Nel mondo tutto è un divenire, “omnia mutant, nihil

Traccia estetica.
L’arte salverà il mondo?
Nel mondo tutto è un divenire, “omnia mutantur, nihil interit” scriveva lo scrittore latino Ovidio
nella sua più grande opera “Le Metamorfosi” (ca. 10 a.C) riprendendo un concetto del greco
Epicuro e del suo successore latino Lucrezio; tutto è polemos, guerra tra bene e male, tra giusto e
ingiusto (Eraclito).
In questo continuo fluire sembra esserci qualcosa che permane sempre eterno, sempre immutabile:
l’arte. Lo sapeva bene Dante che scrisse per i posteri una grandiosa “Comedia”. Lo sapeva
Ugo.Foscolo che a una vita di decadenza corporale, alle lapidi che col tempo sarebbero andate
distrutte, ai fiori che posti su di esse poi sarebbero diventati marci, contrapponeva la poesia come
unica illusione di sopravvivenza umana, vedendo in essa la memoria dei vittoriosi e dei vinti,la
memoria degli ateniesi come quella dei troiani, la memoria di Achille, come quella di Ettore (“I
Sepolcri”).
L’arte ha un’età plurimillenaria, è stata la prima e fedele compagna dell’uomo sin da quando egli
viveva nelle caverne dando forma ai suoi pensieri e dando inizio alla sua missione eternatrice grazie
alla quale possiamo oggi vedere i disegni che un uomo ha stampato su una parete una decina di
migliaia di anni prima. Eppure, l’arte, per il filosofo greco Platone, non doveva essere osannata
come invece la sua civiltà di templi e statue sembra suggerire, ma deprecata per il fatto di essere
“mimesis mimeseos” (imitazione di imitazioni). L’allievo socratico credeva, infatti, in un mondo
metafisico- l’iperuranio- che racchiudesse le idee, cioè le forme prime di ogni “categoria di cose”
presente sulla Terra, che quindi andava a configurarsi come una copia di esse (secondo i principi
della metessi e della parusia). L’arte essendo rappresentazione di esse risultava, agli occhi del
filosofo, banale e superflua. Una forma di arte venne, però, salvata dalla severa critica: la musica
che- grazie al suo carattere matematico- poteva annoverarsi come una delle scienze atte
all’educazione dei futuri governatori dello stato ideale platonico.
Ma se l’arte subì un’inarrestabile discesa nella filosofia del fondatore del Liceo, fu, però,
protagonista quasi indiscussa della scuola romantica. Il punto cruciale della riflessione ottocentesca
è individuato nella ricerca dell’infinito, che molti trovarono in ciò che fu chiamato “sublime”.
Il Sublime non è qualcosa che può ricevere una definizione, non si può uguagliare alla bellezza, ma
può essere considerato come qualcosa di spaventosamente e maestosamente attanagliante. La
difficoltà concettuale nel descriverlo portò molti filosofi a pensare a un’impossibilità anche nel
rappresentarlo pittoricamente (si pensi al filosofo tedesco I. Kant). Nonostante questa diffusa
credenza, sembrano esserci molti artisti che riuscirono a rendere quella sensazione di straniamento,
di allontanamento dal proprio io, di streben che caratterizza il sublime in quanto tale. Tra questi,
colui che sempre viene preso a esempio per la vastità che piccoli quadri racchiudono è Friederich, e
tra le sue opere “Viandante sul mare di nebbia” o “Monaco in riva al mare”. Entrambi sembrano
continuare al di là della parete su cui sono appesi, una sorta di prolungamento che si spinge in due
direzioni: verso la parete e verso lo spettatore che sembra essere invaso dal senso di infinito come
una ventata di aria fresca da una finestra. Ecco, l’arte è una finestra da cui l’uomo può vedere il
mondo, anche quegli aspetti di esso di cui è privato, è ciò che più fa concepire all’uomo quell’idea
di infinitudine che gli è dolorosamente preclusa, “anziché vedere un solo mondo, lo vediamo
moltiplicarsi” scrive M. Proust (1). E l’epoca romantica è forse quella in cui più questo aspetto
dell’arte si è presentato chiaro e distinto agli occhi dell’uomo.
Il Romanticismo è anche l’epoca in cui si affermò la teoria dell’originalità di un’opera come
bellezza della stessa, principio a cui strenuamente si opporrà nel secolo successivo il poeta
americano T.S. Eliot. Egli, infatti, concepì la storia dell’arte come un’unità vivente e descrisse le
opere come simultanee, portando avanti il concetto di una tradizione che si volge in due sensi: dal
passato al presente, ma anche dal presente al passato (a questo proposito egli giudicava impossibile
leggere allo stesso modo i “Canterbury Tales” del fondatore della letteratura inglese G. Chaucer
dopo aver letto la sua caotica opera”The Waste Land”- 1922). Il “raggio di luce” (1) inviato dagli
artisti del passato secondo M. Proust subirebbe quindi- secondo Eliot- un fenomeno di riflessione in
senso opposto.
L’arte si può inoltre e innanzitutto definire come un’esigenza umana, come la metafisica, la
filosofia e la scienza, ma mentre la metafisica sancisce il rapporto tra l’uomo e un ipotetico essere
superiore, la filosofia tra l’uomo e il suo io interno, la scienza tra l’uomo e il mondo fisico, essa
relaziona l’uomo alla bellezza, che è Dio, è se stesso, ma anche la natura. L’arte è lo strumento che
traluce di tutte le altre cose di cui l‘uomo si serve: il mare in cui esse navigano.
Se è così l’arte salverà il mondo? Lo scrittore russo Dostoeskij affermava che la bellezza avrebbe
salvato il mondo. Se l’arte è davvero vincolo tra la bellezza e l’uomo, allora quella domanda potrà
ricevere una risposta positiva. Qualche decennio prima, il filosofo I. Kant aveva predicato
l’interruzione delle azioni umane di fronte al bello, la pausa estatica che si può riconoscere nella
magistrale rappresentazione del Bernini “L’estasi di Santa Teresa d’Avila”.
La bellezza esterna era stata, durante l’epoca greca, concepita come esplicazione della bellezza
interiore (principio della calagathia). Questa antica credenza era stata bruscamente interrotta da
Socrate che, con il suo non di certo piacevole aspetto, aveva rivoluzionato il pensiero greco.
Nello stesso mondo greco Platone concepì la bellezza strettamente legata all’amore (Eros era stato
concepito il giorno del compleanno di Afrodite secondo il mito nel “Simposio”) e come primo
gradino verso il Bene Assoluto.
Ma nel corso dei secoli si è riscontrato che la bellezza esce da ogni schema fisso, contro coloro che
nel ‘600 avevano fatto della distopizzazione e delle esagerazioni il “bello” (si pensi alla “Madonna
dal collo lungo” del Parmigianino) e contro coloro che nel ‘700 avevano proclamato come “bello”
l’arte greca (classicisti e preromantici come Füssli). La bellezza si oppone alle convenzioni, è –
come disse Kant- un libero gioco: rime libere (si pensi alla canzone leopardiana), pennellate libere,
forme accostate in libertà. Una descrizione che fa pensare ancora di più all’importanza dell’arte
nella vita dell’uomo: non solo come compagna, non solo come pacificatrice, ma anche come
scarceratrice, capace di spezzare le catene fisiche e dell’animo umano.
Se forse anzi che giocare a fare la guerra, con i carroarmati e i fucili, giocassimo di più con i colori,
con i pennelli e con le parole, avremo più mondi a disposizione, “diversi gli uni dagli altri come
quelli che girano nell’infinito” (1), sì, è forse a quel punto che smetteremo inutilmente di cercare di
raggiungere come lepri la tartaruga del paradosso zenoniano (percorsi da una continua
insoddisfazione) e raggiungeremo la tanto ambita felicità.
(1) M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, 1913/27