sito italiano di Etnopedagogia
APPUNTI PER UN MANUALE DI ETNOPEDAGOGIA
a cura di Anselmo Roveda
Genova 2002
Introduzione
L'etnopedagogia si pone come sintesi e incontro fra vari saperi delle scienze dell'uomo,
specificatamente tra le scienze demo-etno-antropologiche e le scienze dell'educazione.
Etnopedagogia da sintesi e incontro si fa strumento interpretativo, specifico e proprio dell'ambito
d'indagine: la trasmissione del sapere nelle culture popolari e il processo educativo proprio di ogni
cultura.
L'etnopedagogia in sede di ricerca studia i fattori educativi propri delle culture tradizionali e popolari,
anche nelle società complesse.
L'etnopedagogia si occupa dello studio dei sistemi di trasmissione della cultura e dei saperi, dei
fenomeni d'acculturazione, d'inculturazione, di socializzazione e d'inclusione od esclusione sociale.
Studiando i sistemi d'informazione culturale dei socio-etnemi e degli ideo-etnemi.
Nelle società occidentali l'etnopedagogia può fornire, ad esempio, chiavi di lettura per lo studio del
passaggio adolescenziale quale tentativo d'inclusione nel mondo adulto pur nella mancanza di
momenti significativi d'inclusione se non puramente formali (maggiore età, patente di guida, diritto al
voto).
L'approccio etnopedagogico permette uno sguardo nuovo e di settore su alcuni temi che hanno un
ricaduto educativo, pensiamo ad esempio ai fenomeni psicosociali legati all'immigrazione e al disagio
sociale e culturale correlato, anche per l'età adulta.
In sede propositiva l'etnopedagogia si occupa della valorizzazione delle culture particolari
progettando iter formativi finalizzati alla valorizzazione stessa di quei patrimoni, pensiamo ad esempio
all'esperienza delle scuole occitane Calandretas o di quelle basche. Od ancora strutturando e
sostenendo azioni di sviluppo di comunità o percorsi di pedagogia interculturale e di educazione alla
pace e alla gestione dei conflitti.
L'etnopedagogia pur partendo da uno studio del particolare ha una tensione assiologica universale;
solo partendo dal particolare si possono cogliere gli altri particolari e farsi così un idea di rispetto
dell'universale.
Una possibilità di ricerca e azione che valorizzi con la gente e i popoli percorsi di crescita e sviluppo
di comunità.
L'etnopedagogia chiave di lettura e azione per l'educazione ai tempi della globalizzazione.
Una pedagogia che sia riflessione e azione di libertà.
Una pedagogia che si costruisca nel presente in relazione alle dinamiche sociali dei popoli, secondo
le vive esperienze della gente e le loro eredità di saperi.
Una pedagogia che colga, nell'incontro tra le competenze delle scienze demo-etno-antropologiche e
quelle delle scienze dell'educazione, la possibilità di strutturare percorsi cognitivi secondo la rete degli
anelli di conoscenza. Le scienze che concorrono al sapere etnopedagogico
Le scienze che concorrono al sapere etnopedagogico e che servono da strumenti al ricercatore sono:
le scienze demo-etno-antropologiche: antropologia culturale e sociale, etnologia, etnografia, studio
delle tradizioni popolari,... e specialmente l'approccio di antropologia dell'educazione
le scienze dell'educazione: pedagogia, psicologia dell'educazione e dell'età evolutiva, filosofia
dell'educazione,... e specialmente gli approcci di pedagogia comparativa (per la conoscenza
teorica), di educazione interculturale (per il confronto sulle prassi) e di educazione alla pace (per
una prassi di rispetto dell'altro e delle culture altre)
altre materie concorrono al sapere etnopedagogico: la sociologia (per la comprensione dei processi
di inculturazione/socializzazione nelle società complesse), la metodologia di ricerca (necessaria
per la conduzione di una qualsivoglia ricerca applicata), la storiografia (che permette lo studio
diacronico -le evoluzioni- delle condizioni storico-sociali delle comunità esaminate);
è inoltre d'interesse dell'etnopedagogista la conoscenza di altri approcci che offrono spunti per la
ricerca, penso in primis alle nuove etnoscienze del comportamento: l'etnopschiatria di Devereux e
l'etnopsicanalisi di Nathan
Il lessico etnopedagogico
Tutte le volte che ci imbattiamo in lessici specifici in ambito scientifico dobbiamo fissare il valore dei
termini usati rendendoli condivisi e chiari; è questo il momento primo nello studio di una materia e nel
conseguente confronto scientifico sui temi proposti. Per l'etnopedagogista i termini cultura e natura
hanno significato differente, perché d'ambito scientifico e specifico, da quello attribuito ai medesimi
termini da uno studente di filosofia o da una massaia. In etnopedagogia mutuiamo le definizioni dei
termini, per chiarezza e condivisibilità, dalle scienze demo-etno-antropologiche consolidate.Vediamo
quindi il significato che attribuiremo in etnopedagogia ai seguenti termini: natura, cultura,
inculturazione, acculturazione, socializzazione, ideoetnemi e socioetnemi.
NATURA :L'universo come totalità cosmica, visibile einvisibile, dentro cui l'uomo è immerso. essa
abbracia le cose, gli esseri, gli animali, gli uomini, le forze -note e ignote-. Per natura si intende
anche l'ambiente ecologico, la terra, la vegetazione, gli animali: la vita umana si svolge in simbiosi
con queste realtà. Le leggi fisiche e biologiche che reggono la costituzione intima delle cose e degli
esseri. (Bernardi, Uomo cultura società, 1993)
CULTURA: è il complesso unitario che include la conoscenza, la credenza, l'arte, la morale, le leggi e
ogni altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro della società (Tylor, Primitive
Culture, 1871)
INCULTURAZIONE: il processo educativo per cui i membri di una cultura vengono resi coscienti e
partecipi della cultura stessa. Con l'inculturazione si informa e si forma la visione mentale dell'uomo e
si orienta il suo comportamento. (Bernardi, Uomo cultura società, 1993)
ACCULTURAZIONE: l'acculturazione si riferisce alle relazioni esistenti tra più culture e agli effetti che
derivano dai loro contatti. I contati culturali causano trasformazioni nell'interno di una cultura per vie
formali e informali, occulte e palesi,dando luogo a fenomeni di incontro e scontro, di accetazione e di
rifiuto. L'acculturazione rappresenta una costante della cultura e può avere esiti positivi quanto
negativi. (Bernardi, Uomo cultura società, 1993)
SOCIALIZZAZIONE: è il processo di interazione sociale attraverso il quale gli individui acquistano la
loro personalità e apprendono i modelli di comportamneto della loro società (Robertson, Sociologia,
1988) NOTA: questo termine mutuato dalla sociologia non è di molto differente nel senso da quello di
inculturazione usato nelle scienze demo-etno-antropologiche, è però da preferirsi nelle ricerche
effettuate su società complesse.
IDEO-ETNEMI: tutti gli aspetti teorici della cultura, coordinati in sistemi di pensiero e assunti alla base
della personalità e del comportamento (Bernardi, Uomo cultura società, 1993)
SOCIO-ETNEMI: tutti gli elementi pratici e materiali della cultura (Bernardi, Uomo cultura società,
1993)
Paradigmi della scienza
Questo schema, tratto dal sito del Movimento brasiliano di Etnopedagogia illustra le differenze tra i
pardigmi scientifici di riferimento, da un lato della scienza classica e dall'altro quelli che informano la
scienza antropologica. L'approccio di etnopedagogia, ovviamente, utilizza i paradigmi della scienza
antropologica
CLASSICA
scienza occidentale
discorso sopra...
riduzionista
semplice
dualista
negazione dell'essere
educazione gestionaria
non autonomia
etnocentrismo
colonialismo cognitivo
ideo-logica
acculturazione
discorso competente
negazione dell'immaginario
perpetuazione
errore da castigare
ANTROPOLOGICA
etnoscienza globale
vivere con...
olonomica
complesso
non dualista
inclusione dell'essere
autogestione educativa
autonomia
negazione dell'etnocentrismo
autogestione cognitiva
dia-logica
inculturazione
azione competente
riconquista dell'immaginario
trasformazione
errore come opportunità di apprendimento
Per una storia della materia
Scuole e contributi
La nascita della nostra riflessione etnopedagogica
La scuola brasiliana e l'organizzazione dell'etnopedagogia: il contributo della pedagogia di Celestin
Freinet il contributo della pedagogia degli oppressi di Paulo Freire il contributo
dell'etnomatematica di Ubiratan D'Ambrosio, evidenze educative
L'etnopedagogia e gli altri approcci delle scienze dell'educazione
L'etnopedagogia come valorizzazione delle culture: Nova Escola Català Las calandretas
occitane altri contributi di scuole e popoli
L'antropologia dell'educazione il Council on Anthropology and Education il contributo italiano:
Gobbo e Callari Galli
L'antropologia della conoscenza di Edgar Morin
Contributi di altre etnoscienze: L'etnomedicina di Enzo Scarpa L'etnomatematica di Ubiratan
D'Ambrosio L'etnopsichiatria di Georges Devereux, il contributo italiano all'etnopsichiatria: Coppo
e Beneduce L'etnopsicanalisi di Tobie Nathan
L'antropologia psicologica il contributo di Erika Bourguignon
Il contributo dlla psicolinguistica il lavoro di Renzo Titone
L'autoeducazione delle comunità il contributo di Raffaele Laporta
Lo studio dei riti di passaggio e dell'età evolutiva nei sistemi tradizionali Van Gennep, Malinowski,
Mead, Freud di Totem e tabù
Applicazioni e sviluppi dell'etnopedagogia in Italia e nel mondo.
Spunti di ricerca e d'applicazione
La trasmissione di sapere nelle culture popolari
I processi educativi informali nelle culture popolari: il folklore infantile come strumento d'indagine
La trasmissione di sapere nelle società complesse: conflitto tra agenzie educative formali e informali
Analisi delle problematiche adolescenziali
L'adolescenza in una società complessa (sublimazione dei riti di passaggio)
Identità, immigrazione e disagio (il caso francese: le banlieues)
Minori immigrati, lavoro minorile, identità e disagio (i venditori di rose in Italia)
Strutturazione dell'identità, valorizzazione del particolare e armonia dell'universale in pedagogia
L'autoeducazione di comunità (La Porta): applicazioni per la valorizzazione delle culture minoritarie
Libertà d'educazione per i popoli e le lingue negate (kurdi, corsi, occitani,...)
APPENDICE: Contributi
I centri socio-educativi per minori: spunti metodologici ed etnopedagogici
un'esperienza genovese
Il testo qui presentato è servito, con altro titolo, come traccia per l'intervento dei centri socio-educativi al Seminario "Una
metodologia per la Città Educativa" (Palazzo Ducale, 23 aprile 2001) organizzato dall'Agenzia educativa territoriale Centro
Est 1 "L'Arcipelago" di Genova. Il testo seppur non centrato esclusivamente sull'etnopedagogia ne fa intravedere alcune
delle applicazioni possibili nell'ambito dei servizi socio-educativi rivolti ai minori. La costituzione delle Agenzie educative territoriali a Genova ha implimentato la messa in rete delle
risorse educative professionali presenti sul territorio. Esiste un livello di rete interna all'Agenzia che
rappresenta molteplici possibilità in relazione all'efficacia ed opportunità degli interventi -ovvero la
discussione comune delle segnalazioni e dei bisogni del territorio, valutando quale tipologia
d'intervento (Centro Sociale -aperto a bassa soglia-, Centro Socio-Educativo -intervento specialistico
a numero ristretto-, Affido educativo individuale, Educativa Territoriale) meglio risponda alla singola
situazione e garantendo, in itinere, aggiustamenti e possibilità di continuità per la persecuzione di
obiettivi d'autonomia e consolidamento-, ma esiste un'altra funzione altrettanto importante
dell'Agenzia in relazione alla rete esterna. L'Agenzia, come network professionale, ha infatti il
compito di sviluppare anche la rete territoriale complessiva rappresentando nodo attivo per le altre
realtà che incidono sull'educazione delle bambine e dei bambini. Pensiamo alle società sportive, alle
associazioni ricreative e culturali, alle parrocchie, ai gruppi informali che vivono le piazze dei nostri
quartieri di riferimento. Realtà che per prossimità con i vissuti dei bimbi accolti negli interventi
d'Agenzia rappresentano attori importanti per il conseguimento di quelli obiettivi che le strutture, in
modo professionale e consapevole, perseguono per quegli stessi bambini. In questo la tanto
declamata "apertura al territorio", soprattutto per le storiche diffidenze sociali intorno ai centri
socio-educativi sia da parte del territorio ("luogo-ghetto") che degli stessi operatori, funziona ed ha
senso educativo e sociale se i soggetti messi in rete riconoscono e agiscono le proprie peculiarità di
storia e intervento. Per quanto riguarda i CSE per piccoli il porsi come nodo attivo delle rete vuol
dire quindi mettere a disposizione la propria professionalità rispettando lo specifico di altri momenti di
socializzazione, integrando interventi e stendendo progetti educativi -sui singoli e su gruppi- che
amplino la possibilità delle opportunità esperibili e non un generico (sicuramente meno faticoso ma
altrettanto inefficace) "aprirsi" a momenti pubblici, cosa peraltro naturale e normalmente perseguita.
La presenza di strutture od interventi dell'Agenzia devono assumere quindi una visibilità precisa,
fatta ed informata sul cosa realmente è e fa, ad esempio, un CSE. Un CSE è un luogo di
opportunità contingente per il numero ristretto di bimbi che lo frequentano ma dev'essere percepito
come una risorsa per tutto il territorio, una risorsa con le proprie specificità, ne più ne meno che il
tabacchino, il farmacista o il salumiere sotto l'angolo. Non tutti comprano francoboli o salumi o
antiinfluenzali ma tutti sanno che in quel luogo c'è la possibilità di farlo per chi lo desidera o per chi ne
ha bisogno.
Fatte salve inoltre alcune premesse storiche e le indicazioni, peraltro ritengo condivise, sulle
specificità dell'intervento dei CSE come strutture specialistiche, sugli strumenti di programmazione,
verifica e valutazione dellintervento e sui criteri di valutazione complessiva dell'efficacia centriamo
due aspetti del nostro agire educativo: l'attenzione al bambino e la costruzione del gruppo e della
rete.
L'attenzione al bambino: il percorso individuale
Come lavoriamo a livello individuale? Attraverso la stutturazione di percorsi individuali, li si possono
chiamare per convenzione PEI (progetto educativo individuale), che sostengano il nostro cliente in
direzione di quegli obiettivi che sono prefissati di concerto con famiglia e operatori e più
complessivamnete che gli garantiscano quel luogo d'accoglienza e ascolto che ponga le basi per lo
sviluppo delle proprie potenzialità, agendo prevenzione dove possibile e colmando disagio dove
richiesto. Dopo la segnalazione gli educatori iniziano il rapporto con il bambino mettendo in atto
procedure d'osservazione, per le quali si valuta se per lui e per il gruppo, l'inserimento possa
corrispondere a quei bisogni e a quelle richieste che giungono dalla famiglia e dagli operatori dei
servizi. Questo tempo, quantificabile in due mesi, prelude la stesura del progetto educativo vero e
proprio. La stesura dei progetti educativi individuali tiene conto e mette insieme le richieste della
committenza e della famiglia e i bisogni del bambino. Sovente, e sempre di più in momenti dedicati
e con professionalità specifiche, si supporta la famiglia nel concedere spazi di crescita al bambino,
anche grazie alla percezione non tout court sanzionatoria della quale talvolta le famiglie investono
altre figure coinvolte nel progetto (assistente sociale, neuropsichiatra, pedagogista, psicologo,...) . La stesura del PEI avviene come "messa in contratto" sugli obiettivi e condivisione con gli attori
interessati centrando sempre sulla percezione che il bambino ha del suo essere lì, del perchè e del
per che cosa. Gli obiettivi sono essenzialmente di tre tipi: obiettivi contingenti (es.
l'apprendimento o talune abilità sociali), obiettivi di contesto (cogliere il cse come luogo dedicato a
sè e delle opportunità esperite), obiettivi di qualità (soddifazione individuale ed autonomia sociale).
Gli obiettivi non sono necessariamente ascendenti, anzi sono sovente l'equilibrio in costante
definizione tra i tre livelli. L'opportunità dell'uno o del tal altro sono in relazione alle "urgenze" sentite
dal bambino, mediando le pressioni (famgliari e/o sociali) esterne. Subentrano gli strumenti di
verifica e valutazione necessari alla calibratura, prima, e alla conclusione, poi, dell'intervento.
Il provocatorio e discusso Alexander S. Neill (1971, Summerhill) diceva che per l'educatore le uniche
cure (da intendersi in senso non terapeutico, ovviamente) ammissibili sono quello che tendono a
guarire l'infelicità. Sottolineerei tendono. Tendono perchè progettate e quindi agite e quindi verificate
e valutate. Verificare un percorso progettato, attraverso i suoi obiettivi intermedi e valutarlo in
relazione a quelli complessivi, permette di ricentrare l'intervento persona per persona, problematicità
per problematicità. La ricentratura del'intervento educativo con il bambino consente che questo, pur
nel quadro di riferimento complessivo del modello teorizzato e agito dal cse, sia realmente
rispondente ai bisogni del singolo bambino.
Centrare l'intervento con e sul bambino, mutuiamo da Rogers (1974, La terapia centrata-sul-cliente),
implica, inoltre, da parte degli operatori: -l'autenticità nella relazione, ovvero l'educatore
dev'essere liberamente e profondamente se stesso, non assumendo atteggiamenti di circostanza,
comunicando anche le proprie difficoltà -la considerazione positiva incondizionata, questo
concetto, elaborato da Standal (1954), significa che non vengano poste condizioni del tipo "mi piaci
solo quando sei così e così...", implica l'accettazione di tutti i sentimenti espressi dal cliente... tanto di
quelli negativi, "cattivi"...quanto di quelli "buoni", positivi... implica l'accettazione non solo degli aspetti
coerenti della personalità del cliente, ma anche dei suoi aspetti incoerenti. -l'empatia; ovvero
sentire il mondo personale del cliente "come se" fosse nostro, senza però mai perdere questa qualità
del "come se" fosse. tutto questo dev'essere percepito dal bambino.
E "guarire" l'infelicità, tornando a Neill, vuol dire costruire felicità. Ma perchè costruire felicità non
sia uno slogan e la routine non rubi senso all'agire educativo bisogna che la felicità la si costruica
attraverso opportunità esperibili.
In un vecchio documento sulla storia dei cse (Pusceddu 1994, Per una storia dei cse), che mi sono
andato a rileggere per stendere queste pagine, si racconta di come gli allora Centri diurni nascessero
offrendo spazi di gioco e creatività. Poi sono venute, ed è sicuramente opportuno sbrigarle, le
faccende scolastiche (non voglio entrare nel merito del senso educativo sicuramente presente anche
in quest'aspetto, si veda nel documento la parte sulla messa in rete con la scuola). Mi sembra però
che il pensare -e quindi agire- il fare del CSE, che è poi l'intervento sul disagio dei bambini, come
gioco e creatività dia esattamente il senso del nostro specifico. Esperienze di gioco e creatività
fatte fianco a fianco con altri bambini e con gli adulti permettono la messa in gioco delle emozioni, del
poterle esprimere e poi magari gestirle, per saper godere di quelle soddisfacenti e piangere di quelle
insoddisfacenti, accompagnati a "pesarle".
Gli strumenti da privilegiare, quindi, sono: cultura, estetica e gioco; dal quale discendono la
comprensione del senso di libertà, motivazione, rispetto dell'altro, senza che rimangano precetti
morali caduti da adulti magari sì positivi ma distanti. Ogni equipe si struttura gli utensili pratici per
far "cose belle" in base alle competenze e passioni degli educatori (burattini, passeggiate, mare,
motricità e quant'altro); i modelli teorici di riferimeto capaci di farne strumenti pedagogici dotati di
respiro e senso per il gruppo (educatori+bimbi) devono anch'essi essere esplicitati e condivisi da
ciascheduna equipe.
Fare della cultura, dell'estetica e del gioco opportunità esperibili è quindi pensare il centro come il
luogo di quelle opportunità. Facendo sì che il centro socio-educativo s'appropri di utensili e
strumenti che offrano, al singolo, attraverso le proposte di "divertente, bello e inconsueto", aiuto a
strutturare dinamiche relazionali ed affettive, a esplorare e costruire un equilibrio personale dinamico,
ad attivare percorsi di crescita, ad interagire con i propi bisogni, istanze e paure. Ovvero offrendo
agio, altro al disagio. Accogliendone le ansie, le paure, il senso di inadeguatezza o di colpa; vissuti
che sono il portato dei bimbi a disagio e che solo se accolti possono consentire l'instaurarsi di
relazione significativa e quindi educativa. Lasciando modo che si diano, anche i vissuti di disagio,
come comunicazione simbolica con l'adulto. La dimensione simbolica, dell'agito e comunicato, del
bambino rappresenta quindi il medium relazionale privilegiato dall'educatore che deve decodificare e
interpretare correttamente i messaggi che il bimbo invia. Il difficile equilibrio interpretativo da darsi al
gioco rimanda ancora a Winnicott (1979, Gioco e realtà), che citiamo nella parte introduttiva del
documento per comprendere dove e come s'instaura disagio, o al gruppo che stretto intorno a
Bateson ha prodotto Questo è un gioco (1956). La capacità di "stare con" decodificando deve
informare l'azione dell'educatore non offrendo necessariemente la "risposta giusta", ma dando
significato alla comunicazione stessa, fatta sovente più d'agiti che di parole. Bruno Bettelheim
(1982, Il mondo incantato) diceva a questo proposito
la comprensione ed il riconoscimento dell'adulto funzionano come specchio in cui il bambino
riconosce e costruisce la propria immagine, modula le proprie relazioni con il mondo circostante e
con le persone che gli stanno attorno: definisce insomma la sua identità individuale e sociale.
Nel riporto di un'esperienza di attività espressivo-corporee e ludiche in uno dei nostri cse si definiva
il setting di questi momenti d'espresione e gioco come "spazio magico".
...quando l'adulto riesce a mettersi in relazione con il bambino all'interno di una struttura di gioco,
utilizzando il suo canale comunicativo, costruisce uno "spazio magico" che permette
l'espressione di emozioni, di paure e di conflitti e in cui è possibile fare emergere fantasmi senza
paura che da uqesti si possa venire risucchiati o distrutti. Questo spazio magico non è uno spazio
di analisi del reale, è uno spazio di esplorazione del possibile, di ciò che è noto e di ciò che
sembra ignoto, dove è possibile anche l'incontro con l'imprevisto. Uno spazio in cui il linguaggio
del corpo, ed il linguaggio del gioco, possono divenire linguaggi simbolici attraverso i quali il
bambino sia libero di poter esprimere desideri, timori, contraddizioni, collera, conflitti: uno spazio
non solo di "libera espresione", ma anche un luogo entro il quale scoprire e sperimentare diffrenti
modalità ed opportunità, alle volte difficilmnete utilizzazbili nel quotidiano. Ai bambini viene
offerto, attraverso questo "spazio magico", un luogo di "costruzione del Sè" individuale e sociale,
all'interno del quale ogni singolo può misurarsi e crescere, creando momenti ora piacevoli, ora
liberatori e "sproblematizzando" le situazioni, evolvendo positivamente attraverso il confronto con
difficoltà simboliche ma reali. Il bambino è libero di muoversi in questo spazio, di muoversi al suo
interno: è lui steso con le sue scelte, le sue scoperte, le sue conquiste a definire, passo dopo
passo, le modalità e le strategie del suo procedere. (Risso 1999, Analisi di una conduzione di
gruppo)
Per quel mi riguarda ritengo, in tempi di migrazioni, che l'approccio d'etnopedagogia degli allievi
brasiliani di Freinet, o la tensione d'accoglienza dei modelli dell'altro che informano l'etnopsicanalisi di
Tobie Nathan possano rappresentare due interessanti terreni di confronto per il fare educativo ai
tempi della globalizzazione.
L'approccio d'etnopedagogia e i ricaduti educativi della riflessione etnopsicanalitica di Nathan
guardano ai clienti, e alla loro rete, come portatori di una cultura che sola può produrre cambiamento
e crescita per sè. La strutturazione identitaria dell'individuo in crescita si confronta con quelli che
nelle scienze demo-etno-antropologiche si definiscono idio-etnemi e socio-etnemi (Bernardi 1993,
Uomo cultura società) Gli idio-etnemi sono gli aspetti teorici della cultura -interpretazioni intelletive,
valori culturali- , che vengono poi coordinati in sistemi di pensiero e assunti a base della personalità e
del comportamento. I socio-etnemi rappresentano gli aspetti pratici della cultura: istituzioni sociali,
espressioni artistiche, attuazioni materiali. La più parte dell'utenza-clientela dei CSE per piccoli è
rappresentata da bimbi con vissuti familiari di migrazione (sia essa quella storica e interna, Sud-Nord
Italia, o quella più recente ed esterna, Sud-Nord del mondo). Il fornire luoghi di crescita e d'ascolto
deve tener quindi conto di che porati, anche culturali oltreché personali, informano la percezione sul
crescere e sull'educare dei bambini stessi e delle loro famiglie. Diciamo spesso che si debba offrire
modelli alternativi, e quindi positivi. Questo però rischia di sottendere giudizio e porre io positivo
versus tu negativo. L'ottica del versus, opposto, viene da Nathan -pur se in un modello clinico- non
negata ma semplicemente destrutturata grazie all'accoglienza dell'altro -anche con i suoi portati
socialmente e culturalmente percepiti negativi- rimanendo alter sed cum, altro ma con. (Nathan 1993,
Principi d'etnopsicanalisi) Questa posizione personale dell'educatore, oltre ad andare in quella
direzione empatica più generale descritta da Rogers, di fronte al bambino e alla sua percezione
permette di accoglierne le istanze complessive e porre quei momenti educativi di cultura, gioco ed
estetica come "la proposta di me e di ciò che sono in relazione a ciò che sei e alle proposte, ed
obiezioni, che hai da farmi". Vello e i suoi colleghi brasiliani utilizzano questo approccio anche alla
didattica, luogo dell'educare sicuramennte meno simbolico e quindi più difficilmente gestibile con
parametri "di messa di fronte dei nostri portati culturali". Nathan (1998, Quale avvenire per la
psicoterapia?) in un pamphlet, dai toni ora disincantati ora polemici, introduce concetti che seppur
pensati per un ambito clinico hanno forte valenza anche per il fare educativo. Alcuni come la
quantificabilità dell'influenza dell'educatore, nel nostro caso, sul paziente e quindi sugli "aspetti magici
della relazione" sono già sondati e considerati anche con letture sociologiche ma altri, e pensiamo
alle sue conclusioni tecniche, rappresentano una chiave di lettura che permette all'educatore di far
passare dall'implicito all'esplicito alcune prassi che testa ogni giorno nella relazione. Sostenendole
ora con un'analisi teorica. Per Nathan un intervento efficace, pensato nell'ottica del dare valore alla
cultura e alle percezioni dell'altro,
permette al cliente di perdere la sua posizione di oggetto, di essere strano e molle che è
necessario attraversare fino a percepire gli elementi che ci interessano in lui. (...) Egli diviene, da
questo momento, un collaboratore, indispensabile alter ego di una ricerca comune. (...) A
qualunque stadio della presa in carico nel quale noi lo incontriamo, un paziente è già stato
pensato e costruito dai dispositivi (per noi culturali e educativi) da lui attraversati fin dalla sua
nascita. (...) non è più questione di trattare una sedicente parte segreta della persona ma di
invitare, invece, la persona stessa a esplorare un dispositivo pubblico immaginato e istituito dal
gruppo al quale appartiene. (...) Nathan poi conclude La prospettiva che propongo permette ai
meccanismi di solidarietà di imporsi come nella vita quotidiana e non di essere imposti dal di fuori
per motivi di ordine morale. (Nathan 1998)
La costruzione del gruppo e la rete
Se nella parte precedente abbiamo posto attenzione alla relazione individuale tocchiamo ora
brevemente alcuni temi che costituiscono, a livello gruppale e territoriale, anch'essi il lavoro del CSE.
- la necessaria costruzione di un luogo identitario i cse accolgono un numero limitato di bambini
che pur condividendo un ambito territoriale -sempre più vasto- non necessariamente sono in
relazione spontanea pregressa (ecologica) tra loro. Il CSE dev'essere, come detto, un luogo delle
opportunità esperibili e il luogo dove tutti (educatori e bimbi) possono permettersi spontaneità. Il
rischio è che vista la previa non conoscenza il centro rimanga un neutro territorile, per evitarlo oltre ad
agire tutte le nostre specificità pedagogiche, dobbiamo pensare e agire il CSE come uno dei luoghi di
sviluppo di comunità. Tenendo insieme tutti quegli aspetti, sostegno alle famiglie e collaborazioni
con associazioni ad esempio, che sostengano la crescita identitaria del singolo in relazione -e
rispetto- della matrice identitaria territoriale e sociale, a maggior ragione viste le difficoltà ed
opportunità legate ai temi migratori prima affrontati,
- la costituzione del gruppo di bambini per permettere una resa educativa del centro e rispondere
all'istanza di costruzione di un luogo identitario territoriale e sociale è necessario che la costituzione
del gruppo di bambini segua criteri di: eterogeneità per problematicità (ad es. non solo bimbi con
ritardo o svantaggio in relazione alle abilità cognitive) e omogeneità per possibilità educative,
facendo del gruppo da somma di "disgrazie" a prodotto di diversità arricchenti
- la territorialità dei singoli Il costruire percorsi educativi che vadano in direzione dell'autonomia
personale e sociale passa attraverso i due punti su esposti e permette di dare visibilità alla
territorialità del singolo, garantendogli lo sviluppo della propria rete amicale e sociale, così che il CSE
non sia il luogo allontanantete dalle dinamiche (scuola, giardinetti,...) ma garante del poter incontarre
quei luoghi e quelle persone con e come momenti dedicati alla strutturazione individuale.
In relazione agli obiettivi di struttura del CSE questo deve darsi come referente educativo per il
territorio garantendo a livello di rete, di enti ed operatori percorsi di continuità in realzione alle altre
agenzie educative presenti: centri aperti, scuola, associazioni,...
Il lavoro di rete è -in senso teorico e complessivo- un tema talmente condiviso che pare inopportuno
qui toccarlo.
Rispetto alla rete profesionale però ci pare interessante iniziare a riflettere sulla possibilità di rapporto
tra servizi (CS, CSE, affidi, ET) non solo nella programmazione di momenti comuni ma anche di poter
pensare equipe allargate che rispondano ai bisogni di un dato territorio scanbiandosi informazioni e
competenze, garantendo così ulteriore qualità.
a cura di Anselmo Roveda
Gli educatori professionali, i loro saperi
e il modello etnopedagogico degli anelli di conoscenza.
Il sempre presente e crescente -in relazione ai livelli di professionalità- bisogno di una definizione
d'identità per la professione dell'educatore in Italia può trovare, a mio avviso, valore nella
condivisione e nel dibattito sui saperi e sul fare propri dell'educatore. Creando una rete di
discussione sulla professionalità educativa partendo "dal basso", da noi. Altre figure dell'ambito
educativo e sociale hanno, magari a parità di formazione e professionalità (molti maestri hanno il
diploma e poi chi fa supervisione all'interno della scuola? quanto è coincidente formazione e
ruolo -caso italiano dell'entrata nel merito del progetto pedagogico- nell'esercizio della
professione A.S.?) una riconoscibilità sociale di gran lunga superiore. E questo grazie non solo
a iter formativi consolidati ma soprattutto grazie ad associazioni di categoria che della cultura e
tutela, di categoria appunto, fanno un punto di forza. Basti pensare a maestri e assistenti
sociali. Ma il nostro è un mestiere, nella sua declinazione educativo-sociale di prevenzione del
disagio, giovane e la scarsa riconoscibilità della nostra identità risiede anche nella non
consuetudine al confronto tra gli educatori stessi. Confronto che consenta l’affermazione delle
peculiarità del sapere e del fare dell’educatore, del sapersi porre come categoria e non
inseguendo altri status finendo con il percepire, e far percepire, il nostro essere educatori come
qualcosa di transitorio verso altro: la formazione piuttosto che la psicologia o quant’altro. A
questo punto si possono sollevare un sacco di obiezioni -giustissime peraltro- tipo "ma noi siamo
sottopagati e ricattabili". Vero, ma proviamo a ragionare in avanti. L'Anep può essere un inizio,
la sindacalizzazione pure, altre realtà più locali altrettanto. E poi c'è l'idea stessa dell'impresa
cooperativa che della partecipazione dovrebbe fare ragion d'essere. Chi scrive peraltro non
brilla per il suo attivismo in questi campi, quello che propongo è piuttosto uno spunto di riflessione
sulla possibilità della condivisione della cultura dell'educatore. Fatta di saperi e prassi. La
costruzione di una rete di saperi condivisi da parte degli educatori può trovare un interessante
spunto strutturativo nel modello etnopedagogico degli anelli di conoscenza. Valdemar Vello,
etnopedagogista brasiliano, dice che la strutturazione di un movimento -di pensiero educativo e
sociale condiviso- così come la sua costruzione e ricostruzione permanente è fatta delle
attuazioni/azioni continue dei suoi partecipanti ed egualmente della critica possibile che arrivi dai
non-partecipanti al processo. Per la strutturazione, costruzione, ricostruzione permanente del
movimento di condivisione il brasiliano Movimento de Etnopedagogia propone l'adozione della
strategia degli anelli di conoscenza. Concetto non dissimile, ed in parte mutuato, dalla rete
degli anelli già conosciuta ed applicata in ambito informatico con il Webrings di internet. Anche
in questo caso si tratta di riunire i contributi disponibili in una grande rete -gli educatoripunteggiata di links (collegamenti) -gli ambiti di lavoro e scambio-. Questa rete forma un
tessuto cognitivo, con le proprie trame e colororazioni distinte ma affini, fino a divenire mosaico di
sapere condiviso. Per i colleghi brasiliani, anche rifacendosi ad Edgar Morin e al suo lavoro sui
modelli della complessità, l'orditura della rete degli anelli di conoscenza è offerta dall'antropologia
culturale, scienza maestra dei paradigmi della complessità. L'approccio di etnopedagogia
attraverso il disvelamento dei modelli e dei metodi e con l'azione di scoperta di nuove
stutturazioni possibili permette la costruzione di una rete dinamica di condivisone dei saperi
dell'educatore tale da costituire una buona base per l'affermazione dell'identità professionale del
mestiere educativo-sociale.
Alcuni dei concetti enunciati, data la sinteticità nella quale sono stati espressi, possono essere di
non immediata comprensione, invito chi volesse approfondire a visitare i siti web: Movimento de
Etnopedagogia (http://sites.uol.com.br/vello) e Accesso la pensiero etnopedagogico
(http://digilander.iol.it/etnopedagogia)