FARDELLO, DATO DI FATTO O “DONO OSCURO”

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FARDELLO, DATO DI FATTO O “DONO OSCURO”?
UNA RASSEGNA DELLA LETTERATURA PSICOLOGICA
SUGLI ATTEGGIAMENTI DELLE PERSONE DISABILI VERSO
LA PROPRIA CONDIZIONE DI DISABILITA’
Barbara Muzzatti
[abstract] L’analisi degli atteggiamenti delle persone disabili verso la propria
condizione, ci mostra aspetti diversificati e soprattutto un gruppo sociale meno
ripiegato in se stesso di quanto le persone comuni tenderebbero ad
immaginare.[fine abstract]
Introduzione
John Hull, nel suo libro Il dono oscuro, nel mondo di chi non vede (1992),
racconta, sottoforma di brani aneddotici, il “viaggio” che lo conduce alla perdita
definitiva della vista, ovvero a far parte della categoria dei ciechi. In generale,
sono abbastanza numerosi i volumi scritti da persone disabili con l’intento di
raccontare, in forma più o meno romanzata, la propria vita da disabili e dalla loro
lettura spesso si deducono spunti di riflessione, occasioni di confronto, esperienze
peculiari, utili a meglio conoscere un mondo così complesso ed eterogeneo come
è appunto quello della disabilità. Ma cosa sappiamo, al di là delle esperienze
singole offerteci in veste letteraria, degli atteggiamenti delle persone disabili verso
la propria condizione? Recentemente, Muzzatti (in corso di stampa) ha passato in
rassegna la letteratura psicologica internazionale, pubblicata negli ultimi
cinquant’anni, sugli atteggiamenti delle persone normodotate verso le persone
disabili per comprenderne contenuti e caratteristiche, ma cosa sappiamo degli
atteggiamenti degli “interessati” verso la propria condizione? Nelle pagine che
seguono si riassumerà l’esigua letteratura psicologica sul tema. Lo scopo è di
comprendere se la disabilità venga vissuta da chi ne è portatore come un fardello,
come un dato di fatto con cui convivere al meglio o come un dono, anche se
oscuro.
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Rassegna della letteratura psicologica circa gli atteggiamenti delle persone disabili
verso la propria disabilità
L’errore fondamentale di attribuzione postula che la percezione dei fatti
espressa da un osservatore è diversa da quanto riporterebbe l’attore coinvolto nei
fatti stessi. Applicando ciò al dominio che qui ci compete, potremmo ipotizzare
che le percezioni e gli atteggiamenti delle persone disabili verso la disabilità,
verosimilmente, possano essere diversi da quelli posseduti dalle persone
normodotate anche perché, il vivere quotidianamente una determinata condizione
comporta conoscenze “più accurate” su che cosa essa significhi, quali problemi
implichi.
Weinberg (1988) descrive una vasta ricerca che ha condotto con i suoi
collaboratori allo scopo di studiare gli atteggiamenti delle persone disabili verso la
disabilità. In questo studio vengono analizzati gli atteggiamenti espressi in
interviste (svolte in altre ricerche direttamente da Weinberg e collaboratori),
autobiografie e volumi scritti da persone disabili e saggi ed interviste pubblicati su
giornali e riviste. I risultati riportati da Weinberg (1988) descrivono un
continuum, sul quale le persone disabili si collocherebbero, in cui sono isolabili
tre punti principali: un punto estremo, in cui si collocano le persone che sono
costantemente amareggiate per la propria condizione di disabilità e che
continuamente si rammaricano di ciò; un secondo punto (ove sembra collocarsi la
maggior parte delle persone disabili), occupato da coloro che accettano la
disabilità come una condizione di vita e cercano di convivere con essa; un terzo
polo, in cui si collocano le persone che vivono serenamente la propria disabilità e
non cambierebbero la propria condizione con la normalità. Le persone si possono
collocare anche nei livelli intermedi di questo continuum e, soprattutto, non sono
fisse in un punto piuttosto che in un altro, ma, nelle diverse fasi della vita, o a
seguito di determinate circostanze, possono spostarsi da un punto all’altro.
“Sebbene la società tenda a ritenere la disabilità una tragedia, noi abbiamo
riscontrato che gli atteggiamenti delle persone disabili sono gli stessi di quelli dei
membri di qualsiasi altro gruppo, che cercano di fronteggiare una situazione di
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difficoltà. Come in qualsiasi altra situazione difficile, un piccolo numero di
persone la vede come estremamente negativa, un piccolo gruppo la vive
positivamente, la maggior parte ricopre una posizione intermedia” (Weinberg,
1988, p.152). Diversamente da quanto pensano le persone normodotate, esistono
quindi persone disabili che vivono con serenità e gioia la propria condizione e che
non desidererebbero per sé una guarigione. Inoltre, la propria disabilità non è
riportata come “la peggior cosa che sarebbe potuta capitare”, a conferma del fatto
che le persone disabili, come tutte le altre, possiedono un’infinità di altri problemi
e cause di malessere a cui spesso si riferiscono (Weinberg, 1988).
Gething (1985) ha confrontato la percezione di gravità di problemi legati al
danno cerebrale in persone affette da esso, in loro familiari e nella popolazione
generale. Il questionario da lei proposto era costituito da una lista di quarantotto
problemi riferiti a diversi ambiti della vita quotidiana e per essi si chiedeva di
stimarne la gravità per un giovane (18-35 anni) con danno cerebrale. Ciò che è
emerso è una netta inferiorità nella percezione di gravità tra le persone disabili,
rispetto agli altri due sotto-campioni. Una maggiore conoscenza delle difficoltà e
delle strategie per fronteggiarle, nonché una diversa percezione di cosa è
raggiungibile, delle cose a cui si può aspirare, sono le due spiegazioni che Gething
(1985) dà a questi risultati.
Campbel, Cull e Hardy (1986) hanno chiesto a persone non vedenti, con un
arto amputato, affette da diabete, con danno cerebrale o affette da schizofrenia di
segnare su una striscia verticale ancorata “sfortunato/fortunato” la propria
posizione e quella di membri con le citate tipologie di disabilità. Ciò che si
ottenne fu una generalizzata valutazione di maggiore fortuna a se stessi, rispetto ai
membri con le altre disabilità (solo i soggetti affetti da danno cerebrale si
valutavano secondi) e, un gradiente di “fortuna” che, in linea con quanto riportato
per la popolazione normale da Janicki (1970), LeCompte e LeCompte (1966) e
Wilson, Beatty e Frumkin (1967), vede come meno sfortunate le persone affette
da diabete, le persone con danno cerebrale,
coloro che hanno subito
un’amputazione e, ultime, le persone cieche (le persone schizofreniche del
campione di Campbel et al. (1986) mostravano un ordine inverso).
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Weinberg e William (1978) chiesero ad un campione di soggetti con diversa
disabilità quale grande desiderio possedessero e, con loro sorpresa, ottennero che
solo il 49% del campione dichiarava di desiderare una condizione di “normalità”,
mentre il restante 51% esponeva desideri estranei alla propria disabilità. In una
seconda indagine, Weinberg (1984) chiese ad un campione di trenta persone
disabili, se sarebbero state disposte ad acconsentire ad un intervento chirurgico
(descritto con ottime possibilità di riuscita positiva) qualora esso potesse eliminare
la loro disabilità. I dati mostrarono risposte diverse tra le persone disabili dalla
nascita (o dalla tenera età) e le persone divenute disabili da giovani o da adulte.
Tra i primi, il 50% si dichiarò favorevole e il 50% sfavorevole. Tra i motivi
addotti dai favorevoli, primeggiava il desiderio di abbattere le limitazioni concrete
dovute alla disabilità; tra le motivazioni addotte dagli sfavorevoli, il timore di
perdere la propria identità personale e sociale, il timore, cioè, di divenire diversi
da come si è, di dover cambiare completamente la propria vita, di mutamenti nei
propri rapporti interpersonali. Le persone che erano divenute disabili da adulte,
invece, dichiararono il desiderio di tentare tutto il possibile per migliorare la
propria condizione, nei periodi immediatamente successivi all’insorgenza della
stessa, man mano che ci si allontanava da questo periodo, però, dichiaravano di
voler ponderare la decisione in base ai suoi costi economici, ai suoi tempi di
riabilitazione, al dispendio di energie richiesto e in base ad altri obiettivi che si
erano nel frattempo prefissi (per esempio l’avere figli, il completare un iter di
studio). Nella stessa direzione vanno i dati riportati da Watson (2002) il quale
riporta come le persone disabili non facciano frequente riferimento alla propria
menomazione quando viene chiesto loro di parlare di se stessi e della propria
identità, quasi che quest’ultima non risultasse influenzata dalla menomazione
stessa.
Un’indagine condotta da Cameron, Titus, Kostin e Kostin (1973) mostra
come persone disabili e non disabili non si differenzino nell’attribuzione di
felicità alla propria vita anche se le persone disabili giudicavano la propria vita
come più difficoltosa, rispetto a quanto non facessero le persone non disabili.
Freedman (1978) sostiene che la relazione tra malattia e felicità è debole: solo in
periodi particolarmente difficoltosi, quando per esempio la morte sembra vicina,
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la malattia si associa alla perdita di felicità, mentre le persone con malattie
croniche (purchè non fatali) non sembrano particolarmente infelici.
Kelly, Sedlacek e Scales (1994) chiesero a studenti di college normodotati e
con disabilità di valutarsi, di valutare il rispettivo outgroup (cioè le persone
normodotate per i disabili e i disabili per i normodotati) e di indicare come
credevano l’outgroup li valutasse. Sorprendentemente, studenti disabili e non non
offrivano autovalutazioni di sé significativamente diverse (si vedano anche
Fichten, Robillard, Jude e Amsel, 1989; Kriegsman e Hershenson, 1987;
Weinberg-Asher, 1976) a convalida di una minore distanza attribuitasi dalle
persone disabili rispetto alle normali.
Infine, Furnham e Thompson (1994) confrontarono gli atteggiamenti verso
la disabilità di persone in sedia a rotelle e di persone normali. In linea con le
ricerche precedentemente citate, i membri disabili del campione non dimostravano
di possedere atteggiamenti nei confronti della disabilità più negativi (dato
riportato, per la sordità, da Furnham e Lane, 1984) né più positivi, quantunque le
persone disabili si valutassero come meno accettanti la disabilità, meno stabili e in
misura maggiore bisognosi di aiuti specifici. In secondo luogo, le persone disabili
attribuivano alle persone normodotate atteggiamenti più negativi di quanto essi
realmente manifestassero, mentre le persone normodotate valutavano gli
atteggiamenti dei disabili come simili ai propri, probabilmente a causa
dell’assenza di informazioni specifiche o di esperienza con le persone disabili.
Inoltre, Furnham e Thompson (1994) riportarono come le persone disabili per
cause congenite credessero, più dei disabili motori per cause acquisite, i
normodotati come più in imbarazzo nell’interagire con le persone disabili e come
le persone disabili da maggior tempo riponessero minore fiducia nella possibilità
di vivere autonomamente.
Conclusioni
Come osservano gli stessi Furnham e Thompson (1994), la letteratura sugli
atteggiamenti delle persone disabili verso la propria condizione di disabilità è
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molto parca e molto frammentaria. Ciò nonostante, essa ci presenta un gruppo
sociale (quello delle persone con disabilità) meno ripiegato in se stesso e meno
oppresso dalla propria condizione di quanto le persone comuni tenderebbero ad
immaginare ma, soprattutto, ci descrive una pluralità di aspetti costituenti
l’atteggiamento verso la propria condizione, sfatando la tendenza comune, e
largamente studiata in psicologia (cfr. il concetto di stereotipo, Arcuri e Cadinu,
1998), di attribuire ai membri della stessa categoria sociale analoghi
comportamenti, opinioni, abilità, valori, atteggiamenti.
Il fatto che le ricerche condotte e pubblicate siano numericamente scarse e
che, di norma, coinvolgano campioni ristretti e spesso eterogenei per severità
della disabilità o per sua tipologia, è in parte dovuto alle difficoltà metodologiche
riscontrabili nell’impiego di popolazioni atipiche come campioni sperimentali. Il
tema, però, risulta di particolare interesse e merita maggiori attenzioni da parte dei
ricercatori, oltre che da parte degli scrittori. Un suo approfondimento risulterebbe
utile in primo luogo ai riabilitatori e agli operatori del settore, perché offrirebbe
loro un ulteriore strumento di conoscenza della propria utenza e di
programmazione per le proprie attività. Anche la popolazione generale
beneficerebbe di gran lunga di ulteriori ricerche sull’argomento, perché esse
contribuirebbero a ridurre la distanza percepita – ma come visto non
necessariamente reale – tra il gruppo dei disabili e il gruppo dei non disabili.
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Barbara Muzzatti
Psicologa e Dottore diRicerca
in psicologia dello sviluppo e
dei processi di socializzazione
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