DELLA VIRTU' CHE DONA
Spesso mi son chiesto ove dimori la bellezza, quale il suo dominio. Quivi anche l’arte, che
alla bellezza rende ragione, sempre si alimenta e tien la sua dimora.
La metafisica occidentale, da Platone in poi, ci ha insegnato a pensare che il mondo “reale”,
esperito nel fenomenico vivere quotidiano, non sia il mondo vero, ma solo apparente. Un
conto è ciò che appare, un conto ciò che è.
Noi esperiamo sì cose belle, ma l’essenza del bello, ciò che fa essere bella ogni cosa, ci è
nascosta. La distanza tra questi due ordini di realtà può essere colmata solo da un lungo e
faticoso percorso dell’anima, che, purgatasi da ogni contaminazione materiale, è alfine
capace di accedere alla visione e al godimento dell’intellegibile puro (mondo vero). A chi
ferma il suo sguardo al mondo apparente (sensibile) resta precluso il vero, ma si dispiega
in tutto il suo rigoglio e splendore lo spettacolo della bellezza. Il sensibile è il dominio
della bellezza, il palcoscenico in cui essa può manifestarsi in tutte le sue infinite cangianti
sembianze. Petrarca, asceso sul monte Ventoso, ne subì l’incanto fino a dubitare del monito
agostiniano che nessuna bellezza o grandezza esteriore può eguagliare quella dell’anima.
Quale doloroso conflitto conobbe Petrarca tra un mondo vero e buono e un mondo
apparente ma bello!
Nietzsche rovesciò la posizione platonica, dichiarò la fine del mondo vero ed innalzò
l’apparente ad unico mondo possibile. A differenza del mondo vero permanentemente
stabile, quello apparente (sensibile) è in perenne mutazione e solo l’arte (la musica in
particolare) può tenere dietro alla inesausta metamorfosi della bellezza. Il trionfo del
sensibile comporta, nella posizione nietzschana, l’elevazione dell’arte a valore supremo. Il bello
val più del vero. L’impostazione metafisica classica si è così capovolta e il culto della
bellezza (estetismo) soppianta il culto della verità.
Alla nostra epoca sembra non importi più alcunché né del mondo vero né del mondo
apparente, ma solo di un mondo fruibile e consumabile al fine di esorcizzare e immunizzare
l’uomo dall’angoscia esistenziale citabile solo nei termini scientifico-clinici di depressione
endogena o altro. Nell’età della assoluta mercificazione, che spazio resta dunque all’artista
(poeta, pittore, musicista che sia)?
Quando, se un compositore intende presentare una sua opera , non ci si cura della qualità
del prodotto, quanto del fatto primario che l’“operazione” sia sponsorizzata adeguatamente,
non si può non interrogarsi sul senso di un’opera d’arte oggi. Quel diffuso spirito
mercenario anche fra musicisti ed esecutori ad alto livello cosa ha a che fare con l’assoluta
gratuità dell’opera d’arte, per cui l’artista è chiamato a donare perché nel dono si esprime
la bellezza al suo grado più alto? Una bellezza che non si dona non è vera bellezza.
L’assoluta gratuità del dono la sottrae ad ogni sorta di mercificazione .
Ogni misurazione in termini finiti è inadeguata a ciò che di per se stesso è in- finito. Come
non riconoscere che il talento artistico è virtù che si dona? Che l’esercizio e il culto del
dono soli immunizzano l’artista dal giogo del finito? Che la bellezza si veste e si spoglia
dei panni del finito per infinitamente superarlo?
“ Simile all’oro splende lo sguardo di colui che dona”
(Nietzsche, Così parlò Zarathustra)