesto il ruolo dei media; per questo motivo nel febbraio del ’57, di fronte
alla diffusione sui giornali di queste false notizie, Castro decide di invitare all’interno della foresta in cui era nascosto un
giornalista del New York Times, Herbert Matthews, per concedergli un’intervista. Era importantissimo per Castro colpire
il cuore del giornalista perché riportasse all’intera società americana quello che voleva fargli credere, ossia che il numero
dei ribelli fosse cresciuto moltissimo quando in realtà erano poche decine; per far questo aveva dato ordine che,
all’esterno della tenda nella quale stava concedendo l’intervista, i suoi uomini continuassero vistosamente a passare per
dare l’impressione di essere in gran numero. Il giornalista una volta tornato negli Stati Uniti lo dipinge nei suoi articoli
come un eroe e un salvatore e questo impone una certa pressione sul dipartimento di stato americano, anche perché a
queste immagini di Castro come eroe venivano contrapposte quelle di Batista come assassino, corrotto e violento. Anche
per questo motivo gli Stati Uniti iniziano a tolgono un po’ di appoggio a Batista che nel novembre del ’58 indice nuove
elezioni; imbroglia e fa in modo che venga eletto il proprio candidato, ma gli Stati Uniti ne vengono a conoscenza e gli
revocano qualsiasi tipo di appoggio. Realizzando che quello era il momento giusto per passare all’azione, partendo dalla
Sierra Maestra, il 1 gennaio 1959 Castro prende il potere ed entra a l’Havana acclamato da una folla esultante, che celebra
la vittoria della rivoluzione castrista sul potere del dittatore.
Nell’aprile del ’59 Castro si reca in visita ufficiale negli Stati Uniti invitato a partecipare ad una conferenza degli editori
di testate giornalistiche. Non essendo stata programmata come visita politica, il presidente Eisenhower non si trova a
Washington e viene ricevuto dal vicepresidente Nixon. Castro, in accordo coi membri del proprio governo, aveva già
previsto di richiedere degli aiuti economici agli Stati Uniti, ma la reciproca antipatia con il vicepresidente americano è
tale che, non solo si rifiuta di chiedere degli aiuti, ma anzi sottolinea la volontà del popolo cubano di essere
assolutamente indipendente da chiunque. Nixon addita immediatamente Castro come comunista e a partire da questo
momento dà ordine di mettere in atto delle cover operations da parte della CIA volte al rovesciamento di regime.
Fin dall’inizio del suo governo Castro non si mostra molto differente dal suo predecessore, instaurando dei tribunali
rivoluzionari, praticamente delle corti marziali, nei quali processa e condanna a morte tutti gli elementi considerati vicini
al vecchio regime. Inizia nel contempo ad attuare il suo manifesto, quindi diminuisce gli affitti, riduce le tariffe
telefoniche, confisca tutti i beni appartenuti al governo precedente e inizia la riforma agraria e la redistribuzione delle
terre; tutte le terre che eccedevano i 400 ettari sarebbero state espropriate, dietro un indennizzo adeguato (che non verrà
mai dato), e creò l’INRA, Istituto Nazionale della Riforma Agraria, che avrebbe dovuto controllare le espropriazioni e la
ridistribuzione. Infine inizia a nazionalizzare le proprietà americane e con queste prime nazionalizzazioni si avvia il
progressivo peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti.
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Nel gennaio del 1960 si reca in visita 11 a Cuba il vicepresidente sovietico Mikojan e durante questa visita viene stipulato
il primo accordo economico con il quale l’Unione Sovietica acquista lo zucchero cubano, concede prestiti economici e
fornisce petrolio grezzo. Contestualmente a questo accordo, che ovviamente preoccupa non poco gli Stati Uniti, Castro
inizia a nazionalizzare quasi tutti gli zuccherifici, che erano di proprietà americana, e licenzia tutti i dipendenti della
società che erogava i servizi di comunicazione. In questo periodo gli Stati Uniti iniziano ad addestrare gli esuli cubani
filo-batistiani, che erano scappati dopo il rovesciamento del regime e si erano rifugiati principalmente in Florida, per
mettere in atto azioni in funzione del recupero dell’isola. A partire dal marzo del ’60 vi è dunque una serie di eventi che
porta ad un progressivo e rapido peggioramento nei rapporti tra i due Stati.
Nel maggio del ’60 inizia ad arrivare il petrolio grezzo russo che Cuba aveva acquistato con l’accordo del gennaio di
quello stesso anno. Le industrie dell’isola che possono raffinarlo sono però statunitensi e si rifiutano di raffinare il
petrolio sovietico; Castro decide dunque di nazionalizzare le società petrolifere estromettendo gli americani. In risposta
gli Stati Uniti si rifiutano di comprare la quota annuale di zucchero stabilita dal trattato di reciprocità del ’34 e l’Unione
Sovietica si incarica di acquistare quella quota e anche, segretamente, di difendere Cuba dagli attacchi statunitensi
attraverso l’installazione di basi missilistiche sul territorio. In conseguenza al clima di grande ostilità che si era venuto a
creare, come ultimo gesto del suo mandato il presidente Eisenhower, nell’ottobre del ’60, pone il primo embargo di tutte
le esportazioni americane verso l’isola di Cuba; l’unica eccezione viene fatta per i medicinali e i beni di prima necessità. Il
3 gennaio ’61, in seguito alla richiesta di Castro di ridurre il personale dell’ambasciata americana a l’Havana, gli Stati
Uniti decidono di interrompere definitivamente i rapporti diplomatici con lo stato cubano. Nell’aprile del ’61 si rende
operativo il piano di addestramento degli esuli cubani: 1300 uomini vengono fatti sbarcare a sud dell’isola, in quella che
viene comunemente definita invasione della Baia dei Porci, ma è un assoluto fallimento. I cubani si aspettavano
un’operazione di questo genere e questi 1300 uomini non furono sconfitti solo dalle forze militari castriste, ma dalla
stessa popolazione che con qualsiasi mezzo a propria disposizione si mise a combattere per respingere gli invasori.
Quest’operazione fu un fallimento soprattutto per la politica americana in quanto era così evidente che era stata allestita
dal governo che Kennedy stesso dovette pubblicamente assumersi la responsabilità dell’accaduto.
Le relazioni tra i due governi vivono il loro momento peggiore nell’ottobre del 1962 durante la crisi dei missili. Aerei spia
americani sorvolando l’isola individuano delle prime installazioni, per il momento incomplete, di basi missilistiche
rivolte verso gli Stati Uniti. Nel contempo vi erano navi sovietiche che stavano arrivando per contribuire all’ultimazione
di queste basi. Kennedy, appresa la notizia, annuncia immediatamente alla nazione l’accaduto, pone un blocco navale
dell’Atlantico per impedire l’arrivo delle navi sovietiche e dà l’ordine di ispezionare qualsiasi nave diretta a Cuba. In
questo momento di grande crisi Castro non viene interpellato, ma si mette in moto una comunicazione diretta tra
Kennedy e il presidente sovietico Kruscev e nel corso di una decina di giorni si decide per una risoluzione della crisi a
tavolino. L’Unione Sovietica richiama le sue navi e smantella le basi missilistiche in cambio dello medesimo impegno
americano in Turchia, cosa che per altro non avvenne mai, e chiede come impegno agli Stati Uniti di non tentare più
azioni invasive nei confronti dello stato cubano. Il non coinvolgimento di Castro negli accordi peggiora i suoi rapporti
con l’Unione Sovietica anche se in realtà nel periodo successivo, almeno fino al crollo del muro di Berlino, rimarrà
comunque uno stato assolutamente fondamentale per Cuba. Questo anche perché il primo embargo che gli Stati Uniti
avevano posto nell’ottobre del ’60 si inasprì sempre di più ed è tutt’ora vigente.
L’embargo
Il primo embargo inizia nel ’60 quando Eisenhower autorizza il taglio della quota di zucchero; nell’ottobre del ’60 viene
posto l’embargo totale a tutte le esportazioni per Cuba, ad esclusione dei medicinali e dei prodotti di prima necessita, e
viene esteso a tutte le filiali estere delle società americane. Nel gennaio del ’61, con la rottura dei rapporti diplomatici, si
iniziano a imporre severe restrizioni anche agli spostamenti dei cittadini americani che si vogliono recare a Cuba. Inoltre
vengono imposte restrizioni agli aiuti economici da parte di paesi terzi sui quali gli Stati Uniti potevano avere influenza.
Nel ’63 introducono restrizioni al commercio di navi straniere con Cuba e fanno divieto di compiere transazioni in
dollari con il paese o anche con cittadini cubani. Nel ’64 anche l’OSA viene strumentalizzato in questo senso e viene
chiesto ai membri dell’organizzazione di sospendere qualsiasi commercio e relazione con Cuba.
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in realtà doveva essere solo una tappa
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Tra il ’77 e l’81, con la presidenza Carter, si ha un certo allentamento dell’embargo, soprattutto per quanto riguarda le
questioni extraterritoriali; gli Stati Uniti rilasciano delle autorizzazioni a commerciare con Cuba e rimuovono il divieto
alle società americane con filiali all’estero di intrattenere rapporti commerciali con l’isola. Aboliscono il divieto di recarsi
a Cuba e vengono aperte delle agenzie d’interesse cubane a Washington e agenzie d’interesse americane a l’Havana.
Questo periodo di distensione è tuttavia breve perché con la successiva amministrazione Regan Cuba viene inserita nella
lista nera dei paesi che fanno parte dell’asse del male, quindi dei paesi terroristi, e si ha una fase di rafforzamento e
indurimento dell’embargo. Viene quindi ripristinato il divieto di recarsi a Cuba per turismo e vengono imposte delle
limitazioni per quanto riguarda il denaro che gli esuli cubani possono mandare sull’isola, fissando una quota di 1200 $
all’anno. Nel 1984 viene siglato un primo accordo per l’immigrazione con il quale, in cambio di 20.000 visti che gli Stati
Uniti avrebbero concesso annualmente, Cuba avrebbe dovuto accogliere 2800 “indesiderabili”, ossia criminali o persone
con disturbi mentali. In questo stesso periodo viene aperta la stazione radiofonica Martì 12, voluta da Carter, che dalla
Florida trasmetteva in direzione di Cuba una serie di trasmissioni anti-castriste.
L’embargo continua negli anni successivi e viene ulteriormente inasprito nel 1992 e nel ’96. Nel ’92 entra in vigore il
Cuban Democracy Act, o legge Torricelli, che stabilisce: il divieto di tutte le esportazioni e le importazioni tra Cuba e gli
Stati Unti; il divieto sia per persone fisiche che per persone giuridiche di trasferire denaro a Cuba o a cittadini cubani; il
divieto per le società americane o con sede in America, quindi anche se di nazionalità straniera, di commerciare con
Cuba; il divieto di caricare o scaricare merci in territorio americano per tutte le navi che hanno toccato suolo cubano nei 6
mesi precedenti; il divieto per le linee statunitensi di atterrare a Cuba e per qualsiasi compagnia straniera di atterrare in
America se è stato fatto uno scalo sull’isola.
Nel 1994, durante l’amministrazione Clinton, vi è un aumento dell’immigrazione cubana e si decide non solo di
interrompere la concessione dello status di rifugiati ai balseros, le persone che con le zattere raggiungono le coste della
Florida, ma di internarli nella base di Guantanamo e nei campi di raccolta nella zona del canale di Panama dove
vengono messi ai lavori forzati. In seguito a questa situazione si rende necessario un secondo accordo migratorio che
prevede nuovamente la concessione di 20.000 visti.
Come ultimo atto di inasprimento dell’embargo, nel 1996 entra in vigore la legge Helms-Burton che prevede sanzioni
contro chiunque acquisti prodotti cubani o articoli contenenti prodotti cubani e concede ai cittadini americani, compresi
quelli nati a Cuba e le cui proprietà sono state danneggiate dalla rivoluzione, di ricorrere a dei tribunali americani per
rivalersi contro le aziende o i privati che sono diventati proprietari di quei beni in seguito alla ridistribuzione. Oltre a ciò
vengono presi provvedimenti affinché anche gli stati terzi abbiano meno rapporti con Cuba, in particolar modo gli Stati
Uniti si oppongono all’ammissione di Cuba nelle organizzazioni finanziarie internazionali e nel momento in cui
un’istituzione internazionale approvasse un credito o una qualche forma di assistenza a Cuba gli Stati Uniti si
impegnano a sospendere i contributi a questa istituzione. Gli Stati Uniti prendono infine provvedimenti affinché
l’Organizzazione degli Stati Americani crei un fondo speciale di 5 milioni di dollari per inviare a Cuba degli ispettori per
il controllo dei diritti umani.
La situazione attuale
Sull’isola nessuno muore di fame, tutti sono istruiti, ma i giovani non hanno alcun tipo di futuro, lo stipendio statale si
aggira sui 15 $ al mese e capita che i camerieri che lavorano nei villaggi turistici abbiano uno stipendio, grazie alle
mance, centinaia di volte superiore a quello di un medico. È una società in cui tutto viene passato dallo Stato e ciò nella
quotidianità è molto limitativo. C’è una notevole differenza tra le nuove generazioni e quelle che hanno vissuto la
rivoluzione: le nuove generazioni sono attratte dallo stile di vita occidentale e tendenzialmente sono contro Castro, le
generazioni precedenti sono invece assolutamente fedeli al regime.
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José Martì è l’eroe della lotta contro la dominazione spagnola, simbolo di resistenza e opposizione al regime, a cui ha fatto numerosi
riferimenti lo stesso Fidel Castro
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Lezione 5!
29/03/11
La realtà di inizio Novecento vede gli Stati Uniti proiettati sulla grande scena globale. Soprattutto le due presidente di
Theodore Roosevelt segnano un indurimento del ruolo degli Stati Uniti, che diventano un grande soggetto di politica
internazionale. Quello statunitense è un imperialismo economico, commerciale, non volutamente territoriale, ed è
sostenuto dalle teorie dell’eccezionalismo messianico: il dovere e la predestinazione di fare meglio degli alti e aiutare gli
altri a fare del loro meglio.
Agli inizi del ‘900 gli Stati Uniti sono sicuramente il paese più evoluto del mondo, come modelli sociali, tipologia di
sviluppo e tenore di vita medio. Soprattutto a partire da dopo la guerra civile sono oggetto di una imponente ondata di
immigrazione che proprio nella prima fase del ‘900, e anche in corrispondenza della prima guerra mondiale, sarà
un’ondata imponente e crescente. La famosa Ellis Island ha rappresentato, fino a una cinquantina d’anni fa, un mito e
uno spauracchio per tutti gli emigranti del vecchio continente; mito perché simboleggiava l’arrivo in America,
spauracchio perché era un campo di quarantena forzata. Questa poderosa ondata, proveniente principalmente
dall’Europa meridionale e dall’Europa dell’est con una grande maggioranza di polacchi ed ebrei, innalza notevolmente il
livello della popolazione, ma contemporaneamente introduce fattori di difficile convivenza multietnica. Gli Stati Uniti
riescono a creare in qualche modo un sistema multietnico funzionante perché pressoché tutti coloro che arrivano nel
Paese mirano sinceramente all’integrazione; l’unico gruppo che mantiene caratteristiche proprie, ben precise e connotate
è quello degli ebrei. La maggioranza degli immigrati, dunque, mira all’integrazione mentre l’appartenenza culturale e le
tradizioni restano più che altro come folklore. Gli Stati Uniti riescono quindi a trovare una soluzione, il melting pot, che è
il concetto del “paiolo nel quale si buttano tantissimi ingredienti e alla fine la minestra, quasi per caso, viene buona”.
Gli Stati Uniti sono in roboante ascesa anche grazie all’arrivo degli immigrati, perché la società americana già allora non
ha più voglia di certi lavori, i più umili, e quindi la poderosa spinta industriale e alla crescita del paese è dovuta anche a
loro. L’arrivo massiccio di immigrati porta all’istituzione di quote per regolamentarne l’accesso, che vengono aumentate
significativamente, soprattutto dal Messico, durante la I Guerra Mondiale perché c’è bisogno di manodopera e di
mantenere una forte produzione anche e soprattutto in un momento in cui milioni di uomini, seppur per breve tempo,
sono sotto le armi e c’è la necessità che qualcuno lavori al loro posto.
I Guerra Mondiale
È un momento di estrema rilevanza per gli Stati Uniti e non solo per loro. Quando scoppia la guerra nel 1914 l’idea
prevalente nel paese è quella di tenersene alla larga, anche perché entrano nel periodo della guerra assolutamente
svincolati da qualsiasi impegno internazionale dato che la costituzione non autorizza a vincolare il paese con degli
accordi in tempo di pace. Il presidente è il democratico Thomas Woodrow Wilson, che è un onestuomo colto e questo lo
porta a diventare l’alfiere della guerra giusta, della giusta soluzione dei problemi, fino al punto di dare la sua impronta al
cosiddetto idealismo nelle relazioni internazionali. Cercando di imprimere una gestione tendenzialmente etica e morale alla
politica internazionale, finisce per combinare guai. Il modello wilsoniano è l’archetipo di chi vuol cercare di applicare
criteri alla politica internazionale; ad esempio uno dei cavalli di battaglia di Wilson alle conferenze di pace sarà
l’autodeterminazione dei popoli, un principio secondo il quale i consorzi umani devono essere liberi di autodeterminarsi.
Questo è un principio molto nobile, ma che portato alle estreme conseguenze potrebbe portare all’autodistruzione della
società: non si può sbrigativamente affermare che ognuno che si sente diverso non possa e non debba stare in un gruppo
che non è esattamente il suo perché significherebbe autorizzare tutte le minoranze etniche del pianeta a rivoltarsi contro
chi le rende minoranze, portando così ad una guerra permanente.
Le propensioni interne riguardo al disastro europeo
Il presidente è sicuramente dalla parte dell’Intesa perché, salvo la Russia, soprattutto la Gran Bretagna e la Francia sono
modelli di democrazia più consoni agli interessi degli Stati Uniti. La Prussia è dominata dalla classe militare e una
vittoria del militarismo tedesco non sarebbe stata un buon presupposto per il futuri politico ed economico degli Stati
Uniti nel continente europeo.
Sono dalla parte dell’Intesa le comunità di origine francese, inglese, polacca (perché spera che con la vittoria venga
ricostituito uno stato polacco) e italiana (dal momento in cui anche l’Italia entra a farne parte).
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La comunità tedesca è molto forte negli Stati Uniti, per un voto a Philadelphia il tedesco non è diventato la lingua
nazionale americana e questa comunità di origine germanica è tutta a favore degli imperi centrali.
La componente irlandese è enorme negli Stati Uniti e, essendo molto legata alle proprie origini, coglie nella guerra
l’opportunità di cacciare gli inglesi dall’isola d’Irlanda. Il tentativo è forte e deciso: con una rivolta a Dublino, in quella
che verra poi ricordata come la Pasqua di Sangue del 1916, gli irlandesi cercano di approfittare dell’enorme difficoltà
britannica nel contrastare la Germania in Francia per rovesciare la situazione nell’isola. I tedeschi, comprendendo la
situazione, cercano di armare la rivolta. La vicenda irlandese è strettamente connessa alla I Guerra Mondiale ed anche
agli Stati Uniti; ad esempio uno dei capi dell’insurrezione, che in seguito divenne capo dello stato e anche presidente
della Repubblica d’Irlanda, una volta catturato non venne giustiziato perché cittadino americano.
Gli Stati Uniti sono dunque scissi e il risultato di questa spaccatura è la decisione di stare lontani dalla guerra; le notizie
che arrivano dall’Europa sono agghiaccianti, è un bagno di sangue come mai se ne era visti con decine di migliaia di
morti e prevale la posizione isolazionista. Ci sono anche molti movimenti popolari che vanno in giro a manifestare a
favore della necessità della neutralità nei confronti della guerra.
L’ingresso in guerra
Wilson viene rieletto nel 1916 a seguito di una ferma campagna neutralista, nella quale aveva garantito al popolo che con
lui come presente gli Stati Uniti non avrebbero preso parte alla guerra. Il 2 aprile 1917 successivo viene votata dal
Congresso la partecipazione alla guerra perché:
1) è in realtà una motivazione evanescente, che non può essere considerata una causa seria dell’ingresso in guerra degli
Stati Uniti. Si scopre che nel corso della guerra le ambasciate degli imperi centrali a Washington hanno preso contatto
con l’ambasciata messicana per cercare di allearsi col Messico allo scopo di attaccare gli Stati Uniti;
2) la motivazione ufficiale è la ripetuta e sistematica violazione del diritto internazionale da parte delle unità tedesche
nell’Atlantico, la cosiddetta guerra indiscriminata sottomarina da parte della Germania. La causa ufficiale di una
dichiarazione di guerra non può che essere nobile, ad esempio l'Inghilterra entra in guerra nel 1914 per difendere la
neutralità violata del Belgio. Nel caso americano, le navi affondate dai sommergibili tedeschi erano navi di civili, che
erano tuttavia usati quasi come scudi umani per i rifornimenti di armi, munizioni e merci strategiche inviati
all’Intesa. I comandanti dei sommergibili tedeschi di stanza nell’Atlantico, date anche le pessime comunicazioni del
tempo, agivano molto spesso di iniziativa e infatti dagli archivi tedeschi non risultano comandi diretti di attaccare le
navi commerciali neutrali, ma ognuno era libero di agire in base alle proprie valutazioni e alla propria esperienza. Il
caso più famoso è quello del transatlantico Lusitania che, nel giugno del 1915, prossimo alle coste inglesi viene
attaccato e affondato da un sottomarino tedesco. La situazione si va tendendo negli anni; gli americani continuano ad
aiutare l’intesa e i tedeschi continuano ad attaccare le loro navi. Nel momento in qui serve una nobile motivazione per
l’ingresso in guerra si afferma che lo si fa perché sono state attaccate unità civili disarmate di un paese neutrale.
3) La motivazione reale è molto semplice. Sin dallo scoppio della guerra, la cui durata inizialmente prevista era di pochi
mesi, gli americani si sono esposti segretamente nell’aiuto dell’intesa e quegli aiuti aumentano sempre di più
arrivando ad una cifra approssimativa di 17 miliardi di dollari, che rapportati alla valuta dell’epoca sono una cifra
inverosimile, immensa. L’idea degli Stati Uniti era che se l’Intesa avesse vinto avrebbe poi in qualche modo onorato
gli impegni nei loro confronti e qui si trova il motivo vero, inevitabile e forte del loro ingresso in guerra: il bisogno di
far vincere gli stati che avevano aiutato in maniera esasperata cosicché in seguito ripagassero il debito. Proprio gli
inizi del 1917 sono il momento probabilmente più buio per l’intesa perché la Russia comincia a dare segni di crollo e
l’Italia è allo stremo. Gli Stati Uniti sanno che o sbilanciano in quel momento la guerra a favore dell’Intesa o potrebbe
essere persa. Da qui la decisione, pesante e traumatica, di entrare nel conflitto.
L’entrata nel conflitto inizialmente non produce alcun risultato pratico perché gli americani si rendono palesemente
conto di non avere una capacità militare in grado di gestire enormi unità, nell’ordine di centinaia di migliaia di uomini, a
grande distanza dal paese. Si accorgono di non avere strutture, di non avere uomini addestrati, né comandi in grado di
gestire il tutto. Capiscono che deve esserci un organo supremo di comando delle forze armate che loro all’epoca non
hanno e che ora è chiamato Joint Chiefs of Staff, Stati Maggiori Congiunti, nel quale il Capo di Stato Maggiore della
21
marina, quello dell'aeronautica, quello dell’esercito e varie rappresentanze dei diversi corpi militari sono, sotto il
comando del Presidente, l’effettivo organo di gestione delle forze armate.
Il generale Pershing viene inviato come comandante in Europa, ma si rifiuta di svolgere la sua funzione se non
dialogando direttamente con il Presidente perché è l’autorità suprema di tutte le forze armate13 . Inoltre viene svolta dai
governi dell’Intesa un’azione di ritardo perché talmente crudi sono gli interessi della I Guerra Mondiale che c’è la paura,
da parte degli statisti inglesi e francesi, che un eccessivo ruolo decisivo degli Stati Uniti possa togliere lustro e peso alla
loro eventuale vittoria. Quindi l’azione diplomatica di Parigi e Londra, malgrado il loro disperato bisogno di aiuto sul
fronte francese, è essenzialmente un’azione di freno e ritardo ed effettivamente prima che arrivino in Europa ingenti
forze americane, alcune decine di divisioni composte da circa 500 mila uomini, arriva il giugno del 1918 malgrado la
dichiarazione di guerra risalisse all’aprile del ’17. Nel frattempo l’aiuto americano all’Intesa è stato sempre crescente e,
dopo il ’17, anche ufficiale, il che fa sì che le navi commerciali statunitensi che portano beni in Francia e nel Regno Unito
possano essere scortate dalle unità di protezione americane stesse e diventa meno facile colpirle per i tedeschi. L’arrivo in
massa degli americani in Europa ha un ruolo decisivo perché gli imperi centrali sono tutt’altro che sconfitti militarmente,
ma sono tagliati fuori dal resto del mondo e sono allo stremo sotto il profilo della tenuta economico-sociale. Nell’agosto
1918 gli americani fanno esordire i primi carriarmati il ché crea degli enormi ed improvvisi dissesti nell’esercito tedesco,
ma la vera differenza a quel punto la fa l’iniziativa del Presidente, già avviata a gennaio, conosciuta come i 14 punti di
Wilson. L’estate del ‘18 segna il riequilibrio del fronte francese sotto il profilo militare, ma la vera svolta è l’iniziativa
diplomatica di Wilson. Il Presidente aveva da subito dichiarato di entrare in guerra per portarla ad una soluzione giusta,
perché sia un conflitto senza né vincitori né vinti, l’antitesi della guerra ottocentesca. Dovrà essere una pace condivisa.
Wilson crede a tutto ciò, lavora, studia, valuta, nomina commissioni e alla fine, nel gennaio 1918, esce pubblicamente con
quella grande offerta di pace a tutti i belligeranti che sono i 14 punti, sulla base dei quali porre ragionevolmente fine al
bagno di sangue.
I 14 punti di Wilson
I punti rappresentano l’applicazione dei principi degli Stati Uniti alla scena internazionale come i migliori applicabili al
genere umano: la libertà dell’uomo, il disarmo come valore globale, la libertà delle vie di comunicazione, la rivisitazione
dell’autorità coloniale, una soluzione con ampie e condivise autonomie dell’Impero Asburgico, l’Alsazia e la Lorena
come compenso alla Francia con piena accettazione tedesca; in generale condizioni di pace negoziali eque, non eccessive
e accettabili da tutti. In un’integrazione di febbraio si precisa inoltre il principio dell’autodeterminazione dei popoli, che tiene
ad esplicitare come conferma di democraticità.
La Germania, stremata sotto il profilo economico e sociale, malgrado invitta nel momento in cui si sfascia l’Impero
Asburgico14 si ritrova sola e accetta, nel novembre del 1918, l’armistizio sulla base dei 14 punti, facendo così qualcosa di
teoricamente accettabile, ma disastroso nella sua successiva applicazione pratica.
Alla conferenza di pace di Parigi dal gennaio del 1919 il presidente Wilson tenta di far applicare i suoi 14 punti, ma una
volta disarmata la Germania, perché l’armistizio implica la resa incondizionata delle forze armate, nessuno in Europa ha
più interesse a rispettarli. Il presidente americano per tutti i mesi iniziali della conferenza cerca di far passare condizioni
eque nei confronti della Germania perché si rende conto che l’umiliazione di un nemico non sconfitto è il peggiore dei
risultati politici di una guerra; per di più si era impegnato nei suoi 14 punti e in questione c’era il suo stesso onore.
L’assurda gestione della pace, soprattutto a causa della voglia di rivalsa dei francesi, sarà il presupposto per la II Guerra
Mondiale. Wilson cerca di evitare tutto questo e in alcuni casi ottiene dei risultati: evita che la Francia porti i suoi confini
sulla linea del Reno, occupando vasti territori tedeschi; ottiene l’internazionalizzazione per 15 anni della regione della
Saar, che i francesi pretendevano per sé; non avendo firmato il patto di Londra si impunta affinché l’Italia non acquisisca
tutta l’Istria, sostenendo che il litorale lungo il canale del Quarnaro è etnicamente slavo, e come conseguenza nell’aprile
del ’19 la delegazione governativa italiana si ritira per una settimana dalle trattative in segno di protesta avendone per
altro solo danni.
13
tuttora qualsiasi esecuzione di un membro delle forze armate deve essere personalmente firmata dal Presidente: senza la sua firma
non può essere giustiziato, qualsiasi crimine abbia commesso
14
settembre - ottobre 1918
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Non trovando al momento una soluzione al problema delle concessioni dell’Istria e di Fiume, la questione viene chiusa
rimandando a futuri accordi tra i governi italiano e jugoslavo.
La Germania esce umiliata dai trattati che la disarmano unilateralmente; subisce perdite territoriali inaccettabili,
soprattutto perché viene scorporata la Prussia dalla madre patria attraverso l’espediente del corridoio di Danzica, che
concedeva alla Polonia uno sbocco sui mari del settentrione europeo; infine risultano confiscate solo le colonie tedesche,
che vengono distribuite col sistema dei mandati agli inglesi e ai francesi.
Wilson cerca di applicare una linea di nazionalità all’interno dell’intricatissima realtà europea, ma non ci riesce; è il
grande sconfitto della conferenza di pace. La sua politica di idealismo non trova riscontro perché chi ha vinto vuole
vedere soddisfatte le sue ragioni e pretende danni di guerra.
Il debito europeo
Per quanto riguarda i 17 miliardi di dollari concessi dagli Stati Uniti durante la guerra dagli inizi della conferenza di
Parigi si crea un fronte comune, guidato dai più indebitati francesi, che sostiene che solo con il pagamento delle
riparazioni di guerra tedesche la Francia, l’Italia e il Regno Unito avrebbero potuto risarcire gli americani. Gli Stati Uniti
non vogliono riconoscere alcun nesso fra la riparazione tedesca e il debito degli alleati, ma si rendono conto che non
esiste alcuna possibilità di riscossione e di conseguenza, nel corso degli anni ’20, saranno sempre i più zelanti nella
ricerca di soluzioni del problema delle riparazioni tedesche. Con il piano Dawes nel 1924 e il piano Young del 1929 gli Stati
Uniti cercano di ottenere il pagamento tedesco delle riparazioni in modo tale da innescare un meccanismo di restituzione
del debito inter-alleato.
Si rassegnano di fatto negli anni ’30 alla non restituzione del debito quando con il trattato di Losanna dell’agosto del ’32
la Germania versa un’ultima simbolica rata, arrivando a pagare in totale forse circa un decimo delle riparazioni previste.
Solo la Finlandia ripaga interamente il suo debito con gli Stati Uniti, ma questo era davvero esiguo. I debiti più
consistenti, quelli francesi, inglesi e italiani, non vengono restituiti. Avevano impiegato una quantità inenarrabile di
risorse, in termini di uomini il bilancio della guerra era risultato di 80.000 mila morti e circa il doppio di feriti gravi e
mutilati, in qualche misura avevano contribuito alla risoluzione della situazione e i fondi investiti nei prestiti erano tutti
andati perduti. Questa è la principale ragione per cui gli Stati Uniti decidono di non portare avanti una politica estera in
Europa e con l’Europa nel periodo tra le due guerre mondiali, rivolgendo la propria attenzione internazionale
esclusivamente verso l’Asia e l’America latina.
Gli Stati Uniti e il dopoguerra
Sull’emarginazione dell’Europa si gioca anche il futuro politico di Wilson. Nel 1920 nella sua campagna elettorale15
continua a sostenere i suoi ideali ed è assolutamente intenzionato ad occuparsi del dopoguerra e della macchina della
Società delle Nazioni da lui concepita, che avrebbe dovuto garantire la pace perenne secondo il principio della sicurezza
collettiva. Purtroppo fa un errore clamoroso di entusiasmo e ingenuità: pretende di inserire in tutti i trattati con i vinti,
nella parte principale, il riferimento al trattato della Società delle Nazioni, che dai vinti era percepito come lo strumento
dei vincitori per opprimerli; inoltre firmando l’accordo di pace si aderiva automaticamente alla Società delle Nazioni.
Wilson dà per scontato che gli Stati Uniti entrino, firmando i trattati di pace, nella Società delle Nazioni e che assumano,
ovviamente non ufficialmente, un ruolo guida in essa.
La campagna elettorale di Wilson è incentrata sull’internazionalismo, ma il risultato pratico della guerra era stato
decisamente negativo per la popolazione americana e la conseguenza di ciò è una poderosa disfatta elettorale per Wilson
e i democratici. Viene eletto il repubblicano Warren Harding che avvia una non casuale triade di presidenti repubblicani,
perché gli elettori non appoggiano più le idee liberiste e internazionaliste dei democratici. Il risultato è che gli Stati Uniti
immediatamente rifiutano la ratifica dei trattati di pace e il 1° luglio del 1921 concludono una pace separata, su basi
paritetiche, con la Germania. Questo gesto indebolisce notevolmente il trattato di Versailles e di conseguenza la Società
delle Nazioni alla quale non aderiscono portando al fallimento dell’idealismo e del globalismo wilsoniano.
15
rieleggibile perché all’epoca non c’erano limiti
23
Il clima del primo dopoguerra è comunque euforico negli Stati Uniti, per la vittoria e il ritorno alla pace. Le attività
economiche riprendono vistosamente a crescere e vi è una modificazione istituzionale di un certo peso, che è in una certa
misura un riconoscimento dello sforzo lavorativo fatto dalla componente femminile americana durante la guerra ed è il
19° emendamento, che nel 1920 introduce il suffragio universale rendendo gli Stati Uniti uno dei primi paesi al mondo a
concedere il voto alle donne. Questo è significativo in sé, perché è il segnale di società evoluta, ed è anche importante per
capire lo strano fenomeno del proibizionismo.
Il proibizionismo
Il proibizionismo è il fenomeno per cui viene messa completamente al bando dalla vita sociale la produzione, il
commercio, la vendita e quindi il consumo delle bevande alcoliche. Il nesso con il voto alle donne è forte: nel momento in
cui le donne diventano parte dell’elettorato, viene emanata in loro favore questa legge perché era socialmente in atto una
vera e propria guerra, legata al consumo e soprattutto all’abuso degli alcolici, nella quale le associazioni femminili erano
particolarmente determinate. I gruppi femministi, come ad esempio il Salvation Army, erano determinati a lottare contro
gli alcolici in quanto piaga sociale; c’erano infatti nel paese problemi di alcolismo diffuso, soprattutto da parte degli
uomini, che portavano ad ulteriori problemi di disoccupazione e violenze domestiche. Questa campagna anti-alcool
trova sorprendente riconoscimento a livello legislativo con l’instaurazione del proibizionismo. Le ripercussioni, sotto il
profilo sociale ed economico, furono però disastrose. Essendo un consumo atavico non è estirpabile, viene solamente
reso più complesso e il risultato è l’accesso ad una nuova e straordinaria fonte di reddito da parte della criminalità
organizzata, la quale tra gli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 diventa sempre più fiorente.
Il proibizionismo è una forzatura ed è destinato al fallimento. Verrà abolito agli inizi degli anni ’30, ma lascia negli Stati
Uniti un rapporto irrisolto e difficile con l’argomento a causa di una sofferta demonizzazione che paradossalmente
spinge più verso l’abuso che verso un rapporto tranquillo con gli alcolici. Ad esempio la vendita e il consumo di alcolici
in luogo pubblico sono penalmente perseguibili ai minori di anni 21 attraverso una legislazione federale16 e vige il
divieto di consumare alcolici in pubblico se non in luoghi ad essi deputati. È un rapporto sofferto quello della società
americana con l’alcool, che è considerato un tabù, ma proprio per questo se ne abusa.
Il proibizionismo dà un impulso straordinario alla criminalità organizzata che, nel corso degli anni ’20, viene rafforzata
anche da un altro elemento che è rappresentato dall’avvento del fascismo in Italia. Il governo fascista intraprende infatti
una campagna molto dura nei confronti della mafia. Il prefetto di Palermo Cesare Mori combatte la criminalità
organizzata in Sicilia con particolare vigore, con metodi anche militari, ed ottiene importanti risultati. Una parte rilevante
della mafia siciliana si trasferisce di conseguenza in America e lì si rinforzano le famiglie aiutate anche dal nuovo
business dell’alcool. Non a caso il periodo che va dalla fine degli anni ’20 all’inizio degli anni ’30 è il momento d’oro
della criminalità organizzata ed è anche il momento di una parziale sospensione della legalità americana. Nel momento in
cui l’FBI, sotto la guida di Edgar Hoover 17, sospende la legalità si assiste all’azione del killer di stato: i più famosi e
problematici criminali non vengono arrestati, ma giustiziati in strada perché esiste l’ordine non scritto di eliminarli; ci
sono casi di agenti dell’FBI che arrivano alla pensione con un bilancio personale anche di 50 morti. A fronte di questa
sospensione della legalità vi era ovviamente una grave minaccia; la criminalità organizzata stava diventando una vera
forza alternativa all’interno del sistema americano.
Proibizionismo e criminalità sono comunque una delle caratteristiche del periodo, durante il quale vi fu anche la grande
depressione del ’29.
16
N.B.: l’omicidio è perseguito con leggi statali
17
direttore dell’agenzia per oltre 40 anni
24
Lezione 6!
05/04/11
Primo dopoguerra
La politica di Wilson è clamorosamente naufragata perché gli americani non ne vogliono sapere di pagare i conti degli
europei e si chiudono in una vera e propria forma di isolazionismo. La tentazione isolazionista è sempre presente, a volte
latente a volte molto forte. Essendo nel Novecento il paese più ricco e potente del mondo, gli americani hanno la forte
tentazione di arrangiarsi da soli e di rimanere “chiusi nella propria oasi”. Indicativo a tal proposito è il fatto che in media
⅓ dei deputati e dei senatori americani non ha e non ha mai avuto il passaporto. I primi anni ’20 sono in ogni caso un
momento di forte espansione economica interna e di evoluzione sociale, ma sfociano in quel punto di svolta che è la crisi
finanziaria del 1929.
La crisi del ‘29
Il famoso martedì nero di Wall Street dell’ottobre 1929 sicuramente influenza enormemente i destini del mondo intero. È la
più grande crisi economica prima di quella attuale18 . La matrice della crisi sta nella natura stessa del modo di crescere
americano; è come se gli Stati Uniti, nascendo e sviluppandosi, abbiano prima o poi dovuto fare i conti con qualcosa di
insoluto a livello macro-politico. I grandi problemi insoluti degli Stati Uniti erano innanzitutto l’equilibrio federale, che
attendeva ancora una resa dei conti della guerra di secessione, e le regole della crescita economico-finanziaria. Il mito degli
Stati Uniti, fino alla crisi del ‘29, è Adam Smith, collegato al concetto del libero mercato: i prezzi vengono regolati
autonomamente dall’incontro di domanda e offerta e non è assolutamente consentito intervenire su di essi. Corollario
inevitabile del mito della libertà del mercato è il non mettere regole per le attività economiche. Fino agli anni ’20 del ‘900
esistono poche blande e generiche regole per tutto ciò che riguarda il mercato, del lavoro, finanziario ed economico in
generale. Ciò significa che grossomodo tutto viene deciso liberamente tra le parti e che, ad esempio, per fondare una
banca si avranno ben pochi e marginali controlli. Questo è il concetto di deregulation, per cui se una persona decide di
assumersi, ad esempio, la responsabilità di svolgere attività creditizia non le vengono richiesti particolari requisiti,
purché si assuma la responsabilità della sua attività consapevole del fatto che se non la gestirà in maniera corretta le pene
saranno probabilmente draconiane.
Per quanto riguarda il mercato finanziario, dei titoli, gli Stati Uniti sono molto evoluti negli anni ’20; le grandi società
sono quotate in borsa o, quanto meno, società per azioni. Non esiste alcuna tutela o normativa che disciplini, ad esempio,
la professione del promotore finanziario, cioè colui il quale abbia il titolo per gestire i titoli altrui. È il regno del fai-da-te,
ognuno si improvvisa promotore finanziario di se stesso o degli altri. È un momento di grande espansione e si ha l’idea
che investendo in azioni comunque si guadagneranno dei soldi. Questo spinge fortemente all’indebitamento, perché in
un momento di grande ottimismo le persone sono invogliate a vivere al di sopra del loro normale tenore di vita; è un
momento di euforia economico-finanziaria e, in un contesto di straordinaria deregulation, tutto questo avviene in
maniera sostanzialmente fuori controllo. Il sistema America nei primi anni ’20, sotto un profilo economico-finanziario, è
“far west”: si pensa che l’assenza di regolamentazioni, o la loro assoluta debolezza, sia chiave di sviluppo e di successo.
Nel 1929 c’è un momento di sfiducia legato al fatto che improvvisamente molti cittadini americani, oppressi da un debito
che loro stessi hanno contratto, pretendono di realizzare quelli che sono i titoli azionari; è evidente che nel momento in
cui in molti vogliano liquidare i propri titoli, questi perdano valore e si deprezzino anche drasticamente. Nel corso del
1929 la volontà di realizzare sulla base dei titoli detenuti, che sono evidentemente ormai gonfi nel loro valore, crea una
grande crisi di liquidità nel sistema bancario e un deprezzamento vertiginoso del valore dei titoli stessi. Il martedì nero
di Wall Street è il momento in cui la gente si reca in banca per vendere i propri titoli e le banche non sono in grado di
onorare tutto questo e si scatena il panico. Si ha l’impressione di avere perso i propri risparmi e le proprie capacità
d’investimento. È il tracollo della borsa, tuttavia quello che non è controllabile non è solo il dato economico, ma
soprattutto l’effetto psicologico. L’elemento psicologico, infatti, innescherà una catastrofe nel momento in cui tutti
vorranno improvvisamente realizzare e non ci sarà abbastanza liquidità per garantire tutti.
18
La crisi del ’29 è senza dubbio una crisi globale, ma i tempi sono straordinariamente diversi perché le modalità di funzionamento dei
vari paesi del mondo sono diverse. La crisi porterà effetti devastanti ovunque, ma comincia lentamente a far sentire i suoi effetti. Nel
’31, due anni dopo, fallisce la più grande banca austriaca. La crisi si propaga inesorabile, ma è molto lentamente. Adesso gli effetti
sono pressoché istantanei perché viaggia tutto su internet.
25
L’America si avvia verso una straordinaria recessione: è la fine della confidenza nel sistema economico, unita alla perdita di
sostanziale valore delle azioni che implica un crollo dei consumi che, nella facilità di licenziamenti che contraddistingue
il sistema americano in quel momento, fa si che moltissime persone perdano subito il posto di lavoro e la disoccupazione
evidentemente genera ulteriore impotenza nei consumi, in un circolo vizioso che inizia a far crollare l’intero sistema.
È la prima volta da quando esistono gli Stati Uniti che il sistema arranca veramente sotto il profilo economico. Anche
durante la guerra civile le industrie producevano a pieno ritmo, quindi questo è il primo vero, terribile momento di crisi
per gli Stati Uniti. C’è decrescita, disoccupazione e soprattutto assenza di ottimismo nel futuro del paese.
Il presidente Herbert Hoover, repubblicano, e il suo entourage non capiscono la situazione; capire la situazione non è facile
perché significa ammettere che gli Stati Uniti, esistenti da circa 150, devono rivedere i loro dogmi economici. Vi sono
poche o nulle iniziative per far fronte alla crisi perché vi è la sostanziale convinzione che il mercato sarà in grado da solo
di ritrovare un suo equilibrio. Ci sono alcuni sostegni alla disoccupazione, ma assolutamente non idonei a far riprendere
il sistema. Gli Stati Uniti si trascinano.
Il Presidente ha delle iniziative per quanto riguarda la situazione internazionale, la cosiddetta moratoria Hoover nei
pagamenti internazionali con la quale, dal 1° luglio 1931 al 30 giugno 1932, vengono congelati tutti i debiti internazionali
esistenti. Nessuno pretende il pagamento dei debiti, nessuno considera i suoi debiti cancellati, tutti aspettano un anno.
Il New Deal
Alle elezioni del 1932 si presenta Franklin Delano Roosevelt, che ha vinto le primarie del partito democratico, con una
campagna elettorale decisamente moderna, rischiosa, innovativa e inconsueta tutta incentrata sulla ripresa dalla crisi.
Quello che lascia intuire, con prudenza perché sa di toccare le coscienze di molti americani, è una modifica delle idee
della politica economica di fondo. Vince, va alla Casa Bianca nel gennaio del 1933 e inizia a governare cercando di
applicare le sue idee all’economia. Queste sono in netto contrasto con quelle dell’economia classica imperanti degli Stati
Uniti: avviene il superamento di Smith con John Keynes, l’inglese che si è ormai affermato come il padre di una vera e
propria corrente di pensiero economica, la cosiddetta economia keynesiana, che ritiene l’intervento dello stato nel sistema
economico necessario e importante. È un passaggio epocale. L’idea di Keynes, riassumibile simbolicamente nel
paradosso «in tempo di crisi lo Stato dovrebbe pagare dei disoccupati perché scavino delle buche per terra affinché il
giorno dopo un’altra squadra di disoccupati le riempia con la stessa terra», viene completamente abbracciata dal
governo. Lo stato deve dare lavoro, deve far muovere l’economia, ma questo per gli Stati Uniti degli anni ’30 è uno shock
terribile. Applicare concretamente queste teorie significa avviare enormi opere pubbliche contando sulla straordinaria
forza di cui dispone la presidenza degli Stati Uniti e su di una poderosa riserva federale. Le capacità finanziarie dello
Stato sono enormi, ma bisogna trasferirle in maniera utile alla popolazione; qui si trova la prima connotazione della
nuova gestione, il New Deal avviato da Roosevelt. Si avvia un enorme lavoro idrogeologico nella valle del fiume
Tennessee, con la creazione di un’enorme centrale idroelettrica, e vengono avviati imponenti lavori pubblici in tutte le
città americane. La grande maggioranza dei poderosi edifici che connotano la skyline delle città americane prende corpo
nei primi anni ’30.
La prima iniziativa per la soluzione della crisi è dunque l’intervento statale nel sistema economico, creando posti di
lavoro si incentivano i consumi e si avvia la ripresa economica. Vengono guidati verso la ripresa ed una più sana
condotta un po’ tutti i settori del sistema economico e finanziario, anche se in maniera molto disorganica; nel New Deal
c’è molta occasionalità e molta improvvisazione.
Vengono disciplinate le relazioni di lavoro con il Wagner Act del 1935 che disciplina i rapporti tra datori di lavoro e
operai, consolida e accresce il debole istituto dei sindacati e introduce una serie di norme relative alla sicurezza sociale
creando il poderoso sistema della Social Security 19. Vengono introdotti meccanismo compensativi per la perdita del
lavoro, la cassa integrazione che fino a quel momento non esisteva, vengono date norme decisamente più rigide per il
settore bancario e assicurativo e i controlli per aprire e gestire istituti finanziari e di credito vengono o introdotti o
rafforzati; inoltre c’è una stretta di controllo sul mercato dei titoli, sul mercato azionario.
19
implica ad esempio l’obbligo per un datore di lavoro di garantire assistenza sanitaria ai suoi dipendenti tramite un’assicurazione
26
Roosevelt non ha pieno consenso nel fare tutto ciò: una parte dell’opinione pubblica vede con favore le sue iniziative, ma
una parte non trascurabile della popolazione e, per un periodo, della Corte Suprema contrasta l’eccesso di interventismo,
che si pensa possa essere addirittura incostituzionale. Questo dipende anche da questioni politiche, molti giudici erano
stati nominati da presidenti repubblicani e Roosevelt riesce ad uscire, con molta difficoltà, da questa situazione
nominando dei giudici a lui favorevoli.
Il New Deal è senz’altro il principale momento di trasformazione economico-sociale nella storia degli Stati Uniti. Ciò che
viene realizzato a livello di protezione sociale, di welfare state, è tuttavia molto modesto rispetto a quanto per lo più già
vigente nell’Europa dell’epoca. Si realizza uno stato sociale debole e rimarrà sempre tale; ad esempio se si raffronta la
legislazione di protezione della maternità ad oggi vigente con quella della Slovenia, o di qualsiasi altro paese europeo, la
regolamentazione americana risulta nettamente inferiore. Il sistema rimane duro, ma almeno vengono introdotte delle
regole e si crea il concetto di sicurezza sociale che prima non esisteva assolutamente. Con la grande crisi si introduce il
concetto della protezione di fasce momentaneamente più deboli della popolazione.
Roosevelt riesce a far passare i criteri del New Deal solo con il secondo mandato. Il momento più forte della sua posizione
è infatti nel ‘37-’38, in cui prevale la sua linea, interrotta poi dalla II Guerra Mondiale che in maniera drammatica e
artificiosa crea più della piena occupazione nel Paese. Le necessità belliche degli Alleati sono tali che l’industria è
costretta a lavorare a pieno regime. Gli Stati Uniti diventano una macchina di produzione mostruosa, facendo vincere il
New Deal sulla crisi del ’29 e spazzando via le ultime sacche di malcontento e disoccupazione. Per l’erede di Roosevelt,
Henry Truman, si porrà addirittura il problema contrario, ossia riportare gli Stati Uniti ad una sorta di normalità
riducendo gli effetti dirompenti del New Deal. Solo la Guerra risolve positivamente le conseguenze della grande crisi
finanziaria.
Ogni paese ha il suo New Deal, quello degli Stati Uniti è il caso più vistoso perché è l’economia più avanzata del pianeta.
Ad esempio in Italia ci fu l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che dall’inizio degli anni ’30 introduce il sistema
delle partecipazioni statali nell’economia. È considerato un esperimento di successo per quanto riguarda l’Italia, che
ebbe paradossalmente la sua uscita dalla grande recessione con quella grossolana vittoria che fu l’impresa d’Etiopia.
Anche in questo caso una guerra risolve definitivamente la crisi.
La neutralità americana
Negli anni ’30 il presidente Roosevelt non ha interessi per le relazioni estere, ad esclusione di un’ovvia politica
nell’America Latina. C’è un indubbio interessamento nei confronti dell’Asia portato avanti con la dottrina Stimson sulla
presenza in Cina e nell’area del Pacifico, ma vi è una sostanziale assenza dall’Europa. Tuttavia è quasi obbligatorio per
gli Stati Uniti interessarsene perché l’Europa, già a partire dalla metà degli anni ’30, comincia a presentare segnali di
grave instabilità.
Si inizia a capire che l’avvento di Hitler al potere nel gennaio del ’33 e il consolidamento di Mussolini al potere nello
Stato autoritario italiano saranno motivi di gravi problemi. L’impresa italiana in Etiopia rischia di scatenare la guerra in
Europa: gli inglesi decidono di non avviare un conflitto, ma inizialmente pianificano l’intervento, tanto che il Senato
americano si premura subito di far capire a Roosevelt che non è assolutamente il caso di dare sostegno all’Inghilterra. Il
Senato emana la prima legge di neutralità per la quale non si possono inviare aiuti di nessun tipo, quali forniture di merci
strategiche, in qualsiasi conflitto in corso, a prescindere da chi siano i belligeranti.
Nel 1936 inizia la guerra civile spagnola, che rappresenta uno scontro non dichiarato fra nazi-fascismo e democrazia filosocialista. Anche in questo caso la tentazione a intervenire è forte; tutta l’Europa stava partecipando in vari modi a quel
conflitto. Il Senato emana la seconda legge di neutralità, a ribadire al Presidente che la guerra civile spagnola non riguarda
gli Stati Uniti. Le leggi di neutralità saranno poi rinnovate negli anni successivi, fino ad arrivare ad un totale di 4, e
segnano, a fronte dell’irrigidirsi della situazione internazionale, la ribadita volontà del popolo americano di non voler
avere a che fare con le tensioni europee.
27
II Guerra Mondiale
Il 3 settembre 1939 Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania. Non scoppiano subito le operazioni
militari, ma gli Stati Uniti si rendono immediatamente conto che è iniziato un regolamento di conti decisivo e che il loro
interesse nazionale non può fare a meno di essere dalla parte delle democrazie occidentali.
Possono gli Stati Uniti assistere impassibili? La risposta logica sarebbe no, ma la popolazione è anti-interventista.
Roosevelt riesce ad ottenere, con un’attenta politica di persuasione, una revisione della normativa di neutralità che nel
novembre del ’39 comporta l’abolizione del limite di fornitura di merci strategiche: il presidente può così valutare di
fornire anche merci strategiche se questo è negli interessi degli Stati Uniti, ma secondo la clausola cash and carry, per cui il
paese destinatario degli aiuti deve andare a prenderli direttamente in America e pagare subito. Tutto ciò è fattibile finché
i paesi non sono pienamente in guerra.
Quando però nel maggio del 1940 Hitler ritiene di poter dare il colpo di grazia alla Francia, e lo fa con una facilità
sconcertante20 nel giro di un mese, la percezione, per altro molto realistica, è che l’Europa sia ormai sotto il controllo della
Germania. Roosevelt capisce che bisogna fare qualcosa per evitare il tracollo della democrazia in Europa e che gli Stati
Uniti devono cercare di sostenere la Gran Bretagna in quanto fiammella della democrazia. Riesce ad ottenere con estrema
difficoltà che nel corso del 1940 una fornitura di 50 obsolete cacciatorpediniere, unità scorta convoglio per la lotta antisommergibile, venga messa a disposizione dei convogli inglesi che avrebbero dovuto continuare a seguire la clausola
cash and carry per prendere i rifornimenti, perché avessero una teorica capacità maggiore di sopravvivenza.
Nella primavera del 1941 i tedeschi dominano tutta l’Europa e Roosevelt riesce ad ottenere dal Senato una svolta
importante, ma sicuramente non ancora decisiva per l’andamento di tutta la guerra, con la conversione della legge cash
and carry nella legge affitti e prestiti. Il Presidente ha ora la facoltà di aiutare i paesi amici senza limiti, come meglio ritiene.
Non c’è limite nell’aiuto che può dare alla Gran Bretagna e non ha l’obbligo di ottenere qualcosa in cambio.
Nel giungo del 1941, con l’operazione Barbarossa, la Germania attacca l’Unione Sovietica che quindi diventa un bastione
difensivo anche degli interessi della democrazia in occidente. Dall’agosto del 1941, con modestissimo entusiasmo, questa
legge verrà estesa anche all’Unione Sovietica. Agli Stati Uniti questo non piace, ma non ne possono fare a meno dal
momento in cui anche Stalin è un nemico di Hitler. Per questo motivo viene occupato l’Iran, che simpatizzava per la
Germania: si vuole garantire la via di accesso dal Golfo Persico per gli aiuti all’Unione Sovietica. Si ha quindi una
congiunta occupazione anglo-russo-americana della Persia. Il ruolo degli Stati Uniti, per quanto estremamente rilevante,
resta comunque di sostegno esclusivamente economico-finanziario.
Pearl Harbor
L’evento decisivo che proietta gli Stati Uniti nella guerra è l’episodio di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, che rappresenta
una delle sindromi dell’immaginario collettivo statunitense, nel quale entra perché non avevano mai subito degli attacchi
sul proprio suolo prima di allora. Altri eventi che segnano l’immaginario collettivo americano sono stati la dichiarazione
d’indipendenza, la firma della costituzione a Philadelphia, la guerra civile e in particolare l’episodio di Alamo, la guerra
del Vietnam e l’11 settembre.
L’attacco alle Hawaii è una drammatica sorpresa per il popolo americano, tuttavia prevedibile. Il mondo è in guerra da
due anni, gli Stati Uniti non sono belligeranti, ma si sono schierati apertamente in favore degli inglesi e dei sovietici, e il
Giappone si è legato già dal settembre 1940, col Patto Tripartito, alle sorti di Italia e Germania. Quello che doveva essere il
nuovo ordine mondiale dà al Giappone, in nome dell’asse Roma-Berlino-Tokyo, il controllo dell’area Asia-Pacifico ed è
ovvio che, anche se non c’è una guerra dichiarata, questi sia nemico degli Stai Uniti. Il Giappone in quel momento
tecnicamente è un militarismo non molto diverso dalla Germania della I Guerra Mondiale e al suo interno ha preso il
potere la lobbie della marina, ciò significa che prevalgono interessi geopolitici e strategici che lo portano a cercare di
ottenere un ruolo forte nel Pacifico. Inoltre alla fine degli anni ’30 gli americani, percependolo come un paese che
cresceva minaccioso, avevano deciso di chiudere progressivamente le forniture petrolifere allo stesso Giappone
creandogli notevoli problemi di approvvigionamento soprattutto nel lungo periodo; purtroppo chi si sente inferiore nel
20
l’esercito francese era considerato il migliore del mondo
28
lungo periodo tende ad attaccare subito. I giapponesi ritengono matura la situazione per per prendere il controllo
assoluto del Pacifico, ma per farlo occorre umiliare gli Stati Uniti. Detto ciò non è così strano l’attacco alla Hawaii.
Roosevelt, potendo forse in gran parte evitarlo, “si fa fare” l’attacco a Pearl Harbor, che gli risolve tutti i problemi con il
Senato per quanto riguarda la guerra in Europa. C’erano dei segnali che l’attacco potesse avvenire e i servizi segreti
sicuramente avevano visto salpare grandi unità dal Giappone, ma questo non vuol dire che si potesse prevedere che
all’alba del 7 dicembre ci sarebbe stato un così poderoso attacco alle Hawaii. È da escludersi che il Presidente e i sui
collaboratori potessero accettare la morte di quasi 2400 persone e la perdita dell’intera flotta del Pacifico solo per ottenere
il consenso all’ingresso in guerra. Ci fu tuttavia molta incuria21 e gli americani sicuramente sottovalutarono la situazione.
Comunque gli strumenti di intercettazione non erano certo quelli attuali, non c’era una rete satellitare e anche una
situazione di allerta avanzata avrebbe potuto attenuare i risultati dell’attacco, ma non impedirlo. All’OSS, l’apparato di
intelligence, viene attribuita la responsabilità di aver permesso l’attacco e viene quindi punita con lo scioglimento; viene
poi sostituita con la creazione della CIA, Central Intelligence Agency.
L’attacco riesce in maniera superlativa e da quel momento gli Stati Uniti entrano nella II Guerra Mondiale, non possono
evitarlo. Paradossalmente, analizzandolo a posteriori, è un errore dell’Asse perché la non belligeranza diretta degli Stati
Uniti sarebbe stata un vantaggio, ma in quel momento i giapponesi erano molto più forte degli americani, che dopo la I
Guerra Mondiale avevano lasciato in qualche modo decadere il loro apparato militare. Alla fine del 1941 il Pacifico era
interamente nelle mani dei Giapponesi e per trovare territorio ostile dovevano arrivare agli Stati Uniti.
La Guerra del Pacifico
Gli Stati Uniti si ritrovano in guerra e cambiano completamente le prospettive del conflitto. Militarmente si occupano
innanzitutto del Pacifico e allo stesso tempo incrementano enormemente gli aiuti alla Gran Bretagna e all’URSS.
La minaccia giapponese è concreta e la loro attenzione iniziale è rivolta esclusivamente al conflitto del Pacifico, che prende
subito una connotazione di odio razziale molto particolare. È una guerra “cattiva”, c’è cattiveria nella conduzione e
diventa una guerra totale nel senso più esasperato del termine. Ad esempio all’interno degli Stati Uniti si attua il
completo internamento della popolazione di origine giapponese: quasi 170.000 persone di origine giapponese anche di
generazioni successive alla prima, quindi con cittadinanza americana, sono stati internati; ciò comportava la perdita del
lavoro e lo spossessamento dei beni. L’internamento nei campi americani, a differenza ad esempio di quelli tedeschi,
prevedeva ovviamente condizioni umane, ma si trattò comunque di un fenomeno molto grave. Misure simili non
vengono nemmeno prese in considerazione per la parte di popolazione di origine italiana o tedesca.
I modi di conduzione della guerra del Pacifico sono efferati, completamente diversi rispetto a quelli adottati nello
scenario europeo. Un pilota americano che venga preso prigioniero in Germania viene sicuramente messo in un campo
di internamento dove tuttavia viene rispettato, e questa garanzia è reciproca; un pilota americano che venga preso
prigioniero dai giapponesi viene immediatamente decapitato e in alcuni casi sottoposto a pratiche di cannibalismo
rituale. La riconquista americana del Pacifico sarà truculenta, tutte le piccole isole vengono conquistate e non c’è bunker
che non venga “ripulito” dai Marines col lanciafiamme. È una guerra che assume i connotati dello scontro di civiltà.
Il punto di svolta della guerra del Pacifico avviene nel giugno del 1942 con la battaglia delle Midway, un atollo
dell’arcipelago delle Hawaii. Avendo sistemi di ricerca elettronici molto primitivi, quasi per caso un gruppo di aerei
americani riesce ad individuare tre portaerei giapponesi e, a prezzo di tutti quasi tutti i piloti, riescono a distruggerle. Ci
vorranno tuttavia più di 3 anni e 2 bombe atomiche per piegare il Giappone.
Lo scenario europeo
Le scelte americane inizialmente non possono essere di tipo operativo in Europa; non ci sono le condizioni perché
possano mandare ingenti forze nello scenario europeo, anche perché interamente controllato dalla Germania. Il grande
dibattito strategico si concentra quindi sull’apertura del secondo fronte e prosegue per tutto il ’42 e il ’43 fino a quando,
con la conferenza di Teheran, il 1° dicembre 1943 gli americani riescono ad essere l’ago della bilancia fra le diverse idee di
21
diceva Stalin come battuta ricorrente: «È inutile scomodare grandi complotti quando basta l’imbecillità della gente»
29
Churchill e di Stalin. Quest’ultimo, ritenendo l’Europa occidentale fuori dall’orbita Sovietica è a favore dell’apertura di
un secondo fronte in Francia, mentre Churchill vorrebbe aprire il fronte nei Balcani, così poi li libererebbe dall’influenza
sovietica. Determinante in questo dibattito è Roosevelt, che si pronuncia a favore di Stalin e dell’apertura del fronte in
Francia. Roosevelt aveva la possibilità di decidere diversamente, ma ritiene che in quelle condizioni non si possano fare
torti ai russi; si cerca di venirsi incontro il più possibile. Fra il vetero-imperialismo britannico e le esigenze reali del
conflitto il Presidente americano sceglie le seconde. I disegni di controllo dell’area balcanica non lo interessano, in quel
momento pensa solo in grande, punta a sconfiggere Hitler e ritiene che in quel contesto la strategia migliore sia quella
sovietica. Per questa decisione viene accusato dagli occidentali di essere troppo arrendevole con l’URSS, ma gli vale un
incondizionato sostegno e simpatia da parte sovietica 22. Egli ha inoltre facilmente digerito l’accordo Molotov-Ribbentrop,
considerato uno dei peggiori trattati della storia per la sua insensibilità nei confronti delle popolazioni, e non solleva mai
il problema dei confini della Polonia, che quando viene fatta rinascere alla fine della guerra è solo a danno della
Germania.
Questo atteggiamento di Roosevelt è in realtà dovuto alla sua comprensione che senza l’alleato sovietico la guerra
sarebbe stata vinta dalla Germania nazista. Non si saprà, essendo morto prematuramente, se questa politica di buon
vicinato con l’URSS avrebbe in qualche maniera potuto risparmiare almeno in parte le crudezze della Guerra Fredda.
22
nella storiografia sovietica, di connotazione nettamente politica, le cause della Guerra Fredda risalgono tutte alla scomparsa di un
bravo presidente, Roosevelt, e al subentro di un ottuso successore, Truman, incapace di capire l’importanza di andare d’accordo
30
Lezione 7!
12/04/11
Aspetti della guerra
La II Guerra Mondiale comporta diversi aspetti particolari come la differenza di approccio al nemico da parte degli Stati
Uniti per quanto riguarda gli europei e per quanto riguarda i giapponesi; c’è un’idea diversa del nemico.
A livello interno la guerra pone definitivamente fine alla crisi economica del ’29 perché gli Stati Uniti lavorano a ritmi di
iper-produzione per il loro sforzo bellico; la crisi non è quindi chiusa dal New Deal di Roosevelt, che per quanto
importante non è stato sufficiente.
La guerra ha inoltre degli effetti molto positivi per l’emancipazione razziale: sicuramente la partecipazione di soldati di
colore alla guerra, anche se non ammessi a gradi elevati, è comunque un elemento di emancipazione. I soldati sono
ancora separati e i reparti di colore sono guidati da ufficiali bianchi; solo con la guerra del Vietnam ci sarà la piena
integrazione razziale tra soldati bianchi e di colore con l’introduzione dei reparti misti.
C’è un importante miglioramento della condizione femminile perché le donne diventano per molti aspetti l’asse portante
della produzione; ci sono anche donne sotto le armi, ma per loro non c’è la coscrizione obbligatoria di massa come per gli
uomini e quindi chi lavora concretamente nelle imprese e nelle aziende americane sono loro.
Non vengono invece modificate le aliquote di immigrazione, gli Stati Uniti non aprono molto i confini a chi viene da fuori.
Hanno seguito una politica molto rigida e molto dura per quanto riguarda l’immigrazione anche nei confronti degli ebrei
che cercavano salvezza: non li hanno accettati in massa, ma hanno accolto quelli che potevano essergli più utili 23. Dalla
fine degli anni ’30 era risaputo a livello globale ciò che stava accadendo agli ebrei, ma non si ha comunque una
variazione delle aliquote nei confronti della popolazione ebraica per salvarla in modo consistente; non si può dire che gli
ebrei siano stati aiutati a sopravvivere all’olocausto dagli Stati Uniti.
Altro fenomeno sgradevole, ma presente, è quello della repressione intellettuale all’interno del paese. La famigerata
commissione per le attività anti-americane, approvata dal Parlamento alla fine degli anni ’30 e che sarà poi il cavallo di
battaglia del senatore McCarthy, è uno strumento di repressione culturale e intellettuale di ciò che non è americano. La
commissione è formata da un presidente, che è un parlamentare, e da altre componenti sempre legate al parlamento; non
ha potere giudiziario, non può condannare o incarcerare, ma rovina di fatto le persone, fa migliaia di vittime, perché
accusandole di essere anti-americane le porta all’esclusione sociale, al licenziamento. Durante la guerra inizia già a
funzionare: viene repressa la diversità, ciò che non segue l’immagine del buon americano. Il buon americano è, ad
esempio, visceralmente anti-comunista e anti-anarchico perché crede nel sistema America, non è omosessuale perché
ama la famiglia e avrà dei figli che renderanno sempre più potenti e grandi gli Stati Uniti; quindi tutto ciò che non segue
il modello americano è anti-americano. Bisogna tuttavia considerare che l’attività della commissione è esecrabile proprio
perché in quel Paese, in condizioni normali, vige un clima di civile e democratica tolleranza e perché la repressione della
diversità, anche durante il periodo del maccartismo, non arriva comunque agli estremi, ad esempio, dell’incarcerazione.
È un fenomeno patologico proprio perché si manifesta in un Paese in cui si cerca di lasciare libera, o addirittura di
valorizzare, la diversità.
Roosevelt sposa la causa sovietica perché ritiene indispensabile il loro apporto alla guerra. L’Unione Sovietica in cambio
concede la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite al presidente americano, fermamente convinto che la pace e
la stabilità internazionale potranno essere garantite solo dal principio della sicurezza collettiva. I sovietici in realtà
credono nel vecchio modello della sicurezza imperiale che prevede il controllo dei territori e le sfere d’influenza, ma
acconsentono alla realizzazione di questo progetto in segno di gratitudine; pretendono comunque due forti elementi di
sicurezza: l’art.2 della Carta, che prevede l’assoluto rispetto della domestic jurisdiction, e il diritto di veto che comporta
non solo il blocco delle risoluzioni, ma anche la possibilità di impedire ad un argomento di essere portato all’ordine del
giorno se il solo nominarlo può comportare un danno politico. L’ONU è l’idea rooseveltiana di una sicurezza
universalistica gestita a livello globale inizialmente dalle potenze vincitrici e in seguito da tutti.
23
ad esempio Henry Kissinger o Enrico Fermi
31
Con la morte di Roosevelt nell’aprile del 1945 questo tentativo di coesistenza fra il modello americano di universalismo,
rappresentato dall’ONU, e il modello sovietico, legato alle sfere d’influenza e al controllo diretto di Stati satelliti, viene a
scomparire.
Le basi del mondo futuro
Il successore di Roosevelt, il suo vice Harry Truman, non si era mai occupato di politica internazionale: è un esperto di
questioni economiche, e soprattutto di agricoltura, e i primi passi sono quindi difficili e al tempo stesso decisivi. Questo
perché subentra a Roosevelt proprio quando si devono porre le basi del mondo futuro. È un momento di straordinaria
delicatezza e le basi di Truman saranno di non-dialogo con i sovietici.
Truman non capisce la situazione internazionale. Il 30 aprile, è presidente da pochi giorni, i partigiani di Tito occupano
Trieste; comincia un periodo durissimo di purghe e rese dei conti e immediatamente sia i suoi consiglieri che Churchill
sostengono che gli Stati Uniti non possono ignorare la situazione perché sono i liberatori democratici e Truman risponde di
non voler fare una guerra nei Balcani solo per una città. È palesemente una risposta goffa, priva si sensibilità politica.
Churchill a quel punto, dall’alto di una maggiore esperienza, inizia a fargli pressione sostenendo che anche Roosevelt era
convinto che Trieste dovesse essere italiana e occidentale; fa leva sulla sua sindrome del grande predecessore, di cui Truman
è succube. Dopo tante insistenze il 9 maggio 1945, ad una riunione coi vertici militari, il presidente americano dichiara
testualmente, riguardo i partigiani di Tito, che è necessario «to throw them out from Trieste». Non vuole tuttavia che siano
impiegati degli americani nell’operazione, lo pone come condizione, e per questo motivo il 10 giungo è la divisione
neozelandese a liberare la città.
La questione di Trieste è l’esempio di come Truman non riesca ad entrare bene nell’ottica delle relazioni internazionali.
Non capisce la situazione, ma è inamovibile dalla sua posizione visceralmente anti-comunista e per questo non vuole
avere niente a che fare con l’Unione Sovietica, anche perché non ne ha più bisogno.
32
Lezione 8!
03/05/11
Il federalismo americano
Il federalismo statunitense è sicuramente precursore dei tempi: qualsiasi modello federalista posteriore ad esso deve in
qualche maniera tentare un confronto. Questo da quando il grande intellettuale francese che fu Alexis de Tocqueville
negli anni ’30 dell’Ottocento scrive un libro sul modello americano, riconoscendo in esso una qualche genialità. È un
sistema unico, che mette insieme i vantaggi di uno Stato grande e quelli dei piccoli Stati ben funzionanti.
Il comunista Altiero Spinelli nel manifesto di Ventotene riconosce che l’unico modello a cui l’Europa può aspirare è quello
americano. Se l’Europa non vuole più distruggersi, come sta accadendo nel 1941, l’unica alternativa è la fondazione degli
Stati Uniti d’Europa sul modello degli Stati Uniti d’America. I problemi affrontati, e in qualche maniera risolti, dal
sistema politico statunitense sono i problemi che sta goffamente e lentamente cercando di risolvere l’attuale processo di
unificazione europea. Il federalismo americano è la prima esperienza incarnata di modello di stato federale, prima non
esisteva niente di simile.
Gli Stati Uniti nascono passando da un’esperienza confederale, con dei legami molto blandi. Dal 1781 al 1787, entrata in
vigore della Costituzione americana, i rapporti fra gli Stati sono regolati dai cosiddetti articoli di confederazione, ossia
alcune norme che regolano i rapporti reciproci. Questo perché all’epoca della dichiarazione d’indipendenza le 13 colonie
che si emancipano e diventano gli Stati Uniti d’America nella realtà diventano 13 Stati sovrani, ma se fossero rimasti
indipendenti gli uni dagli altri sarebbero state delle realtà facilmente fagocitabili dall’esterno. Il primo tentativo di
trovare un modus vivendi sono quindi gli articoli di confederazione, ma sono rapporti estremamente blandi, che
comunque non toccano il problema di fondo della sovranità unica del Paese; si tratta semplicemente di regole
momentanee di convivenza per portare a compimento quello che è l’obiettivo primario, ossia l’indipendenza totale dagli
inglesi. Gli articoli stabiliscono delle norme per la collaborazione militare, economica e anche parzialmente politica, ma
lasciano intatta la sovranità dei 13 Stati.
In quel momento comincia il dibattito su quale dovrà essere il futuro degli Stati Uniti e si vengono a creare due grandi
correnti di pensiero, una sicuramente favorevole al centralismo politico, l’altra ad esso sfavorevole o che perlomeno
pretendeva il cosiddetto dualismo federale, ossia un chiaro confine fra le competenze del centro e le competenze delle
periferie.
Quella americana è una novità straordinaria ed Alexander Hamilton è sicuramente il principale artefice della, molto
sofferta, scelta federale. La Costituzione federalista passa con scarsa maggioranza alla convenzione di Philadelphia
perché ci sono naturali paure che il modello federale possa permettere una prevaricazione del centro sulla periferia.
L’idea jeffersoniana cerca da quel momento di limitare il più possibile l’aumento delle competenze del governo centrale.
Durante il suo secondo mandato da presidente Jefferson, in una lettera a James Madison, afferma che «devono
appartenere agli Stati tutte quelle competenze che possono meglio essere svolte a livello di piccole repubbliche, mentre
devono rimanere alla Federazione tutte le competenze che sono meglio gestite da una grande entità». Paradossalmente
questa lettera personale sancisce la sua riconciliazione con Hamilton, a quasi 15 anni dalla morte di quest’ultimo 24.
Riguardo alle competenze federali e locali la Costituzione è abbastanza lapidaria: sostiene che il governo centrale si deve
occupare di difesa, di imposizione fiscale che tuttavia non è esclusiva e può essere condivisa con gli Stati, di libertà del
commercio, di attività di controllo finanziario e di politica estera. Il 10° emendamento, l’ultimo ad essere ratificato,
chiarifica che tutte le competenze che non sono esplicitamente assegnate dalla Costituzione al governo centrale devono
ritenersi assegnate ai governi dei singoli Stati.
Con la guerra civile c’è in tutti i settori un rovesciamento dell’interpretazione: nelle competenze sussidiarie, cioè quelle
di cui non è chiara l’attribuzione, di fatto ci sarà la prevalenza del governo centrale.
24
era uomo d’armi, uno dei principali collaboratori di George Washington durante la guerra d’indipendenza, ma era contrario al duello
che riteneva un assassinio. Resta ucciso proprio in un duello perché accetta la sfida ma decide di non sparare. Era comunque un
uomo sconfitto, nei suoi ultimi anni è convinto che negli Stati Uniti non sia stato realizzato un sistema di convivenza efficace e che i
suoi sforzi siano dunque stati vani. In effetti molti dei problemi della gestione dei poteri statali e federali restano in sospeso e
vengono risolti solo con la guerra civile.
33
A livello fiscale questa prassi viene ufficializzata con il 16° emendamento del 1913, il quale sancisce che tutta l’imposizione
diretta, quindi le imposte sui redditi, è di competenza federale, cioè del Congresso degli Stati Uniti; le imposte indirette
sono invece a discrezione dei singoli Stati.
Anche per quanto riguarda il settore giudiziario ci sono contrasti tra centro e periferia per l’attribuzione delle competenze.
Nella Costituzione si sancisce la libertà di ogni Stato ad avere una propria legislazione interna e viene istituita, a livello
federale, la Corte Suprema volta a giudicare la costituzionalità delle leggi; tuttavia non viene specificato nel testo se il
suo giudizio debba essere limitato alle leggi federali o se debba comprendere anche quelle statali. Ciò porta a decenni di
battaglie giuridiche che si concludono negli anni ’30 del ‘800 con una sentenza che fa passare il principio che la
costituzionalità di una legge è decisa dalla Corte Suprema federale anche per le leggi dei singoli Stati. In questo modo
viene tolta un’enorme autonomia agli Stati della federazione.
Un altro settore per cui da subito si accese il dibattito sulle competenze è quello delle forze armante. Gli Stati avevano
delle loro primitive forme di milizia, tanto è vero che è stata mantenuta una parvenza di autonomia in quella che oggi è
la Guardia Nazionale, che vanta di essere la più antica forza armata degli Stati Uniti perché si rifà alla realtà locale della
baia del Massachusetts che aveva costituito una propria milizia già nel 1636. La Guardia Nazionale è in ogni caso una
struttura parallela alle forza armate, formata da riservisti delle stesse e quindi con una giurata fedeltà alla federazione;
ha comunque un’anima federale, che può essere fatta attivare solo dal Presidente degli Stati Uniti con una dichiarazione di
mobilitazione generale per questioni di difesa del territorio e di supporto laddove le forze armate federali non siano
ritenute in grado di adempiere alla missione, e un’anima nazionale, di Stato, lasciata alle competenze del governatore che
può utilizzarla per problemi di carattere locale, ad esempio per calamità naturali.
Con la Costituzione e i suoi sviluppi si è comunque voluto rendere il sistema di difesa del Paese assolutamente sotto
controllo centrale. Si è tenuto in considerazione, infatti, che ogni qual volta delle realtà di milizie a carattere nazionale
sono state lasciate espandere notevolmente, come ad esempio nell’ex-Jugoslavia, in realtà sono diventate lo strumento
principale e naturale di secessione all’interno del Paese.
Fine della II Guerra Mondiale
È un momento cruciale per gli Stati Uniti e per l’umanità perché è il momento nel quale stanno per assumersi
responsabilità permanenti, sine die, e globali, malgrado fossero stati fino al 1945 molto restii a prendersi questo genere di
responsabilità. È un momento di straordinaria modificazione della realtà statunitense; è il paese più potente del mondo,
che ha avuto il riconoscimento a livello mondiale di aver annientato la tirannide nazi-fascista e militarista giapponese,
affermatosi come portatore di libertà, decide di impegnarsi su vasta scala.
Nel ’45 gli americani hanno una gran fretta di chiudere la guerra, di interrompere i finanziamenti agli alleati e di
«portare i ragazzi a casa» ossia di non tenere privati cittadini statunitensi più a lungo del necessario in guerra. Questi
sono gli obiettivi che l’amministrazione americana persegue nel corso di quell’anno. Nel giro di due anni lo stesso
presidente Truman dichiarerà invece l’impegno globale degli Stati Uniti perché quella che era l‘alleanza di guerra con
l’Unione Sovietica si trasforma in una profonda e mal celata ostilità che sfocerà poi nella Guerra Fredda.
L’arma atomica
L’atomica proietta gli Stati Uniti in una condizione di monopolio a livello globale. Ormai la tecnologia era matura e gli
americani riescono a realizzare questo progetto portando già dagli anni ’30 negli Stati Uniti tutte le menti della fisica
disposte a lavorarci 25. Questo imponente team di scienziati, composto quasi interamente da persone di religione ebraica
fuggite da vari paesi dell’Europa, sotto una guida militare e costretto a una vita pressoché monastica a Los Alamos in
Nuovo Messico, lavora e sperimenta l’impiego dell’energia atomica. Mentre il presidente Truman si trova a Potsdam
verso la metà di luglio del 1945 per concludere con gli alleati degli accordi per la gestione dell’immediato dopoguerra,
viene raggiunto dalla notizia che l’operazione Manhattan ha prodotto la prima esplosione atomica della storia
dell’umanità. Si riscontra in essa un’enorme capacità distruttiva meccanica e termica, ma occorsero ulteriori studi per
capire l’elemento radioattivo.
25
il danese Niels Bohr, ad esempio, rifiuta categoricamente di lavorare allo sfruttamento dell’energia atomica
34
È evidentemente una super-arma perché la potenza distruttiva di un solo ordigno atomico è, all’epoca, pari a quella di
circa 1.000 o 1.200 bombardieri. Ha una capacità distruttiva mostruosa. Cambia il concetto stesso di guerra.
È importante ricordare che in quel momento la Germania era stata annichilita, ma in Giappone la fine delle ostilità era
ancora decisamente lontana. La guerra era stata già sufficientemente truculenta e si prospettava anche peggiore perché a
quel punto l’inevitabile sconfitta giapponese avrebbe comportato l’invasione delle isole nipponiche e ciò sarebbe stato
decisamente dispendioso economicamente e soprattutto in termini di vite umane; si stimavano almeno 1 milione di
morti per il Giappone e svariate centinaia di migliaia per gli Stati Uniti. Significativo è un accordo a latere preso a Yalta in
cui Roosevelt riesce ad ottenere che l’Unione Sovietica dichiari guerra al Giappone, con cui per tutto il periodo
precedente non era stato in guerra, in un tempo compreso fra i due e i tre mesi dalla fine delle operazioni in Europa. Ciò
non avviene perché Stalin si rende conto delle difficili implicazioni che sarebbero derivate da una dichiarazione di guerra
al Gippone. Quindi, quando gli americani si trovano in possesso dell’arma atomica la vedono come la possibilità di
chiudere al più presto la guerra anche nel Pacifico. Vengono prese in considerazione tre differenti opzioni di utilizzo:
1) bombardare obiettivi sensibili in Giappone.
2) avvertire i giapponesi che una straordinaria bomba sarebbe stata lanciata in una località definita e non abitata del
Giappone per convincerli ad arrendersi. tuttavia quest'ipotesi viene scartata perché ci si rende conto che i giapponesi,
se avvertiti per tempo, avrebbero organizzato e opposto una strenua resistenza all’iniziativa americana.
3) invitare personaggi qualificati del Giappone ad assistere ad un secondo esperimento nel deserto del Nuovo Messico.
Questa opzione è abbastanza irrealistica: in primis perché difficilmente un alto funzionario giapponese sarebbe stato
disposto a recarsi negli Stati Uniti in quel periodo, in secondo luogo perché costui avrebbe riportato a casa l’idea di
aver assistito ad una sorta di messinscena holliwoodiana. Anche questa proposta viene accantonata.
Si arriva a sceglie l’unica opzione percorribile, ossia quella di colpire direttamente degli obiettivi giapponesi, e da quel
momento il processo organizzativo è molto rapido26. Viene stilata una lista di 10 città, di dimensioni relativamente
piccole per limitare per quanto possibile il numero di morti e per garantire la totale distruzione della città stessa;
vengono fissate le date e la scelta finale degli obiettivi avviene esclusivamente sulla base della condizioni meteorologiche
del momento. Il 6 agosto viene scelta la città di Hiroshima perché il cielo limpido consentiva una sicura acquisizione
dell’obiettivo dato che non vi erano sistemi di puntamento tecnologicamente avanzati e che la collimazione essendo
ottica consentiva l’inquadramento dell’obiettivo solo con condizioni di visibilità ottimali; inoltre si voleva avere una
documentazione dell’attacco e ciò era possibile solo in condizioni meteorologiche favorevoli. Non basta la prima atomica
per piegare il Giappone e il 9 agosto, con gli stessi criteri, viene scelta la città di Nagasaki.
A quel punto i sovietici dichiarano guerra perché capiscono che la resa giapponese è prossima e vogliono essere al tavolo
dei vincitori, che in questo modo riusciranno ad ottenere una grande parte dei possedimenti giapponesi.
Truman, nelle sue memorie, non la ritiene la più drammatica delle sue decisioni27 perché non avrebbe potuto giustificare
ulteriori morti e sofferenze americane avendo la possibilità di porre fine al conflitto in tempi e con perdite nettamente
inferiori rispetto a quelli previsti per il proseguimento della guerra con armi convenzionali.
L’avvento dell’era atomica
A quel punto gli Stati Uniti si trovano, per poco, monopolisti di questa straordinaria capacità distruttiva. Vengono
valutate, in maniera piuttosto nervosa, tra il ’45 e il ’46 tre ipotesi di come disporre di questa nuova tecnologia:
1) far finta che non sia successo niente, garantirsi che gli scienziati di Los Alamos non operino da altre parti in proprio e
rinunciare a tutti i risultati ottenuti; è un’ipotesi assolutamente irrealizzabile e al limite del ridicolo.
2) internazionalizzare il know how nucleare sotto una seria agenzia di controllo internazionale assolutamente sovrana,
cioè in grado di fare assolutamente qualsiasi tipo di controllo e di dare disposizioni ferree a tutti i paesi coinvolti;
viene messo a punto il piano Baruch, che si arena quando i sovietici rifiutano l’idea di subire i controlli americani.
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l’esplosione nel Nuovo Messico risale al 19 luglio e la prima atomica viene lanciata su Hiroshima il 6 agosto
27
la più drammatica è considerata la guerra di Corea, ritenuta necessaria ma probabile prodromo alla terza guerra mondiale.
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3) viene emanato l’Atomic Energy Act che sancisce ciò che è più scontato e inevitabile, ossia che gli americani continuino
a gestire l’energia atomica e non condividano le loro conoscenze assolutamente con nessuno, nemmeno con gli
inglesi, che porteranno a termine i loro progetti solo nel ’52 e senza nessun tipo di aiuto americano. Gli Stati Uniti
sigillano la loro capacità atomica.
Nel 1949 i sovietici riescono a realizzare la loro prima bomba atomica, ma in realtà, fino alla metà degli anni ’50, non
hanno vettori in grado di colpire gli obiettivi. Per quanto riguarda la tecnologia atomica, il binomio “ordigno - vettore” è
assolutamente indissolubile perché sono assolutamente inutili l’uno senza l’altro. Quindi per circa un decennio gli Stati
Uniti agiscono, sotto un profilo atomico, in un monopolio di fatto totale. Infatti la prima volta che i sovietici saranno in
grado e minacceranno di utilizzare armi nucleari sarà durante la crisi di Suez nella metà degli anni ’50.
Il dopoguerra
Il problema di fondo che emerge subito dopo la fine della guerra è che Stati Uniti e Unione Sovietica sono due mondi
inconciliabili. Erano riusciti a trovare un accordo nel momento in cui era stato indispensabile, ma una volta cessata la
comune minaccia gli Stati Uniti non vogliono più, come afferma Truman, «fare da balia ai sovietici». Un chiaro esempio è
la lettera che il Presidente scrive al Segretario di Stato Byrnes per le festività del ’45 in cui afferma di non tollerare più il
rapporto con l’Unione Sovietica, ormai ritenuto superfluo e fastidioso. Hanno visioni delle relazioni internazionali
completamente alternativa, incondivisibili. Da subito si capisce che il ruolo degli Stati Uniti nei paesi liberati dall’Armata
Rossa sarà inesistente perché non c’è libertà di circolazione, di commerci e scambi, è un modello che chiaramente non
soddisfa la leadership americana. Nell’amministrazione Truman comincia a maturare rapidamente l’idea di una
sostanziale rottura con gli ex-alleati; l’unico parere contrastante è quello del Segretario Byrnes, già Segretario sotto la
presidenza Roosevelt, che almeno fino alla primavera del ’46 cerca di dialogare coi sovietici.
Sicuramente un effetto pesante sulle decisioni di Truman è dato dai cosiddetti cattivi maestri 28 da cui è allevato,
personaggi di grande esperienza politica dell’amministrazione americana che sono ormai sostanzialmente degli antisovietici. Lo allevano nel senso che Truman, nell’aprile del ’45, non sa assolutamente nulla di politica estera perché
Roosevelt non l’ha mai impiegato in quell’ambito. C’è anche l’incapacità di Truman nelle origini della Guerra Fredda
perché è il presidente a decidere la politica estera.
Il Long Telegram
Byrnes inizialmente accettava l’idea delle sfere d’influenza aperte, ossia che i paesi vicini all’Unione Sovietica fossero
politicamente legati a Mosca e che il resto del mondo rimanesse libero da queste influenze, ma questo progetto non si
riesce a realizzare. Ciò che fa traboccare il vaso è il Long Telegram del 22 febbraio 1946 in cui George Kennan, incaricato
d’affari in realtà plenipotenziario americano a Mosca, scrive le famose 8.000 battute al Dipartimento di Stato, che sono la
quintessenza dello spirito della Guerra Fredda e rappresentano l’esempio perfetto della difficoltà di comunicazione fra
americani e sovietici. È ovviamente un documento segreto, ma nel luglio del ’47 Kennan viene esortato dal suo governo a
scriverne una versione “romanzata” che verrà pubblicata su Foreign Affairs nell’articolo «The sources of soviet conduct»
firmato Mister X, che contiene tutti gli stereotipi della Guerra Fredda.
Raramente un documento ha cambiato il mondo come ha fatto quello scritto da George Kennan. Questo perché a
Washington sia il presidente che i suoi collaboratori non aspettavano altro e quindi trova un terreno molto fertile. Si
converte persino James Byrnes, uomo di dialogo a oltranza, e le sue direttive alle sedi diplomatiche americane cambiano
completamente dopo il Long Telegram: dall’invito alla pazienza e al negoziato, prima, alla drastica istruzione di non
fidarsi e non perdere tempo a negoziare, quindi trattare i sovietici come nemici, dopo. Byrnes è un convertito: dalla
politica del dialogo di Roosevelt passa a quella anti-sovietica di Truman e, come spesso accade, diventa integralista. Nel
settembre del ‘46 dà una sorta di ultimatum alla Russia per definire la politica in Germania e in assenza di risposta da
parte sovietica in dicembre dichiara l’unificazione delle zone di occupazione occidentale. Nel momento in cui le tre zone
occupate dagli anglo-franco-americani e la zona occidentale di Berlino diventano una singola zona si ha il primo e ovvio
passo verso la costituzione di uno Stato, cosa che avverrà nel 1949, e questi rappresentano forti segnali di rottura.
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Charles Bohlen, Averell Harriman, Harry Hopkins, George Kennan
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Tuttavia, almeno in un primo momento, questa rottura è esclusivamente interna all’amministrazione, non è condivisa
con l’opinione pubblica, perché il Governo sa di non poter improvvisamente dichiarare alla popolazione che gli alleati di
un anno prima sono i nemici di oggi. Nel novembre del 1946 si svolgono le elezioni di mid-term e Truman non può
permettersi di dare un tale shock all’elettorato, considerando che in quel momento i sovietici non stavano assolutamente
minacciando gli Stati Uniti. L’elettore medio non capirebbe che un tale cambiamento dipende da logiche non condivise
dai due paesi relative alla sicurezza globale, anche perché gli americani sono notoriamente poco sensibili alla politica
estera, salvo che nel momento della tragedia. Tragedia che però era appena stata superata con la vittoria della guerra.
Non è enunciabile la rottura.
Le elezioni vanno malissimo per Truman che si trova in una condizione di governo diviso, la camera dei rappresentanti
contraria. Tuttavia da quel momento ha due anni abbastanza pieni di mandato: ripulisce il partito eliminando
l’opposizione interna, in particolare dei vecchi new dealers che sono favorevoli ad un dialogo ad oltranza con l’URSS;
coinvolge importanti esponenti religiosi che convince a fare propaganda anti-sovietica in quanto incarnazione
dell’ateismo malefico ed è da questo momento che si inizia ad usare il termine “impero del male”. Si prepara il terreno per
poter uscire allo scoperto, ma per fare ciò serve comunque un pretesto. La motivazione viene offerta dai britannici che
portano all’attenzione americana la questione della Grecia e della Turchia che rischiano di cadere nel comunismo.
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Lezione 9!
17/05/11
La dottrina Truman
Gli Stati Uniti dopo la II Guerra Mondiale sposano la tesi per cui è meglio prevenire ulteriori disastri europei piuttosto
che contrastarli e porvi rimedio in seguito. Il dibattito interno statunitense nel dopoguerra porta alla conclusione che gli
europei hanno fatto disastri nel 1914-’18, ne hanno fatti di peggiori nel 1939-’45, e gli Stati Uniti non possono più
permettersi il lusso di non far loro da precettori. Lasciati senza impegno statunitense si sono sbranati fino al limite ultimo
di perdere la loro credibilità. La II Guerra Mondiale ha tolto credibilità all’Europa ed ha avviato inevitabilmente il suo
declino. Gli americani sono convinti che, se non si assumono impegni preventivi, si ritroveranno a breve a sbarcare
nuovamente in armi e in forza in Europa. È stato molto costoso in termini economici e di vite umane: nelle due guerre
mondiali più di mezzo milione di cittadini statunitensi ha perso la vita, non è un conto accettabile.
«Meglio prevenire che curare», questo è il senso della dottrina Truman. Questa dottrina ha bisogno di un pretesto: Grecia
e Turchia sono minacciate dal comunismo e gli inglesi richiedono l’intervento americano. L’amministrazione americana
era già convinta che il salvataggio della democrazia rispetto alla minaccia marxista leninista sovietica dovesse essere una
responsabilità degli Stati Uniti e sfruttano il pretesto. Il 12 marzo ’47 davanti al Senato il presidente chiede 300milioni di
dollari per aiutare Grecia e Turchia, ma richiede anche l’estensione dei sui poteri per salvare, se ce ne fosse bisogno, tutti
i popoli la cui democrazia venga minacciata dal totalitarismo. Viene emanata la legge che passa alla storia come dottrina
Truman e che lascia la possibilità al presidente di aiutare qualsiasi paese che ne faccia domanda perché a minacciato da
totalitarismi. Una proposta presidenziale o viene accettata in toto o viene respinta, per questo motivo Truman acquisisce
molto più potere di quanto il Senato avrebbe voluto concedere, perché lega questa legge all’intervento in Grecia e
Turchia, che in quel momento gli Stati Uniti non potevano fare a meno di aiutare.
Il piano Marshall
Gli Stati Uniti si assumono responsabilità globali. Molto più rilevante della dottrina è la sua applicazione economica, il
Piano Marshall. Tutti vorrebbero gli aiuti americani, ma di fatto li accetteranno solo i paesi non sottoposti al controllo
dell’Unione Sovietica. Gli americani offrono a tutti il loro aiuto, anche alla stessa URSS, ma inseriscono la clausola dei
controlli di spesa, ovvia per gli occidentali, ma URSS non può accettare di farsi controllare dagli Stati Uniti. Tutti i paesi
dov’è presente l’Armata Rossa lasciano la conferenza di Parigi e rifiutano a loro volta il piano d’intervento, che spacca in
due l’Europa e più in generale il mondo. Chi accetta il piano Marshall diventa l’Occidente, U.S.A.-centrico; chi non può
accettare quel piano diventa l’Oriente sovietico. Uno dei massimi storici della Guerra Fredda, John Lewis Gaddis, definisce
quello che avviene nell’estate ’47 in questo modo: «Gli Stati Uniti si comprano un’impero, l’URSS non avendone la
possibilità impone un suo impero con la forza delle armi e dei servizi segreti». È ovvio che alla lunga paga di più
comprare piuttosto che imporre. Inizia l’acquisizione di un’orbita di controllo sulla base di enormi capacità economiche.
Il mondo si è diviso: con l’estate del 1947 inizia progressivamente l’era bipolare.
L’Alleanza Atlantica
Il piano Marshall o ERP, European Recovery Program, può essere definito come il braccio economico del contenimento; la
dottrina Truman è anche nota come teoria del Contenimento, il braccio economico è il piano Marshall, ma ciò non basta,
occorre anche un braccio militare: l’Alleanza Atlantica. Per l’alleanza occorre addirittura una modifica costituzionale
perché per al presidente era vietato stringere alleanze in tempo di pace. Nel giugno del 1948, nell’ambito del dibattito
sull’impegno preventivo per l’Europa, si inserisce un disegno di modifica costituzionale, la cosiddetta Risoluzione
Vandenberg 29, che permetta agli Stati Uniti di stringere alleanze anche in tempo di pace. La risoluzione passa con una
maggioranza molto ampia e rende immediatamente possibile all’amministrazione Truman, che vince le elezioni del
novembre ’48, di avviare immediate trattative per un’alleanza strategico-militare. Proprio perché vince le elezioni di
novembre è in una posizione di notevole forza per condurre quelle trattative. Nasce l’Alleanza Atlantica. Gli Stati Uniti si
pongono come tacita guida della sicurezza dell’occidente. L’idea statunitense di impegnarsi a fondo per la difesa e la
sicurezza dell’Europa occidentale di fatto l’ha tenuta lontana da potenziali conflitti; il sistema ha funzionato.
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uno dei più autorevoli senatori repubblicani specializzato in politica internazionale
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Si crea poi il Patto di Varsavia, alleanza speculare a quella Atlantica del ‘49, non come reazione a quest’ultima dato che
gli originari membri non vengono ritenuti più di tanto nemici dai sovietici, ma ciò che questi non possono sopportare è il
coinvolgimento, con il conseguente riarmo, della Germania nel ’51. Le due alleanze speculari e contrapposte
garantiscono la stabilità dell’Europa, che di fatto è congelata. La scelta americana si rivela nel complesso impegnativa,
ma utile ai fini della stabilità globale.
L’Alleanza Atlantica non è comunque da leggere in chiave esclusivamente anti-sovietica: non tutti vi aderiscono per
paura dell’URSS, ma ogni paese ha i suoi motivi personali. Ad esempio per l’Italia è un mezzo per essere riammessa
nella comunità internazionale ripulendo la sua immagine dalle colpe della guerra, mentre per la Francia è uno strumento
di sicurezza contro la rinascita tedesca. La paura dei sovietici è abbastanza diffusa, ma è molto variegata.
È in ogni caso uno strumento molto utile, che traghetta l’Europa fuori dalla Guerra Fredda senza grandi conflitti,
soprattutto globali. Ad oggi si rivela l’unico strumento in grado di credibili operazioni in aree destabilizzate.
La politica interna nel dopoguerra
Truman dopo la II Guerra Mondiale smantella una parte di New Deal perché vuole eliminare le molte figure che si erano
fortemente legittimate nel periodo precedente, i cosiddetti new dealers, perché interlocutori scomodi, figure carismatiche
legate al vecchio presidente; quando la guerra ha sanato in modo totale la crisi del ’29 e ha portato gli Stati Uniti ad un
regime di iper-occupazione, decide di fare un passo indietro anche perché sa che alcune aperture del New Deal non
erano piaciute a tutti. La politica socio-economica della presidenza Truman nel dopoguerra è quindi di recesso: bisogna
togliere potere ai sindacati, che in ogni caso non erano mai stati ben visti, e smussare alcuni eccessi di protezione sociale
del paese. Tutto ciò è fatto anche in funzione della successiva elezione, non in contrasto con l’opinione pubblica.
Si impegna per essere eletto nel ’48 dato che sarebbe la suo primo vero mandato da Presidente. Solo vincendo
un’elezione diretta sente di poter ottenere la piena emancipazione dal precedente presidente Roosevelt. Tiene molto
all’elezione e si comporta di conseguenza, ad esempio con il riconoscimento immediato dello stato di Israele nel maggio
del ’48. Fa una scelta particolare che probabilmente gli è vincente; al Dipartimento di Stato ritengono questa scelta
decisamente sbagliata in quanto lo porta ad inimicarsi tutti i paesi arabi, fornitori di petrolio, in favore di un unico
piccolo e per il momento povero Stato. Tuttavia Truman ritiene che lasciare da solo Israele anche per poco tempo
comporti il rischio che questo diventi una testa di ponte del comunismo nell’area mediorientale dato che molte persone
erano emigrate lì dall’Unione Sovietica, inoltre non voleva inimicarsi l’elettorato ebraico americano, che non è
quantitativamente decisivo, ma qualitativamente sì perché capace di influenzare l’opinione pubblica dato che controlla
in buona misura il mondo dell’informazione, del cinema e della finanza. La sua scelta si rivela vincente.
La guerra di Corea
Truman, prima della fine del suo secondo mandato, si trova nel 1950 ad affrontare la prova più grave della sua
esperienza presidenziale: non le atomiche, che ritenne un atto dovuto, ma l’intervento in Corea, che credeva sarebbe
stato l’inizio della terza guerra mondiale. È una decisione forte degli Stati Uniti avallata, ma non scelta, dalle Nazioni
Unite; ciò che si verifica è la copertura ONU della scelta americana di intervenire.
Lo scenario in cui vanno ad intervenire è quello delle due Coree, divise al 38° parallelo: quella del Nord dove i comunisti
di sono installati dopo la liberazione dai giapponesi e quella del Sud che è diventata sostanzialmente un satellite degli
Stati Uniti. Il 25 giugno 1950, la Corea del Nord decide di risolvere la questione dell’unificazione nazionale invadendo la
Corea del Sud.
Negli Stati Uniti si accende un intenso dibattito politico che accusa l’amministrazione Truman, e in particolare il Segretario
di Stato Dean Acheson, di aver trascurato la Corea a livello politico, non avendo sottolineato con forza ripetuta
l’inserimento della Corea tra i principali interessi strategici americani nel Pacifico. Sottovalutare l’importanza della
Corea, secondo i detrattori della politica di Truman/Acheson, avrebbe fatto sì che la Corea del Nord fosse arrivata a
pensare di poter impunemente unificare il paese e sotto un dominio comunista. Nei loro slogan i repubblicani parlano
della Corea come di una Monaco30 asiatica statunitense, svenduta ai comunisti. La Corea del Nord aveva invaso quella
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conferenza tenutasi il 30 settembre 1938, quando si svendono a Hitler i tedeschi dei Sudeti e il futuro della Cecoslovacchia
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del Sud anche perché si sentiva spalleggiata dai paesi confinanti: l’anno precedente Mao aveva fondato la Repubblica
Popolare Cinese e l’Unione Sovietica aveva testato la sua prima arma nucleare, dando forza al mondo comunista.
Gli Stati Uniti si trovano così di fronte a due possibili scelte: lasciare la Corea del Sud in balia di quella del Nord,
militarmente molto più forte, o difendere gli interessi della democrazia occidentale. Lo stesso 25 giugno scelgono di
intervenire e la risoluzione del 27 giugno del Consiglio di Sicurezza copre col manto ONU la loro decisione. I sovietici
sapevano dell’attacco nord coreano, eppure restano fuori dai lavori del Consiglio e così facendo rendono possibile la
copertura dell’intervento americano.
La guerra di Corea resta per tutti e tre gli anni un fenomeno essenzialmente americano, con ovviamente un enorme
sforzo dei sud coreani. La presenza di tutti gli altri occidentali sarà puramente simbolica, una divisione con al massimo
10.000 uomini di tutto il Commonwealth e circa 5.000 truppe turche. Nell’ottobre del 1950, dopo che il generale
MacArthur respinge i nord coreani oltre il confine del °38 parallelo e ottiene mandato dalle Nazioni Unite di poter
invadere la Corea del Nord, la Repubblica Popolare Cinese interviene inviando dei “volontari” e quindi non entrando
ufficialmente nel conflitto. La situazione dunque si aggrava e gli Stati Uniti riescono a far passare quella risoluzione che
sarà poi fatale agli inglesi e ai francesi a Suez nel ’56, la Uniting for Peace, che esautora il consiglio di Sicurezza
dall’esclusiva competenza per le situazioni di guerra e di crisi. Grazie a questa risoluzione, nel novembre del 1950,
l’Assemblea Generale con larga maggioranza dichiara aggressore la Cina comunista, con tutte le conseguenza del caso.
Quella di Corea è una guerra molto impegnativa per gli Stati Uniti, con circa 150.000 tra morti e feriti, ma ottiene
comunque il consenso interno perché si è convinti che sia la cosa giusta da fare. Non c’è opposizione, chi serve in Corea
non matura sindromi di disadattamento sociale e nel momento in cui fa ritorno in patria viene festeggiato. Non crea
quindi problemi sociali negli Stati Uniti, perché si ritiene che lasciare la Corea ai comunisti sarebbe stata una perdita
strategica e d’immagine insopportabile per l’interesse nazionale. È l’intero Paese che fa la guerra di Corea.
Le modalità di gestione del conflitto sono particolari: c’è un vero e proprio scontro istituzionale fra il capo delle forze
armate, che è inizialmente Truman e nella fase finale il generale Eisenhower, e il comandante di campo in Corea Douglas
MacArthur, detto il viceré del Pacifico, che dalla fine della Guerra Mondiale a quando viene rimosso agli inizi del ’51 non è
mai rientrato in patria. È la maggiore autorità degli Stati Uniti nell’area asiatica e del Pacifico, personaggio idolatrato e
viscerale anti-comunista. Conduce in modo ineccepibile la prima parte del suo mandato, che prevede la riconquista della
Corea del Sud: sbarcando in prossimità del 38° parallelo taglia la linea dei rifornimenti e isola così tutte le forze nord
coreane che di lì a poco si arrendono e vengono fatte prigioniere. Sarebbe finita la guerra, ma quando viene autorizzato
dall’ONU ad un’operazione di consolidamento della Corea superando il 38° parallelo verso nord la Cina invia delle forze
immediatamente e lo scontro diventa molto più impegnativo. A questo punto scatta lo scontro istituzionale col
presidente: MacArthur riteneva che quella fosse la sua guerra e voleva vincerla. Vincere significa liberare una volta per
tutte la Corea del Nord dai comunisti e colpire i centri vitali dei rinforzi cinesi. Nella corrispondenza col Governo
informa immediatamente che intende avvalersi di tutti i mezzi disponibili per «rendere inoffensive» le forze cinesi. Dato
che in quel momento sono perfettamente in grado di farlo, vorrebbe programmare dei bombardamenti strategici,
convenzionali o nucleari, su basi militari cinesi, grandi strutture industriali, dighe e tutti i centri nevralgici della capacità
economica e militare cinese.
Militarmente è un disegno ragionevole, ma politicamente suscita un allarme terribile, soprattutto nei paesi alleati degli
Stati Uniti che pensano sia l’inizio di una terza guerra mondiale. Truman richiama alla prudenza, ma MacArthur vuole
assolutamente vincere la sua guerra. All’inizio del 1951, con la scusa dell’impellenza delle operazioni militari, il
comandante fa muovere il Presidente e per discutere si incontrano in un’isoletta del Pacifico; è un braccio di ferro forte
anche perché l’opinione pubblica è dalla parte di MacArthur. Nel febbraio del 1951 Truman lo solleva dall’incarico anche
dietro alle pressioni di tutti i Paesi occidentali che temono lo scatenarsi di una terza guerra mondiale. Quando però torna
a Washington viene accolto con grande entusiasmo, come un trionfatore, perché era l’uomo che voleva far vincere gli
Stati Uniti contro i comunisti. È il pieno periodo del maccartismo, c’è una forte e montante sindrome da comunismo e da
Guerra Fredda. Durante la guerra di Corea gli Stati Uniti, si stima, che passino da 30 bombe atomiche disponibili nel
giugno del ’50 ad oltre 300 nel ’53.
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Quando MacArthur viene rimosso tutto si stabilizza sul 38° parallelo, come prima dell’invasione nord coreana. La guerra
procede comunque stiracchiata fino agli inizi del 1953 e nel frattempo avviene un significativo cambio di presidenza.
Durante l’amministrazione Eisenhower la politica estera viene gestita da John Foster Dulles, sicuramente più combattivo
e tenace anti-comunista rispetto a Dean Acheson, e la guerra viene portata a conclusione. Il 27 luglio del ’53, nella località
di Pan Mun Jon sul 38° parallelo, si firma un armistizio e ancora adesso le due Coree non si riconoscono reciprocamente
e non hanno mai firmato trattati. Si arriva ad un cessate il fuoco perché il cambio di amministrazione comporta un
indurimento della politica americana e fa sì che gli Stati Uniti si impongano maggiormente e che la controparte accetti di
concludere la guerra in quel modo. Si impongono maggiormente nel senso che, ad esempio, ritirano la Settima flotta dal
canale di Formosa così da lasciare, dicono, Chiang Kai-shek libero di attaccare la Cina da Taiwan; è abbastanza
improbabile ma questi sono i segnali che vengono dati in quel momento. Nel frattempo muore Stalin e nello scacchiere
comunista c’è un moto di incertezza.
Usando la mediazione indiana di Nehru, perché non c’è un dialogo diretto fra i due paesi, gli Stati Uniti minacciano la
Repubblica Popolare Cinese di operazioni nucleari se si dovesse rifiutare di chiudere le operazioni in Corea. La Cina
risponde che 1 milione di cinesi in più o in meno non avrebbe cambiato i rapporti di forza e soprattutto le idee.
Le trattative si protraggono molto soprattutto per la questione dei prigionieri comunisti che non volevano essere
rimpatriati. In una logica integralista comunista tutti coloro che si erano lasciati catturare dovevano pagare per la propria
vigliaccheria, perché se fossero stati dei veri combattenti per le loro idee avrebbero combattuto fino alla morte; per di più
essendo stati, magari per anni, in campi di prigionia a gestione americana dovevano essere “bonificati” mentalmente e
infatti una volta rimpatriati in Corea del Nord o in Cina hanno passato 10 anni in carcere. Alla fine le autorità di Pechino
hanno ritenuto esaurito qualsiasi aspetto positivo di quella guerra e quindi accettano la firma dell’armistizio nel ’53.
Gli Stati Uniti riescono, con quell’enorme sforzo economico e militare, semplicemente a far capire al mondo comunista
che un’aggressione non paga, anche se si torna praticamente alla situazione del 25 giugno del ’50 e non ci sono risultati
positivi di alcun tipo.
Il cambio di presidenza
Eisenhower diventa presidente con una campagna, repubblicana, molto forte in cui la politica estera e di difesa gioca un
ruolo fondamentale. È un uomo vincente perché è uno dei grandi vincitori della II Guerra Mondiale, molto equilibrato,
molto prudente per quanto riguarda la guerra come lo sono di solito gli ex-militari.
Nella campagna del ’52, stranamente, alla politica estera viene data una notevole importanza. Vengono enunciate delle
definizioni: si comincia a parlare di new look della politica internazionale, il che significa vederla in una maniera più
reattiva e più forte; viene introdotto anche il concetto di roll back. Se Truman aveva adottato la politica del containment,
basata sulla difesa e appunto sul contenimento, con il passaggio ad Eisenhower si dice che gli Stati Uniti si preparino ad
assumere posizioni offensive nei confronti della minaccia sovietica e farla rotolare indietro. Questi però sono più che altro
slogan perché in quel periodo l’opinione pubblica ha bisogno di una sferzata nei confronti della minaccia sovietica, ma
nella realtà non ci sono veri segnali di indurimento e la politica americana è piuttosto prudente; è un’ondata mediatica.
Mai amministrazione americana fu più prudente nell’area del Medio Oriente, dove John Foster Dulles è ricordato per la
sua politica equidistanza nei confronti di tutti i paesi dell’area, anche di Israele.
Nel 1953 l’amministrazione Eisenhower, ritenendo strategicamente importanti sia l’Italia che la Spagna, negozia l’uso di
basi in quei paesi, quelle che a tutt'oggi sono basi statunitensi erroneamente definite NATO. Quindi vengono negoziate
delle basi per rinforzare la presenza e il controllo americani in Europa. Ci sono dei segnali di un rafforzamento della
politica americana, anche se non diventa propriamente aggressiva. Sono più che altro slogan: New Look, roll back, massive
retaliation o dottrina della risposta massiccia, che implica la minaccia di risposta nucleare ad un attacco sovietico, ma
sostengono ciò solo perché sono gli unici ad avere una vera capacità atomica. Negli anni ’60, quando non avranno più il
monopolio delle armi atomiche, la dottrina cambierà e si introdurrà, ad esempio, il concetto di risposta flessibile per cui ad
attacco con armi convenzionali si risponde con armi convenzionali, se ciò non è sufficiente si impiegano armi nucleari
tattiche per cercare di fermare le forze combattenti nemiche e se queste alzano il livello utilizzando armi nucleari d’area
allora si cercherà di contenere quel livello, procedendo per gradi e cercando di non arrivare ad utilizzare armi di
distruzione di massa.
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Nel 1954 si ha un’importante innovazione interna: viene rovesciata dalla Corte Suprema la ormai più che radicata regola
riguardo all’istruzione scolastica, il famigerato equal but separate, uguali ma separati, che prevedeva scuole separate tra
bianchi e afroamericani. La corte suprema decide che debba esserci un’eliminazione della separazione nella scuola.
Passare dalla teoria all’applicazione nelle scuole è a dir poco terribile, ci sono resistenze di ogni tipo. Caso emblematico
in tal senso è quello di Little Rock nel 1957. Questo è il primo grande slancio per la parificazione, scolastica e non, che
sarà poi portata avanti dalle amministrazioni democratiche di John Kennedy e Lyndon Johnson.
Sempre durante la presidenza Eisenhower, un episodio centrale per quanto riguarda la politica internazionale è la crisi di
Suez. Segna la nuova applicazione della teoria del contenimento di Truman ed è in realtà un regresso rispetto ad essa che
passa sotto il nome di dottrina Eisenhower.
Il 5 gennaio 1957 la Middle East Resolution è la risposta americana goffa e maldestra alla crisi di Suez. Gli Stati Uniti sono
convinti che l’Unione Sovietica stia cercando di impossessarsi del Medio Oriente, trascurando completamente di
considerare che quell’area, essendo islamica, era inconciliabile col comunismo. È una valutazione sbagliata da cui nasce
una reazione politica sbagliata, che peggiora la dottrina politica sempre valida che era la teoria di contenimento di
Truman, perché parzializza l’impegno americano, lo concentra in Medio Oriente anche se non era necessario dato che la
precedente dottrina era globale e volta a proteggere qualsiasi paese ne facesse richiesta da minacce alla sua democrazia.
La dottrina Eisenhower si rivolge solo ai paesi del Medio Oriente specificamente minacciati dal comunismo. Il comunismo
non è la minaccia dell’area e l’unico risultato della dottrina è mandare su tutte le furie Israele perché non si sente tutela
essendo minacciata da molte cose, ma assolutamente non dal comunismo. È talmente goffa l’iniziativa che già nel marzo
del 1957 il senatore Mansfield propone e viene approvato dal Senato un emendamento alla Middle East Resolution che
cancella il termine «comunista» dal testo precedente e lo sostituisce con «qualsiasi ideologia totalitaria e non
democratica», praticamente si torna alla dottrina Truman. Questa dottrina non servirà comunque a nulla; anche quando i
Marines sbarcheranno in Libano nell’estate del ‘58 su richiesta del presidente Chamoun per una situazione di rischio,
sicuramente non comunista, lo stesso senatore Mansfield dichiarerà che quell’intervento con l’emendamento da lui
promosso non c’entra nulla.
Mentre l’Alleanza Atlantica in Europa nel complesso ha fatto il suo dovere, l’amministrazione Eisenhower per quanto
riguarda il Medio Oriente è assolutamente deficitaria, fondata sul misunderstanding. Non si capisce il rischio d’area e la
dottrina Eisenhower è la prova che gli Stati Uniti non capivano lo scenario del momento.
Il Maccartismo
Proprio a cavallo tra le presidenze Truman e Eisenhower si viene a collocare il particolare fenomeno conosciuto col nome
di Maccartismo, dal nome del senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy. È un fenomeno degenerativo della
macchina democratica americana, né da sottovalutare né da esasperare, ed è la punta dell’iceberg di qualcosa di più
strutturato e precedentemente esistente. Non è un fenomeno isolato, è l’esasperazione di un’istituzione pubblica che è la
Commissione per le attività anti-americane istituita già nella seconda metà degli anni ‘30. Questo genere di istituzioni
richiamano inevitabilmente abusi, abolizione della libertà di pensiero, rifiuto della diversità in tutte le sue possibili
accezioni. Tutto ciò che non è ortodosso viene rifiutato e represso. È tuttavia un’istituzione molto morbida se si considera
che in Italia negli stessi anni l’OVRA, Opera Volontari per la Repressione dell’Anti-fascismo, è il fiore all’occhiello del
regime.
Gli Stati Uniti erano e rimangono una democrazia, ma negli anni ’30 vengono travolti dalla paura di tempi difficili e
hanno una debacle della democrazia. Un paese che nel complesso si era sempre rivelato piuttosto aperto alle diversità,
anche se con gravi tensioni soprattutto a livello razziale, cade nella trappola della repressione ideologica.
La Commissione parlamentare per le attività anti-americane, quindi organo ufficiale degli Stati Uniti, ha il compito di
prendere in esame comportamenti che siano di danno all’interesse degli Stati Uniti. Non ha potere giurisdizionale, non
emette sentenze e non può incarcerare, ma emettendo delle valutazioni di giudizio politico-ideologico, può fare dei
danni enormi a chi sia soggetto a tale giudizio; le conseguenze sono indotte, indirette. Se la Commissione dichiara, ad
esempio, che un docente di una scuola media indottrina gli studenti con delle idee sbagliate per il futuro degli Stati
Uniti, questi perde immediatamente il posto di lavoro. Con questi giudizi si entra nella sfera della libertà di pensiero e di
espressione, arrivando in qualche modo alla soppressione delle libertà fondamentali dell’individuo.
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Dal 1937-’38, anni in cui comincia a funzionare, fino agli anni ’50 la Commissione lavora in modo discreto e moderato. Il
problema si pone quando uno strumento così delicato finisce nelle mani di uno squilibrato, McCarthy, e assume delle
connotazioni e dei poteri devastanti. Inizia un periodo ufficialmente riconosciuto da storiografia come un’epoca di caccia
alle streghe. McCarthy, spinto da zelo per il suo Paese e anche da paranoia, ritiene che la minaccia, essenzialmente
comunista, si celi ovunque. Tutto ciò che viene ritenuto in qualche modo pericoloso per gli Stati Uniti diventa per la
Commissione presieduta dal senatore McCarthy un fenomeno ossessivo. Vengono stilate delle vere e proprie liste di
proscrizione in cui rientrano numeri impressionanti di persone provenienti soprattutto dall’ambiente dell’insegnamento,
in particolar modo gli insegnanti delle fasce di insegnamento primarie e secondarie perché formano i ragazzini, il futuro
degli Stati Uniti.
Il sistema diventa davvero odioso perché si fonda sulla delazione organizzata e istituzionalizzata. Ad esempio le persone
venivano minacciate dicendo loro che erano sospettate di comunismo, ma gli si offriva la possibilità di essere risparmiati
dalle accuse se avessero fatto i nomi altre persone che ritenevano comuniste. Ci sono delazioni, sospetti, casi di persone
che si suicidano per aver perso il lavoro; è un momento di parziale sospensione delle regole di convivenza democratica e
sempre crescente è il numero delle persone che vengono colpite, provenienti dal settore dell’istruzione e dal mondo
mediatico. Il mondo dei media informa le persone e può trasmettere valori negativi e viene attaccato anche Hollywood;
molti lavoratori del settore vengono stroncati.
McCarthy viene lasciato fare perché una buona parte dell’opinione pubblica americana di quegli anni di dura Guerra
Fredda non vede male queste operazioni. Ciò che segna la fine di McCarthy è, nel 1953 quando sta diventando un
fenomeno sempre più ossessivo, la lista che stila di 250 nomi in cui rientrano tutti i vertici delle forze armate americane.
A questo punto viene rimosso e nel giro di un paio d’anni muore alcolizzato e solo. La commissione viene smantellata.
Erano comunque anni di forte ritorno al conservatorismo e ai valori originari dei padri fondatori; non è casuale che nel
’56 l’amministrazione imponga sui dollari la scritta «in God we trust». È una scelta importante quella di fare un richiamo
a Dio sulla valuta più importante del mondo, vuol dire dare una connotazione etico-religiosa forte, è un richiamo a valori
etici, è l’implicita affermazione che non vi può essere morale al di fuori di una logica religiosa.
La punta di diamante del Maccartismo è considerato il processo Rosenberg. Non coinvolge né il senatore McCarthy né la
commissione, ma è emblematico perché è l’incarnazione dello spirito del periodo. Due ebrei di origine tedesca, marito e
moglie, sono medio-bassi funzionari del Pentagono che non hanno sicuramente funzioni di alto contenuto sensibile.
Vengono sospettati, indagati e viene scoperta una loro intelligenza con i servizi segreti sovietici. Passavano effettivamente
delle informazione, ma erano commisurate alla modestia del loro incarico, quasi pettegolezzi; era spionaggio di basso
profilo, in cui comunicavano orari, turni di lavoro ed eventuali vizietti di esponenti più alti di loro che i sovietici
avrebbero potuto così ricattare. Quello spionaggio, in realtà di basso livello, viene ingigantito nel corso del processo fino
ad imputare ai Rosenberg il successo nell’atomica russa del ‘49. Ciò è ovviamente assurdo, ma vengono giudicati
colpevoli di alto tradimento su questioni vitali per l’interesse nazionale e vengono giustiziati con la sedia elettrica. Il
processo è completamente fondato sul clima isterico che regna in quel momento negli Stati Uniti. Solo a posteriori ci si
rese conto che furono vittime del maccartismo e che la punizione subita era assolutamente sproporzionata rispetto ai
reati commessi.
43
Lezione 10!
24/05/11
La presidenza Eisenhower è assolutamente prudente, non cerca lo scontro. L’indurimento della politica americana è più
teorico, per la campagna elettorale, che pratico e in ogni caso il suo simbolo è, più dello stesso Presidente, il Segretario di
Stato John Foster Dulles. È stato uno dei più celebri della storia degli Stati Uniti, non a caso gli è stato intitolato l’aeroporto
di Washington. Viene definito dai suoi contemporanei il mastino della Guerra Fredda e ciò che c’è di duro nella politica
estera americana di quegli anni è sicuramente legato a lui. Simultaneamente a lui è direttore della CIA il fratello Allen e
si viene a creare quindi una particolare concentrazione di potere. Il Segretario di Stato è il simbolo della strenua e
convinta lotta al comunismo, ma non finisce i due mandati Eisenhower: nel ’58 è già malato, deve ritirarsi e muore poi
nel ’59. Caratterizza tuttavia il periodo tra il ’53 e il ’58, che è il periodo più significativo di tutta la Guerra Fredda perché
arriva a creare il mondo bipolare.
Eisenhower inizia a cercare di risolvere la questione della discriminazione razziale all’interno scuola, ma ci vorrà molto
tempo. Alla fine della duplice presidenza, considerato che è stata introdotta dopo la morte di Roosevelt una modifica alla
prassi costituzionale per cui un presidente non può svolgere più di due mandati, Eisenhower deve uscire di scena e le
elezioni del 1960 vedono protagonisti due personaggi molto forti: John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon. Entrambi sono
stati presidenti degli Stati Uniti ed entrambi molto significativi, ma il modo in cui lo sono è il classico frutto di una
manipolazione propagandistica, emotiva e non razionale. Vengono enfatizzati e stereotipati: Kennedy viene dipinto
praticamente come un santo, mentre Nixon è più che altro un uomo duro e spietato per via di quella che viene definita
come una «presidenza imperiale».
Nell’immaginario statunitense si viene a formare il mito di Kennedy, perché è un uomo giovane, affascinante, ha
un’ottima dialettica e soprattutto perché, dopo l’assassinio, fanno di lui un martire, un eroe, una vittima. I tre brevi ma
significativi anni vanno quindi osservati in un’ottica differente da quelle della semplicistica eccezionalità.
Lottò in modo particolare per diventare presidente perché la sua famiglia era una delle più influenti del Paese e negli
Stati Uniti normalmente non si ama che gli uomini più ricchi e già influenti prendano il potere politico. Era inoltre molto
inserita fra gli irlandesi d’America, che come altre comunità aveva una sua mafia, una lobby, e quindi veniva sospettata
di essere inserita e di trarre la sua fortuna da organizzazioni parallele allo Stato; in generale era una famiglia che aveva
delle ombre. Un ulteriore problema era dato poi dal fatto che Kennedy fosse dichiaratamente cattolico; tutti i credo
religiosi sono accettati negli Stati Uniti, ma che il responsabile della guida politica del Paese sia un papista non piace. Nel
Bill of Rights è sottolineata l’esplicita separazione che dev’esserci fra Stato e religione e si ribadisce che il Presidente non
può e non deve avere nulla a che fare con questioni legate al culto. La Chiesa cattolica è l’unica ad avere una struttura
temporale e gli americani temono che eleggendo un presidente cattolico potrebbero subire eccessivamente le ingerenze
dello Stato Pontificio.
La presidenza Kennedy
Malgrado tutti questi problemi Kennedy riesce ad ottenere un consenso sufficiente e a vincere su Nixon. Molto di questo
successo fu dovuto anche alla diversa percezione che si aveva dei due candidati: nei dibattiti televisivi Kennedy era visto
come un sognatore giovane e affascinante, mentre Nixon risultava particolarmente antipatico e iperrealista.
John F. Kennedy si insedia quindi nel gennaio del 1961 alla Casa Bianca e si trova da subito a gestire il problema della
questione cubana. Castro aveva appena preso il potere a Cuba e, non potendo instaurare un’amichevole politica con gli
Stati Uniti date le ritorsioni portate avanti dagli imprenditori agricoli americani che si erano visti espropriare le proprie
attività, decide di chiedere appoggio ai sovietici, i quali accettano di buon grado l’opportunità di avere una testa di ponte
ideologica così vicina agli Stati Uniti. Kennedy eredita malamente questa situazione perché è già stata decisa e pianificata
l’operazione dello sbarco dei profughi a Cuba che avviene nell’aprile del ’61. Il presidente ovviamente poteva fermare
tutto, ma non ha la percezione e la forza per gestire la situazione e lascia che vada avanti l’operazione, preparata durante
il mandato di Eisenhower, che sfocia poi nel disastro della Baia dei Porci. L’operazione fallisce per la mancanza di apporto
militare americano data dalla decisione dell’amministrazione Eisenhower di non volersi esporre troppo; il mandato di
Kennedy inizia subito con questo disastro, ma la crisi cubana sarà forse l’apogeo del mito di Kennedy perché è in quel
momento che verrà considerato come l’uomo che ha preservato il mondo dal disastro nucleare.
44
Nello stesso periodo un altro scenario estremamente tormentato è l’Europa. I sovietici nel 1961 erigono il muro di Berlino
per interrompere la costante emigrazione da est a ovest. La crisi missilistica di Cuba è fortemente legata e strumentale
alla questione di Berlino. Kennedy si reca subito nella città tedesca, dove tiene il famoso discorso «Ich bin ein Berliner».
Ha in mente per l’Europa quello che viene storicamente definito il Grand Design, il grande progetto. Le relazioni fra Stati
Uniti ed Europa occidentale sono sostanzialmente buone, con una punta di perfezione con il Regno Unito e con un flesso
piuttosto evidente con la Francia di De Gaulle; l’idea di Kennedy è che queste relazioni vadano strette, vengano rese più
forti, perché nell’unione vi è maggior forza e maggior capacità di resistenza nei confronti della minaccia sovietica, ma per
fare questo è razionalmente necessario affidare l’intera difesa strategica e militare dell’Europa all’arsenale nucleare
americano. Devono tutti essere molto coesi a livello politico e per ottenere ciò vuole che il Regno Unito entri nella CEE; il
presidente americano capisce che in nuce la CEE è importante come idea e ritiene che ottenendo l’inserimento dei
fedelissimi britannici nella Comunità, sarebbe poi riuscito a domare le riottosità del presidente francese e a dare in
qualche modo un indirizzo a tutti gli importanti Paesi coinvolti. Ha quindi l’idea di utilizzare il Regno Unito come
cavallo di Troia americano nella Comunità Economica Europea. De Gaulle si rende conto della forza della special relationship
tra Stati Uniti e Regno Unito in un decisivo colloquio con il primo ministro inglese Harold Macmillan nel giugno del
1962 e gli intenti anglosassoni diventano palesi quando, alla fine dello stesso anno, viene ufficialmente dichiarato che la
Gran Bretagna rinuncia ai suoi progetti di sviluppo di missili strategici, con l’implicita ma evidente ammissione che il
proprio arsenale sarò fuso con quello americano e dichiarando che l’utilizzo del proprio arsenale nucleare avverrà solo di
concerto con l’America. Per questo motivo il 14 gennaio 1963 De Gaulle afferma che finché sarà presidente gli inglesi non
entreranno nella CEE e poco dopo sigla con la Germania il trattato dell’Eliseo. Il Grand Design di Kennedy viene
sostanzialmente smascherato da De Gaulle e finisce nel ’63, anno in cui muore lo stesso presidente americano.
Un’altra questione di cui Kennedy si occupa particolarmente è quella dei diritti umani. Indubbiamente l’azione iniziata
da Eisenhower procede e vengono emanati una serie di provvedimenti e modifiche legislative per un progressivo
miglioramento della convivenza razziale, specificamente in ambito scolastico, ma anche più generale. Con il suo vice, che
diventa presidente, Lyndon Johnson saranno poi ultimati i nuovi provvedimenti legislativi per la parificazione razziale
all’interno del Paese. Una parificazione legislativa ovviamente non implica una parificazione di sostanza, ma
rappresenta sicuramente un forte progredire dei diritti civili negli Stati Uniti.
La crisi missilistica di Cuba
Nel 1962 aerei spia americani fotografano la preparazione di siti missilistici sull’isola di Cuba. Esiste un accordo di
reciproca assistenza militare fra l’Unione Sovietica e Cuba, quindi c’è anche un quadro che giustifica l’installazione di
missili, e l’amministrazione si trova a dover prendere delle decisioni che diventano assolutamente cogenti quando il
famoso convoglio di navi parte dal mar Baltico e si dirige apparentemente verso l’isola caraibica con evidente
ostentazione. Malgrado alcune teorie lo sostengano, la crisi di Cuba non è stato un vero rischio di terza guerra mondiale,
non ve n’erano motivazioni forti. I sovietici volevano semplicemente cercare di ottenere, mettendo o fingendo di mettere
i missili a Cuba, uno straordinario strumento di pressione per Berlino, per barattare l’immediato smantellamento dei missili
stessi, veri o presunti, con l’abbandono di Berlino ovest, diventata il simbolo dello scontro fra Est ed Ovest, da parte dei
tre occupanti occidentali.
L’unica grande soddisfazione che giustificava a una compagnia sovietica, una volta ogni quattro settimane, ad andare a
Berlino ovest era la sorveglianza del carcere di Spandau dove era custodito solo Rudolf Hess. Il carcere veniva
simbolicamente preso in custodia a rotazione settimanale da quattro compagnie, britannica, francese, americana e
sovietica e quindi ogni quattro settimane una compagnia sovietica era legittimata a passare il confine in armi per
prendere possesso del carcere. Questo aveva un valore simbolico enorme.
Il piano sovietico è quello di esercitare una pressione tale da ottenere il totale allontanamento occidentale da Berlino, ma
le cose non vanno come previsto perché Kennedy, prestando ascolto ai vertici militari e dei servizi, prende la decisione
che risulta poi essere la più giusta e stabilisce il blocco navale di Cuba. In questo modo se i sovietici volessero proseguire
con la consegna dei missili dovrebbero forzare il blocco e prendersi le responsabilità di una guerra, ma questi
ovviamente non ne hanno intenzione e richiamano immediatamente le navi.
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Le conseguenze a livello politico sono comunque piuttosto rilevanti: i sovietici rinunciano all’installazione di missili a
Cuba; gli Stati Uniti dichiarano unilateralmente che mai avrebbero provato a modificare con un’azione violenta l’assetto
di Cuba e ritirano i missili da poco dispiegati in Turchia contro gli stessi sovietici.
La crisi di Cuba lancia l’immagine di Kennedy come il salvatore del mondo. In realtà a fronte ha un uomo di eccellente
stabilità che è Nikita Chruščëv, il quale non pensava assolutamente a precipitare in maniera esagerata l’evento. Fu un
gioco politico, ma non è assolutamente esatto affermare che si tratti del momento più vicino alla terza guerra mondiale.
L’assassinio di John F. Kennedy
Il mito di Kennedy è in grande misura anche legato alla sua tragica e prematura scomparsa che, agli occhi del mondo, lo
ha apparentemente redento dall’essere un personaggio abbastanza turbolento. È stato sicuramente uno dei presidenti
che ha creato più problemi per la sua sicurezza personale e per i suoi rapporti umani, come ad esempio quello con
Marilyn Monroe, che stava iniziando ad essere una figura molto scomoda per l’establishment degli Stati Uniti ed Edgar
Hoover la considerava una minaccia.
Kennedy era un personaggio inquieto e difficile, ma la morte prematura e violenta l’ha reso un mito e tale è rimasto.
Esistono delle sindromi non superate dell’immaginario collettivo americano, degli eventi che hanno suscitato particolare
emozione e interesse, e l’assassinio del presidente Kennedy è uno di questi. Gli americani non accettano l’accaduto,
anche perché è a tutti gli effetti una vicenda che ha usa sola amare e deludente spiegazione. La spiegazione ufficiale è
l’unica alla quale sono giunte una quantità incredibilmente numerosa di commissioni e di enti di indagine31 : uno
sbandato, Lee Oswald, che aveva prestato servizio nel corpo dei Marines, durante il quale aveva anche seguito un corso
base come cecchino, viene congedato con disonore e inizia a covare rancore verso le istituzioni, incarnate dal Presidente
che è anche il comandate supremo delle forze armate. Trova un lavoro che non lo soddisfa nella biblioteca di Dallas e
decide di vendicarsi per la sua condizione contro il Presidente. Compra sul catalogo per corrispondenza della Coca-Cola
32un
fucile italiano della prima guerra mondiale, un Carcano Mod.91, per 20 dollari e uccide il Presidente.
Nell’opinione pubblica scatta il rifiuto di cosa è avvenuto, alimentato da una serie di strani eventi che si sono susseguiti
intorno alla vicenda. Due giorni dopo l’omicidio Oswald viene arrestato, non prima di aver ucciso un poliziotto, e
mentre viene trasferito nei sotterranei della polizia di Dallas viene ucciso da Jack Ruby, un oscuro gestore di night club di
origine ebrea, che si arrende immediatamente, ma farà la stessa fine di lì a pochi mesi senza dare spiegazioni. Non c’è
pace intorno alla vicenda: ancora nel 2009 al Polo di Terni, un vecchio arsenale italiano dove sono custodite armi smesse,
si sono svolti ulteriori test con dei fucili Carcano come quello di Oswald per rivedere la compatibilità dell’azione di
fuoco con quanto avvenuto a Dallas. L’obiezione mossa non riguardava la distanza a cui sono stati sparati i colpi il
primo, lineare, a soli 30 metri dalla macchina e il secondo a 85 metri; sono distanze insignificanti per armi concepite per
colpire a 1 km di distanza. L’unico dubbio restava la velocità con cui sono stati esplosi i colpi, 4 in poco più di 20 secondi,
data un’azione manuale piuttosto farraginosa come quella del vecchio fucile italiano. I test sono stati positivi e hanno
dissipato anche questo dubbio.
Rimane comunque, al di là di queste minuziose ricostruzioni, nell’immaginario americano una certa perplessità nei
confronti della vicenda. Non si riesce a credere che l’uomo più potente del mondo sia stato ucciso e soprattutto in un
modo così banali e per futili motivi; sono molto più interessanti e soddisfacenti le ipotesi di complotto.
La guerra del Vietnam
È sicuramente uno dei grandi eventi sconvolgenti per l’immaginario statunitense. In sé è stata un conflitto pesante, ma
non più pensante di altri conflitti. È la prima guerra, e anche l’ultima, che ha diviso pesantemente gli Stati Uniti. È
avvenuta senza consenso interno, odiata e largamente contrastata, tanto da arrivare all’umiliazione ed emarginazione dei
suoi reduci. È una guerra nella quale non tanto la diserzione quanto l’opposizione violenta ai superiori diventa talmente
frequente che si conia il nuovo verbo «to frag» che significa “far fuori il proprio superiore”. Il fragging era una cosa
31
ci sono indagini di ogni tipo condotte praticamente da tutti: CIA, FBI, polizia di stato del Texas, polizie locali del Texas, altre agenzie
di intelligence (se ne stimano circa 25) e la prestigiosa commissione Warren (membro della Corte Suprema degli Stati Uniti)
32
il catalogo della Coca-Cola era un mito negli Stati Uniti perché c’era davvero di tutto. All’epoca la vendita, anche per corrispondenza,
di armi era perfettamente legittima e l’acquisto di Oswald di un residuato bellico era un atto assolutamente non significativo, banale.
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abituale e gli ufficiali e sottufficiali dovevano prima guardarsi prima dai loro sottoposti e poi dal nemico. C’è proprio un
rifiuto di quell’iniziativa. A renderla straordinariamente particolare è inoltre il fatto di essere il primo conflitto mondiale
altamente mediatico e questo sconvolge l’opinione pubblica, perché nessuno aveva mai visto la guerra in diretta,
soprattutto la vera guerra. I reporter sono in prima linea e mostrano immagini delle atrocità della guerra; nel 1967-’68 era
una completa novità. Gli Stati Uniti si piantano in Vietnam.
Nel 1954 la Francia viene clamorosamente travolta a Dien Bien Phu, inizia la sua precipitosa fuga dall’Indocina e
l’America di John Foster Dulles teme un’immediata invasione bolscevica dell’area in questione. In quest’ottica,
nell’agosto del ’54 a Ginevra, avviene il passaggio di consegne fra la Francia e gli Stati Uniti, in qualità di garanti del sudest asiatico. Da quel momento le amministrazioni americane, prima Eisenhower, poi Kennedy e infine Johnson,
monteranno un’evidente escalation del loro impegno.
La situazione che si va creando è quella di un Paese, che viene diviso lungo il 19° parallelo dagli accordi di Ginevra, che
presenta una parte settentrionale dominata dai comunisti e una parte meridionale fedele all’occidente, anche se il
governo di quest’ultima è inviso alla popolazione locale. Il governo di Ngo Dinh Diem ha una politica straordinariamente
nepotista e questa è una delle ragioni per cui la penetrazione comunista dal nord risulta particolarmente facile e gradita.
Appare evidente che senza l’impegno americano il sud sarà, in tempi relativamente brevi, catturato e reso comunista dal
nord. L’idea comunista attecchisce perché ce ne sono le condizioni e perché ha il sostegno della Cina di Mao che si sta
progressivamente consolidando.
Durante la presidenza Eisenhower l’impegno americano resta comunque limitato a forniture di beni materiali al regime
di Saigon e progressivamente anche all’invio di istruttori militari. Già all’inizio della presidenza Kennedy però si
iniziano ad avere circa 5.000 “istruttori”, più plausibilmente reparti d'élite che svolgono operazioni di comando, nel
Vietnam del sud. L’escalation è continua. Nel del 1963, prima della morte di Kennedy, il vicepresidente Johnson viene
inviato dal presidente nell’area per una permanenza di significativa di studio e conoscenza della situazione. La sua
missione porta, al suo rientro, ad una decisa presa di posizione del governo americano per impegnarsi attivamente.
Johnson fa sua la cosiddetta teoria del domino, molto di moda all’epoca, per cui sostiene che lasciare una piena
affermazione del comunismo nel paese dei sud-est asiatico avrebbe probabilmente trascinato al comunismo anche le
realtà circostanti. Il presidente Kennedy ha buoni rapporti con il cattolico Diem, tanto che questo viene indicato dagli
storici come uno dei cattivi compagni di strada degli Stati Uniti coi quali gli americani devono quanto meno fingere di
andare d’accordo per questioni di convenienza e di interessi, che viene assassinato il 1° novembre del 1963. La situazione
precipita e Kennedy ne è costernato, ma non fa in tempo a prendere in mano la situazione perché gli sopravvive di
appena tre settimane.
Alla morte di Kennedy giura Lyndon Johnson e non può che implementare la sua linea di azione, che aveva già espresso
al presidente. Da quel momento inizia un’escalation impressionante che nel ’68, anno più duro della guerra del Vietnam,
porta ad aver schierati 550.000 uomini.
Questa guerra è particolarmente odiata innanzitutto perché ne sono fumose negli Stati Uniti e nel mondo le ragioni. È
evidente che il clima originario di entusiasmo per la Guerra Fredda è passato e la maggior parte degli americani, sul
finire degli anni ’60, ritiene semplicemente stupido spendere cifre astronomiche e far morire tanti giovani per un
obiettivo assolutamente non chiaro. Non sembra essere poi così drammatico un eventuale governo comunista nel
Vietnam del sud e chi ne è convinto non ha poi così torto, perché il fatto che il Vietnam diventi completamente comunista
verso la metà degli anni ’70 non avrà particolari conseguenze sulla sicurezza nazionale americana. Le ragioni della
guerra sono nebulose, non se ne sente la missione. Viene inoltra introdotta la leva obbligatoria e anche questo è visto in
modo estremamente negativo dall’opinione pubblica.
C’è un rifiuto intrinseco della guerra, aggravato da quello che hanno rappresentato gli anni ’60 e in particolare il ’68.
Sono gli anni della rivolta, della rivoluzione dei costumi, delle scosse all’autorità statale che viene messa in discussione;
gli studenti sono in fermento, ci sono i grandi raduni come Woodstock e persino i nativi escono dalle riserve. Sono
momenti di grandissimo fermento. È il’68, è la messa in discussione del potere dell’autorità costituita.
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In questo clima di rifiuto dell’autorità arrivavano le cartoline precetto, che non implicano un semplice servizio di leva, ma
l’addestramento per una guerra in cui si rischiava seriamente di farsi e di fare del male. Le vittime americane arrivarono
infatti a 58.000. Sul Vietnam sono state lanciate più bombe che in tutti i teatri nei sei anni della II Guerra Mondiale.
Si è già in un contesto di totale rifiuto della guerra e a peggiorare la situazione si aggiunge anche un evidente errore nella
conduzione delle operazioni perché ogni corpo degli Stati Uniti vuole compiere azioni significative e si verificano così una
serie di sovrapposizioni di forze a livello di impiego tattico e strategico. Nel momento in cui in Vietnam, a livello di forze
aeree, operano: United State AirForce, Strategic Air Command (SAC) che controlla i bombardieri strategici ed è separato
dall’aviazione, aviazione della U.S. Navy, aviazione del corpo dei Marines e aviazione dell’esercito, e che tutti questi
agiscono più in competizione che in sintonia perché le medaglie e gli avanzamenti di carriera si ottengono con i successi
sul campo, il Vietnam diventa un grande laboratorio per l’esercito degli Stati Uniti, ma questo non facilita l’andamento
delle operazioni. Il comandante supremo subì anche un’inchiesta sulla condizione delle operazioni perché ci furono
sicuramente enormi sprechi e sovrapposizioni.
Un ruolo importante nel rifiuto della guerra lo ha anche lo straordinario effetto della propaganda, dell’immagine. Da quel
momento in poi le guerre si vincono o si perdono sul piano mediatico. Gli americani non perdono sui campi di battaglia
del Vietnam; si arriva al caso limite della primavera del 1968 in cui con la più grande iniziativa militare di tutta la guerra,
l’offensiva del Têt, gli americani ottengono un’importante vittoria militare, liberando moltissime zone e recuperando
città perse, ma risulta una clamorosa sconfitta mediatica perché viene presentata in tutto il mondo attraverso la
trasmissione di immagini molto forti come una serie di massacri e atrocità. Viene reso pubblico un sommario massacro di
popolazione civile da parte dell’aviotrasportata Compagnia Charlie che stermina metodicamente donne, vecchi, bambini e
anche animali domestici nel villaggio di My Lai e i pochi superstiti sono dovuti all’intervento dell’equipaggio di un
elicottero dell’esercito americano in ricognizione che atterra frapponendosi fra i soldati e gli abitanti del villaggio e,
minacciando i loro stessi commilitoni di aprire il fuoco su di loro se non avessero smesso il massacro, riesce a salvare non
più di 11 persone mentre 504 sono le vittime accertate.
A seguito di questi eventi, tutto si trasforma in un boomerang mediatico e alla fine c’è una totale repulsione per la guerra
a livello di fronte interno. Nel 1968 Lyndon Johnson, che aveva vinto le elezioni del ’64 più che altro perché è quasi una
prassi che un vice che subentra al presidente abbia poi un suo mandato, potrebbe ricandidarsi ma se ne guarda bene
vista la situazione ed emerge così nuovamente Richard Nixon, che fonda la propria campagna sulla exit strategy, basata a
sua volta sulla cosiddetta vietnamizzazione del conflitto. Tale è l’entità dello sforzo implicato al momento che nei paesi
circostanti, soprattutto in Laos e Cambogia, si sono create le basi di sostegno della guerriglia anti-americana, i Viet Cong,
e gli americani ormai da tempo operano anche in Laos e Cambogia. L’idea è dunque quella di riportare a una questione
interna il conflitto vietnamita; si avvia quindi il disimpegno americano dalle aree circostanti e la ripresa violentissima dei
bombardamenti nelle aree di confine del Paese proprio per isolarlo fisicamente da quelli limitrofi. Difficilmente questo
piano può riuscire, ma è un segnale del disimpegno progressivo americano.
La vicenda è comunque lunghissima. Nixon si insedia nel gennaio del ’69 e, mentre si continua a combattere in Vietnam,
si avviano lunghi e difficili negoziati a Parigi tra gli stessi americani, i sud vietnamiti e la leadership nord vietnamita, che
pretende qualcosa di simile ad una ritirata senza condizioni. Gli americani non possono permettersi una ritirata del
genere perché sarebbe una debacle clamorosa e alla fine, dopo lunghissimi negoziati, nel 1973 si arriva all’accordo di una
ritirata americana posticipata di un anno, in modo da dare l’impressione al mondo che non si tratti di una fuga. Ci sono
terribili immagini degli ultimi elicotteri che lasciano Saigon con persone che cercano di appendersi pur di essere portate
via perché in fondo si sa che è una fuga da parte degli americani e infatti di lì a poco ci sarà l’invasione dal nord
comunista che prende l’intero controllo del paese. Alla metà degli anni ’70 il governo del nord unifica il paese e questo
comporta una sostanziale sconfitta degli Stati Uniti senza vere e proprie sconfitte militari.
Gli americani perdono la guerra del Vietnam e si crea una sindrome non ancora superata. Si forma una classe di reduci
che sono in buona misura dei disadattati; non è una guerra peggiore di altre, ma in quel momento negli Stati Uniti fece
dei danni devastanti a livello socio-politico. Hanno perso più o meno lo stesso numero di uomini della guerra di Corea,
58.000, ma quella ha lasciato indenne la società americana, non ha lasciato cicatrici, quella del Vietnam è stata devastante.
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Gli anni di Johnson sono gli anni del completamento della parificazione sociale in termini normativi e l’unico effetto
positivo della guerra a livello sociale è la definitiva eliminazione di barriere per la popolazione di colore nelle forze
armate: è la prima volta che bianchi e neri sono negli stessi reparti e che anche i neri possono avere grado e iniziare a fare
carriera. Questo, ad esempio, farà sì che nel 1991 durante l’operazione Desert Storm il Capo di Stato Maggiore interforze
degli Stati Uniti sia Colin Powell.
La parificazione teorica dei diritti civili interni è comunque sempre molto dolorosa. Nel 1968 muore Martin Luther King,
pacifista sostenitore della resistenza non-violenta e nello stesso anno muore Robert, il fratello minore di John F. Kennedy,
uomo di punta per la promozione dei diritti sociali, civili e della parità.
La presidenza Nixon
Con Nixon non è più la stagione dei grandi avanzamenti sociali, ma a livello di grande politica è stato un grande
presidente. Nel ’71 ha il coraggio per abbandonare la parità aurea del dollaro, che era uno straordinario segnale di potere
degli Stati Uniti, ma portando ad una devastante sopravvalutazione del suo cambio rendeva di fatto invendibili le merci
americane, che in questo modo tornano ad essere competitive.
Nixon è inoltre l’artefice della pace con la Cina. Dal 1949 non c’erano relazioni diplomatiche con Pechino, ma dopo un
lungo lavoro del suo straordinario Segretario di Stato Henry Kissinger vengono ristabilite. Era impensabile che per gli
americani continuasse ad essere soltanto Chiang Kai-shek il leader cinese legittimo e ufficiale. Sono scelte anche dolorose
perché significa sostituire l’amico rappresentante di Taiwan nel Consiglio di Sicurezza con l’ostile Repubblica Popolare
Cinese. Fino a quel momento gli americani avevano normalmente quattro voti nel Consiglio, con la sostituzione della
Repubblica di Cina con la Cina di Mao perdono quella posizione, ma era un atto assolutamente doveroso.
Ci sono importantissimi avanzamenti nel processo di pace in Medio Oriente, con la cosiddetta diplomazia della navetta di
Kissinger. Va avanti e indietro fra Israele e le capitali arabe e quel lavorio dà i suoi frutti, anche se a distanza di anni. Nel
1978 si arriva allo straordinario risultato del reciproco riconoscimento fra Israele ed Egitto. Nello stesso anno si arriva
inoltre agli accordi di Camp David; il presidente non era più Nixon, ma il merito va comunque a Kissinger.
Ci sono tentativi di dialogo con la CEE, anche se non portano ad alcun risultato. Dopo la guerra dello Yom Kippur
Kissinger propone alla CEE delle consultazioni permanenti, ma la Comunità, nei primi mesi del ’74, risponde che in
occasione di qualsivoglia crisi di una riconosciuta rilevanza i vari paesi membri si riuniranno e se saranno
unanimemente d'accordo si potranno avviare delle consultazioni con gli Stati Uniti.
Sempre a livello internazionale vengono firmati gli accordi SALT1, che sono una prima bozza di accordo per la
limitazione delle armi strategiche.
A livello interno Kissinger tollera male il rapporto di bilanciamento e di controllo dei poteri interni, cercando in ogni
modo di rafforzare il potere presidenziale. Sono gli anni in cui il presidente cerca in qualche maniera di potersi muovere
senza eccessivo controllo dalle altre istituzioni e merita, sempre entro certi limiti, la definizione di «presidenza imperiale».
Nel 1974, durante il secondo mandato, cade perché si scopre che alla convention, cosiddetta Watergate, dei democratici è
attivo un sistema di spionaggio fornito da organismi di intelligence governativi. Ovviamente l’apparato di sicurezza di
intelligence dello Stato non può e non deve essere impiegato per acquisire dati sull’opposizione. A fronte della certezza
dell’incriminazione in quella che rapidamente viene ad emergere come un’ipotesi di impeachment, ossia la messa in stato
di accusa del Presidente e che riguarda solo ipotesi di reato compiute nell’esercizio delle sue funzioni, Nixon si dimette e
assume la presidenza il vicepresidente Ford. È una figura assolutamente poco significativa nella scena politica, tanto che
non viene nemmeno presa in considerazione la sua elezione effettiva a presidente come accaduto per i suoi predecessori.
La scelta del vicepresidente non è banale, può voler dire molto; tanti vicepresidenti poi diventano di fatto presidenti
degli Stati Uniti. Ad esempio nelle elezioni del 2008, poi vinte da Obama, ha avuto un ruolo importante la scelta dei vice:
un solido esperto di politica mondiale come Joe Biden da parte democratica, e la scelta più leggera della giovane Sarah
Palin che ha lasciato molti dubbi nell’elettorato repubblicano.
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L’allargamento
La Secessione
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