Jürgen Habermas - Terza Università

Jürgen Habermas 1929
Per introdurre, nota (o avvertenza preliminare) allo stile di Habermas, in generale:
«Nessuno meglio del traduttore può intuire l’importanza che la grammatica ha per Habermas.
Tradurre Habermas significa (come qualcuno ama dire) scalare rocce di sesto grado superiore.
Ma anche il lettore è coinvolto nella sfida. Habermas non sceglie mai le parole a partire dal piano
inclinato del conformismo, dunque inseguendo comprensibilità, moda ad effetto. In ogni parola da
lui pronunciata c’è l’impegno ad approfondire, articolare e chiarire il sistema.» (Leonardo Ceppa in
Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e
associati, Milano 1997, 12-13)
E per il peso della sua opera nella riflessione contemporanea:
«Ho incontrato Jürgen Habermas per la prima volta quando ho tenuto una lezione a Francoforte
nell’estate del 1980. Sino ad allora avevo seguito la sua opera con ammirazione, interesse e profitto.
Non c’è bisogno di dire che tale opera è enormemente ricca e copre un territorio immenso. Anzi,
nelle due occasioni in cui ho tenuto seminari sugli scritti di Habermas, ho invitato sociologi con
interessi e mentalità filosofiche — Dan Bell e Geoffrey Hawthorn una volta e Seyla Benhabib
nell’altra occasione — a tenerli insieme a me, perché la sua opera travalica i confini di qualsiasi
disciplina accademica costituita. Ho anche incontrato di persona Habermas molte volte e la mia
ammirazione per lui, come pensatore e come persona, ha continuato ad accrescersi. Egli è uno dei
giganti del pensiero europeo dei nostri tempi.» (Putnam Hilary 2002 Fatto/Valore: fine di una
dicotomia e altri saggi, Fazi editore, Roma 2004, 124)
due opere cardine e altri studi
Habermas Jürgen, 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011
Habermas Jürgen, 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970
Habermas Jürgen, 1973 Cultura e società, Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri
saggi, Einaudi, Torino 1980
Habermas Jürgen, 1981Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986
Habermas Jürgen, 1983 Etica del discorso, Laterza, Bari 1985
Habermas Jürgen, 1990 Il pensiero post-metafisico, Laterza, Bari 1991
Habermas Jürgen, 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della
democrazia, Guerini e associati, Milano 1996
Habermas Jürgen, 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e
associati, Milano 1997
Habermas Jürgen, 1996 Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in Habermas
Jürgen, Taylor Charles 1998 Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano
2001
Habermas Jürgen, 2011 La constitution de l’Europe, Édition Gallimard 2012
i passaggi
1. contemporaneità e metodo di studio.
2. l’agire comunicativo volto all’intesa
3. il diritto democratico terreno di garanzia dell’incontro sociale civile
4. la consapevolezza e la gestione politica delle trasformazioni in atto e le sorti
(trasformazioni) della democrazia
5. “Indeterminatezza del diritto e razionalità della giurisdizione”
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6. per un ideale internazionalistico (finale d’obbligo) fondato su intesa e diritto o
diritto all’intesa: lo Stato deve creare le condizioni perché venga realizzato il diritto
degli uomini all’intesa reciproca e quindi alla pace come produzione di civiltà.
1. contemporaneità e metodo di studio.
Una attenzione generale alla natura e ai problemi dell’età contemporanea e come articolare lo
sguardo e l’analisi: il metodo del sociale, le strade di costruzione e scoperta. In questo contesto le
due opere programmatiche generali di Habermas.
1.1. Il contesto storico e culturale.
1.1.1. La realtà contemporanea, i progetti e gli studi. Habermas sviluppa il proposito di riflettere
sull’età contemporanea, allo scopo di definire con sistematicità una teoria della modernità e della
razionalità comunicativa e di attuare una rifondazione delle scienze sociali, in una serie di studi
quali: Logica delle scienze sociali (1967), Etica del discorso (1983), Il discorso filosofico della
modernità (1895), Il pensiero post-metafisico (1990). Ma sono soprattutto le opere Teoria dell'agire
comunicativo (1981) e Fatti e norme (1992) a costituire a tutt’oggi, per l’ampiezza delle direzioni
indagate, un vero e proprio trattato della razionalità comunicativa e un progetto complessivo di
rifondazione delle scienze sociali e dei sistemi politici democratici sulla base di una teoria e
un’etica del discorso.
1.1.2. La riflessione e la ricerca all’interno e a confronto con le comunità di studi sociale e politici
del ‘900. Un rapporto di critica continuità lega lo studio di Habermas sull’età contemporanea alle
analisi della Scuola di Francoforte (Istituto per la ricerca sociale), cioè al progetto di Teoria critica
della società, e alle loro conclusioni storiche e politiche. Gli studi di H. Horkheimer, T.eW. Adorno,
H. Marcuse, E. Fromm, W. Benjamin, e le riflessioni storico-filosofiche, di M. Weber, G. Lukàcs,
K. Korsch hanno mostrato, da prospettive diverse, che i processi di alienazione, attivati dal sistema
produttivo e politico capitalistico, non hanno prodotto né producono la rivoluzione proletaria
auspicata dalla tradizione marxista, ma provocano l’inesorabile annullamento delle opposizioni, la
sicura morte del pensiero critico e la progressiva incapacità del sistema a riconoscere gli uomini
come soggetti e come fini. Individuare forze ancora in grado di opporre resistenza e magari di
rovesciare il processo di «reificazione» di tutti i comportamenti sociali, studiare quale resistenza
critica possa svolgere la cultura all’interno di una società a capitalismo avanzato costituisce il nuovo
e centrale impegno della riflessione filosofica sulla società contemporanea. Anche Habermas avvia
la propria riflessione sulla contemporaneità tenendo presenti i temi ai quali si è dedicato, nei
quarant’anni della sua attività, l’Istituto per la ricerca sociale fondato a Francoforte nel 1923: gli
sviluppi totalitari degli stati liberali, asserviti ai meccanismi di mercato, e degli stati socialisti, dove
gli apparati negano ogni forma di libera iniziativa; la capacità dei sistemi politici organizzati di
definire e codificare i ruoli delle microstrutture sociali come la famiglia e la scuola, vere e proprie
agenzie di socializzazione; l’industrializzarsi della cultura e dell’arte, artefice, attraverso i mass
media, di un processo di adattamento della coscienza individuale alle esigenze funzionali del
sistema; la «paralisi della protesta» applicata a tutti gli strati sociali; i processi di emarginazione
delle forme di disagio, povertà e sofferenza attuati in vista di una società totalmente razionalizzata;
il trionfo di una ragione strumentale e specialistica, che impone il consolidamento dei modelli
politici ed economici autoritari come il fine assoluto ed unico della ragione.
Però, osserva Habermas, le analisi critiche della Scuola di Francoforte sono ancora fondate su un
postulato centrale della filosofia marxista della storia: denunciano le forme involutive della società
moderna e vanno alla ricerca di nuovi soggetti portatori della rivoluzione, sulla convinzione che il
sistema economico dominante alimenti inconsapevolmente, con il suo sviluppo, una forza storica
oggettivamente rivoluzionaria. È ancora una impostazione (o pre-postulato) da “filosofia della
storia” di stampo hegeliano e marxista. Secondo Habermas, la filosofia della storia su cui si fonda il
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progetto della Scuola di Francoforte e la teleologia oggettiva che lo sorregge non solo ostacolano
quella indagine empirica della società che l’Istituto si proponeva di avviare, ma impediscono di
cogliere la base su cui fanno leva, nelle due direzioni antitetiche, sia i processi contemporanei di
alienazione, sia quelli di potenziamento delle capacità comunicative culturali, sociali e personali.
Habermas propone invece di fondare la ricerca sociologica e l’analisi filosofica della
contemporaneità su nuove basi teoriche: i fenomeni di alienazione sociale vanno letti come
deformazione della prassi comunicativa volta all’intesa e del loro fondamento, cioè il «mondo della
vita» (mondo di vita, Lebenswelt). L’indagine e la proposta devono ripartire dall’analisi dell’agire
comunicativo, dalla considerazione della natura e del ruolo del “mondo-della-vita”, dallo studio di
come una teoria e un’etica del discorso, esplorate e declinate nelle forme del diritto, possano
costituire una nuova base di indagine, di comprensione e di proposta per la società contemporanea e
per le sue urgenze democratiche generali.
L’opera di Habermas si può considerare un trattato sulla razionalità comunicativa, progetto
complessivo di rifondazione delle scienze sociali collocato all’interno della concreta e pragmatica
prassi comunicativa sociale contemporanea. In sintesi si è di fronte ad un rilevante confronto e
passaggio: la fondazione trascendentale di Weber, la fondazione critica della Scuola di Francoforte,
la fondazione comunicativa di Habermas. «Le categorie-guida della comunicazione, dell’intendersi,
del mondo vitale, della razionalità comunicativa in generale sono introdotte e sviluppate
discorsivamente nel senso che non sono definite una volta per tutte, come in un protocollo
scientifico. Sono proposte e rispiegate a più riprese, ora nel paradigma linguistico, ora in quello del
mondo vitale, ora in quello sistemico.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian
Enrico Rusconi, Introduzione, 11) In una espressione sintetica dello stesso Habermas la sua è una
«indagine pragmatico-formale dell'agire comunicativo» (Habermas 1981, Teoria dell’agire
comunicativo, 704 e 705); in essa si fondono idealità e fatticità, sulla base della convinzione
culturale generale espressa in Fatti e norme: «la tensione idea/realtà irrompe nella stessa fattualità
delle forme di vita linguisticamente strutturate. La prassi comunicativa quotidiana si sovraccarica di
presupposti idealizzanti; ma solo alla luce di questa trascendenza intramondana possono aver luogo
processi di apprendimento.» (Habermas 1992, Fatti e norme, Guerini e associati 1996, 12-13)
1.2. Il contesto e confronto di metodo delle scienze e tratti generali delle ricerche storico
sociali
Il confronto è attuato soprattutto con le ricerche che hanno come cardine le opere di Max Weber.
Habermas condivide con Weber l’inclusione del tema politico nel problema dell’ordinamento
sociale come processo di costruzione comunicativa etica e giuridica.
1.2.1. Le scienze sociali tra costruzione e scoperta.
Max Weber ha indicato l’urgenza di definire in modo specifico, e di conseguenza produttivo, il
metodo proprio delle scienze sociali accettando la distinzione che da tempo si andava articolando
tra scienze naturali e scienze sociali, spiegare (erklären) e comprendere (verstehen).
Habermas, a far risaltare la specificità del metodo con cui procedono le scienze sociali, richiama la
coppia di termini / atteggiamenti: costruzione e scoperta e la motiva. «Se consideriamo la
costituzione ontologica del mondo sociale ricordiamoci che esso, come Marx e Vico riconobbero, è
sempre un nostro prodotto (anche quando non lo vogliamo o sappiamo), allora diventa plausibile
supporre che l’equilibrio tra «costruzione» e «scoperta» che abbiamo ipotizzato per la conoscenza
del mondo oggettivo venga spostarsi in direzione dell’elemento costruttivo, ossia venga
maggiormente a gravare sulla fantasia abduttiva [che si avvale di premesse incerte accanto ad altre
certe]. Nei confronti di problemi difficili si tratterà allora di farci «venire in mente» [einfallen] le
costruzioni giuste.» (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e
norme», Guerini e associati, Milano 1997, 45)
Scienze naturali e scienze sociali si muovono all’interno di due cammini: costruzione e scoperta.
Alle scienze che ritengono di concludere in modo oggettivo sembra competere un equilibrio tra
costruzione e scoperta: l’oggettività delle scienze naturali dichiara il proprio rimando alla scoperta
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scientifica e quindi al proprio fondamento reale; il fatto però che si tratti di un comportamento
dell’uomo, sulla base delle proprie capacità, dei propri scopi e delle proprie scelte, l’impresa
scientifica è altrettanto una costruzione della mente umana.
Nelle scienze sociali è l’elemento della costruzione a svolgere un ruolo maggiore; un elemento che
non avrebbe successo senza il rispetto della scoperta e della descrizione, ma, poiché il fine delle
scienze sociali, anche quando non dichiarato come primario, è pratico e teso a costituire le trame di
un tessuto sociale, è proprio la costruzione ad aver maggior peso metodologico. L’esito è segnato da
una insopprimibile contingenza; la componente “scoperta” non può presentarsi con evidenza
empirica oggettiva indiscutibile, la costruzione perciò è costretta a procedere, osserva Habermas,
con il metodo logico dell’abduzione: un ragionamento sillogistico che ha minori capacità
dimostrative dei due più noti: deduzione e induzione; parte da una premessa teorica certa (o
comunque condivisa, ad es. “i dittatori vanno abbattuti”), si serve di dati scelti tra un campo ampio
di comportamenti (“X è un dittatore”, incerti in una doppia pertinenza: sono dati sicuri e completi,
sono riconducibili con sicurezza e unicamente all’enunciato generale condiviso?); conclude in
proposta e progetto, con certezza precaria, con “fantasia abduttiva”.
Nel binomio costruzione e scoperta si collocano dunque le scienze in generale e quelle riguardanti il
sociale oscillano di più verso la componente della costruzione, ma spesso è difficile vederle agire
separate nella concretezza dell’operazione scientifica. Distinguerle è necessario e doveroso
deontologicamente; infatti la possibilità di controllare l’operazione culturale scientifica si basa su
quella distinzione analitica e sulla conseguente attenzione alla natura, al ruolo e al peso delle due
componenti di metodo. Nella prassi nessuna delle due entra in funzione se non in concomitanza con
l’altra, al punto da tendere a non distinguersene più (fino ai casi estremi di costruzioni pure
spacciate per scoperte, o di scoperte assolutamente ignorate per assenza di capacità costruttive, o
per attenzioni costruttive miranti ad altro… un esempio clamoroso di quest’ultimo caso è contenuto
nel rimprovero che Einstein muove a Newton e da cui fa partire la propria teoria della relatività).
Del resto, in questo campo, come osserva acutamente Habermas: «… i punti di vista analiticamente
distinguibili nella prassi diventano indistinguibili». (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà, 27)
1.3. due direzioni sociologiche per la comprensione (scoperta e costruzione) della
contemporaneità: comunicazione (prassi comunicativa volta all’intesa) e diritto (la costituzione
condivisa di un diritto positivo), sulla base del mondo della vita.
In una intervista del 1993, in battuta preliminare Bert Van Den Brink e in forma di quesito,
riassume il cammino compiuto da Habermas nelle sue due principali e corpose pubblicazioni:
«Domanda. Nella Teoria dell’agire comunicativo (1981) lei ha sviluppato, a partire dall'analisi delle
strutture formali del linguaggio quotidiano, un nuovo modello pragmatico di agire razionale: quello
dell’agire comunicativo. In senso propriamente razionale agisce soltanto chi si orienta all'intesa
reciproca. Nell’agire consensuale gli attori individuali sono in linea di principio disposti a
difendere, con ragioni che siano accettabili per tutti, le pretese di verità, giustezza e autenticità che
sono implicite al loro parlare, nonché a riconoscere le conseguenze che un consenso raggiunto
produce sulle azioni. Lei attribuisce tanta importanza a questa forma di agire razionale, in quanto è
la precondizione per produrre ordinamenti sociali legittimi. Anche il suo nuovo libro Fatti e norme
(1992) poggia su questo modello di agire razionale. Ma per certi aspetti lei sembra qui essersi fatto
più prudente: infatti cita assai più spesso che non nella Teoria dell’agire comunicativo il «rischio di
dissenso» che sarebbe implicito alle azioni comunicative. Secondo lei, assetti e arrangiamenti
istituzionali sarebbero appunto necessari per «stabilizzare» questo rischio di dissenso, mentre solo
le forme di vita «ricettive» e post-tradizionali sarebbero in grado di sollecitare [ansinnen] dalle
persone l'esercizio delle competenze comunicative. Questa maggiore prudenza deriva forse dal fatto
che Fatti e norme tratta direttamente della realtà empirica di diritto e politica — dove si segnalano
innumerevoli «infrazioni» all’ideale dell’agire orientato al consenso — o non si tratta invece di uno
«spostamento di accento» nel suo modello di razionalità ?» Habermas rispondendo osserva: «…solo
nell’agire comunicativo essi coordinano i loro rispettivi piani di azione nell’orizzonte di un mondo
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di vita condiviso e sulla base di una intesa sulla loro situazione di azione. Questa intesa poggia su
un concetto di razionalità che è più comprensivo. In questo caso, infatti, il coordinamento delle
azioni scorre anche attraverso pretese di veridicità e pretese di validità normativa, e comunque
attraverso ragioni che devono contare come «ragioni buone» non soltanto agli occhi di questa o
quella parte, bensì agli occhi di tutti nella stessa maniera. Questa è la condizione perché la
comunicazione possa sviluppare forza vincolante. […] Di fronte alla varietà degli interessi in
contrasto e al pluralismo delle forme di vita, l’integrazione sociale non può più realizzarsi da sola, e
comunque non abbastanza sulla base dei processi informali d’intesa, in quanto viene a mancare lo
sfondo di un comune mondo di vita. Le società moderne devono integrarsi su un piano più astratto.
Ciò non ha nulla a che vedere con le «infrazioni» contro l’ideale.» (Habermas Jürgen 1993-1996
Solidarietà, 142)
1.3.1. È evidente il proposito di Habermas di muoversi su due strade parallele e comunicanti:
l’intesa (a ciò lo studio della prassi comunicativa: struttura, intenti, direzioni, esiti, potenziamento
etico sociale e politico); il diritto (il diritto positivo costituito, a partire dalla convinzione ormai
assodata – dopo Kelsen - che il diritto positivo sia l’unico a disposizione e che esso mantenga solo
prospetticamente una relazione con un diritto naturale e un diritto soggettivo; una relazione tra
diritto e morale). Ma il sostrato di tenuta di un processo sociale e della sua evoluzione continua, sia
di comunicazione volta all’intesa sia nella costituzione di un diritto di libertà, è posto nel concetto
complesso mondo della vita. Dunque due strade parallele e comunicanti, comunicazione e diritti, in
un unico contesto sociale e individuale imprescindibile: il mondo della vita (il mondo vitale).
1.4. La convinzione generale e fondante: la fine della metafisica (o l’epoca post-metafisica) e
dell’impostazione trascendentale (mentalistica e a-priori).
«Il disincantamento delle immagini religioso-metafisiche del mondo e la nascita delle strutture della
coscienza moderna» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 279 ss; vol. I sez. II, § 2.). È
in atto un doppio abbandono: 1. dell’impostazione metafisica trascendente che fa riferimento a
entità o essenza di carattere sia religioso che metafisico, che costruisce di conseguenza filosofie
della storia teorizzando e seguendo linearità oggettive di carattere evoluzionistico/progressivo; 2.
dell’impostazione coscienzialista (e) trascendentale che fa riferimento a forme o principi a priori
assolutamente indipendenti da ogni esperienza, immutabili e universali. Il paradigma che viene
proposto, invece, è quello della comunicazione linguistica; dell’agire comunicativo volto all’intesa
e in cui il medium linguistico è colto nelle sue varie funzioni e forme. «Soltanto il modello di
azione comunicativa presuppone il linguaggio come un medium di comprensione e intesa nonridotta, ove i parlanti e gli uditori, dall’orizzonte del loro mondo vitale pre-interpretato, fanno
contemporaneamente riferimento a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale e soggettivo per trattare
comuni definizioni della situazione. […] … il modello di azione comunicativa, che definisce le
tradizioni delle scienze sociali che si riallacciano all’interazionismo simbolico di Mead, al concetto
di giochi linguistici di Wittgenstein, alla teoria dell'atto linguistico di Austin e all’ermeneutica di
Gadamer, prende in considerazione tutte le funzioni del linguaggio in egual misura.» (Habermas
1981, Teoria dell’agire comunicativo, 170) La rilevanza del linguaggio quotidiano nel cogliere la
pregnanza del mondo vitale e nel sostenere il suo continuo e non ipotecato trapasso verso la sua
formalizzazione nei tre mondi della cultura, della società e della persona è esplicitamente ribadito
da Habermas anche con il richiamo all’opera della filosofia analitica: «Chi ha seguito le discussioni
avvenute nell’ambito della filosofia analitica del linguaggio, non sarà certo sorpreso dal fatto che il
linguaggio ordinario possa funzionare da «metalinguaggio ultimo». Esso rappresenta il medium
aperto d’un linguaggio circolante nell’intero corpo sociale, risultando traducibile «in» e «da» tutti i
codici specialistici.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 414)
Siamo di fronte, dunque, ad un paradigma di osservazione, analisi e costruzione che può definirsi
pragmatico e di fenomenologia storico trascendentale; questa ultima impostazione sembra contenere
inaccettabili ossimori, ma indica la doppia urgenza 1. dell’attenzione ai fatti, ma senza appiattirsi su
di essi in una mera descrizione secondo i tratti di una sociologia descrittiva comprendente; 2. Di
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possedere idee o concetti di lettura, di valore e di validità, ma senza trasformarli in forme di una
soggettività astorica a priori e trascendentale.
«Non più coperti alle spalle da quelle visioni del mondo religiose o metafisiche che erano
impermeabili alla critica, gli orientamenti pratici diventano in ultima istanza ricavabili soltanto
tramite argomentazioni, ossia attraverso le forme di riflessione dello stesso agire comunicativo. La
razionalizzazione del mondo di vita dipende dalla misura in cui i potenziali di razionalità impliciti
nell’agire comunicativo, e messi discorsivamente in libertà, hanno impregnato e fluidificato le
strutture di questo mondo.» (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria
discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996,121)
«Se oggi si vuole ancora rischiare il tentativo di dimostrare l’universalità del concetto di razionalità
comunicativa, senza ricorrere alle garanzie della grande tradizione filosofica, si presentano
fondamentalmente tre vie. La prima è l’elaborazione pragmatico-formale del concetto di agire
comunicativo introdotto in via propedeutica. Con ciò intendo il tentativo di una ricostruzione
razionale delle regole generali e dei presupposti necessari degli atti linguistici orientati alla intesa,
in collegamento con la semantica formale, la teoria dell’atto linguistico e altri approcci della
pragmatica linguistica. […]
In secondo luogo possiamo cercare di valutare l’utilità empirica delle analisi pragmatico-formali. A
tale scopo si presentano soprattutto tre ambiti di ricerca: la spiegazione di modelli patologici di
comunicazione, l’evoluzione dei fondamenti delle forme socio-culturali di vita e l’ontogenesi delle
capacità di azione. […]
Un po' meno ardita è — in terzo luogo — la rielaborazione degli approcci sociologici per una teoria
della razionalizzazione sociale. Qui possiamo riallacciarci ad una tradizione ben sviluppata di teoria
della società. Scelgo questa via, ma non con l’intento di attuare indagini storiche. Piuttosto accolgo
le strategie concettuali, gli assunti e le argomentazioni da Weber fino a Parsons con l'intento
sistematico di sviscerare i problemi che sono risolvibili con l’ausilio di una teoria della
razionalizzazione elaborata nei concetti base dell’agire comunicativo. Non una storia delle idee, ma
una storia della teoria perseguita con intento sistematico può condurre a questo traguardo. Esplorare
a tastoni con flessibilità e attingere in modo mirato dalle costruzioni teoriche importanti, edificate a
scopi i esplicativi, consentirà un fecondo trattamento dei problemi.» (Habermas 1981, Teoria
dell’agire comunicativo, 223-225)
1.5. La doppia direzione e il collegamento nella costruzione dell’analisi e della proposta sociale
e politica di Habermas: agire comunicativo [al punto 2.], norme [al punto 3.], all’interno delle
metodologie formalizzate disponibili per la costruzione dell’indagine sociale.
Il capitolo terzo dell’opera Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna
1970, 137-257, intitolato La problematica della comprensione del senso nelle scienze dell' azione
empirico-analitiche, centrale nella riflessione di metodo delle scienze sociali cui è finalizzata
l’opera, è dedicato ad un esame analitico e un rilancio combinato del triplice approccio costituente
le scienze sociali: 1. Approccio fenomenologico (142-179), 2. Approccio linguistico (179-218), 3.
Approccio ermeneutico (218-257). L’esito di questi approcci combinati permette la costruzione
della sociologia come teoria del presente (Habermas 1967 Logica delle scienze sociali Capitolo
quarto, La sociologia come teoria del presente.)
2. l’agire comunicativo volto all’intesa
Il proposito per una teoria dell’agire comunicativo: «Se non vogliamo pagare questo prezzo per la
riduzione dell’azione a comportamento, dobbiamo attenerci a teorie generali dell’agire intenzionale.
Queste devono aprirsi un accesso al fatto sociale attraverso la comprensione del significato.»
(Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970, 114)
«La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un potenziale razionale insito nella
prassi comunicativa quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a una scienza
sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in tutta la loro estensione i processi di
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razionalizzazione culturale e sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia delle società moderne;
allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali normativi solo in una formazione specifica di
un’epoca.» (Habermas Jürgen 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, RomaBari 2011, XXVIII)
Una prima e introduttiva definizione di “agire comunicativo”: «Assumo che la nozione di “agire
comunicativo” sia familiare ai miei lettori, ma giusto per rinfrescare la memoria ricordo che “agire
comunicativo” è il termine che Habermas applica al discorso e ad altre forme di comunicazione
governate dall'ideale del discorso razionale. Tutti gli elementi specifici che Habermas discerne
nell’agire comunicativo — ad esempio, il fatto che esso sia governato dalle norme di sincerità, di
veridicità e dalla norma che impone di asserire solo ciò che è razionalmente garantito — sono
maniere di specificare quell’ideale. In aggiunta, e anche questo sarà familiare, l’agire comunicativo
viene contrapposto alla manipolazione.» E ancora presentando una prima definizione dell’agire
comunicativo [di Habermas]: «Una discussione ideale è tale per cui tutti i partecipanti accettano la
norma che prescrive di impegnarsi nell'agire comunicativo con tutto ciò che a questo consegue:
parlare onestamente, fare del proprio meglio per dire ciò che è vero, per dire quel che è giustificato,
tentare di prevalere sugli altri tramite la forza degli argomenti e non con manipolazioni di sorta e
così via. Dato che tutte le norme e le massime dell’etica del discorso sono incorporate all’interno
della descrizione della situazione di discussione ideale, esse — proprio in virtù della definizione
stessa della situazione — saranno accettate da tutti i partecipanti.» (Putnam Hilary 2002
Fatto/Valore: fine di una dicotomia e altri saggi, Fazi editore, Roma 2004, 126, 139)
Le componenti e il piano (in prima e rapida formulazione) per la comprensione dell’agire sociale:
«Se noi comprendiamo l’agire sociale come un agire sottoposto a norme in vigore, le teorie
dell’agire dovranno riferirsi a connessioni di norme che permettano di prevedere il decorso delle
interazioni. Siccome le norme sono anzitutto date sotto forma di simboli, è naturale derivare i
sistemi dell’agire dalle condizioni della comunicazione linguistica. Là dove i confini del linguaggio
definiscono i confini dell’agire, le strutture del linguaggio fissano i canali per le interazioni
possibili. Per l’analisi delle connessioni dell’agire comunicativo sarà allora sufficiente un
ampliamento sistematico di quella comprensione del significato che in ogni caso apre la via
d’accesso ai fatti sociali. Possiamo allora servirci dei procedimenti dell’analisi del linguaggio o
dell’ermeneutica linguistica. La linguistica si orienta sulle regole grammaticali che servono alla
comunicazione in una data società; l’ermeneutica si occupa inoltre delle tradizioni che, all’interno
di un ambito linguistico, vengono assimilate culturalmente da una società.» (Habermas 1967 Logica
delle scienze sociali, 115) (Convergono qui concetti e metodi: norme, linguaggio, fatti sociali,
canali istituzionalizzati, analisi empirica, ermeneutica)
Una convinzione o postulato di partenza e di lavoro, sottolineato da Nicola Paoli a commento di un
breve saggio di dispense per conferenze e dibattito di Habermas, del 1968, Appunti per una teoria
della socializzazione (in Habermas Jürgen 1973 Cultura e società, Einaudi, Torino 1980, 286):
«L’uso «riflessivo» del linguaggio, cioè la capacità di servirsi della riflessività del linguaggio
comune, che può trasformarsi sempre in strumento interpretativo di se stesso, permette quella
rappresentazione di sé che è essenziale alla formazione della personalità, quella coerenza fra
strutture linguistiche e strutture del comportamento la cui mancanza caratterizza la situazione
psicotica.» A conclusione della Teoria dell’agire comunicativo osserva: «La teoria dell’agire
comunicativo può spiegare perché le cose stanno così: la stessa evoluzione sociale deve far sorgere
situazioni problematiche che aprono oggettivamente ai contemporanei un accesso privilegiato alle
strutture generali del loro mondo vitale.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 10871088)
L’opera del 1981, Teoria dell’agire comunicativo è il dato di partenza e il contesto dell’analisi e
della proposta che si estende sull’intera realtà contemporanea: l’analisi delle relazioni sociali
contemporanee a partire dalla natura e dalla gestione degli attuali processi di comunicazione.
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Come indica Gian Enrico Rusconi nella Introduzione all’edizione italiana dell’opera di Habermas, il
tema dominante è “la riproposizione di un concetto integro, critico e normativo di razionalità” ; cioè
“La razionalità comunicativa di Habermas si presenta come il nucleo di una nuova «teoria critica
della società», che si pone in una “continuità ideale” con le analisi della classica «teoria critica»
francofortese ma opera in forza di nuovi confronti (con la filosofia analitica del linguaggio e con i
modelli di una teoria sistemica); “non è una generica e paralizzante «crisi della razionalità», ma la
messa a fuoco dei «paradossi della razionalità», che portano con sé, accanto a motivi critici e
autocritici, anche criteri positivi, costruttivi”; il quadro che risulta da questa “imponente opera” è
“una teoria della modernità in chiave di processo di razionalizzazione”.
In postfazione alla raccolta di saggi di Habermas scritti dal 1958 al 1973 (Habermas Jürgen 1973
Cultura e società, Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri saggi, Einaudi, Torino
1980, 292), Nicola Paoli nel 1980 indicava, già prima della pubblicazione dell’opera Teoria
dell’agire comunicativo, la direzione di lavoro di Habermas: «Per Habermas la situazione che si
crea nella discussione argomentativa costituisce un modello di ‘comunicazione libera dal dominio’
per due motivi: in primo luogo perché la riflessività del linguaggio, cioè la sua capacità di
trasformarsi in strumento d’interpretazione di se stesso, consente di eliminare coazioni esterne e
motivazioni inconsce, eventualmente contenute nelle espressioni, con chiarimenti e giustificazioni,
in secondo luogo perché in essa i partecipanti si presuppongono reciprocamente come soggetti che
nelle loro affermazioni «…astraggono da tutti i motivi all’infuori di quello di una disponibilità
all’intesa cooperativa stabilita senza costrizione». In una situazione discorsiva ideale, in altri
termini, si realizzerebbe quella piena reciprocità e solidarietà dei soggetti che risulta invece
impossibile nella comunicazione mediata dalle istituzioni o nell’interazione quotidiana e casuale;
tale situazione si propone, secondo Habermas, come fondamento di un’«etica linguistica
universale» perché in essa è lo stesso carattere intersoggettivo delle regole linguistiche che obbliga
ciascun partecipante a sottoporre le proprie pretese di validità e motivazioni al consenso
discorsivamente motivato degli altri.»
Analisi improntata a una doppia attenzione, all’interno di una irrinunciabile e insuperabile tensione
tra idea e realtà, validità e fatticità: 1) il fatto del comunicare, il dato: forme sedi esiti; 2) le
potenzialità e la validità dell’agire comunicativo oltre la fattualità: il progetto. Eloquente in tal
senso la convinzione che Habermas stila in apertura dell’opera Fatti e norme: «Una corona
d’idealizzazioni inevitabili forma il fondamento controfattuale d’ogni prassi d’intesa effettiva che
sia capace di volgersi criticamente contro i propri risultati e di trascendere se stessa. Con ciò la
tensione idea/realtà irrompe nella stessa fattualità delle forme di vita linguisticamente strutturate. La
prassi comunicativa quotidiana si sovraccarica di presupposti idealizzanti; ma solo alla luce di
questa trascendenza intramondana possono aver luogo processi di apprendimento.» (Habermas
1992, Fatti e norme, Guerini e associati 1996, 12-13).
Dunque la Teoria dell’agire comunicativo intende essere «Un discorso capace non soltanto di
analizzare meccanismi di funzionamento ed evoluzione della società, ma anche di fondare
razionalmente «l’intendersi», il capirsi, il consenso sociale — sulla criticabilità delle pretese di
ragione che i soggetti avanzano reciprocamente». L’obiettivo è nuovo come lo è il fondamento
consapevole: “non solo sono improponibili fondazioni ontologiche o trascendentali di tipo
filosofico tradizionale, ma sono impercorribili anche le strade della vecchia «teoria critica» e quella
del marxismo, più o meno modernizzato. Tutte sono viziate da residui di filosofia della coscienza”;
si deve passare “dalla «coscienza» alla «comunicazione»”, o meglio alla razionalità comunicativa
pragmatica. «La razionalità comunicativa non è un processo della coscienza, ma un medium di
riproduzione simbolica del mondo vitale»; quindi il testo è “guidato da una tenace intenzione
unitaria nello sviluppare tutti gli aspetti della razionalità comunicativa”. (Habermas 1981, Teoria
dell’agire comunicativo, citazioni dalla Introduzione di Gian Enrico Rusconi)
Alcuni passaggi fondamentali ed elementi strutturali della Teoria.
2.1 Ragione strumentale e ragione comunicativa: «influenza» e «intesa»
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La costante tendenza di Habermas è quella di considerare l’evoluzione umana nella prospettiva di
due ambiti universali autonomi, cioè il «lavoro» e l’«interazione», l’«agire strumentale» e l’«agire
comunicativo»; ragione strumentale e ragione comunicativa sono due concetti cardine della teoria.
In definizione sintetica: 1. ragione strumentale: uso della ragione come mezzo o strumento per fini
preordinati, esterni, strategici; “un utilizzo (orientato al successo) dei loro interessi egoistici”
(Habermas, 1992 Fatti e norme, 156). 2. ragione comunicativa: movimento nella ragione allo scopo
di attivarne gli esiti nei più ampi settori possibili di attenzione, agendo nel campo della
comunicazione gestita al fine di creare un’intesa, comprensione e scambio; “l'intendersi tramite la
comprensione e accettazione delle ragioni degli interlocutori, passate al vaglio della critica delle
loro pretese di validità” (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Introduzione di Gian
Enrico Rusconi, 12).
«Esemplare è il modo con il quale si stabilisce senza esitazione la discriminante tra agire
comunicativo e non-comunicativo. Vediamo da vicino l’argomentazione dell’autore. Che cosa
individua in prima istanza l’agire comunicativo rispetto ad ogni altro tipo di agire? Due elementi:
l’intenzione di intendersi (non necessariamente il raggiungimento effettivo dell’intesa) e il
linguaggio come medium, nel senso che al linguaggio è immanente il telos dell'intesa. Viceversa
l'agire non-comunicativo è caratterizzato da un’attività che mira allo scopo di autoaffermarsi (mira
al «successo» o alla «influenza» sull'altro); a tale obiettivo viene subordinato il linguaggio, che
risulta pertanto strumentalizzato e deviato rispetto al telos dell’intesa. Agire comunicativo e agire
strategico sono paradigmaticamente due meccanismi alternativi di coordinamento dell'azione
sociale. Rispondono a due logiche d'azione incompatibili, rispettivamente «intesa» e «influenza». In
entrambi i casi c'è scambio di informazioni; ma solo nel coordinamento all’intesa si crea una
«comprensione» tramite «riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili», dunque
un sapere intersoggettivamente vincolante, basato su autentici «convincimenti». Di contro
l'influenza reciproca si fonda su effetti esteriori, più o meno ricchi di informazioni strumentali. Non
si può agire in modo da intendersi tramite ragioni e insieme influenzarsi strategicamente.»
(Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Introduzione di Gian Enrico Rusconi, 12-13).
2.1.1. La ragione strumentale, in particolare, a detta della tradizione che va da Weber a Lukács,
esprime ed è propria delle società dominate dall’economia capitalistica a modello avanzato o
segnate da un’ottica di sviluppo e di profitto fondati sulla massima produttività possibile. «Nelle
società capitalistiche il modello della razionalizzazione è determinato piuttosto dal fatto che il
complesso della razionalità cognitivo-strumentale si afferma a scapito di quella pratica [razionalità
pratica, etica, comunicativa], reificando i rapporti di vita comunicativi.» (Habermas 1981, Teoria
dell’agire comunicativo, 485-486).
2.1.2. La ragione strumentale fonda la propria logica sulla distinzione (separazione, a volte
opposizione) tra validità e valore, «aspetti di validità, sfere di valore» (Habermas 1981, Teoria
dell’agire comunicativo, 485) ; un criterio funzionale-economicistico contro (versus) un criterio
etico-sociale.
2.1.3. In sintesi, il tema è richiamato poi (nel 1992) in Fatti e norme: «Se si utilizza il linguaggio
soltanto come medium di trasmissione per informazioni e ridondanze, il coordinamento delle azioni
scorre attraverso l'influenza reciproca di attori che si condizionano in maniera strumentale. Non
appena, invece, sono le forze illocutive degli atti linguistici ad assumere un ruolo di coordinamento,
allora lo stesso linguaggio si dischiude come fonte primaria dell'integrazione sociale. Solo in questo
caso si può parlare di «agire comunicativo». Nel ruolo di parlanti e di ascoltatori, gli attori cercano
allora di negoziare interpretazioni comuni della situazione e di coordinare reciprocamente attraverso
processi d’intesa (dunque perseguendo senza riserve fini illocutivi) i loro rispettivi piani d'azione.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 27)
2.1.3.1. A intendere il senso di uso illocutivo o atti linguistici come atti illocutivi: «Com’è noto,
Austin distingue fra atti locutivi, illocutivi e perlocutivi. Egli definisce locutivo il contenuto di
proposizioni enunciative («p») oppure di proposizioni enunciative nominalizzate («-che p»). Con
atti locutivi il parlante esprime situazioni di fatto; egli dice qualcosa. Con atti illocutivi il parlante
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compie un’azione dicendo qualcosa. Il ruolo illocutivo stabilisce la modalità di una proposizione
usata come affermazione, promessa, comando, confessione ecc. In condizioni standard la modalità
viene espressa con l’ausilio di un verbo performativo usato alla prima persona del presente; ove il
senso dell'azione è riconoscibile in particolare dal fatto che la componente illocutiva dell’azione
linguistica consente l’aggiunta «con ciò»: «con ciò ti prometto (ti comando, ti confesso), che p».
Con atti perlocutivi infine il parlante raggiunge un effetto presso l’uditore. Mediante il fatto di
compiere un’azione linguistica, egli produce qualcosa nel mondo. I tre atti distinti da Austin sono
quindi caratterizzabili secondo le voci seguenti: dire qualcosa; agire mentre si dice qualcosa;
produrre qualcosa mediante il fatto di agire mentre si dice qualcosa.» (Habermas 1981, Teoria
dell’agire comunicativo, 398)
2.2. la teoria dei tre mondi. Tre concetti formali del mondo: cultura, società, persona.
È possibile comprendere la natura, l’efficacia e la complessità dell’agire comunicativo se si mette in
luce il mondo in cui esso si esplica e le modalità che assume di conseguenza. A tale scopo è la
stessa categoria di mondo che va chiarita.
2.2.1. La teoria dei tre mondi e la ripresa del tema prodotto dalla recente filosofia. Habermas
riprende la distinzione formulata dal filosofo Karl Raymund Popper. Nei suoi studi Popper osserva
come il termine mondo, proprio del linguaggio quotidiano, possa venire formalizzato in tre diverse
accezioni: il mondo oggettivo dei fatti, cui corrispondono le forme scientifiche della cultura
linguisticamente formulate, universalmente condivise e divenute perciò terreno comune di intesa di
un’epoca (cultura, mondo oggettivo, fatti oggettivi, fatti); il mondo sociale delle norme, cui
corrispondono i processi che indagano e regolano le relazioni interpersonali, dall’etica alla politica
(società, mondo sociale, norme); il mondo soggettivo dell’esperienza individuale, in cui si
collocano le scelte che definiscono le singole personalità (persona, mondo soggettivo, esperienze
vissute). Queste tre dimensioni, della cultura, della società e della persona (personalità),
dimensioni presenti nell’agire teleologico, contesto dell’agire orientato all’intesa, costituiscono per
Habermas i livelli diversi e intercomunicanti di presenza e attuazione, così come di studio,
comprensione e sviluppo dell’agire comunicativo dell'età contemporanea. A ulteriore precisazione:
«Sempre nel capitolo introduttivo abbiamo la classificazione dei modelli di azione sociale:
teleologico, regolato da norme, drammaturgico. Questi modelli o concetti sociologici d’azione sono
introdotti da una «teoria dei tre mondi» (ripresa da Popper) molto semplice. Secondo questa, infatti
c’è un mondo oggettivo di fatti, un mondo sociale di norme e un mondo soggettivo di esperienze. A
ciascun mondo corrisponde un livello di sapere e una pretesa di validità: livello e pretesa di verità
proposizionale, di giustezza normativa, di veridicità e autenticità soggettiva. Ciascun mondo dà
luogo ad un particolare rapporto o riferimento attore-mondo, cui corrispondono i tipi di agire.»
(Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Introduzione di Gian Enrico Rusconi, 12-13).
2.2.2. Habermas stesso fornisce una breve presentazione di queste tre dimensioni o modi
fondamentali di essere del mondo: «Definisco cultura la riserva di sapere dalla quale i partecipanti
alla comunicazione, intendendosi su qualcosa in un mondo, si dotano di interpretazioni. Definisco
società gli ordinamenti legittimi attraverso i quali i partecipanti alla comunicazione regolano la loro
appartenenza a gruppi sociali garantendo così solidarietà. Per personalità intendo le competenze
che rendono un soggetto capace di linguaggio e di azione, mettendolo quindi in grado di partecipare
a processi di intesa e di affermare con ciò la propria identità. Il campo semantico di contenuti
simbolici, lo spazio sociale e il tempo storico costituiscono le dimensioni nelle quali si estendono le
azioni comunicative. Le interazioni intrecciate nella rete della prassi comunicativa quotidiana
costituiscono il medium attraverso il quale la cultura, la società e la persona si riproducono. Questi
processi di riproduzione si estendono alle strutture simboliche del mondo vitale.» (Habermas 1981,
Teoria dell’agire comunicativo, 730-731)
2.2.2.1. Come contributo di chiarificazione intorno alla teoria dei tre mondi, al mondo cultura e alla
sua stretta connessione con l’agire comunicativo Fabio Quassoli ricorda: «…la relazione
indissolubile che esiste tra cultura e comunicazione. Qualunque cosa siano le culture — e
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indipendentemente da come le si consideri sul piano epistemologico (essenza, processo, discorso)
— esse, infatti, possono esprimersi solo nella comunicazione e, ove quest’ultima abbia luogo
nell’ambito di interazioni sociali faccia a faccia, il loro manifestarsi dovrà “fare i conti” con i
vincoli specifici che caratterizzano tale dimensione della vita sociale.» (Quassoli, Fabio 2006
Riconoscersi. Differenze culturali e pratiche comunicative, ed. Raffaello Cortina, Milano, pp. 201215 (passim)
2.2.3. Le tre direzioni, dimensioni o mondi della cultura, società e persona si definiscono secondo la
propria specifica natura e nelle concretezza delle forme in cui storicamente si determinano (in un
continuo mutamento quale si manifesta nella dimensione dell’agire comunicativo) sullo sfondo di
un senso comune, di un mondo comune condiviso e partecipato, implicito ma indirettamente
ribadito e conservato, indicato con l’espressione mondo-della-vita o mondo vitale: Lebenswelt.
2.3. il mondo della vita (il mondo di vita, mondo vitale, Lebenswelt)
2.3.1. La nozione di «mondo della vita» viene presentata da E. Husserl, nell’opera La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1937, 1954), come presupposto e fondamento
inespresso dei progetti e dei comportamenti cui la ragione dà vita, nei vari campi della sua presenza.
«Nella sua trattazione su La crisi delle scienze europee, Husserl ha introdotto il concetto di mondo
della vita dal punto di vista di una critica della ragione. Al di sotto della realtà che le scienze
naturali fanno valere come unica, Husserl porta invece alla luce il contesto previo all’esperienza di
mondo e alla prassi naturale di vita, quale fondamento di senso che è stato rimosso. Il mondo della
vita rappresenta a tale riguardo il controconcetto di tutte quelle idealizzazioni che costituiscono in
primo luogo l’ambito oggettuale delle scienze naturali. Contro le idealizzazioni della misurazione,
della sottomissione alla causalità e della matematizzazione, ma anche contro un’attiva tendenza alla
tecnicizzazione, Husserl rivendica invece il ritorno al mondo della vita come sfera immediatamente
presente delle prestazioni originarie; in tale prospettiva, egli critica le idealizzazioni, dimentiche di
se stesse, dell’oggettivismo delle scienze naturali. Ma poiché la filosofia del soggetto è cieca di
fronte alla caparbietà (Eigensinn) dell’intersoggettività linguistica, per questo anche Husserl non
riesce a riconoscere come già il terreno della stessa prassi comunicativa quotidiana poggi su
presupposti idealizzanti.» (Habermas Jürgen 1990, Il pensiero post-metafisico, ed. Laterza Bari
1991 p. 85)
Definito da Husserl come «mondo spazio-temporale delle cose così come noi le sperimentiamo
nella nostra vita pre- ed extrascientifica e così come noi le sappiamo esperibili al di là
dell’esperienza attuale», il mondo della vita si presenta come orizzonte universale di una qualsiasi
esperienza possibile. Husserl non intende in tal modo riportare le nostre facoltà agli oggetti quali
appaiono nella visione e nelle definizioni quotidianamente condivise, ma invita a cogliere il mondo
della vita prima del momento in cui schemi di categorie oggettivamente formalizzare si
sovrappongano al plenum della vita e vi si sostituiscano. Perché, quando teorie oggettive e
sistematiche si autopresentano come totalità compiute, assolute e originarie, allora il mondo della
vita viene condannato a essere un «dimenticato fondamento di senso della scienza naturale»; le
definizioni sistematiche e oggettive del mondo, formulate secondo categorie logiche, si presentano
quindi come formalizzazioni particolari dell’esperienza immediata del mondo (del contesto mondo
della vita).
Più in generale, il mondo della vita si pone come orizzonte e fondamento delle direzioni di senso
con cui il soggetto dà particolari forme logico-scientifiche all'esperienza; esso costituisce quindi il
tema di una nuova filosofia trascendentale. La filosofia che riflette sul mondo della vita pone al
centro della propria attenzione e affida ad una indagine di carattere fenomenologico il fondamento
dei processi culturali che tendono a definire razionalmente e oggettivamente il mondo.
2.3.2. L’impostazione di Husserl, osserva Habermas, pur rifiutando con decisione ogni
psicologismo filosofico, rimane tuttavia ferma alla filosofia del soggetto, non coglie il mondo della
vita come concetto «che si riferisce alla totalità dei fatti socioculturali, in grado perciò di offrire un
punto di contatto per la teoria della società». Habermas critica cioè la «riduzione culturalistica del
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concetto di mondo vitale» presente nella tradizione fenomenologica inaugurata da Husserl:
collocare il tema del mondo vitale nell’ambito della sola cultura significa riservarne la portata
fondativa al solo sapere formale razionalmente definito. In quanto i procedimenti di intesa non si
riducono soltanto al mondo oggettivo formalizzato, quello delle scienze o della cultura, ma stanno
all’origine sia del mondo sociale («in quanto totalità delle relazioni interpersonali regolate in modo
legittimo»), sia del mondo soggettivo («in quanto totalità delle esperienze vissute del parlante,
accessibili in modo privilegiato»), Habermas lavora quindi a una definizione del mondo vitale
anche all’interno delle dimensioni della società e della personalità. Il mondo della vita, «pur
provenendo dalla filosofia della coscienza» ha un'accezione più ampia di quella «culturalistica» e
non può venire inteso come qualcosa di neutro, avulso dai contesti storici e sociali in cui si colloca;
quindi, osserva Habermas: «l’analisi fenomenologica delle strutture del mondo della vita si prefigge
in prima linea di illuminare la struttura spazio-temporale e sociale del mondo della vita»;
quest’analisi diventa inevitabilmente studio delle radici della contemporaneità e del senso comune
con cui si definisce.
2.3.3. La presentazione del mondo della vita. «Ogni atto della comprensione può essere inteso come
parte di un processo cooperativo di interpretazione che mira a definizioni della situazione
riconosciute intersoggettivamente. In ciò i concetti dei tre mondi servono da sistema di coordinate,
supposto comune, nel quale i contesti situazionali possono essere ordinati in modo che si raggiunga
l’intesa su ciò che i partecipanti possono trattare di volta in volta come fatto e come norma valida
oppure come esperienza vissuta soggettiva.
A questo punto posso introdurre il concetto di «Lebenswelt» anzitutto come correlato a processi di
intesa. Soggetti che agiscono in modo comunicativo si intendono sempre nell’orizzonte di un
mondo vitale. Il loro mondo vitale si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi,
sempre aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che
sono presupposte in modo aproblematico dai partecipanti. Nella loro opera di interpretazione gli
appartenenti ad una comunità comunicativa delimitano il mondo oggettivo e il loro mondo sociale
condiviso intersoggettivamente dai mondi soggettivi di singoli e di (altri) collettivi. I concetti del
mondo e le corrispondenti pretese di validità costituiscono l’impalcatura formale con cui gli agenti
in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta problematici, cioè
bisognosi di accordo, nel loro mondo vitale presupposto come aproblematico.
Il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso è il
contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge con ogni processo effettivo
dell’intendersi.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 138)
Una definizione e molte dimensioni / direzioni che pongono il mondo della vita in collegamento e a
fondamento dell’agire comunicativo: «correlato a processi di intesa», «contesto dell’agire
comunicativo», «concetto complementare all’agire comunicativo», «orizzonte e sfondo dell’agire
comunicativo», «un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma
problematizzabili a mano a mano che diventano rilevanti per una situazione», «un a priori sociale
racchiuso nell’intersoggettività della comprensione linguistica», «Singoli elementi, determinate
evidenze vengono però mobilitati sotto forma di un sapere consensuale e al tempo stesso
problematizzabile soltanto quando diventano rilevanti per una situazione»; «nessi di riferimento,
che collega fra loro le componenti della situazione e quest’ultima al mondo vitale», «un serbatoio di
evidenze o convinzioni incontrollabili che i partecipanti alla comunicazione utilizzano per i processi
cooperativi di interpretazione», «riserva di sapere tramandato e linguisticamente organizzato», «il
luogo trascendentale nel quale parlante e ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare
reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzano con il mondo (oggettivo, sociale,
soggettivo), nel quale possono criticare e confermare queste pretese di validità, esternare il dissenso
e raggiungere l’intesa», « si intendono sempre nell’orizzonte di un mondo vitale», «l’impalcatura
formale con cui gli agenti in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta
problematici», «Questa riserva di sapere munisce gli appartenenti di convinzioni di sfondo
aproblematiche, supposte unanimemente come garantite; e da esse si forma di volta in volta il
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contesto di processi di comprensione, nei quali i partecipanti utilizzano o collaudate definizioni di
situazioni o ne concordano di nuove. I partecipanti alla comunicazione trovano già
contenutisticamente interpretato il nesso fra mondo oggettivo, sociale e soggettivo», «è costitutivo
dell’intendersi in quanto tale, mentre i concetti formali del mondo formano un sistema di
riferimento per quello su cui è possibile intendersi», … «le «strutture» della Lebenswelt. Secondo
Habermas esse sono cultura, società, personalità — intese rispettivamente come riserva di sapere
partecipabile, ordinamenti di appartenenza che fungono da fonte di solidarietà, processi di identità».
(Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, soprattutto dalle pp. 697 alle 809 passim e da
Introduzione di G.E. Rusconi)
2.3.4. Il mondo della vita alla radice dell’agire comunicativo. «I parlanti integrano i tre concetti
formali del mondo (che compaiono singolarmente o a coppie negli altri modelli di azione) in un
sistema e presuppongono quest’ultimo come quadro interpretativo all’interno del quale possono
raggiungere una intesa. Essi non fanno più riferimento in modo diretto a qualcosa nel mondo
oggettivo, sociale o soggettivo, bensì relativizzano la loro espressione alla possibilità che la sua
validità sia contestata da altri attori. L’intesa funziona da meccanismo che coordina le azioni
soltanto nel senso che i partecipanti all’interazione si mettono d’accordo sulla validità rivendicata
dalle loro espressioni, vale a dire riconoscono intersoggettivamente le pretese di validità
reciprocamente sollevate.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 175)
I partecipanti a una conversazione o a un'attività si riconoscono in un sistema culturale e sociale già
strutturato secondo regole e usato come contesto di intesa, essi non sentono dunque il bisogno di
mettere a tema il contesto in cui operano. Solo un ostacolo all’intesa può trasformare un sistema
organizzato da «quadro indiscusso nel quale si pongono i problemi da affrontare» in oggetto
esplicito di riflessione. Impostata con rigorosa coerenza, tale riflessione tende all’esame non solo
del contesto di intesa direttamente messo in discussione, ma della radice prima dei sistemi
strutturati; essa raggiunge quindi il mondo della vita, finora sfondo non problematizzato dei
procedimenti di intesa culturale e pragmatica.
(Riprendendo e ripetendo il tema in altra forma con sfumature solo leggermente diverse: il mondo
della vita è il contesto in cui i soggetti miranti all’intesa, o tra loro in relazione, ritengono di trovarsi
in condizioni di normalità condivisa; come tale ha i tratti dell’ovvio, dello scontato, del prevedibile
è quindi non è oggetto di annotazione o osservazione poiché è implicitamente funzionale e in opera
nei comportamenti espliciti di carattere culturale, sociale e personale. Solo di fronte a blocchi
dell’intesa emerge la sua operatività strutturante e di sostegno, ed emerge contemporaneamente
all’esigenza di richiamarne i tratti e ridefinirne la condivisione, l’eventuale variazione in corso e
perciò la necessità nuova di articolare i tratti di una nuova ma basilare intesa. È dunque contesto
normale di orientamento condivisione e di utilizzo ma è anche storicamente sempre in
impercettibile mutamento proprio grazie alla sua esplicitazione indiretta o diretta e, più in generale
e come costante, grazie alla sua formalizzazione continua nei campi della cultura, della società e
della persona. Queste formalizzazioni hanno quindi effetti retroattivi e si collocano all’interno di un
reciproco rimando: senza il mondo della vita come contesto di condivisione non è possibile alcuna
formalizzazione tematica di carattere culturale, sociale e individuale; queste formalizzazioni
tuttavia, poiché specifiche e espresse in forme sempre diverse, si ripercuotono sul mondo della vita
che chiamano in causa e lo rideterminano. Due situazioni storiche si prestano a far notare la
presenza e la rilevanza del mondo della vita e a porlo in prima attenzione facendolo emergere dallo
sfondo implicito in cui solitamente (e con solidità) opera. La prima è quella resa possibile da attività
di confronto tra momenti storici diversi relativi ad uno stesso tema; ad esempio il confronto tra una
foto di famiglia di cinquanta o più anni fa con una attuale mette subito in evidenza come nei due
momenti venissero consegnate alla indiscussa normalità condizioni di vita ben diverse in termini di
ambienti di vita, interni di abitazioni, abbigliamento, ruoli famigliari distinti per sessi e per età ecc.;
un analogo effetto di rilievo si ottiene confrontando ad esempio due documenti fotografici sulla vita
di spiaggia di uno stesso luogo distanti tra loro nel tempo: le normalità condivise (del mondo della
vita) compaiono ben diverse nella vita condotta in spiaggia, nei costumi indossati, nella concezione
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e cura del corpo, nel peso di tradizioni etiche e religiose… Una seconda situazione storica che, più
drammaticamente, mette a tema il ruolo del mondo della vita nel campo delle relazioni sociali è
quella che si verifica nel caso di rivoluzioni sociali e politiche repentine o, soprattutto, nella
costruzione di sistemi totalitari: un sistema totalitario (ma anche solo una democrazia demagogica
incontrollata e sbracata) non modifica soltanto leggi, istituzioni e ordinamenti, ma ha il preciso
obiettivo di attaccare e stravolgere il mondo della vita di una società; anzi deve il proprio successo e
la propria durata alla capacità di incidere con efficacia in questo cambiamento o stravolgimento; ad
esempio, come cambia il mondo della vita che regge le relazioni società, cultura e persona quando
le leggi razziali in Germania avviano la persecuzione contro propri cittadini inventando la
definizione di razza ebraica e alterando tutte le coordinate di vita sociale tedesca; analogamente
quando nazionalismi totalitari e intolleranti non solo dissolvono la Jugoslavia ma distruggono un
tessuto sociale culturale e personale costruito in secoli e democraticamente produttivo. La filosofia
dunque pone a tema lo studio del mondo della vita come un trascendentale storico sociale del
costituirsi continuo dei mondi della cultura, della società e della persona e come contenitore
comune e condiviso cui attinge la comunicazione diretta all’intesa nelle direzioni produttive e
costitutive cui si consegna come società, cultura e persona.)
2.3.4.1. Un esempio: muratori in cantiere. «L’esempio di un comando che il destinatario ritiene
inattuabile rammenta che i partecipanti all’interazione si esprimono sempre in una situazione che
essi devono definire in comune, se agiscono in modo orientato all'intesa. Il lavoratore anziano in un
cantiere che invia un collega più giovane e di recente assunzione a prendere la birra e pretende che
faccia in fretta, sia di ritorno entro un paio di minuti, parte dal fatto che ai partecipanti (qui il
destinatario e i colleghi che si trovano a portata di voce) la situazione sia chiara: la colazione è il
tema, il rifornimento di bevande è un obiettivo riferito a questo tema; uno dei colleghi più anziani
concepisce il piano di mandare il «nuovo» che, a causa del suo stato, può sottrarsi difficilmente a
tale esortazione. La gerarchia informale del gruppo degli operai nel cantiere costituisce il quadro
normativo nel quale uno può esortare l’altro a fare qualcosa. La situazione di azione è definita
temporalmente dalla pausa di lavoro, spazialmente dalla distanza del bar più vicino rispetto al
cantiere. Se ora la situazione è tale per cui il bar più vicino non può essere assolutamente raggiunto
a piedi in un paio di minuti, se dunque il piano del collega di lavoro più anziano può essere attuato,
nella condizione menzionata, soltanto con l'aiuto di un’auto (o di un altro veicolo) l’interpellato
risponderà forse: «Ma non ho la macchina». (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 707708)
2.3.5. Le forme in cui il mondo della vita può diventare oggetto specifico di attenzione, di analisi e
di discorso non sono univoche. L'arte del racconto è il modo letterario in cui il mondo vitale,
contesto della comunicazione e delle relazioni sociali, diviene oggetto specifico di attenzione; «la
prassi narrativa del resto — osserva Habermas — non serve soltanto al fabbisogno ovvio di
comprensione di interessati che devono coordinare la propria collaborazione. Essa svolge altresì una
funzione per l’autocomprensione delle persone che devono oggettivare la propria appartenenza al
mondo vitale di cui fanno parte nel loro ruolo attuale di partecipanti alla comunicazione».
L’impostazione della osservazione sociologica presente in autori e scuole contemporanee va (più o
meno consapevolmente) nella stessa direzione descrittiva del vasto mondo della vita nella sua
presenza e funzionalità quotidiane; il pensiero va in particolare alle indagini di Erving Goffman in
opere come La vita quotidiana come rappresentazione, Relazioni in pubblico. Ma, secondo
Habermas, soltanto un'analisi fenomenologica, in quanto è una prospettiva che consente un'indagine
teoretica del mondo della vita nella sua complessità storica, assolve all'esigenza di impostare
adeguatamente lo studio sul mondo della vita e di fornire un fondamento ultimo, totale e non
arbitrariamente delimitato, alle scienze sociali. Infatti, il mondo vitale «costituisce l’ambiente nel
quale gli orizzonti delle situazioni si spostano, si espandono o si contraggono. Esso costituisce un
contesto che, pur essendo esso stesso illimitato, traccia dei limiti».
2.3.4.1. Habermas sottolinea più volte «il carattere totale e al tempo stesso indeterminato, poroso e
nondimeno limitante del mondo vitale»; nelle forme storiche in cui si mostra, appare determinato e
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vincolante; considerato invece come terreno in cui si costituiscono i sistemi culturali, sociali e
personali storicamente definiti, appare totale e indeterminato.
Il mondo vitale ha dunque la forma storica del contesto indispensabile all’intesa e perciò si presenta
come riserva di sapere tramandato e organizzato linguisticamente («è costruito a partire da una
riserva di sapere culturale già da sempre familiare»); esso è però anche base per una funzione
produttiva, non predeterminata della cultura, della società e della persona, in grado di superare
forme culturali, sociali e personali storicamente fissate.
2.3.4.2. « Vorrei anzitutto chiarire come il mondo vitale si rapporta a quei tre mondi che i soggetti
agenti in modo orientato all’intendersi pongono alla base delle loro definizioni comuni delle
situazioni.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 705)
La definizione di sistemi culturali condivisi (cultura), base per la comunicazione, il mondo delle
relazioni sociali (società), presupposto di intesa interpersonale, il campo delle esperienze personali
(persona), contesto in cui si definiscono le forme soggettive di attenzione e di orientamento,
diventano il luogo in cui si colloca la nuova riflessione filosofica sul mondo della vita: «i tratti
fondamentali del mondo vitale, fenomenologicamente descritti, possono essere spiegati senza
difficoltà se si introduce il “mondo vitale” come concetto complementare dell’“agire
comunicativo”». Habermas indica dunque come compito preliminare e prioritario delle scienze
sociali la riflessione sul mondo della vita e l’analisi fenomenologica della storicità che esso acquista
all’interno dell’agire comunicativo; solo così i processi di intesa che si realizzano o falliscono nei
sistemi organizzati vengono affrontati a partire dalla radice della comunicazione (dalla «risorsa
dell’agire orientato all’intesa») e solo così l’attenzione rivolta al fondamento trascendentale e
pragmatico dell’intesa, il mondo vitale, permette di esplorare senza precondizionamenti il campo
delle possibilità comunicative dell’età contemporanea.
2.3.5. Mondo della vita, una riserva vitale mai completamente formalizzata e formalizzabile, e i “tre
mondi”. «La categoria del mondo vitale… ha uno status diverso da quello dei concetti formali del
mondo» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 714) La complessità del concetto di
mondo, individuata attraverso la «teoria dei tre mondi», difende il mondo della vita e le procedure
comunicative che genera dalla loro riduzione al solo sapere formalizzato, alle sole istituzioni
socialmente riconosciute, alla dimensione puramente psicologica e individualistica della vita; lo
difende dal rischio di una sua razionalizzazione strumentale. Collocato nel triplice mondo della
cultura, della società e della persona, lo studio delle strategie con cui il linguaggio, la prassi
argomentativa ed ermeneutica sviluppano le potenzialità del mondo della vita, attuano l’intesa
sociale e svolgono il ruolo di medium sia della comunicazione sia del suo insuccesso, entra a far
parte della nuova teoria della comunicazione. Le analisi linguistiche, così come le riflessioni
ermeneutiche e gli studi di retorica dell’argomentazione, in quanto mettono in luce le strutture
dell’agire comunicativo, diventano strumenti di analisi teoretica del concetto di mondo vitale.
L’attenzione filosofica rivolta al linguaggio, all’interpretare e all’argomentare esce dunque dalla
impostazione metafisica e logico-formale che la caratterizzava; essa si concentra sulla funzione
comunicativa che il linguaggio, l’interpretazione e l’argomentazione sono in grado di svolgere
nell’ambito dei tre mondi: del sapere culturale, del coordinamento sociale, dell’autoidentificazione
personale. E studia, nello specifico, come l’agire orientato all’intesa, così come l’agire strumentale,
attraverso il medium linguistico, possano a loro volta influenzare la riproduzione del mondo vitale
agendo appunto nei tre livelli della riproduzione culturale, dell’integrazione sociale, della
formazione personale. Il presupposto generale ribadito: « il linguaggio ordinario è superiore ai
codici speciali in quanto rimane sensibile ai problemi sociali complessivi e funge da cassa di
risonanza per i costi esterni dei sottosistemi differenziati. […] … la specializzazione funzionale del
mondo di vita si compie, tutto sommato, in maniera tale che le sue componenti — cultura, società e
strutture della personalità [vedi la teoria del tre mondi] — per un verso si differenziano entro i limiti
di un linguaggio multifunzionale, per l'altro verso tuttavia restano sempre intrecciate tra loro
attraverso questo medium.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 70-71)
15
2.4. La razionalizzazione come reificazione e la messa a rischio dell’agire comunicativo.
Si tratta di un’indagine e un’analisi affidate al Capitolo quarto (su otto) Da Lukács ad Adorno:
razionalizzazione come reificazione. (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 457-529), e
ripresa più volte, come nel capitolo VI dedicato al tema: «sistema e mondo vitale» (Habermas 1981,
Teoria dell’agire comunicativo, 697-809). Qui, in sintesi, il progetto e il cammino complessivo:
«Da siffatto orizzonte si stacca la indagine delle funzioni assunte dall’agire comunicativo per il
mantenimento di un mondo vitale differenziato strutturalmente. In base a queste funzioni si possono
chiarire le condizioni necessarie per una razionalizzazione del mondo vitale. Qui ci imbattiamo nei
limiti degli approcci che identificano la società con il mondo vitale; proporrò perciò di concepire la
società nello stesso tempo come sistema e come mondo vitale. (Habermas 1981, Teoria dell’agire
comunicativo,705-706)
Con il termine razionalizzazione si indica il progressivo portare a razionalità scientifica tutti i
processi storici naturali e sociali. È il trionfo della razionalità strumentale imposta come unico
modello di razionalità, sinonimo di razionalità scientifica e quindi rivendicante per sé il monopolio
della validità e della verità, in una parola della modernità. Si tratta di una impostazione di studio e
di teoria che ha radici molto lontane: ha a che fare con filosofie della storia, che individuano una
linearità immanente al corso degli eventi, di carattere ora trascendente religioso, ora immanente
metafisico, il cui disegno si sovrappone, vincola a priori e mette in secondo piano o travisa o
nasconde il dato empirico fattuale; si rafforza inoltre con la trasposizione della logica propria delle
scienze naturali nel campo delle ricerche sociali. Habermas cita come primo teorizzatore esplicito
della prassi indicata il filosofo dell’età illuministica Condorcet: « Condorcet intende concepire la
storia dell’umanità secondo il modello della storia della scienza moderna, vale a dire come processo
di razionalizzazione.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 232)
Il metodo di razionalizzazione è presente anche in Weber (il tema della “gabbia d’acciaio”) che ne
mette in luce la natura, la funzione e il rischio. Non si tratta affatto di escludere la prassi della
razionalizzazione né nella interpretazione né nella gestione del sociale ma occorre avere
consapevolezza (critica) delle piste che apre, delle opportunità che offre, dei rischi che comporta
legati, questi, soprattutto alla sua capacità e volontà di ridurre ad un unico modello di razionalità
(strumentale) il processo comunicativo che struttura il sociale e gli elementi che lo sorreggono (il
mondo della vita).
Un dato storico empirico che richiama il problema: «È quanto mai evidente che il tipo di agire
orientato all’intesa, del quale abbiamo schizzato in via del tutto provvisoria la struttura razionale
interna, non è affatto riscontrabile sempre e dovunque come caso normale di prassi comunicativa
quotidiana.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 223) Il riferimento è alle società
antiche, moderne e contemporanee e all’indiscusso pluralismo culturale di quest’ultima, per cui è
impossibile proclamare e veder condiviso un unico modello di razionalità. «Persino se fosse ancora
possibile porre tale molteplicità di immagini del mondo sistematizzate e altamente differenziate in
un rapporto gerarchico con la comprensione moderna del mondo, incontreremmo un pluralismo di
potenze di fede al più tardi nell’ambito della modernità. Da esso non è affatto possibile trarre un
nocciolo universale.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 223) Ma il riferimento è
anche e soprattutto ai modi con cui una ragione strumentale usata come sistema di esercizio del
potere e di conservazione della stabilità preordinata di un modello sociale (di cultura, di società e di
persona) annulla l’agire comunicativo funzionale all’intesa cercando di accedere e incidendo sul
mondo vitale (“orizzonte e sfondo dell’agire comunicativo”) allo scopo di razionalizzarne e
preordinarne i contenuti e i processi, bloccarne la dinamica evolutiva propria.
Si impone dunque un lavoro plurimo: 1. Definire la struttura di un agire orientato all’intesa; 2.
individuare i processi (e la loro struttura) che escludono (e sono volti ad escludere) l’intesa
comunicativa con la conseguente estinzione di un pensiero riflessivo, critico e con il trionfo della
ragione strumentale (negli ambiti della cultura, società, persona); 3. studiare le vie possibili per
rilanciare il concetto di razionalità comunicativa nella sua universalità senza ricorrere alle ormai
tramontate grandi garanzie della tradizione filosofica (garanzie metafisiche, mitiche, trascendentali,
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sistemiche, di classi o avanguardie rivoluzionarie portatrici di un nuovo corso storico… presenti
nella tradizione da Platone a Marx) (cfr. (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 223 ss)
2.4.1. Uno dei temi principali, settori di studio e di azione critica della Scuola di Francoforte, è
quello della razionalizzazione come reificazione. La reificazione è il naturale sbocco di un sistema
economico volto al profitto che, seguendo la propria logica, si mostra in grado di trasformare ogni
processo storico, compreso il mondo delle relazioni sociali, in produzione di merci, beni di scambio
in vista del massimo profitto, fino a considerare l’intera umanità nell’ottica dell’oggetto
(reificazione, oggettivazione delle relazioni personali). È una lettura del presente storico formulata
soprattutto da Lukács; essa appare ad Habermas appiattita su di una chiave economicistica che
produce un “idealismo oggettivo” (trasferisce nell’economia l’impianto idealistico della filosofia di
Hegel) e non coglie la complessità sociale dei processi in atto. Autori come Horkheimer e Adorno
allargano il campo: affrontano il tema della reificazione e dell’asservimento della coscienza alle
esigenza di conservazione e profitto dei sistemi dominanti richiamando il concetto di ragione
strumentale e servendosi delle competenze fornite dalla psicanalisi e delle nuove scienze
antropologiche. Habermas ritiene che un simile progetto di studio non possa però confinarsi alla
sfera soggettiva della coscienza e alla classica relazione filosofico-gnoseologica di soggettooggetto. Così ricostruisce G.E. Rusconi: «La critica della ragione i strumentale infatti rimane
«soggettiva» nel senso che esprime la relazione soggetto-oggetto nell’ottica del soggetto
conoscente, senza riuscire a spiegare davvero in che cosa consista la strumentalizzazione delle
relazioni sociali «dalla prospettiva dei nessi vitali violentati e deformati». Il richiamo nostalgico ad
una umanità integra e solidale sa dire solo «che» la strumentalizzazione della società distrugge
qualcosa, ma non «in che cosa consiste la distruzione». Tanto meno è in grado di suggerire un
rimedio.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian Enrico Rusconi, Introduzione, 20)
Occorre, per Habermas, un «mutamento di paradigma»: «La ragione strumentale è «soggettiva»
anche nel senso che essa esprime le relazioni fra soggetto e oggetto dalla prospettiva del soggetto
conoscente e agente e non da quella dell'oggetto esperito e manipolato. Essa non mette perciò a
disposizione nessun mezzo esplicativo per spiegare quel che significa la strumentalizzazione delle
relazioni sociali e intrapsichiche dalla prospettiva dei nessi vitali violentati e deformati. Lukács
intendeva strappare questo aspetto alla razionalizzazione sociale ricorrendo al concetto di
reificazione. Così il richiamo alla solidarietà sociale può soltanto indicare che la
strumentalizzazione della società e dei suoi membri distrugge qualcosa, ma non può stabilire
esplicitamente in che cosa consista la distruzione. La critica della ragione strumentale, che resta
legata alle condizioni della filosofia del soggetto, denuncia come difetto quel che essa, nella sua
difettosità, non è in grado di spiegare poiché manca ad essa una concettualizzazione
sufficientemente flessibile per l’integrità di ciò che viene distrutto dalla ragione strumentale.
Horkheimer e Adorno hanno un nome per questo: mimesi. E benché essi non riescano a formulare
una teoria della mimesi, il nome evoca associazioni che sono volute. Imitazione designa un rapporto
fra persone nel quale l’una aderisce all’altra, si identifica con essa, si immedesima in essa. Si fa qui
allusione a una relazione nella quale l’alienazione dell'uno al modello dell’altro non significa la
perdita di se stessi, bensì un guadagno e un arricchimento. Poiché la facoltà mimetica si sottrae ai
concetti di relazione soggetto-oggetto determinata in senso cognitivo-strumentale, essa viene
considerata come il palese opposto della ragione, come impulso. Ad essa Adorno non disconosce
una funzione cognitiva tout-court. Nella sua estetica egli cerca di mostrare quel che l’opera d'arte
deve alla forza rivelatrice della mimesi. Ma nelle prestazioni mimetiche il nocciolo razionale si può
manifestare soltanto se si abbandona il paradigma della filosofia della coscienza. Il paradigma di un
soggetto che rappresenta gli oggetti e si arrovella attorno ad essi lascia il posto al paradigma della
filosofia del linguaggio, della intesa intersoggettiva o della comunicazione e inserisce la dimensione
parziale cognitivo-strumentale in una più ampia razionalità comunicativa. Questo mutamento di
paradigma è quasi tangibile nei pochi passi in cui Adorno si decide ad esplicitare le idee
complementari di conciliazione e di libertà; ma egli non lo ha portato a termine.» (Habermas 1981,
Teoria dell’agire comunicativo, 518-519)
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2.4.2. La razionalizzazione, la reificazione, il dominio della ragione strumentale… sono processi
che hanno raggiunto il proprio obiettivo di asservimento delle persone, di silenziamento del loro
potenziale propositivo quando accadono nel mondo della vita. Occorre in proposito ricordare il
postulato generale di Habermas del mondo vitale, Lebenswelt, come supporto e retroterra dell’agire
comunicativo. «In questa problematica viene tuttavia preso in troppo scarsa considerazione il ruolo
del sapere implicito. Rimane oscuro come si configura l’orizzonte dell’agire quotidiano nel quale si
incunea il sapere esplicito degli esperti e come, sotto tale apporto, si modifica di fatto la prassi
comunicativa quotidiana. Il concetto di agire orientato all’intesa presenta l’ulteriore pregio, d’ordine
assai diverso, di illuminare siffatto sfondo di sapere implicito che entra a tergo nei processi
cooperativi di interpretazione. L’agire comunicativo si svolge all’interno di un mondo vitale che
rimane alle spalle dei partecipanti alla comunicazione. Ad essi questo mondo vitale è presente
soltanto nella forma pre-riflessiva di assunti di sfondo scontati e di abilità padroneggiate in modo
ingenuo. Se le ricerche socio-, etno- e psico-linguistiche dell’ultimo decennio convergono su un
punto, questo è costituito dal riconoscimento che il sapere collettivo di sfondo e contestuale di
parlanti ed uditori determina in misura straordinariamente ampia l’interpretazione delle loro
espressioni esplicite. (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 452-453)
Dunque «L’agire comunicativo si svolge all'interno di un mondo vitale che rimane alle spalle dei
partecipanti alla comunicazione»; su questa base diventano evidenti le sedi e le conseguenze dei
processi della razionalizzazione sociale e della reificazione progressiva delle relazioni e delle
persone. Questi infatti sono processi che non hanno luogo «negli orientamenti di azione
esplicitamente conosciuti — come suggerisce Weber — ma piuttosto nelle strutture implicitamente
conosciute del mondo vitale». «Razionalizzazione sociale, allora, non significa semplicemente
diffusione di agire razionale rispetto-allo-scopo, ma attivazione di potenzialità comunicative
racchiuse nel parlare corrente. La razionalità implicita nelle condizioni dell’intendersi quotidiano è
la stessa che razionalizza il mondo vitale » (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian
Enrico Rusconi, Introduzione, 19); è allora consegnata all’ovvietà e alla conseguente forza di ciò
che è dato per implicito e conseguentemente come universalmente riconosciuto e indiscusso, non
problematizzato (se non in caso di forti inefficienze) nella sua validità. «La razionalizzazione si
configura come una ristrutturazione del mondo vitale, come un processo che attraverso la
differenziazione dei sistemi del sapere influisce sulle comunicazioni quotidiane, investendo le
forme della riproduzione culturale, dell’integrazione sociale e della socializzazione» (Habermas
1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian Enrico Rusconi, Introduzione, 19; citazione da
Habermas come vol. I, p. 459).
In altri termini. L’efficacia di una relazione comunicativa in termini di ridefinizione della cultura,
società e persona ha raggiunto il proprio successo non quando si ferma alla tematizzazione dei tre
mondi a livello di consapevolezza e espressione formalizzata, ma quando si iscrive nel mondo vitale
in coerenza con la logica della sua continua evoluzione e plasmabilità. Si tratta dunque di un
processo che si presenta anche (seppur in forma mai totalizzata) come una razionalizzazione del
mondo vitale: una sua definizione, cioè, a partire da scopi preordinati secondo una razionalità
strumentale che qui diventa rideterminazione intenzionale e strumentale dei processi di intesa
immediati propri del mondo vitale. L’azione di razionalizzazione raggiunge qui la propria massima
efficace di intervento strumentale secondo scopi preordinati (e quindi anche di manipolazione) in
quanto, iscrivendosi nei modi di essere del mondo della vita, presupposto e fondo di intesa, si
esprime in ogni forma comunicativa fino ad assumere illusoriamente, spontaneamente e
inconsapevolmente le forme di una razionalità comunicativa.
2.4.3. La logica che rende possibile la razionalizzazione e quindi il silenziamento della ragione
comunicativa e l’agire volto all’intesa, che si costruisce sullo sfondo di un mondo vitale terreno
comune non formalizzato di incontro, è quella che si manifesta nei processi di riduzione del mondo
vitale a sistema sociale vigente e dominante.
2.4.3.1. Le due strategie di costruzione e di comprensione del sociale: «mondo vitale» e «sistema».
18
«La strategia concettuale di pensare contemporaneamente la società come sistema e mondo vitale.»
(Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Introduzione G.E.Rusconi, 26)
Nella prassi che tende a ricondurre il mondo vitale alle dimensioni sociali e ad una società
programmata sono in atto e in conflitto «le due strategie concettuali contraddistinte da «sistema» e
«mondo vitale».» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 748)
«Sistemica è l’integrazione ottenuta da imperativi di funzionamento e controllo sottratti al
coordinamento dei soggetti» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Introduzione
G.E.Rusconi, 26) La prospettiva sistema nasce dal presupposto e dalla finzione della possibilità di
uno sguardo esterno sul sociale in modo che esso possa essere definito nei suoi confini e costruito
in modo trasparente nei suoi nessi simbolici e nelle sue normative; la prospettiva mondo vitale
guarda il sociale dall’interno e vede le sue manifestazioni come differenziazioni di secondo grado
del mondo vitale e queste sono appunto cultura, società, persona; ma le priva di una propria
autonomia strutturante o strutturale. Occorre cogliere invece la relazione e l’intrinseco rimando
delle due prospettive e strategie, sistema e mondo vitale, per cogliere la natura e l’evoluzione del
reale sociale, la sua stabilità (esigenza di stabilità o stabilizzazione) e mutamento (esigenza di
cambiamento). «La formula secondo cui le società costituiscono nessi di azione stabilizzati
sistemicamente di gruppi integrati socialmente, necessita certo di essere spiegata più puntualmente.
Innanzitutto essa sta ad indicare la proposta euristica di considerare la società come un’entità che si
differenzia nel corso dell’evoluzione sia come sistema sia come mondo vitale. L’evoluzione
sistemica si commisura all’aumento della capacità di controllo di una società, mentre la
divaricazione tra cultura, società e personalità indica lo stato di evoluzione di un mondo vitale
strutturato simbolicamente.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 748)
Quindi vi è una corrispondenza tra “le due strategie concettuali contraddistinte da «sistema» e
«mondo vitale»” e i due imprescindibili tratti sociali: controllo e evoluzione: “capacità di controllo
di una società” e “evoluzione di un mondo vitale strutturato simbolicamente”. «Concepisco
l’evoluzione sociale come un processo di differenziazione di secondo grado: sistema e mondo vitale
si differenziano, a mano a mano che cresce la complessità dell’uno e la razionalità dell’altro, non
soltanto rispettivamente come sistema e come mondo vitale — entrambi si differenziano nel
contempo l’uno dall'altro.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 749) Ma la visione
generale della dinamica sociale in atto nelle società contemporanee, lette a partire dai due concetti
strategici di sistema e mondo vitale, era già indicata con chiarezza da Habermas: «… proporrò
perciò di concepire la società nello stesso tempo come sistema e come mondo vitale.» (Habermas
1981, Teoria dell’agire comunicativo,706)
2.4.3.2. Il cammino della razionalizzazione reificante e la relazione tra mondo vitale e sistema che
offre (può offrire, si presta ad offrire, può essere usata strumentalmente per offrire…) il varco ai
processi sociali di reificazione del mondo vitale. Habermas affronta, in particolare, il problema nel
paragrafo intitolato Limiti della sociologia comprendente che identifica mondo vitale con società.
«Una «sociologia comprendente», che assume la società sotto il mondo vitale, si lega alla
prospettiva dell’auto-interpretazione della cultura di volta in volta studiata. Questa prospettiva
interna cancella tutto ciò che influisce dall’esterno su un mondo vitale socio-culturale. […]
Esso conferisce a tutto ciò che accade nella società la trasparenza di ciò su cui si può parlare —
anche se non lo si capisce (ancora). Se concepiamo in tal modo la società come mondo vitale, la
assumiamo in tre finzioni: a) l'autonomia degli agenti, b) l'indipendenza della cultura e c) la
trasparenza della comunicazione.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 744)
Di contro: ad a: «Gli attori non hanno mai completamente sotto controllo la propria situazione di
azione.»; ad b: «La forza imperativa della cultura si fonda sulla convinzione degli attori che
utilizzano, sperimentano e portano avanti gli schemi interpretativi, valutativi ed espressivi
tramandati.»; ad c: «… i partecipanti alla comunicazione si incontrano in un orizzonte di illimitate
possibilità di comprensione e intesa.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo,745).
2.4.3.3. In sintesi conclusiva le due situazioni. La radice della possibilità della ragione comunicativa
di sottrarsi a una razionalizzazione reificante è da collocare nella non coincidenza tra mondo vitale
19
e mondo sociale sistematicamente concepito; in tal modo il sistema sociale che per procedere ha
urgenze di sistematicità non soffoca totalitaristicamente quel mondo vitale da cui trae la propria
spinta simbolica culturale sociale e personale. Viceversa, la crisi della razionalità comunicativa
volta all’intesa mira a quella coincidenza portando il mondo vitale alle forme della ragione di
sistema e riducendolo a sua obbligata e normalizzata espressione. Questa strategia di reificazione
della ragione comunicativa può realizzarsi in quanto può far leva sui livelli di connessione e di
scambio che vi sono tra mondo vitale e sistema (nella realtà e, quindi, tra due strategie). Il mondo
vitale è infatti a fondamento dei processi di formalizzazione e di simbolizzazione che caratterizzano
i tre mondi della cultura, della società e della persone, ma queste formalizzazioni di fatto e
storicamente incidono sul mondo vitale nella forma di lascito e materiale in consegna contribuendo
alla sua evoluzione e anche però, nella strategia di sistema e di ragione strumentale, al suo assopito
ottundimento monocorde, base per la costruzione di sistemi totalitari. Il tema si impone e viene
ripreso nella studio sulla presenza e sui ruoli della ragione strumentale e della ragione
comunicativa, del sistema e del mondo vitale nella comunicazione sociale sostenuta e resa possibile
dagli attuali mezzi di comunicazione sociale: i mass media. Media dei quali Habermas mette in luce
l’intrinseca ambivalenza. (cfr. 2.5.)
In progetto: «Vorrei esplicitare il concetto di mondo vitale riprendendo il filo delle nostre
considerazioni di teoria della comunicazione. Non è mia intenzione sviluppare oltre l’indagine
pragmatico—formale dell'agire comunicativo, ma piuttosto fondarmi su tale concetto cosi come è
stato sin qui analizzato, e approfondire la questione di come il mondo vitale in quanto orizzonte, nel
quale si muovono «già sempre» gli agenti comunicativi, venga dal canto suo limitato e modificato
dal mutamento strutturale della società.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 704705)
2.4.4. Meno drammaticamente di quanto sostenga la Teoria critica della società, e in particolare
Adorno, la razionalizzazione in termini di reificazione non è, per Habermas, un processo
fatalisticamente totalizzante destinato a imporre senza via di uscita regimi totalitari. Non viene
annullata l’ambivalenza del potenziale del mondo della vita e conseguentemente dei media
linguistici, strumentali e di intesa, che si pone alla radice delle sue espressioni formali nella cultura,
nella società, nella persona; anzi l’ambivalenza è un concetto chiave per comprendere il mondo
vitale, la simbolizzazione linguistica comunicativa e il mondo contemporaneo. Habermas mostra
come questa ambivalenza caratterizza la comunicazione affidata ai media contemporanei del
comunicare considerati nel loro aspetto concreto tecnico e culturale. Qui l’intreccio degli strumenti
forniti dall’analisi di Habermas diventa la strategia per comprendere il groviglio della
comunicazione contemporanea e delle conseguenti relazioni sociali. Un ambivalenza che guida al
progetto della teoria di Habermas che invita a concepire la società contemporanea come posta
all’intreccio di due paradigmi: 1. come sistema, come insieme sistemico e funzionalistico che fa
leva su ragioni strumentali per esigenze riproduttive di autoconservazione; 2. come mondo vitale,
serbatoio infinito di possibilità comunicative che sorregge le capacità di intesa e di costruzione di
cultura, società, personalità.
2.4.4.1. In questa direzione emerge la logica generale che sorregge l’intera riflessione di Habermas:
uscire da impostazioni dualistiche, di rinnovato manicheismo, che additano come principi opposti la
ragione comunicativa e la ragione strumentale.
2.4.5. In ripresa e in sintesi sulla razionalizzazione come reificazione ( oggetto di presentazione nel
Cap. IV: Da Lukács ad Adorno: razionalizzazione come reificazione)
I tre passaggi: 1. Il tema è in Lukács, secondo cui il processo di reificazione risulta immanente a
procedimento stesso della razionalità formale e capitalistica. 2. la Scuola di Francoforte stacca il
concetto di reificazione dalla determinazione storica capitalistica: essa è tipica della logica di
dominio, ma ciò accade per lo più a livello di coscienza. 3. Per Habermas: occorre spiegare in che
cosa consiste la strumentalizzazione delle relazioni sociali a partire dalla prospettiva dei nessi vitali
violentati e deformati; occorre cioè non indagare la disposizione cognitiva e pratica a partire dai
suoi effetti sulla natura oggettivata, ma indagare le condizioni della intersoggettività comunicativa o
20
l’azione, l’incidenza dei procedimenti di razionalizzazione e reificazione e la loro forza
manipolativa nei processi comunicativi. «…la critica alla razionalità strumentale è sostenibile solo
dalla prospettiva affermativa della razionalità comunicativa. Ciò che conta indagare non è la
disposizione cognitiva e pratica sulla natura oggettivata, ma le condizioni dell'intersoggettività
comunicativa. La ragione comunicativa, infatti, non si lascia sussumere come quella strumentale
senza resistenza sotto l’accecamento dell’autoconservazione. La reificazione va reinterpretata
dunque come l’irruzione della logica funzionalista di autoconservazione del sistema negli ambiti
propri della razionalità comunicativa, che purtuttavia mantiene una sua ostinata capacità di
resistenza.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian Enrico Rusconi, Introduzione,
21)
Perciò: per un verso, gli ambiti propri della razionalità comunicativa sono vittima di una
razionalizzazione reificante se sono pienamente occupati da una logica e da una comunicazione
oggettiva, funzionalistica, predisposta e preordinata… ai fini di una conferma e riproposizione
razionalizzata del sistema; qui il nostro parlare è ripetere e riproporre, in forma apparentemente
dialogica e comunicativa, le forme e gli esisti della ragione strumentale; qui la ragione strumentale
si manifesta nella parvenza delle forme comunicative volte all’intesa proprio mentre mette in atto il
processo di negazione della comunicazione.
Per un altro verso, tuttavia, Habermas afferma come l’intenzione comunicativa mantenga
ciononostante «una sua capacità di resistenza»; e proprio da questa può nascere un cammino
plurimo sempre nuovo: una teoria critica delle forme del comunicare, un progetto di recupero della
ragione comunicativa non reificata, un ritorno alla Lebenswelt e le ipotesi di un’etica del discorso.
E si tratta di un processo pratico sociale: «L’insistenza sui processi razionali di intesa non deve far
dimenticare che non si tratta di processi di coscienza. La razionalità comunicativa è un medium
attraverso il quale si compie la riproduzione sociale, l’integrazione, la socializzazione – in una
parola la riproduzione del mondo vitale.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, Gian
Enrico Rusconi, Introduzione, 22)
2.5. l’ambivalenza della società contemporanea a partire dall’ambivalenza dei media della
comunicazione. O il doppio volto dell’età contemporanea.
Fin dalle analisi storiche e sociologiche in cui Habermas ricostruisce il cammini del formarsi sociale
e politico della opinione pubblica (nell’opera Habermas Jürgen 1962, 1990 Storia e critica
dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011), Habermas sottolinea il tema della ambivalenza
dei media nella formazione della pubblica opinione, soprattutto nel momento in cui, nella società
borghese, la cultura diventa merce destinata e capace di contare su di un largo consumo. In tale
contesto e per tale destino la cultura si caratterizza per tratti specifici in relazione agli effetti
programmati e provocati. «A misura che la cultura si trasforma in merce non solo secondo la forma,
ma anche secondo il contenuto, lascia cadere alcuni elementi, la cui ricezione presuppone un certo
apprendistato, grazie al quale l'appropriazione «consapevole» accresce a sua volta la
consapevolezza. Non già la standardizzazione come tale, ma quel particolare precondizionamento
dei prodotti che conferisce loro piena fruibilità, cioè la garanzia di poter essere recepiti senza
rigorose premesse e, ovviamente, senza tracce durevoli, pone la commercializzazione dei beni
culturali in un rapporto inverso rispetto alla loro complessità. Il contatto con la cultura affina,
mentre il consumo della cultura di massa non lascia alcuna traccia: il tipo di esperienza che ne
risulta è regressivo, non cumulativo.» (Habermas 1962 Storia e critica dell’opinione pubblica, 191);
e conclude sull’ambivalenza coinvolgimento / esclusione che i media sono in grado di determinare,
situazione che si forma fin dal primo formarsi storico di una pubblica opinione: «La medesima
situazione economica che spinge le masse a partecipare alla sfera pubblica politica, preclude loro
però anche lo standard culturale che potrebbe rendere possibile una loro partecipazione nei modi e
sul piano dei lettori di giornale borghesi.» (Habermas 1962 Storia e critica dell’opinione
pubblica,193) Nel tempo l’analisi si affina.
21
2.5.1. Una “tradizionale” visione drammatizzata e di denuncia critica etico-politica, in un quadro di
ricerche molto articolato. «L’attività dell’Istituto per la ricerca sociale fino all’inizio degli anni ’40
— quando si sciolse il gruppo dei collaboratori a New York — è stata essenzialmente dominata da
sei temi. Questi interessi della ricerca si rispecchiano negli articoli, che danno l’impronta teorica
nella parte principale della «Rivista per la ricerca sociale». Si tratta a) delle forme di integrazione
delle società post-liberali [lo Stato autoritario], b) della socializzazione familiare e dell’evoluzione
dell’io, c) dei mass media e della cultura di massa, d) della socio-psicologia della paralisi della
protesta, e) della teoria dell'arte e f) della critica al positivismo e alla scienza.» (Habermas 1981,
Teoria dell’agire comunicativo,1052)
Dalle analisi sociali della Scuola di Francoforte emerge una visione preoccupata della
contemporaneità; in essa i processi di reificazione dei rapporti sociali e delle forme di intesa (ad
opera soprattutto di una industria culturale che tende a massificare ogni espressione individuale)
annullano ogni possibile dissenso e protesta. Gli stessi mondi dell’emarginazione e dell’espressione
artistica informale, più che presentarsi come potenziali di liberazione dai sistemi oppressivi e
totalizzanti, sembrano residui ancora per poco immuni da un processo di generale programmazione
e soffocamento. Le ricerche della Scuola di Francoforte configurano quindi una situazione sociale
di progressiva sottrazione all’uomo delle capacità di definire la cultura, la società e la persona fuori
da programmazioni preordinate e strumentali. Particolarmente critica è la situazione dall’analisi dei
processi comunicativi che caratterizzano la società di massa.
«Mass media e cultura di massa. La teoria dell’agire comunicativo, con la distinzione fra sistema e
mondo vitale, fa valere la legalità autonoma dell'interazione socializzatrice. Ora con la distinzione
fra due tipi contrapposti di media di comunicazione, essa rende sensibili anche al potenziale
ambivalente della comunicazione di massa. Essa è scettica di fronte alla tesi che nelle società postliberali la sfera pubblica è liquidata. Secondo le concezioni di Horkheimer e di Adorno i flussi di
comunicazione guidati attraverso i mass media subentrano al posto di quelle strutture di
comunicazione che avevano reso possibili un tempo la discussione pubblica e l'autocomprensione di
un pubblico di cittadini e di privati. I media elettronici spostati dalla scrittura all’immagine e al
suono, anzitutto al cinema e alla radio, successivamente alla televisione, si configurano come un
apparato che compenetra e domina completamente il linguaggio quotidiano comunicativo. Esso
trasforma i contenuti autentici della cultura moderna in stereotipi, asettici e ideologicamente
operanti di una cultura massificata che si limita a raddoppiare l’esistente. Consuma la cultura
depurata da tutti i momenti sovversivi e trascendenti a favore di un più ampio sistema di controllo
sociale imposto agli individui che in parte rafforza, in parte sostituisce gli indeboliti controlli
comportamentali interni. Il modo di funzionamento dell'industria culturale deve rapportarsi
specularmente al modo di funzionamento dell’apparato psichico che, finché funzionava ancora
l’interiorizzazione dell’autorità paterna, aveva sottomesso la natura pulsionale al controllo del
super-io cosi come la tecnica aveva sottomesso la natura esterna al proprio dominio.» (Habermas
1981, Teoria dell’agire comunicativo, 1068)
2.5.2. La lettura di Habermas. Le analisi di Habermas giungono a tratteggiare un quadro più
complesso delle potenzialità caratteristiche dell'età· contemporanea. Sul fondamento del mondo
della vita e dal punto di vista di una teoria della ragione comunicativa, i processi che definiscono
l’età contemporanea vengono da Habermas restituiti alla loro reale complessità e riscoperti non solo
come fonte di processi di indebolimento e negazione delle possibilità comunicative proprie della
società, ma anche come processi di esaltazione e amplificazione delle capacità espressive
dell'uomo. Habermas invita a non subire la seduzione dell'utopia individualistico-liberale che
alimenta le visioni tragiche della modernità; egli tende a mettere in luce la inscindibile ambivalenza
sia della cultura industrializzata di cui sottolinea il «potenziale autoritario», ma anche il «potenziale
emancipativo» (le «sfere pubbliche dei media gerarchizzano e al tempo stesso dischiudono
l’orizzonte di comunicazioni possibili»), sia dei processi di socializzazione e di identificazione
personale in atto nella realtà contemporanea. Se non si considera la società solo come un sistema,
definito da una logica uniforme in grado di controllare e sottomettere l’intero mondo delle
22
possibilità culturali, sociali e individuali, ma anche come luogo naturale di una imprevedibile e
insopprimibile espressione del mondo della vita, serbatoio aperto di possibilità culturali, sociali e
personali, allora è possibile evidenziare come gli imperativi volti a riprodurre il sistema si scontrano
con «irriducibili strutture comunicative».
Esplicito il dissenso di Habermas nei confronti delle diagnosi unilaterali espresse da autori guida
della Scuola di Francoforte: «Contro questa teoria non possono soltanto essere sollevate le riserve
empiriche che si possono sempre mettere in campo contro ipersemplificazioni stilizzanti. Questa
teoria, infatti, procede in modo astorico e non prende in considerazione il mutamento strutturale
della sfera pubblica borghese; non è abbastanza complessa per tener conto delle accentuate
differenziazioni nazionali, a cominciare dalle diversità della struttura organizzativa privata, di
diritto pubblico e statale degli enti di trasmissione sino alle diversità dell’impostazione dei
programmi, delle abitudini di ricezione, della cultura politica ecc. Più grave risulta l'obiezione di
principio che scaturisce dal dualismo dei media analizzato sopra. Ho distinto due specie di media
che possono alleggerire il rischioso e dispendioso meccanismo di coordinamento della
comprensione e intesa. Da un lato media di controllo con i quali i sottosistemi sono differenziati dal
mondo vitale, dall’altro lato forme generalizzate della comunicazione che non sostituiscono, ma
semplicemente condensano la comprensione linguistica e quindi restano legate a contesti di mondo
vitale. I media di controllo sganciano in generale il coordinamento delle azioni dalla formazione
linguistica del consenso e la neutralizzano rispetto all'alternativa fra intesa o comprensione fallita.
Nell’altro caso invece si tratta di una specializzazione di processi di formazione linguistica del
consenso che restano dipendenti dall’intervento sulle risorse di uno sfondo di mondo vitale. I mass
media appartengono a queste forme generalizzate di comunicazione. Essi staccano i processi di
comunicazione dal provincialismo di contesti limitati in senso spazio-temporale e fanno sorgere
sfere pubbliche, in quanto istituiscono la contemporaneità astratta di una rete virtualmente sempre
presente di contenuti comunicativi molto distanti spazio-temporalmente e mantengono disponibili
messaggi per contesti moltiplicati.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 1068-1069)
2.5.2.1. Compare qui il concetto di «sfera pubblica» oggetto di «una voce di enciclopedia» scritta da
Habermas nel 1964: «Per sfera pubblica s’intende anzitutto l’ambito della nostra vita sociale in cui
si può formare quella che viene chiamata opinione pubblica. L’accesso ad essa è fondamentalmente
aperto a tutti i cittadini. Un po’ di sfera pubblica si costituisce in ogni conversazione in cui dei
privati si riuniscono per formare un pubblico. In tale occasione essi non si comportano né come
uomini d’affari o lavoratori che trattano le loro cose private né come cittadini sottoposti all’obbligo
dell’ubbidienza e alle norme giuridiche della burocrazia statale. I cittadini agiscono come un
pubblico quando, non sottoposti ad alcuna costrizione, cioè con la garanzia di potersi incontrare e
associare liberamente, di poter esprimere e pubblicare liberamente le loro opinioni, discutono
problemi di comune interesse. Quando si tratta di un ampio pubblico questa comunicazione ha
bisogno di determinati mezzi di trasmissione e di influenza; oggi i media della sfera pubblica sono i
giornali e le riviste, la radio e la televisione. Parliamo di sfera pubblica politica, distinguendola per
esempio da quella letteraria, quando le discussioni pubbliche riguardano argomenti collegati alla
prassi dello Stato.» (Habermas Jürgen 1973 Cultura e società, Riflessioni sul concetto di
partecipazione politica e altri saggi, Einaudi, Torino 1980, 53)
Il tema della sfera pubblica è ripreso anche in Fatti e norme: la sfera pubblica, la sua definizione, il
luogo del suo formarsi, le modalità, il legame con l’agire comunicativo e in generale con il discorso,
il rapporto con il mondo di vita (o mondo della vita) e il suo legame con la democrazia come sua
costruzione, fondamento, emanazione e garanzia. «A questa funzione di opinione pubblica sono
collegati anche obblighi di pubblicità, come la pubblicità obbligatoria dei processi. Alla sfera
pubblica intesa come sfera mediatrice fra la società e lo Stato in cui il pubblico si configura come
portatore dell’opinione pubblica, corrisponde il principio della pubblicità — quella pubblicità che in
passato dovette essere conquistata contro la politica segreta dei monarchi, e da allora consente un
controllo democratico dell’attività statale.» (Habermas 1973 Cultura e società, 54)
23
«… la sfera pubblica è un sistema di allarme dotato di sensori non specializzati, ma diffusi in tutto il
corpo sociale. […] La scarsa capacità della sfera pubblica di risolvere i problemi nel suo stesso
ambito dev’essere quindi utilizzata per controllare la loro successiva trattazione nell’ambito del
sistema politico.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 426-427)
2.5.2.1.1. Un problema linguistico e di traduzione: «Come notò a suo tempo il curatore
dell’edizione italiana di Strukturwandel il termine «Öffentlichkeit» crea notevoli difficoltà di
traduzione perché non può essere reso adeguatamente con un’espressione corrispondente già
presente nel lessico italiano, in cui, ad esempio, il termine «pubblicità» non ne coglierebbe il vero
significato. La Öffentlichkeit, che tradurremmo con ‘sfera pubblica’ è infatti una Verkehrsform,
cioè una particolare forma di rapporto sociale caratterizzata da una discussione in linea di principio
aperta a tutti i cittadini che intendano esprimere liberamente le proprie opinioni etiche, religiose e
politiche, criticando eventualmente l’opera del potere statale.» (così Nicola Paoli in postfazione a
Habermas Cultura e società, 281-282); e il traduttore dell’opera Strukturwandel (Storia e critica
dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011) rende il senso della parola Öffentlichkeit con le
espressioni: ciò che costituisce il fatto pubblico, sfera o dimensione pubblica, elemento o carattere
pubblico.
2.5.3. Dunque, nell’ambivalenza, il potenziale liberatorio reso possibile dai contemporanei mass
media e dalla vasta rete universale o mondiale (world wide web) che essi creano. A condizioni
d’uso e per il suo connettersi con la prassi di un agire comunicativo volto all’intesa.
«Queste sfere pubbliche dei media gerarchizzano e al tempo, stesso dischiudono l’orizzonte di
comunicazioni possibili. Un aspetto non può essere separato dall’altro — e qui è fondato il loro
potenziale ambivalente. I mass media, nella misura in cui canalizzano unilateralmente flussi di
comunicazione in una rete centralizzata, dal centro alla periferia o dall’alto verso il basso, possono
rafforzare notevolmente l’efficacia dei controlli sociali. Lo sfruttamento di questo potenziale
autoritario resta però sempre precario, poiché nelle stesse strutture comunicative è incorporato il
contrappeso di un potenziale emancipativo. I mass media possono al tempo stesso graduare,
accelerare e condensare i processi di intesa, ma soltanto in prima istanza possono scaricare le
interazioni dalle prese di posizione sì/no su pretese di validità criticabili; neppure le comunicazioni
astratte e affastellate possono essere protette in modo efficace contro le possibilità di obiezioni da
parte di attori imputabili. La ricerca sulla comunicazione, purché non sia ridotta empiristicamente
ma sia attenta alle dimensioni della reificazione della prassi comunicativa quotidiana, conferma
questa ambivalenza. La ricerca sulla ricezione e l’analisi dei programmi offre, è vero, sempre nuovi
esempi di quella critica della cultura che specialmente Adorno ha elaborato con una certa intensità
persino eccessiva. Ma nel frattempo sono state enucleate con altrettanta energia le contraddizioni
risultanti dal fatto
— che gli enti di trasmissione sono esposti a interessi concorrenti e non possono affatto integrare
senza soluzione di continuità punti di vista economici, politico-ideologici, professionali e di estetica
mediale;
— che i mass media non possono normalmente sottrarsi senza conflitti agli obblighi derivanti loro
dal compito giornalistico;
— che le trasmissioni non corrispondono affatto soltanto o anche solo prevalentemente agli
standard della cultura di massa e, persino quando assumono le forme banali dell’intrattenimento
popolare, possono benissimo contenere messaggi critici — popular culture as popular revenge;
— che messaggi ideologici mancano il loro destinatario, poiché il significato, inteso in condizioni di
ricezione di un determinato sfondo sub-culturale, è capovolto nel suo contrario;
— che l’ostinata autonomia della prassi comunicativa quotidiana si difende contro un diretto
intervento manipolatorio dei mass media e
— che lo sviluppo tecnico dei media elettronici non si svolge necessariamente nella direzione di
una centralizzazione delle reti, anche se per ora video-pluralism e television democracy non sono
molto di più che visioni libertarie.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 1069-1071)
24
Habermas torna sul tema nel 1992: «L’unica cosa sicura è che le ricerche empiriche sugli effetti e
sulla ricezione dei media hanno definitivamente falsificato l'immagine d’un consumatore passivo,
eterodiretto, «culturalmente drogato». Oggi esse s'indirizzano piuttosto sulle strategie interpretative
con cui gli spettatori, quando possono comunicare tra loro, sono anche capaci di reagire a ciò che
viene offerto, oppure di sintetizzarlo a partire da modelli loro propri di conoscenza.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 447)
2.6. Nuovi soggetti attivi nella consapevolezza e nelle finalità condivisa grazie all’agire
comunicativo (ad un’etica del discorso) (settori sociali attivi e la sub-politica)
La paralisi del conflitto di classe, considerato da Marx come una caratteristica del sistema
capitalistico, non significa paralisi in assoluto dei potenziali di protesta; «essi non si scatenano più
in ambiti della riproduzione materiale — osserva Habermas — non sono più canalizzati attraverso
partiti e associazioni e non sono neppure componibili sotto forma di risarcimenti conformi al
sistema. I nuovi conflitti sorgono piuttosto in ambiti della riproduzione culturale, dell’integrazione
sociale e della socializzazione; si manifestano forme di protesta sub-istituzionali, in ogni caso
extraparlamentari». Habermas esemplifica la propria affermazione ricordando diversi «nuclei
organizzativi» come potenziali autonomi e disaggregati di protesta: movimento antinucleare ed
ecologico, movimento per la pace, movimento di iniziative civiche, movimento alternativo per
l'occupazione di case, per la costituzione di comuni agricole, difesa delle minoranze quali anziani,
omosessuali, handicappati, movimento di protesta fiscale, movimento delle donne.
Si tratta di potenziali di protesta estremamente eterogenei, di emancipazione ma anche di resistenza
e di rifiuto; essi, nella loro estrema mobilità, richiamano l’attenzione sulla irriducibilità del nucleo
vitale dell’agire comunicativo; tale irriducibilità costituisce con evidenza sempre maggiore, secondo
Habermas, il carattere specifico dell'età contemporanea. Nel proprio sviluppo «la stessa evoluzione
sociale deve far sorgere situazioni problematiche che aprono soggettivamente ai contemporanei un
accesso privilegiato alle strutture generali del loro mondo vitale». Il riproporsi di aggregazioni
sociali, libere dai contesti normativi massificati, sottolinea quindi «l’ostinata autonomia della prassi
comunicativa» e dei meccanismi di intesa contro i processi del suo soffocamento, evidenzia la
natura bivalente dei meccanismi di informatizzazione, segnala la circolarità positiva propria del
rapporto tra il mondo vitale e i tre livelli formalizzati del mondo: cultura, società, personalità.
Presentando il tema «Potenziali di protesta», Habermas osserva: «La tesi della colonizzazione del
mondo vitale, elaborata in collegamento con la tesi weberiana della razionalizzazione sociale,
poggia su una critica della ragione funzionalistica che coincide con una critica della ragione
strumentale soltanto nell'intenzione — e nell’uso ironico dell’espressione «ragione». Una
considerevole differenza consiste nel fatto che la teoria dell'agire comunicativo concepisce il mondo
vitale come una sfera nella quale i processi di reificazione non si manifestano come meri riflessi —
come fenomeni di un’integrazione repressiva che procede dall’economia oligopolitistica e
dall’apparato statuale autoritario. Sotto questo aspetto la vecchia teoria critica ha soltanto ripetuto
gli errori del funzionalismo marxista. Gli accenni alla rilevanza socializzatrice della disgiunzione
tra sistema e mondo vitale e le osservazioni sul potenziale ambivalente dei mass media e della
cultura massificata mostrano sfera privata e sfera pubblica alla luce di un mondo vitale
razionalizzato, nel quale gli imperativi sistemici si scontrano con strutture comunicative irriducibili.
La trasformazione dell'agire comunicativo in interazioni controllate da media e la deformazione di
strutture di un’intersoggettività ingannevole non sono affatto processi già decisi che si possono
ridurre in pochi concetti globali. L’analisi delle patologie del mondo vitale esige l’analisi imparziale
di tendenze e controtendenze. Il fatto che nelle democrazie di massa dello Stato sociale il conflitto
di classe, che ha connotato le società capitalistiche nella fase del loro dispiegamento, sia stato
istituzionalizzato e quindi bloccato, non significa la paralisi di potenziali di protesta in generale.
Questi ultimi sorgono ora su altre linee conflittuali — e là ove sono prevedibili, se è giusta la tesi
della colonizzazione del mondo vitale. Nelle società evolute dell'Occidente si sono sviluppati negli
ultimi due decenni conflitti che sotto più profili divergono dal modello del conflitto distributivo
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istituzionalizzato proprio dallo Stato sociale. Essi non si scatenano più in ambiti della riproduzione
materiale, non sono più canalizzati attraverso partiti e associazioni e non sono neppure componibili
sotto forma di risarcimenti conformi al sistema. I nuovi conflitti sorgono piuttosto in ambiti della
riproduzione culturale, dell'integrazione sociale e della socializzazione; si manifestano forme di
protesta sub-istituzionali, in ogni caso extraparlamentari. E nelle carenze che ne stanno alla base si
rispecchia una reificazione di ambiti di azione strutturati in modo comunicativo, che non è possibile
cogliere attraverso i media denaro e potere. Non si tratta primariamente di risarcimenti che lo Stato
sociale può concedere, ma di difesa e restituzione di modi di vita minacciati o dell'affermazione di
modi di vita riformati. In breve, i nuovi conflitti non si scatenano su problemi di distribuzione, ma
su questioni riguardanti la grammatica di forme di vita. Questo nuovo tipo di conflitti è espressione
di quella «rivoluzione silenziosa» che R. Inglehart ha constatato nel mutamento di valori e di
atteggiamenti di intere popolazioni. Ricerche di Hildebrand / Dalton / Barnes / Kaase confermano il
cambiamento tematico dalla «vecchia politica», che si riferisce a questioni di sicurezza economica e
sociale, interna e militare, a una «nuova politica». Nuovi sono i problemi della qualità della vita,
della parità di diritti, dell’autovalorizzazione individuale, della partecipazione e dei diritti umani.
Secondo indicatori di statistica sociale, la «vecchia politica» è rappresentata piuttosto da
imprenditori, operai e dal ceto medio professionale, mentre la nuova politica trova la maggiore
adesione nel nuovo ceto medio, nella giovane generazione e nei gruppi forniti di formazione
scolastica più qualificata. Questi fenomeni si accordano con la tesi della colonizzazione interna. Se
procediamo dal fatto che la crescita del complesso economico-amministrativo scatena nel mondo
vitale processi di erosione, ci si deve attendere una sovrapposizione dei nuovi conflitti a quelli
vecchi. Sorge una linea conflittuale tra il centro degli strati direttamente partecipanti al processo
produttivo, che hanno interesse a difendere la crescita capitalistica in quanto base del compromesso
dello Stato sociale, e una periferia estremamente eterogenea. Ne fanno parte quei gruppi che sono
maggiormente estranei al «nocciolo di prestazione produttivistica» di società capitalistiche
avanzate, che sono più accentuatamente sensibilizzati alle conseguenze autodistruttive della crescita
di complessità o ne sono più fortemente colpiti. I temi della critica alla crescita sono il legame
unificante tra questi gruppi eterogenei. Per questa protesta non forniscono un esempio né i
movimenti borghesi di emancipazione né le lotte del movimento operaio organizzato. Paralleli
storici si trovano piuttosto nei movimenti sociali romantici del protoindustrialismo, che furono
sostenuti da artigiani, plebei e operai, nei movimenti difensivi del ceto medio populista, nei tentativi
di rottura, alimentati dalla critica alla civilizzazione borghese, dei riformatori, ecc.
La classificazione degli attuali potenziali di protesta e rifiuto incontra grandi difficoltà, poiché
scenari, raggruppamenti e temi mutano rapidamente. Nella misura in cui si formano nuclei
organizzativi a livello partitico e associativo, i membri si reclutano dal medesimo serbatoio diffuso.
Nella Repubblica Federale Tedesca le seguenti voci servono attualmente ad identificare diverse
correnti: movimento antinucleare ed ecologico, movimento per la pace (con inclusione del tema:
conflitto Nord-Sud); movimento di iniziative civiche; movimento alternativo (che comprende gli
scenari metropolitani con occupanti di case e progetti alternativi come pure le comuni agricole);
minoranze (anziani, omosessuali, handicappati ecc.); lo scenario psicologico con gruppi di mutuo
soccorso e sétte giovanili; fondamentalismo religioso, movimento di protesta fiscale, protesta contro
la scuola da parte di associazioni di genitori, resistenza contro «riforme moderniste» e infine il
movimento delle donne. Internazionalmente rilevanti sono inoltre movimenti autonomistici che
lottano per l’indipendenza regionale, linguistica, culturale, anche per quella confessionale.
In questa gamma vorrei distinguere i potenziali di emancipazione da quelli di resistenza e di rifiuto.
Dopo il movimento americano per i diritti civili, che nel frattempo è sboccato nell’autoaffermazione
particolaristica di sub-culture nere, soltanto il movimento femminista è collocato nella tradizione
dei movimenti di liberazione borghesi-socialisti. La lotta contro la repressione patriarcale e per
l’adempimento di una promessa, che da lungo tempo è ancorata nei fondamenti universalistici
riconosciuti della morale e del diritto, conferisce al femminismo la forza propulsiva di un
movimento all'offensiva, mentre tutti gli altri movimenti hanno un carattere piuttosto difensivo. I
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movimenti di resistenza e di rifiuto sono diretti ad arginare ambiti di azione formalmente
organizzati a favore di quelli strutturati in modo comunicativo, non a conquistare territori nuovi.
Tuttavia un nocciolo particolaristico collega il femminismo con questi movimenti; l’emancipazione
delle donne non deve istituire soltanto equiparazione formale dei diritti, eliminare privilegi
maschili, ma sovvertire forme di vita concrete, coniate da monopoli maschili. Per il resto le donne,
dall’eredità storica della divisione sessuale del lavoro, cui erano sottomesse nella famiglia nucleare
borghese, derivano capacità di contestazione, di un registro di valori complementare al mondo
maschile, contrapposto alla prassi quotidiana unilateralmente razionalizzata.
All’interno dei movimenti di resistenza è ancora una volta possibile distinguere il mantenimento di
stati patrimoniali tradizionali e sociali da una difesa che opera già sul terreno del mondo vitale
razionalizzato e esperimenta forme nuove di cooperazione e di vita comune. Sulla base di questo
criterio la protesta dei vecchi ceti medi contro la minaccia dei vecchi quartieri da parte di grandi
progetti tecnici, la protesta dei genitori contro le scuole unificate, la protesta fiscale (secondo il
modello del movimento californiano a favore della proposizione 13), anche la maggior parte dei
movimenti autonomistici possono essere differenziati dai nuclei dei nuovi potenziali conflittuali: il
movimento giovanile e alternativo, per il quale una critica alla crescita articolata su temi relativi
all’ecologia e alla pace costituisce il fuoco comune. Vorrei dimostrare quantomeno sommariamente
che questi conflitti possono essere concepiti come resistenza contro tendenze a una colonizzazione
del mondo vitale.
Le finalità, gli atteggiamenti e i modi di agire diffusi nei gruppi di protesta giovanile possono essere
resi comprensibili anzitutto come reazioni a determinate problematiche, vissute con grande
sensibilità. Problemi «verdi» … Problemi di ipercomplessità… Sovraccarichi dell’infrastruttura
comunicativa… I nuovi conflitti sorgono quindi nei punti di sutura fra sistema e mondo vitale.»
(Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 1071-1076)
2.7. La circolarità virtuosa tra mondo vitale e agire comunicativo, contesto di una rinnovata e
contemporanea democrazia sociale, nelle tre dimensioni del mondo: cultura, società, persona.
Lo sviluppo del testo di Habermas segnala, sul tema dei “punti di sutura tra sistema e mondo
vitale”, una ricorrente circolarità produttiva: «l’agire ovvero la padronanza di situazioni si configura
come processo circolare nel quale l’attore è al tempo stesso entrambe le cose: l’iniziatore di azioni
imputabili e il prodotto di tradizioni nelle quali è collocato, il prodotto di gruppi solidali ai quali
appartiene, il prodotto di processi di socializzazione e di apprendimento ai quali è sottoposto»;
«Intendendosi fra di loro sulla propria situazione, i partecipanti all’interazione stanno in una
tradizione culturale che essi utilizzano e al tempo stesso rinnovano; coordinando le proprie azioni
attraverso il riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili, i partecipanti
all’interazione si basano su appartenenze ai gruppi sociali e ne rafforzano nel contempo
l’integrazione; prendendo parte ad interazioni con persone di riferimento che agiscono in modo
competente, i bambini interiorizzano gli orientamenti di valore del loro gruppo sociale ed
acquisiscono capacità generalizzate di azione. Sotto l’aspetto funzionale all'intendersi l'agire
comunicativo serve alla tradizione e al rinnovamento del sapere culturale; sotto l’aspetto del
coordinamento delle azioni esso serve all’integrazione sociale e alla produzione di solidarietà: sotto
l’aspetto della socializzazione l’agire comunicativo serve infine alla formazione di identità
personali. Le strutture simboliche del mondo vitale si riproducono attraverso la continuazione del
sapere valido, la stabilizzazione della solidarietà di gruppo e la formazione di attori imputabili. Il
processo di riproduzione collega situazioni nuove agli stati esistenti, e precisamente, nella
dimensione semantica dei significati e dei contenuti (della tradizione culturale) altrettanto come
nelle dimensioni dello spazio sociale (di gruppi socialmente integrati) e del tempo storico (delle
generazioni in successione). A questi processi della riproduzione culturale, dell'integrazione sociale
e della socializzazione corrispondono, quali componenti strutturali del mondo vitale, la cultura, la
società e la persona». (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 730)
27
2.7.1. Dunque le tre dimensioni del mondo vitale e le loro formalizzazioni tematiche, collocate
all’interno della prassi comunicativa, «non diventano efficaci soltanto come restrizioni; esse
servono anche da risorse», così come, in particolare ricorda Habermas, i media della comunicazione
di massa «costituiscono amplificatori tecnici della comunicazione linguistica, superano le distanze
spazio-temporali e moltiplicano le possibilità di comunicazione, infittiscono la rete dell’agire
comunicativo, senza però sganciare gli orientamenti di azione dai contesti del mondo vitale in
generale». A partire dal concetto complesso di mondo vitale Habermas affronta dunque la doppia
situazione della società contemporanea: quella in cui il mondo vitale si presenta «come contesto
costitutivo dell’orizzonte dei processi di comprensione e di comunicazione», ma non viene
tematizzato e non è quindi oggetto di analisi teorica (il concetto di quotidianità del mondo vitale);
quella invece in cui il concetto di mondo vitale, intuitivamente e immediatamente disponibile,
diventa oggetto di uno studio teoretico che ne spieghi i processi di riproduzione e il ruolo di
fondamento pragmatico-trascendentale. Solo quest’ultima prospettiva, in grado di impostare con
coerenza fin dal proprio fondamento (il mondo vitale) la teoria dell’agire comunicativo e le scienze
sociali, consente di cogliere l’ambivalente capacità dell’età contemporanea di precludere e di
promuovere i processi di comunicazione: ogni atto linguistico e comunicativo se, da una parte,
creando l'intesa su qualcosa, contribuisce alla riproduzione sistematica dell'ordine ufficiale di una
società, dall’altra, negli stessi processi, consolida forme generalizzate e varie di comunicazione,
base per l’ampliarsi degli atteggiamenti di intesa e mezzo per attivare l’opposizione nei confronti di
sistemi oppressivi e totalizzanti.
L’opera di Habermas chiude (sembra) in senso di speranza positiva l’analisi del potenziale
ambivalente dei mass media: « Ora la teoria della modernità, che ho delineato a tratti molto
approssimativi, lascia pur sempre riconoscere gli aspetti seguenti. Nelle società moderne i margini
di contingenza per le interazioni liberate da contesti normativi si allargano al punto che «diventa
praticamente vera» l’ostinatezza dell'agire comunicativo, sia nelle forme relazionali deistituzionalizzate della sfera familiare privata sia nella sfera pubblica plasmata dai mass media. Nel
contempo gli imperativi di sottosistemi autonomizzati penetrano nel mondo vitale e, mediante la
monetarizzazione e la burocratizzazione, impongono un’assimilazione dell’agire comunicativo ad
ambiti di azione formalmente organizzati, anche là ove il meccanismo di coordinamento delle
azioni costituito dalla comprensione e dall’intesa è funzionalmente necessario. Forse questa
minaccia provocatoria, questa sfida che pone in discussione nell’insieme le strutture simboliche del
mondo vitale, può rendere plausibile perché esse ci sono diventate accessibili.» (Habermas 1981,
Teoria dell’agire comunicativo, 1088)
3. il diritto democratico terreno di garanzia dell’incontro sociale civile
La riflessione e ripresa è rivolta soprattutto all’opera Habermas Jürgen, 1992 Fatti e norme.
Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano 1996,
il cui obiettivo sembra ben contenuto, come lontano e pensato progetto, in una espressione di
Habermas del 1961: «un’analisi strutturale delle connessioni della totalità sociale.» (Habermas
Jürgen 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011, XLVI)
Una premessa e in prefazione all’opera e alla teoria costruita in Fatti e norme o, più in generale, il
contesto del pensiero e della teorizzazione di Habermas, l’osservazione espressa fin dall’opera del
1967. «Le norme che determinano l’azione sono delle aspettative collettive di comportamento.
Queste aspettative sono per l’agire istituzionalizzato una parte rilevante della tradizione culturale. E
questa è una connessione di simboli che stabilisce coi mezzi del linguaggio ordinario la concezione
del mondo di un gruppo sociale e con ciò il quadro per le comunicazioni possibili in questo gruppo.
Quindi l’agire sociale è dato soltanto in rapporto al sistema di modelli culturali trasmessi in cui si
articola l’autocomprensione dei gruppi sociali.» (Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze
sociali, il Mulino, Bologna 1970, 86)
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Contro il diritto formale costruito deduttivamente o a partire da astratti principi universali, o a
partire da presunti stati naturali, tutti peraltro caratterizzati dal far esistere già in natura, quindi
prima della società e del diritto, soggetti giuridici capaci di contratto e quindi già ben definiti
formalmente in senso giuridico nel momento in cui sono invece chiamati a dar vita al diritto… si fa
riferimento alle situazioni sociali e alla loro non formalizzata complessità; ciò sia per un approccio
empirico, sia nella consapevolezza dell’impossibilità di tradurre in termini formali definitivi il
vivere sociale e, in esso e a suo fondamento, il mondo della vita. Quindi il cambiamento: se le teorie
antiche e moderne si avvicinano al tema politico costruendolo architettonicamente a partire da
principi o obiettivi ideali, le teorie contemporanee lo definiscono a partire dalle competenze
obiettive e determinate delle istituzioni politiche. Queste, a loro volta, non possono trovare né
definizione né legittimità se non facendo riferimento alle radici che costituiscono il vivere sociale.
Radici che non possono essere messe in luce da una mera descrizione della fattualità empirica del
sociale (una simile descrizione si riduce infatti a diventare elemento di conferma e conservazione
delle relazioni sociali consolidate e organizzate in sistemi), ma vanno colte nella prassi di
fondamento della umanità nella propria socialità: un agire comunicativo volto all’intesa fondato nel
mondo vitale e attuato attraverso il medium linguistico nelle varietà delle forme storiche, materiali
e formali, che esso è in grado di assumere.
«… con la teoria dell'agire comunicativo, io ho scelto una via diversa: al posto della ragion pratica
subentra la ragione comunicativa. E non si tratta solo di un cambio d'etichetta. […] un concetto di
ragione trasferito nel medium linguistico e sgravato da questo legame esclusivo con la morale
avrebbe un ruolo diverso nella formazione della teoria […] È piuttosto il medium linguistico,
attraverso cui s'intrecciano interazioni e si strutturano forme di vita, a rendere possibile la ragione
comunicativa. Questa razionalità è inscritta nel telos linguistico dell’intesa, formando un complesso
di condizioni possibilitanti e limitanti insieme.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 11) Il metodo che
allora si impone è quello di una pragmatica fenomenologia trascendentale.
Sullo sfondo resta il necessario legame ma anche l’insopprimibile irriducibilità delle norme ai fatti;
una trascendentalità delle norme che Habermas illustrava con riferimento alle posizioni filosofiche
espresse da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus: «Alla fine del trattato si trova una
singolare considerazione, che illustra daccapo questa idea. Le proposizioni che trascendono i fatti
possibili non sono ammesse: «Né, quindi, vi possono essere proposizioni (sensate) dell’etica. Le
proposizioni non possono esprimere nulla di più alto.» (Tractatus 6.42). Le proposizioni etiche
hanno un significato normativo; tali norme non corrispondono nel mondo a nessun fatto. I postulati
si rivolgono alla volontà di soggetti agenti; questi però non hanno il carattere dell’intramondano. Le
proposizioni etiche possono tutt’al più caratterizzare un mondo globalmente. Se esistesse un’etica,
questa sarebbe trascendentale». (Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino,
Bologna 1970, 191)
Quindi due passaggi: 1) Non sistema deduttivo, ma democrazia del consenso e della ragione sulla
base di un agire comunicativo volto all’intesa. «Habermas si schiera con risolutezza sul fronte della
«deliberative democracy», ossia con la corrente teorica che sostiene la natura razionale (e non
meramente negoziale) del processo democratico. La partecipazione politica dei cittadini non
esprime semplicemente l'arbitrarietà contingente d’uno scontro d’interessi e d’una aggregazione di
preferenze, ma quel razionale processo di autotematizzazione e autotrasformazione sociale che,
sviluppando il sistema dei diritti, è anche capace di realizzare la libertà e l’eguaglianza dei
consociati.» (Habermas 1992 Fatti e norme, Avvertenza del traduttore Leonardo Ceppa, XII). 2) Il
metodo è pragmatico e trascendentale ad un tempo perché si muove tra empiria e idealità, tra fatti e
norme. «Habermas – ai diversi livelli della sua ricostruzione – intende legare tra loro il piano dei
fatti alle pretese della ragione, la forza delle cose alla richiesta di legittimità. (Habermas 1992 Fatti
e norme, Avvertenza del traduttore Leonardo Ceppa, XI)
È necessario portare a chiarezza il contesto di fondazione, i concetti di lettura, il metodo
dell’indagine e quindi le direzioni di un processo politico costituente.
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3.1. Il contesto di fondazione dell’agire politico sociale democratico «Fondazione discorsiva dei
diritti fondamentali: principio di discorso, forma giuridica e principio democratico.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 143) « Il diritto non è quindi solo costitutivo d’un codice-potere controllante i
processi amministrativi. Esso rappresenta anche il medium per trasformare il potere comunicativo
in potere amministrativo. Così possiamo sviluppare l'idea dello Stato di diritto analizzando i
principi per cui da un lato il diritto legittimo deriva dal potere comunicativo e dall’altro lato questo
stesso potere comunicativo si converte di nuovo in potere amministrativo passando attraverso il
diritto legittimamente prodotto.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 201)
3.1.1. Va richiamata la consapevolezza culturale generale contemporanea: un’epoca post-metafisica
e post-trascendentale (in questo senso si può capire l’uso del termine “postmoderna”). [cfr. 1.4.] La
ripercussione culturale politica di simile consapevolezza è la seguente: «Solo nelle condizioni del
pensiero post-metafisico i discorsi etico-politici conducono a regolamentazioni già di per sé
corrispondenti all'eguale interesse di tutti gli appartenenti.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 199)
«Nella concezione postmetafisica del mondo vale come legittimo solo un diritto derivante dalla
discorsiva formazione dell’opinione e della volontà di cittadini giuridicamente equiparati.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 483). E ancora: « Nelle condizioni del pensiero post-metafisico —
cui non esistono alternative plausibili, nonostante il reagire dei vari fondamentalismi a carenze della
modernizzazione — lo Stato s’è visto privare della sua sostanza sacrale. Questa secolarizzazione, da
tempo compiuta, dei fondamenti spirituali del potere statale soffre oramai d’un deficit
d'implementazione [Vollzugrdefizit]. Se non lo compensiamo con un ulteriore processo di
democratizzazione, la stessa esistenza dello Stato di diritto sarà messa in pericolo.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 525)
3.1.2. Non resta che la fondazione del diritto sul principio del discorso: il diritto sulla base
dell’agire comunicativo della ragione volta all’intesa o per una teoria del diritto fondata su di una
teoria del discorso. Una fondazione da un punto di vista laico, secolare, con riferimento a prassi
comunicative di intesa. «Nelle pagine che seguono farò sempre riferimento a una società largamente
secolarizzata, i cui ordinamenti normativi possono (e devono) conservarsi senza fare appello a
garanzie metasociali. […] Così l’onere dell’integrazione sociale si trasferisce progressivamente
sulle prestazioni d'intesa compiute da attori per i quali validità e fattualità — ovverossia la forza
vincolante di convinzioni razionalmente motivate, da un lato, e la costrizione imposta da sanzioni
esterne, dall’altro — si sono ormai irrevocabilmente separate tra loro. » (Habermas 1992 Fatti e
norme, 35) In sintesi: «il «principio di discorso» alla cui luce possiamo verificare la legittimità delle
norme d’azione. »(Habermas 1992 Fatti e norme, 148)
3.1.3. Il binomio fattualità/validità esprime la tensione che è presente in ogni relazione sociale
caratterizzata da momenti riflessivi, ed è intrinseca al diritto stesso e al problema della sua
produzione e imposizione, ritorna infatti con notevole frequenza ed è la prospettiva di fondo della
teoria del diritto: è la «caratteristica unione di coercizione fattuale e validità legittimante» «… come
l’intero sistema dei diritti sia attraversato dall’interna tensione di fattualità e validità caratterizzante
l’ambivalente modalità della validità giuridica.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 43, 103 e cfr.
82,118…). È, del resto, il titolo stesso dell’opera : Fatti e norme.
3.1.3.1. Una duplice prospettiva del diritto che richiama «il fatto che le norme giuridiche siano
simultaneamente produttrici di costrizione e di libertà» (Habermas 1992 Fatti e norme, 42). Il tema
è ben evidenziato da Kant: «Agli occhi di Kant, il rapporto fattualità/validità stabilizzato nella
validità giuridica si presenta come il nesso interno stabilito dal diritto tra coercizione e libertà. Fin
dall’inizio il diritto si collega a un’autorizzazione all’uso della coercizione. Questa coercizione però
si giustifica soltanto «in quanto sopprime un ostacolo contro la libertà», ossia in quanto impedisce
che si violi la libertà di ciascuno. La pretesa di validità del diritto esprime appunto questo interno
«accordo della coazione generale e reciproca con la libertà di ognuno» (I. Kant La metafisica dei
costumi, Laterza, Roma-Bari 1991, 36). […] … le leggi coercitive devono dimostrarsi legittime
come leggi di libertà.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 38-39, 43)
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3.1.3.2. Un binomio imprescindibile per attivare una teoria critica della società e dei sistemi sociali.
«Una teoria sociale che si voglia «critica» non può limitarsi a descrivere il rapporto norma/realtà
nella prospettiva dell’osservatore.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 103)
3.1.3.3. Un binomio in atto anche nel campo dei valori. La costrittività (qui riferita alla legge e
intesa come correlato e condizione di libertà) compare già e anche nel campo dei valori in generale:
«Il processo d’interiorizzazione che procura base motivazionale agli orientamenti di valore non è
quasi mai esente da repressione. Esso sfocia però in un’autorità della coscienza morale che
nell'individuo è sempre accompagnata da una consapevolezza di autonomia. Solo in questa
consapevolezza il carattere obbligatorio degli ordinamenti sociali «vigenti» trova un destinatario
che si lascia spontaneamente «vincolare».» (Habermas 1992 Fatti e norme, 85)
3.1.4. Un collegamento più remoto e di fondo tra fatti e norme è fornito dalla considerazione dello
stretto legame tra i due, formulato da una prospettiva di realismo (o ontologica) formulata da Hilary
Putnam (al netto delle divergenze tra Habermas e Putnam): «…io sostengo che persino la fisica, che
è oggettiva, sia profondamente collegata alle norme, in ragione di proprietà come la semplicità, la
coerenza o l’eleganza. Tanto il realismo quanto l’antirealismo classici sono incapaci di riconoscere
che il realismo rispetto alla normatività e il realismo rispetto ai fatti hanno davvero bisogno l’uno
dell’altro. Certamente c’è un elemento di convenzione ma questo, di nuovo, non significa che ci
stiamo inventando tutto, significa soltanto che entra in gioco ciò che io definisco «relatività
concettuale». Lo stesso fatto può talora essere descritto in modi diversi e queste descrizioni possono
avere diverse ontologie — intese nel senso strettamente tecnico che Quine ha dato al termine
«ontologia» — e tuttavia si può anche trattare soltanto di modi diversi di descrivere gli stessi stati di
cose. Il modo in cui noi descriviamo gli stati di cose richiede tanto i fatti quanto le norme.»
(Putnam Hilary, Realismo e senso comune, in De Caro Mario e Ferraris Maurizio (a cura) 2012
Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, p. 29)
3.2. Materiali e strumenti a disposizione per una nuova teoria democratica del diritto condotta
all’interno del sociale e con metodo pragmatico trascendentale (tra fattualità e validità).
3.2.1. l’importanza, la natura e il ruolo del mondo della vita (mondo vitale). «Il primo passo nella
ricostruzione delle condizioni dell’integrazione sociale ci porta al concetto di mondo di vita.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 30)
Riprendendo il tema da Husserl e dalla presentazione già avvenuta in Teoria dell’agire
comunicativo del 1981, Habermas richiama e sottolinea, la funzione, la pregnanza e la potenzialità,
irrisolta nelle sue direzioni possibili, del mondo della vita: «Fin dall’inizio le prestazioni d’intesa si
muovono nell’orizzonte di convinzioni collettive non problematiche, trovando nello stesso tempo
alimento in queste risorse del già sempre familiare. L’inquietudine ogni giorno accesa da
contraddizioni e delusioni, contingenze e critiche, s'infrange nella prassi quotidiana contro una
roccia — ampia, incrollabile, ergentesi dal profondo — di modelli interpretativi, fedeltà e abilità
pratiche date per acquisite.
Il mondo di vita funge simultaneamente da orizzonte delle situazioni linguistiche e da fonte delle
interpretazioni, mentre, d’altro canto, esso si riproduce soltanto attraverso incessanti azioni
comunicative. Nell'agire comunicativo il mondo di vita ci abbraccia come una certezza immediata,
a partire dalla quale noi viviamo e parliamo senza prendere le distanze. La presenza pervasiva —
benché nascosta e quasi inavvertita — di questo «sfondo» dell’agire comunicativo è descrivibile
come forma intensificata e tuttavia carente di sapere e potere. Da un lato ci serviamo di questo
sapere senza volerlo, e senza neppure accorgerci di possederlo. Ciò che innalza a certezza assoluta
questo sapere di fondo, attribuendogli soggettivamente persino la qualità d'un sapere privilegiato, da
un punto di vista oggettivo è invece ciò che più lo priva della qualità tipica d’ogni sapere: di esso ci
serviamo infatti senza ricordarci che potrebbe anche essere falso. Nella misura in cui ogni sapere è
fallibile, e viene assunto come tale, il sapere di fondo non rappresenta assolutamente un sapere in
senso stretto. Gli manca l’intrinseca possibilità di diventare problematico, in quanto solo nell’istante
in cui è esplicitato viene a contatto con pretese di validità criticabili; senonché, nel momento della
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tematizzazione, esso non può più fungere da sfondo del mondo di vita e anzi, nella sua modalità di
sapere di fondo, si disintegra. In quanto sapere di fondo esso non può mai essere falsificato: si
frantuma non appena - venendo tematizzato - cade nel vortice delle possibili problematizzazioni.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 31-32) Preso in sé, il mondo della vita è privo di qualsiasi tensione
tra fattualità e validità; esse coincidono nella natura aproblematica del mondo della vita.
3.2.2. l’importanza, la natura e il ruolo di istituzioni e tradizioni sociali storiche consolidate e non
messe a tema.
«Un’analoga fusione di fattualità e validità in grado di stabilizzare le aspettative comportamentali la
ritroviamo, in forme completamente diverse, sul piano d'un sapere che è già passato attraverso
l’agire comunicativo e si presenta quindi come tematicamente disponibile: si tratta di quelle
istituzioni arcaiche che si presentano con pretese di autorità apparentemente incontestabili.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 32) Società parentali, regimi assolutistici … ambiti oggetto della
sociologia e non di una teoria di fondazione del diritto, ma influenti sull’agire collettivo.
3.2.2.1. La rilevanza di queste formazioni consolidate può venire espressa con la formula dei tre
mondi: «Il mondo di vita di cui le istituzioni fanno parte viene così avanti come un contesto che,
riprodotto dall'agire comunicativo, si compone dell'intreccio di tradizioni culturali, ordinamenti
legittimi e identità personali.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 32).
3.2.2.2. Quella rilevanza è ulteriormente problematica nel complicarsi delle società contemporanee:
«Con il crescere della complessità sociale e l’allargarsi dell’originaria prospettiva etnocentrica, le
forme di vita si pluralizzano e le storie di vita si individualizzano in misura sempre più grande.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 34)
3.2.3. La tensione fattualità/normatività mette al centro della costituzione e imposizione del diritto
l’agire comunicativo base di una integrazione sociale democratica. L’obiettivo di Habermas è
«inquadrare la categoria del diritto (soprattutto quella del diritto moderno) nella prospettiva teorica
dell’agire comunicativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 103) Il principio ispiratore e la
convinzione di base sono noti: «Nella misura in cui le tradizioni culturali e i processi di
socializzazione diventano riflessivi, quella logica delle questioni etiche e morali che è inserita nelle
strutture dell'agire comunicativo diventa sempre più cosciente. Non più coperti alle spalle da quelle
visioni del mondo religiose o metafisiche che erano impermeabili alla critica, gli orientamenti
pratici diventano in ultima istanza ricavabili soltanto tramite argomentazioni, ossia attraverso le
forme di riflessione dello stesso agire comunicativo. La razionalizzazione del mondo di vita dipende
dalla misura in cui i potenziali di razionalità impliciti nell’agire comunicativo, e messi
discorsivamente in libertà, hanno impregnato e fluidificato le strutture di questo mondo.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 121)
3.2.3.1. Una delle tesi centrali presentate nella Teoria dell’agire comunicativo è quella circa il ruolo
del medium linguistico nel portare a forma (cultura, società, persona) e a condivisione il potenziale
che il mondo vitale permette, a livello di primo fondamento di intesa, di considerare come propria
area di riferimento. «Tramite l’agire comunicativo, il potenziale di razionalità racchiuso nel
linguaggio viene intercettato, mobilitato e, nel corso dell’evoluzione sociale, reso funzionalmente
disponibile all’integrazione della società.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 55). Nella stessa
direzione, pur con altri ruoli, opera il processo legislativo e il diritto. «Il diritto si colloca infatti tra
un mondo di vita che si riproduce tramite agire comunicativo, da un lato, e quei sistemi funzionali
della società formanti l'uno per l'altro degli ambienti esterni, dall'altro. […] Il diritto funziona,
diciamo così, da trasformatore esso solo è in grado di garantire che non si spezzi la rete della
comunicazione generale che tiene insieme tutta la società. Solo nel linguaggio del diritto possono
circolare per tutto il corpo sociale messaggi ricchi di contenuto normativo. Questi messaggi si
scontrerebbero con la sordità delle sfere controllate dai media, ove non fossero preventivamente
tradotti in quel complesso codice giuridico che è egualmente aperto sia al mondo di vita sia al
sistema.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 71-72) E ancora: «Prendendo forma giuridica, il principio
di discorso si trasforma in principio democratico.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 537)
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3.2.3.2. «Il processo legislativo rappresenta così il luogo specifico dell’integrazione sociale entro il
sistema giuridico. È perciò ragionevole aspettarsi che tutti i partecipanti (diretti o indiretti) al
processo legislativo «escano fuori» dal ruolo di privati soggetti giuridici e si accollino – nel ruolo di
cittadini dello Stato – la prospettiva di membri d'una comunità giuridica cui liberamente si aderisce.
In questa comunità, il consenso sui principi che regolano la convivenza o risulta già assicurato per
via di tradizione oppure dev’essere realizzato per via d'intesa secondo regole riconosciute sul piano
normativo. […] Nella misura in cui i diritti politici di partecipazione e di comunicazione sono parte
integrante di qualunque procedimento legislativo generante legittimazione, questi diritti individuali
andranno esercitati non in quanto diritti di soggetti giuridici privati individualisticamente isolati tra
loro, bensì piuttosto nell'atteggiamento di cittadini partecipanti a una prassi d’intesa intersoggettiva.
Perciò nel concetto moderno di diritto — che intensifica e insieme operazionalizza a fini di
controllo comportamentale la tensione di fattualità e validità — noi ritroviamo l’idea democratica
già sviluppata da Rousseau e Kant. Quest’idea afferma che la pretesa di legittimità d'un
ordinamento giuridico costruito a partire dai diritti individuali può essere riscattata soltanto
attraverso la forza d'integrazione sociale sviluppata dalla «volontà concorde e unificata» di tutti i
cittadini liberi ed eguali.» (Habermas 1992 Fatti e norme,42-43)
Dunque il legame, la tensione tra fatti e norme (fattualità e normatività) è presente anche nella
comunicazione volta all’intesa, luogo di formazione continua di una società democratica e luogo
(latente ma reale) di definizione democratica anche del mondo di vita. Una fattualità da sola, che si
impone per se stessa, è priva di validità e dunque di legittimità ed è costrizione all’esistente contro
ogni libertà; viceversa, una validità senza il fattuale è idealità senza realtà, è imposizione esterna
pregna di rischi totalitari; il solo fattuale (senza validità) e la sola validità (fuori da ogni
considerazione della fattualità) diventano razionalità strumentale, con i processi di
razionalizzazione e reificazione che questa comporta (o può determinare); la validità è razionalità
comunicativa, l’incontro fatti e norme (fattualità e normatività), e solo il loro incontro, costruisce
una democratica società civile.
3.3. il diritto moderno è un diritto positivo, statuito e oggetto di intesa (e accordo), quindi non
arbitrario, per la sua fondazione discorsiva.
La tesi centrale della « funzione socio-integrativa del diritto» (Habermas 1992 Fatti e norme, 83)
impone la ripresa del tema del diritto come diritto positivo (perché in questo contesto il diritto può
essere solo un diritto positivo, senza che sconfini tragicamente nell’arbitrio giuridico o nella sua
irrazionalità) e il tema di “quali diritti”. Comunicazione per l’intesa, diritto positivo, mondo della
vita, definizione e ruolo della democrazia costituiscono il necessario intreccio perché si formi una
volontà sociale (e istituzionale) statuente nelle forme del diritto. Dunque il doppio significato del
termine “positivo”: statuito, oggetto di intesa e di accordo negoziale; «una prassi razionalmente
concordata».
«Nel diritto si riflette l’effettivo sostrato di volontà di una società determinata: per questo il diritto
deve farsi «positivo». Esso deve essere «statuito», in quanto momenti di mutua intesa s'intrecciano
a momenti di scelta degli obiettivi e a momenti di accordo negoziale. Perciò la nascita del diritto ha
potuto essere intesa (a differenza della morale) in termini contrattualistici: il che non è corretto e
tuttavia non è nemmeno del tutto falso. La forza inerziale delle forme-di-vita e degli interessi
esistenti può bastare a spiegarci perché il processo della produzione giuridica sia condizionato dal
momento volitivo della decisione piuttosto che dal momento cognitivo della formazione
dell'opinione e del giudizio. Questo momento volitivo finisce per essere ancora più rafforzato dalla
necessità pratica di istituzionalizzare in maniera vincolante i processi consultivi. Per entrambe
queste ragioni la legittimità d'una produzione giuridica richiede sempre un'equa regolazione della
funzione decisionale, e non semplicemente strutture discorsive che fondino la presunta correttezza
dei giudizi. Tuttavia anche le regolazioni che devono provvedere a questo scopo — partendo dalla
costituzione per arrivare fino ai regolamenti commerciali — hanno poi bisogno d'essere giustificate.
E siccome questa giustificazione si realizza nei discorsi fondativi, io non riesco a scoprire nella
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«equità» delle procedure decisionali nessuna qualità che sia intrinseca alla procedure giuridiche in
quanto tali e che non dipenda dal discorso.
La partecipazione in linea di principio paritaria alle procedure decisionali è in un certo senso
pregiudicata dal fatto che — come costruzione — lo Stato democratico di diritto rinvia a una prassi
costituente. Mentre la morale vale per tutti i soggetti capaci di linguaggio e di azione, ogni progetto
costituzionale poggia sulla decisione databile di un gruppo storico di persone (la cui composizione
resta normativamente casuale). Per la morale uno non può «decidersi» (al massimo può «decidersi»
a una condotta di vita più o meno morale). Invece per il diritto — dato il suo carattere artificiale —
uno deve decidersi. E questa opzione originaria implica già di per sé non solo il reciproco
riconoscimento tra persone libere ed eguali, ma anche quell’obbligo d'inclusione …» (Habermas
Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati,
Milano 1997, 63) Quindi la stretta fusione tra la funzione sociointegrativa del diritto e
contemporaneamente, il mondo della vita e la natura positiva (alla Kelsen) del diritto.
«Nella misura in cui «cultura» e «strutture della personalità» acquistano connotazioni idealistiche,
anche il diritto — spogliato dei suoi fondamenti sacrali — finisce per entrare sotto pressione. La
terza componente del mondo di vita, la «società» come insieme degli ordinamenti legittimi, viene
tanto più intensamente a concentrarsi (come abbiamo visto) nel sistema giuridico, quanto più a
quest'ultimo vengono accollate funzioni integrative per la società nel suo complesso.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 122) In abbandono della tradizione del giusrazionalismo che insiste a separare
tra loro diritto naturale e diritto positivo («… il semplice sdoppiarsi del diritto in «diritto naturale» e
«diritto positivo» tradisce un’eredità platonica» Habermas 1992 Fatti e norme, 130).
3.3.1. Il diritto positivo è espressione del processo democratico di autolegislazione; è razionale,
quindi non sede di arbitrio, poiché sorto sulla base di un agire comunicativo come nuova ragion
pratica collettiva: l’espressione sintetica con cui Habermas indica questo processo è quella che lo
presenta come una prassi «razionalmente concordata» (Habermas 1992 Fatti e norme,91). Qui
trovano convergenza due cardini di formazione di un diritto positivo autonomo: razionalità
(secondo principi, quindi ragione) e accordo (secondo consenso, quindi volontà): «La distinzione tra
norme e principi d’azione, il concetto sia di una produzione di norme guidata da principi sia di un
volontario accordo su regole normativamente vincolanti, il concetto d’una capacità produttiva di
diritto ascrivibile alle persone giuridiche privatamente autonome, ecco ciò che condusse
progressivamente all’idea di norme positivamente stabilite, e pertanto modificabili, ma nello stesso
tempo criticabili e bisognose di giustificazione.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 90)
«La positività del diritto si collega alla promessa che il procedimento democratico della produzione
giuridica giustifichi la presunzione che le norme statuite siano razionalmente accettabili. La
positività del diritto non esprime la fattualità d’una volontà arbitraria e assolutamente contingente,
bensì la volontà legittima derivante dall’autolegislazione presuntivamente ragionevole di cittadini
politicamente autonomi. […] Infatti, in mancanza d'una copertura religiosa o metafisica, il diritto
coercitivo ritagliato su misura per l'esercizio egoistico dei diritti individuali potrà salvaguardare la
sua forza d'integrazione sociale soltanto se i singoli destinatari delle norme giuridiche saranno
anche in grado di cogliersi, nel loro insieme, come autori di queste norme. In questo senso il diritto
moderno si alimenta d'una solidarietà che, concentrandosi nello statuto della cittadinanza politica,
rimanda in ultima istanza all'agire comunicativo e alla discussione.» (Habermas 1992 Fatti e norme,
43-44, 45). L’utilità e l’urgenza del principio di volontà nell’autodeterminazione: «A prescindere
dalle loro diverse modalità d’impiego, anche i diritti politici devono essere interpretabili come
libertà individuali che obbligano soltanto al comportamento legale, lasciando alla libera scelta del
soggetto i motivi per cui egli accetta di osservare le regole. Per un altro verso, tuttavia, la procedura
della legislazione democratica non può non confrontare i partecipanti con attese normative
orientanti al bene comune, in quanto essa può trarre forza di legittimazione soltanto dal processo
con cui i cittadini raggiungono un’intesa circa le regole della loro convivenza.» (Habermas 1992
Fatti e norme, 105)
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3.3.2. L’agire comunicativo volto all’intesa dà vita ai «rapporti interni tra fattualità e validità» come
elementi «costitutivi dell’infrastruttura giuridica delle società moderne». Questa impostazione può
considerarsi una forma per esprimere il tema e la tesi dell’opera di Habermas e il terreno per
l’innovazione che comporta. «Attraverso l’uso linguistico orientato all’intesa con cui gli attori
coordinano le loro azioni – dunque sul piano dell’agire comunicativo – questa tensione di fattualità
e validità si trasferisce nel mondo dei fatti sociali. Mentre prima la fattualità degli eventi segnici e
degli accadimenti linguistici era il necessario momento d'incarnazione del significato e della verità,
ora dobbiamo pensare la tensione intralinguistica fattualità/validità che le pretese di validità
introducono nell’agire comunicativo come un momento della stessa fattualità sociale, ossia come un
momento della prassi comunicativa quotidiana attraverso cui si riproducono le forme di vita. […]
… le ragioni sono come un'arma a doppio taglio: esse possono sempre sia rafforzare sia mettere in
crisi una convinzione. Con loro penetra nella società quella tensione di fattualità e validità che è
intrinseca al linguaggio e all’uso linguistico.» (Habermas 1992 Fatti e norme,46, 47)
3.3.3. Le aperture e la natura democratica di un diritto positivo fondato sull’agire comunicativo.
«Una tensione ideale irrompe nella realtà sociale. Essa risale al fatto che quell’accettazione delle
pretese di validità cui spetta produrre e mantenere i fatti sociali dipende pur sempre dall'accettabilità
di ragioni relative al contesto, ossia continuamente esposte al rischio di venire screditate da ragioni
migliori o da processi di apprendimento modificanti il contesto.» (Habermas 1992 Fatti e norme,
47)
3.3.3.1. Una democrazia su fondamento discorsivo che non pone dunque più alla propria base
l’opinione pubblica, la volontà generale, cioè «consenso dei cuori che degli argomenti». «In suo
luogo, la morale che Rousseau pretende dai cittadini dello Stato e che egli colloca nelle motivazioni
e nelle virtù del singolo, deve venire essa stessa ancorata nel processo della comunicazione
pubblica. Berhard Manin concettualizza tale conclusione: «È necessario modificare radicalmente la
prospettiva comune alle teorie liberali e al pensiero democratico: la fonte della legittimità non è la
volontà predeterminata degli individui, ma piuttosto il processo stesso della sua formazione, vale a
dire la deliberazione... Una decisione legittima non rappresenta il volere di tutti, bensì è una
decisione che risulta dalla deliberazione di tutti. È il processo per cui è formato il volere di ciascuno
quello che conferisce al risultato la sua legittimità, piuttosto che la somma di voleri già formati. Il
principio deliberativo è individualistico non meno che democratico... Noi dobbiamo affermare, a
rischio di contraddire una lunga tradizione, che il diritto legittimo è il risultato della generale
deliberazione, non l'espressione della volontà generale». Con ciò l'onere della dimostrazione si
sposta dalla morale dei cittadini a quei procedimenti della formazione democratica dell’opinione e
della volontà che sono destinati a fondare la presunzione di raggiungere risultati razionali.»
(Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, XXXII)
3.3.4. Il senso ampio della positività del diritto e gli esiti sulla istituzioni dello Stato.
«Positività del diritto significa, com'è noto, che un quadro di norme statuite crea quello «strato
artificiale» della realtà sociale che esiste solo in vista d'essere revocato, essendo modificabile o
abrogabile in tutti i suoi elementi. Sotto questo aspetto della modificabilità, la validità del diritto
positivo si manifesta come pura espressione d’una volontà che attribuisce «durata» a determinate
norme (contro la possibilità sempre aperta di sospenderle). È su questo volontarismo della
statuizione pura che si accende — come vedremo più avanti — il pathos del positivismo giuridico.
D’altro canto la positività del diritto non può fondarsi soltanto sulla contingenza di decisioni
arbitrarie (cioè sulla pura decisione) senza compromettere immediatamente la sua forza
d'integrazione sociale. In realtà il diritto trae la sua forza vincolante dall'alleanza che la positività
giuridica stringe con la pretesa di legittimità. Questo nesso riflette l’intrecciarsi strutturale
dell'effettiva accettazione fondante fatti con l'ideale accettabilità delle pretese di validità: un
intreccio che come tensione fattualità/validità già si era già introdotto nell’agire comunicativo e
negli ordinamenti sociali naturalisticamente emergenti. Ora questa tensione ideale si ripresenta
intensificata nel diritto moderno. Essa si configura nel rapporto che lega la coercizione giuridica,
assicurante un’osservanza statisticamente attendibile delle regole, con quell’idea di autolegislazione
35
(o di supposta autonomia politica dei cittadini associati) che sola può riscattare e rendere
razionalmente accettabile la pretesa di legittimità delle regole stesse. Il perdurare di questa tensione
nella dimensione della validità giuridica ci costringe anche a organizzare nelle forme del diritto
legittimo quello stesso potere [Gewalt] politico cui il diritto deve la sua positività e che si rivela
indispensabile alla sua imposizione e applicazione autoritativa. L’idea dello Stato di diritto viene
così incontro al desiderio di trasformare in senso giuridico questo potere. Nello Stato di diritto la
prassi civica dell'autolegislazione assume una figura istituzionalmente differenziata.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 50-51)
3.4. quali diritti: fondazione discorsiva del diritto e quali diritti
«La ricostruzione del diritto funziona come un’esplicazione di significato. Col sistema dei diritti ci
siamo accertati dei presupposti che s’impongono ai membri d’una moderna comunità giuridica, una
volta che essi debbano poter ritenere legittimo il loro ordinamento giuridico senza più appoggiarsi a
ragioni di tipo religioso o metafisico.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 159)
3.4.1. La prospettiva. Occorre adottare una giusta prospettiva per affrontare il tema dei diritti: la
prospettiva della società civile. Già Kant non concepisce la società come una sorta di accordo tra
privati che restano nel loro isolamento o nella loro contrapposizione e vengono utilitaristicamente a
patti; la metafora che egli usa è quella nota di una “società di diavoli” per la quale comunque
servono, talvolta, delle regole, ma non certo derivanti dai principi della loro ragione morale.
Per uscire da una concezione rigidamente liberistica del sociale fondata sulla rivendicazione di
diritti soggettivi rigidamente individuali occorre osservare ciò che è, anche ad una breve riflessione,
evidente: se i diritti soggettivi individuali, in quanto riferiti all’umanità, sono universali, allora il
riconoscimento di un diritto soggettivo è anche il riconoscimento di un diritto intersoggettivo; nel
rivendicare il mio diritto soggettivo riconosco, per definizione, il diritto soggettivo naturale di ogni
altro uomo, e ciò è possibile solo in un mondo umano in relazione; in una società e società civile.
«Sul piano concettuale i diritti non devono essere pensati come riferiti a individui atomisticamente
alienati, egoisticamente irrigiditi l’uno contro l’altro. Come elementi dell'ordinamento giuridico,
essi presuppongono piuttosto la collaborazione di soggetti che si riconoscano a vicenda — nei loro
diritti e doveri — come liberi ed eguali consociati. Questo riconoscimento reciproco è costitutivo
per un ordinamento da cui discendono diritti individuali azionabili. In questo senso i diritti
«soggettivi» sono cooriginari al diritto «oggettivo». […] … cogliere il senso intersoggettivo
implicito allo stabilimento giuridico delle libertà d'azione soggettive. In altre parole … quel
rapporto tra autonomia privata e autonomia civica in cui entrambi i momenti devono farsi
integralmente valere.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 111-112)
«Kant capì che i diritti non potevano di nuovo essere fondati ricorrendo a un modello desumibile
dal diritto privato. A Hobbes egli rimprovera in maniera convincente d’aver trascurato la differenza
strutturale esistente tra il «patto sociale» come modello legittimante e qualunque altro «patto
privato» come rapporto di scambio. Effettivamente, dalle parti stipulanti il patto sociale nello stato
di natura ci si deve aspettare un atteggiamento diverso da quello meramente egocentrico. «Il patto di
fondazione di un costituzione civile (...) è di natura così speciale che (...) si distingue
essenzialmente da ogni altro patto» (Kant I. Stato di diritto e società civile, Editori Riuniti, Roma
1995, 153). Mentre di solito le parti stipulano patti per conseguire «un qualche scopo comune (che
tutti hanno di fatto)», il patto sociale è unione «fine a se stessa (fine che ognuno deve avere)».
Infatti esso fonda «il diritto degli uomini di vivere sotto pubbliche leggi coattive, mediante le quali
ognuno possa aver riconosciuto e garantito il suo contro ogni attentato da parte degli altri» (Kant I.
Stato di diritto e società civile, 153). In Kant le parti non si accordano per nominare un sovrano cui
affidare la competenza legislativa; il patto sociale è l'unico contratto che sia privo di contenuti
specifici, presentandosi piuttosto come il modello ideale d’una socializzazione regolata dal
principio giuridico. In maniera performativa esso stabilisce a quali condizioni i diritti acquistino
validità legittima. Infatti «il diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa
si accordi con la libertà di ogni altro, nella misura in cui ciò è possibile secondo una legge
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universale» (Kant I. Stato di diritto e società civile, 153-154). […] Nello stesso tempo, Kant vede
chiaramente che quell'unico «diritto dell’uomo» deve alla fine differenziarsi in un «sistema di
diritti» attraverso cui assumano figura positiva sia «la libertà di ogni membro della società in quanto
uomo» sia anche «l’eguaglianza del medesimo con chiunque altro in quanto suddito». Ciò accade
nella forma di «leggi pubbliche» che possono pretendere legittimità solo come atti della volontà
pubblica di cittadini autonomi e associati.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 115-116)
3.4.1.1. «Il nesso interno di diritto soggettivo e diritto oggettivo, da un lato, di autonomia privata e
autonomia pubblica, dall’altro, si dischiude soltanto se riusciamo a esplicitare in maniera seria e
adeguata la struttura intersoggettiva dei diritti e la struttura comunicativa dell’autolegislazione.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 128)
3.4.1.2. Pur in presenza, e nel doveroso rispetto, di un apparente paradosso: «Qui vediamo di nuovo
accendersi la tensione di fattualità e validità: soprattutto per il fatto (a prima vista paradossale) che i
diritti politici fondamentali devono istituzionalizzare l'uso pubblico delle libertà comunicative in
forma di diritti individuali. Il codice giuridico non lascia altra scelta: anche i diritti comunicativi e
partecipativi devono essere formulati in un linguaggio che rimandi sempre alla libera scelta dei
soggetti giuridici la decisione se sia il caso di farne uso (e, se sì, in che modo).» (Habermas 1992
Fatti e norme,156)
3.4.2. Un’evoluzione: dai diritti soggettivi privati definiti come diritti negativi (riconoscimento delle
libertà da) a una loro concezione anche positiva: soddisfazione di interessi, progetti… « normazione
di aspettative comportamentali» (Habermas 1992 Fatti e norme, 508) in maniera tale che la politica
fosse sempre interpretabile come una realizzazione di diritti.
«Con questi mezzi possiamo introdurre in astratto quelle categorie di diritti che — stabilendo lo
statuto dei soggetti giuridici — danno origine allo stesso codice giuridico:
(1) Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo-politicamente autonomo del diritto alla maggior
misura possibile di pari libertà individuali.
Questi diritti richiedono come correlati necessari:
(2) Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo dello status di membro
associato nell'ambito d’una volontaria consociazione giuridica.
(3) Diritti fondamentali derivanti dalla azionabilità dei diritti e dallo sviluppo politicamente
autonomo della tutela giurisdizionale individuale.
Queste tre categorie di diritti derivano semplicemente dall’applicazione del principio di discorso al
medium giuridico in quanto tale, ossia alle condizioni di conformità giuridica d’una socializzazione
orizzontale generalmente intesa. […] Più precisamente, questi diritti fondamentali si limitano a
garantire ai soggetti giuridici la sola autonomia privata, in quanto questi soggetti si riconoscono
inizialmente nel ruolo di destinatari delle leggi e si concedono a vicenda uno statuto per cui
possono rivendicare a sé dei diritti facendoli valere l'uno contro l'altro. Solo nel passaggio
successivo questi soggetti giuridici acquistano anche il ruolo di autori del loro ordinamento
giuridico, e lo fanno precisamente tramite:
(4) Diritti fondamentali a pari opportunità di partecipazione ai processi formativi dell'opinione e
della volontà: processi in cui i cittadini esercitano la loro autonomia politica e attraverso cui
producono diritto legittimo.
(5) Diritti fondamentali alla concessione di quelle condizioni di vita che devono essere garantite —
sul piano sociale, tecnico ed ecologico — nella misura necessaria a poter ogni volta utilizzare con
pari opportunità, sulla base dei rapporti esistenti, i diritti civili citati nei punti da (1) a (4).
(Habermas 1992 Fatti e norme, 148-149)
3.5. il concetto e il ruolo della forma giuridica.
La forma giuridica e le istituzioni che stabilizzano la realizzazione, l’attuazione dei diritti
nell’ambito di una autodeterminazione positiva sottratta però all’arbitrio e alla incontrollata
precarietà.
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«Tuttavia questo sistema dei diritti non è prescritto ai padri costituenti come un diritto di natura.
Solo tramite una determinata interpretazione costituzionale questi diritti giungono in generale alla
coscienza. Più precisamente, interpretando il sistema dei diritti a partire dall'angolo visuale della
loro situazione, i cittadini non fanno altro che esplicitare il senso dell'impresa che li coinvolge dal
primo momento in cui decisero di regolare legittimamente con il diritto la loro convivenza. Tale
impresa presuppone soltanto un’intuitiva concezione del principio di discorso nonché il concetto di
forma giuridica.» (Habermas 1992 Fatti e norme,155)
3.5.1. Il contesto linguistico di vincolo/garanzia. «Naturalmente, in quanto soggetti giuridici, essi
non sono più liberi di scegliersi un medium qualsiasi per realizzare la loro autonomia. Non possono
più, in altre parole, disporre liberamente di quale linguaggio vogliano servirsi. Essendo soggetti
giuridici, il codice giuridico si presenta come l’unico linguaggio prestabilito in cui possono
esprimere la loro autonomia. L’idea di autolegislazione deve farsi valere nel medium giuridico
stesso. Perciò le condizioni che consentono ai cittadini di giudicare (alla luce del principio di
discorso) se il diritto da loro statuito sia diritto legittimo devono poi essere anch'esse giuridicamente
garantite. Proprio a questo servono i fondamentali diritti politici di partecipazione ai processi
formativi dell'opinione e della volontà legislativa. […] Secondo il principio di discorso, meritano di
essere valide soltanto le norme che potrebbero incontrare l'approvazione di tutti i potenziali
interessati, nella misura in cui essi partecipino in generale a discorsi razionali. I diritti politici
richiesti devono perciò garantire la partecipazione a tutti i processi consultivi e deliberativi rilevanti
ai fini legislativi, sì che in questi processi possa entrare in azione — su un piede di parità — la
libertà comunicativa di ciascuno nel prendere posizione verso criticabili pretese di validità. […]
Come la libertà comunicativa, prima d’ogni istituzionalizzazione, dipendeva dalle condizioni di un
uso linguistico orientato all'intesa, così nella stessa maniera i diritti politici — soprattutto le
autorizzazioni all'uso pubblico della libertà comunicativa — vengono ora a dipendere
dall'istituzionalizzazione di forme comunicative e di procedure discorsive di consultazione e
deliberazione. Queste servono a garantire che tutti i risultati conseguiti in maniera formalmente e
proceduralmente corretta godano di una presunzione di legittimità.» (Habermas 1992 Fatti e
norme,152-153)
3.5.1.1. Il tema in oggetto è anche la distinzione e il rapporto tra legittimità e legalità, « legittimità
d'un ordinamento di potere e alla legittimazione del suo esercizio politico» (Habermas 1992 Fatti e
norme, 159); nell’ambito più ampio di una «tensione tra positività e legittimità del diritto»
(Habermas 1992 Fatti e norme,156). Una scelta legittimata perché fondata su di un ampio consenso,
la maggioranza, non necessariamente è legittima, cioè coerente con i principi indiscutibili e
inalienabili della democrazia; così come una scelta legittima per la sua coerenza giuridica può
essere non legittimata democraticamente per assenza di consenso. La distinzione tra legalità e
legittimità introduce la relazione necessaria tra i due processi, e si tratta di un rapporto di garanzia
di democraticità o di controllo di validità: la legittimità deve avvenire nella legalità, la legalità
controlla l’ammissibilità giuridica della legittimità.
«Che la legittimità nasca dalla legalità appare come un paradosso solo se noi presupponiamo che il
sistema giuridico debba configurarsi come un processo circolare ricorsivo, che si autolegittimi da
solo in maniera retroattiva. Ciò è già smentito dal fatto che le istituzioni giuridiche della libertà si
sfaldano senza le iniziative d’una popolazione già abituata alla libertà. […] Per un verso l’onere
della legittimazione si sposta dalle qualificazioni civiche dei cittadini ai procedimenti —
giuridicamente istituzionalizzati — della formazione discorsiva dell’opinione e della volontà. Per
un altro verso, la giuridificazione della libertà comunicativa significa anche che il diritto deve
attingere a fonti di legittimazione sottratte al suo potere di disposizione.» (Habermas 1992 Fatti e
norme,157)
3.6. le istituzioni: origine e ruolo, la relazione con il diritto.
3.6.1. Dal diritto alle istituzioni; a partire dal tema del diritto, il perché di un passaggio alle
istituzioni e il tipo di relazione tra diritto e istituzioni. Riprendendo e completando la citazione: «La
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ricostruzione del diritto funziona come un’esplicazione di significato. Col sistema dei diritti ci
siamo accertati dei presupposti che s’impongono ai membri d’una moderna comunità giuridica, una
volta che essi debbano poter ritenere legittimo il loro ordinamento giuridico senza più appoggiarsi a
ragioni di tipo religioso o metafisico. Senonché la legittimità dei diritti e la legittimazione dei
processi di produzione giuridica non sono l’unico problema. Esiste anche il problema relativo alla
legittimità d'un ordinamento di potere e alla legittimazione del suo esercizio politico.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 159)
3.6.2. A fondamento il diritto: «Il potere politico non si giustappone al diritto dall’esterno, ma viene
piuttosto presupposto dallo stesso diritto e si stabilisce esso stesso nelle forme del diritto. Il potere
politico può svilupparsi soltanto attraverso un codice giuridico già istituzionalizzato sotto forma di
diritti fondamentali.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 161)
3.6.3. Un problema di stabilizzazione e dunque di sicurezza giuridica. «… l’atto autoreferenziale
che istituzionalizza giuridicamente l'autonomia civica resta incompleto se non è in grado di
stabilizzare se stesso. L’istante della reciproca attribuzione dei diritti rimane un evento metaforico.
Lo possiamo anche ricordare e ritualizzare, ma se prima non abbiamo istituito e fatto funzionare
bene il potere dello Stato non potremo mai renderlo stabile e durevole. […] La costituzione
cooriginaria e l’intreccio concettuale tra «diritto» e «potere politico» generano un più ampio
fabbisogno di legittimazione, ossia la necessità di canalizzare in termini giuridici lo stesso potere
statale di sanzione, organizzazione ed esecuzione. In ciò consiste l'idea dello Stato di diritto.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 159-160)
3.6.4. Dal tema delle istituzioni una fondazione pragmatica e storica del diritto. «Le scienze
politiche sono sempre meno inclini a considerare la democrazia come un prodotto delle principali
correnti della filosofia sociale classica e della vecchia dottrina dello Stato di diritto, che al
significato obiettivo delle istituzioni sostituiscono le loro determinazioni astratte e, invece di
procedere per così dire deduttivamente dal principio dello Stato di diritto e della sovranità popolare,
definiscono la democrazia in base al suo apparato concreto.» (Habermas Jürgen 1973 Cultura e
società, Einaudi, Torino 1980, 3-4)
3.7. il rapporto tra sovranità popolare, potere politico e diritto: un legame inscindibile, sulla
base della giustizia che ha sede “nell’agire discorsivo volto all’intesa”.
3.7.1. Solo nelle istituzioni (potere politico) si incontrano sovranità popolare e diritto a garanzia di
rispetto e realizzazioni delle libertà (attive e passive); oltre sogni di anarchia o di perenne
democrazia diretta, ma in varietà di forme istituzionali. «Una sovranità popolare già internamente
intrecciata alle libertà individuali ora s’intreccia nuovamente con il potere organizzato dello Stato. Il
principio per cui «ogni potere dello Stato discende dal popolo» viene adesso a realizzarsi attraverso
i presupposti comunicativi e procedurali d’una formazione istituzionalmente differenziata
dell’opinione e della volontà. Quando lo Stato di diritto è concepito nei termini della teoria
discorsiva, la sovranità popolare non si personifica più in un'assemblea visivamente identificabile di
cittadini autonomi. Essa si ritira piuttosto nei circuiti comunicativi — per così dire senza soggetto
[subjektlos] — rappresentati dai fori [in nota: per foro s’intende lo specifico cerchio di persone che
garantisce una competente discussione del problema] e dai corpi legislativi. Solo così, in questa
forma anonima, il potere comunicativamente fluidificato della sovranità popolare può vincolare alla
volontà dei cittadini il potere amministrativo dello Stato.» (Habermas 1992 Fatti e norme,163)
3.7.2. il legame tra potere e diritto e il nesso funzionale «codice giuridico – codice potere»
nell’ambito della giustizia. «Solo nella modernità il potere politico può trasformarsi in potere legale
nelle forme del diritto positivo. […] Certo il potere politico ricava la sua autorità normativa soltanto
coniugandosi al diritto, così come vediamo accadere nel nostro modello. Ma la nostra ricostruzione
indica anche che il diritto conserva forza legittimante solo finché può funzionare come una risorsa
di giustizia.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 173) Il tema del rapporto potere e diritto deve essere
affrontato e formulato ma in modo che venga salvaguardata la giustizia, «la risorsa di giustizia da
cui il diritto trae legittimità» (Habermas 1992 Fatti e norme,175); e ciò sulla base di ulteriori
39
precisazione: che il potere e il diritto non facciano l’un dell’altro un uso strumentale, che la giustizia
non pretenda di disporre di sedi trascendenti e eterne (sacrali, tradizionali…) in cui trovare una
definizione (in assoluto). Poiché, nell’età moderna, a differenza di un periodo “sacrale” Potere e
Diritto non coincidono, è la giustizia a legittimarne e regolarne l’incontro. Non si tratta però di una
giustizia trascendente (per sacralità o per tradizione) o trascendentale (in nome di una ragion pratica
come facoltà i cui a priori sono trascendentali e quindi astorici, come propone Kant), ma di una
giustizia che ha sede nell’agire discorsivo di una comunità volta all’intesa; se «la giustizia avanza
sempre una pretesa di validità assoluta» (Habermas 1992 Fatti e norme,183), la avanza in quanto
suo compito è difendere cioè e garantire «le condizioni necessarie al formarsi del potere
comunicativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 180). «A una prospettiva molto diversa ci conduce
il concetto di «autonomia politica» elaborato dalla teoria discorsiva. Questo concetto ci spiega
perché non si può produrre diritto legittimo senza mobilitare le libertà comunicative dei cittadini.
[…] Se non vogliamo che inaridisca la risorsa di giustizia da cui il diritto trae legittimità, allora
bisogna che al fondo del potere amministrativo dello Stato ci sia sempre un potere comunicativo
generatore di diritto.» (Habermas 1992 Fatti e norme,175-176) E ancora: «Ciò che assicura
giustizia alla legge è la genesi democratica, non aprioristici principi giuridici cui la legge dovrebbe
conformarsi. «La giustizia della legge è garantita dal particolare procedimento della sua genesi» (I.
Maus).» (Habermas 1992 Fatti e norme, 224-225)
3.7.3. Dunque Habermas indaga «…l'intrinseco coniugarsi di potere comunicativo alla produzione
di diritto legittimo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 178): «… come possano i cittadini associati (in
primo luogo) produrre diritto legittimo basandosi sulla generazione di potere comunicativo, e (in
secondo luogo) tutelare giuridicamente anche questa loro prassi coincidente con l'esercizio
dell'autonomia politica.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 178); «Altrimenti finirebbe per sparire
quella tensione di fattualità e validità che caratterizza con tutta evidenza il diritto moderno.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 182)
3.7.4. In questo contesto ritorna l’opportunità di ribadire la natura positiva del diritto e dunque la
sua relatività storica. «Proprio quest’intrinseco coniugarsi — sul piano concettuale — di
«produzione giuridica» e «formazione del potere» ci fa capire ancora una volta (retrospettivamente)
perché quel sistema dei diritti con cui noi abbiamo dato risposta a questi problemi debba subito
affacciarsi come un diritto positivo, senza reclamare per sé nessuna validità morale o
giusnaturalistica «antecedente» alla formazione civica della volontà.» (Habermas 1992 Fatti e
norme, 178) «Mentre la volontà moralmente buona coincide per così dire con la ragion pratica, la
volontà politica — anche quando è ragionevolmente fondata — mantiene una sua contingenza, dal
momento che le ragioni su cui poggia sono sempre relative al contesto. Per questo la comunanza
delle convinzioni discorsivamente raggiunte dal legislatore politico può esprimersi nella forma del
potere comunicativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 187-188) Non però nel senso di operare una
semplice coincidenza tra agire discorsivo e formazione del diritto: «… non si può far coincidere
semplicisticamente la logica del discorso con i procedimenti istituzionalizzati dello Stato di diritto.»
(Habermas 1992 Fatti e norme,190) Né, tanto meno, sostituire quelli a questi… come accade in
assembramenti a carattere populistico demagogico.
3.7.4.1. C’è discorso e discorso. L’incontro azione discorsiva e formazione di diritto non può
prescindere dalle condizioni di legittimità (il carattere tendenzialmente universale della prassi
discorsiva e dell’intesa ) e di legalità (la coerenza tra le norme) indispensabili perché vi sia diritto.
«La formazione politica della volontà sfocia in deliberazioni (circa leggi e indirizzi politici) che
devono sempre essere formulate nel linguaggio del diritto.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 200)
Insomma, è bene ricordare: «La formazione politica della volontà ha come suo obiettivo la
legislazione, sia perché il sistema dei diritti che i cittadini si riconoscono a vicenda è anzitutto
interpretabile e sviluppabile solo attraverso leggi, sia perché il potere organizzato dello Stato, che
deve agire come parte per il tutto, può essere programmato e diretto solo attraverso leggi. La
competenza legislativa, pur toccando fondamentalmente ai cittadini nella loro totalità, viene
esercitata da corpi parlamentari i quali fondano leggi secondo procedure democratiche.» (Habermas
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1992 Fatti e norme, 204) (contro ogni cortocircuito diretto demagogico-populista; e per urgenze di
giustizia e di stabilità). Ricorda Rousseau: dove c’è il popolo non ci sono delegati… ma, in realtà,
il popolo non c’è mai, sia che del popolo si abbia una concezione meramente fisica, sia e soprattutto
se se ne ha una concezione in termini di opinione, conoscenza e scelta… non si dà l’unità
consapevole e autonoma di pensiero, volontà, sentimento in un popolo riunito; in questo campo
emergono le riserve di Habermas nei confronti di un concetto ideale di popolo spacciato o dato per
reale e attivo; perciò la rilevanza da dare alle forme e procedure discorsive, “presupposti
pragmatici”, come contesto reale di formazione di una autentica e non indotta volontà politica
civile.
3.7.4.2. Quindi l’analisi diventa studio delle forme e tipi di discorso, delle relative procedure
attuative per la realizzazione di argomentazioni comunicative volte alla formazione politica (civile)
della volontà. Forme e procedure; tipologie e regolamenti… sull’assunto non ogni forma di
discorso è costitutiva di volontà civile, sociale-politica, o politicamente finalizzata all’intesa. Questa
ricerca è la definizione delle istituzioni (natura, funzione e funzionamento) a partire dalla teoria del
discorso; significa cioè mettere in evidenza la tipologia e la procedura dei discorsi che definiscono
quelle istituzioni nel ruolo rappresentativo e nel ruolo istituzionale specifico: il discorso della
giustizia, del parlamento, dell’amministrazione governativa; discorso analizzato sempre nelle due
componenti: forma (forme, tipologie) e procedure (regolamentazioni interne). E l’attenzione andrà
rivolta anche ai rischi derivanti dalla generica esportazione di una (magari unica) forma
comunicativa in tutti gli ambiti o l’utilizzo improprio di procedure in campi non ammessi. Due soli
esempi: 1) sulle questioni morali: «Un altro rischio sta nell’applicazione delle procedure del
compromesso alle questioni morali od etiche, perché ciò implicherebbe (in maniera tacita oppure
inconsapevole) una riclassificazione di tali questioni come questioni strategiche.» (Habermas 1992
Fatti e norme, 211); 2) sull’uso della regola di maggioranza: «La regola di maggioranza conserva
un’interna relazione con la ricerca della verità per il fatto che la decisione maggioritaria rappresenta
solo un’interruzione nel corso d’una discussione incessante. Essa fissa, per così dire, un risultato
provvisorio nella formazione discorsiva dell`opinione.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 212-213)
«A seconda della problematica affrontata, i vari tipi di discorso e di trattativa svolgono ruoli
argomentativamente differenti ai fini d’una ragionevole formazione politica della volontà. Essi si
realizzano in corrispondenti forme di comunicazione e queste a loro volta — se si vuole garantire il
diritto dei cittadini ad esercitare i loro diritti politici di partecipazione — dovranno essere
istituzionalizzate giuridicamente. […] Ma sono istituzionalizzabili anche i procedimenti che
stabiliscono con quali regole una collaborazione debba affrontare determinati compiti. » (Habermas
1992 Fatti e norme, 210)
3.7.4.3. La ridefinizione delle istituzioni secondo la teoria del discorso è un proposito di metodo, un
obiettivo chiarito in forma esplicita e realizzato a partire dalle forme, tipologie e procedure dei
discorsi. «Dal punto di vista della teoria discorsiva, le funzioni degli apparati legislativi,
giurisdizionali e amministrativi [n.b. i tre poteri] si lasciano differenziare a partire dalle loro forme
comunicative e dai corrispondenti potenziali di ragioni. […] Se consideriamo le cose dal punto di
vista di una logica dell’argomentazione, il dividersi delle competenze tra organi che producono,
applicano ed eseguono le leggi deriva dal distribuirsi delle possibilità di ricorrere a diversi tipi di
ragioni, nonché a corrispondenti forme di comunicazione con cui trattare queste ragioni.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 227, 228) Impostata sul principio del discorso, la riflessione sulle
istituzioni diventa riflessione sulle garanzie democratiche offerte all’agire comunicativo: garanzie di
sicurezza (giustizia), efficacia (legislazione), stabilità (governo).
3.8. il rapporto più ampio (e di fondo) tra società civile e potere politico e il ruolo specifico
della società civile.
3.8.1. Il piano /progetto generale per la traduzione pragmatica (agire discorsivo) del principio della
sovranità popolare nelle forme e negli ambiti distinti delle Istituzioni. «Muovendo da
un’interpretazione del principio di sovranità popolare sviluppata in termini discorsivi (a) [cioè “ogni
41
potere politico nasce dal potere comunicativo dei cittadini”], è possibile derivare in primo luogo il
principio d'una completa tutela giurisdizionale dell'individuo fornita da un potere giudiziario
indipendente (b), in secondo luogo i principi della legalità amministrativa e del controllo giudiziario
e parlamentare sull’amministrazione (c), in terzo luogo, infine, quel principio di separazione tra
Stato e società che dovrebbe impedire al potere sociale di convertirsi in potere amministrativo
senz’essere preventivamente «filtrato», ossia fatto passare attraverso le «chiuse idrauliche» della
formazione comunicativa del potere (d).» (Habermas 1992 Fatti e norme, 202)
3.8.2. Il ruolo e la rilevanza del principio della separazione tra Stato e società.
La rilevanza politico-libertaria della separazione tra Stato e società appartiene alla tradizione
liberale, ma lì la libertà veniva sottolineata nel suo aspetto negativo nei confronti dello Stato: si
sottolinea l’esclusione o il limite di competenza dello Stato… e non il tema della partecipazione
attiva del cittadino allo Stato o meglio nella società in quanto società civile. «Nella tradizione del
diritto statuale tedesco, il principio della separazione di Stato e società fu interpretato — in
maniera troppo concreta — unicamente nel senso dello Stato liberale di diritto. Invece quel
principio afferma, in generale, la tutela giuridica di un'autonomia sociale che concede a ciascuno
anche pari opportunità di utilizzare, come cittadino, i propri diritti politici di partecipazione e di
comunicazione.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 207) «Il principio della separazione di Stato e
società, letto in termini più generali, richiede il formarsi di una società civile [Zivilgesellschaft],
ossia d’una rete di rapporti associativi e d’una cultura politica che siano sufficientemente sganciati
dalle strutture di classe.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 208) In conclusione: «Le istituzioni dello
Stato di diritto devono garantire l’esercizio effettivo dell'autonomia politica a cittadini socialmente
autonomi.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 209)
4. La consapevolezza e la gestione politica delle trasformazioni in atto e le sorti
(trasformazioni) della democrazia
Un compito ineludibile teoretico ed etico: «la decifrazione teoretico-discorsiva del senso
democratico delle istituzioni dello Stato di diritto deve essere integrata dall’esame critico dei
meccanismi, attivi nelle democrazie di massa, di alienazione dei cittadini dal processo politico.» In
particolare, l’attenzione critica va al «ricorso manipolativo al potere dei media per creare devozione
di massa» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, XXXVI, XXXVIII)
Lo studio di Habermas sulla Storia e critica dell’opinione pubblica indica sinteticamente, verso la
sua conclusione e in forma di sintesi l’ambivalenza della “sfera pubblica” studiata nel divenire della
sua funzione politica sotto l’influsso dei mezzi e delle forme di gestione della comunicazione
sociale; si evidenziano due direzioni potenziali, opposte ma non dualisticamente distinguibili come
se fossero processi privi di contaminazione reciproca. «La sfera pubblica politica dello Stato sociale
è caratterizzata da due tendenze concorrenti. Come forma di disgregazione della sfera pubblica
borghese essa dà luogo a una pubblicità, dimostrativa e manipolativa, sviluppata dalle
organizzazioni sopra la testa del pubblico mediatizzato. D’altra parte lo Stato sociale, in quanto
conserva una continuità con lo Stato di diritto liberale, mantiene il dettato di una sfera pubblica con
funzioni politiche, nella cui logica il pubblico mediatizzato dalle organizzazioni avvia, per loro
stesso tramite, un processo critico di pubblica comunicazione. Nella realtà costituzionale dello Stato
sociale questo aspetto della pubblicità critica è in contrasto con quello di una pubblicità con fini
esclusivamente manipolativi…» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica,
267)
Nell’opera programmatica del 1967, Logica delle scienze sociali, Habermas mette in luce i due
soggetti che tengono in scacco la democrazia nell’età contemporanea: 1. i gruppi oligopolistici di
interesse e profitto (economico, religioso, culturale…); 2. i partiti di massa come macchine di
costruzione di voto e di consenso artefatto. È a rischio la democrazia rappresentativa e Habermas
42
studia, in modo specifico, le dinamiche di questa deriva già in Storia e critica dell’opinione
pubblica e in Fatti e norme.
Habermas ricostruisce lo stato di crisi della rappresentatività… a partire dagli anni ’70. «La fiducia
— non specifica e molto aggregata — delle masse elettorali passive non vincolava più i programmi
politici delle leadership. Di conseguenza soltanto la razionalità delle stesse élites poteva ancora
garantire — decidendo in maniera innovativa — che le funzioni statali venissero soddisfatte in vista
del bene comune. Nasceva così l'immagine di un sistema amministrativo che — operando in
maniera relativamente indipendente dalla società — da un lato si procacciava il necessario lealismo
delle masse e dall'altro lato determinava liberamente i propri obiettivi politici. Da un punto di vista
normativo si poneva allora il problema di definire a quali condizioni un apparato statale che non
volesse farsi dirigere del tutto dagli interessi sociali potesse quanto meno sviluppare una sensibilità
sufficiente nei confronti di tali interessi. Un sistema politico autoprogrammantesi avrebbe così
dovuto accollarsi direttamente il compito di articolare i bisogni pubblicamente rilevanti, i conflitti
latenti, i problemi rimossi, gli interessi non suscettibili di organizzazione, e così via.
Dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia, dati empirici sempre più numerosi indussero a valutazioni
più caute. Il sistema amministrativo sembrava poter operare soltanto nell'ambito di un margine
d'azione estremamente ridotto. Esso sembrava legato alle modalità meramente reattive d’una
politica orientata non tanto a pianificare la società quanto semplicemente ad evitare le crisi. Sul
versante di «output» lo Stato interventista si scontrava subito con i limiti delle sue capacità di
direzione e controllo, giacché i sistemi funzionali e le grandi organizzazioni si sottraevano (essendo
dotati di logica interna) alla presa dei suoi interventi diretti. Sul versante di «input» il margine
d'iniziativa di governo e partiti veniva ulteriormente ristretto dall'imprevedibilità di un elettorato
oscillante che — per consapevolezza oppure per mobilitazione populistica — si staccava sempre di
più dai partiti d’origine. In tempi di crescente insofferenza nei confronti della politica, i partiti
consolidati dovevano temere la perdita di legittimazione derivante dai voti di protesta e dalla
diserzione delle urne.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 395)
Si tratta di un cammino osservativo che parte da lontano. Per restare nel ‘900 prende avvio in forma
consistente nell’allarme lanciato da Max Weber sulla moderna razionalizzazione (economica,
burocratica e scientifica) che rinchiude progressivamente e inesorabilmente in una “gabbia
d’acciaio” la società del nostro tempo e il potenziale democratico delle masse. Altrettanto di avvio
critico è la sua indicazione per una ripresa sulla base del fondamento trascendentale delle scienze
sociali: le scienze storico sociali hanno il proprio fondamento trascendentale 1. nei valoripossibilità-scelta (assumere posizione nei confronti del mondo), 2. nel presupposto di uno sviluppo
possibile. Un cammino di analisi e consapevolezza di cui Habermas ricostruisce alcuni momenti.
4.1. Da Max Weber e dalla Scuola di Francoforte il tema della razionalizzazione proprio del
progetto politico post-moderno o post-ideologico. «Fra i classici della sociologia Max Weber è
l’unico che ha rotto con le premesse del pensiero legato alla filosofia della storia nonché con gli
assunti di fondo dell’evoluzionismo. Nondimeno ha voluto concepire la modernizzazione della
società veteroeuropea come esito di un processo di modernizzazione storico-universale. Max Weber
ha reso accessibili ad un’ampia indagine empirica i processi di razionalizzazione senza
reinterpretarli alla maniera empiristica che fa sparire proprio gli aspetti di razionalità presenti nei
processi di apprendimento sociale. Max Weber ha lasciato la sua opera in stato frammentario;
tuttavia, seguendo il filo conduttore della sua teoria della razionalizzazione, è possibile ricostruire
l’abbozzo del tutto.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 229)
Dunque Max Weber indica la logica e gli esiti di costituzione sociale secondo scopo e progetto
servendosi del modello interpretativo che chiama razionalizzazione. In ciò non si limita a descrivere
la situazione esistente ma ne individua o ne ipotizza la logica costituente; è dunque una teoria critica
e non una sociologia comprendente, che si limiti a spiegare il fatto prestandosi alla sua
legittimazione, ma utilizza come chiave di lettura della crisi denunciata concetti delle scienze
formali naturali che vede operanti (distruttivamente) nel campo sociale. Questa logica soffre ancora
43
della tradizionale trasposizione, pur con ruoli critici, del modello logico razionale proprio delle
spiegazioni delle scienze naturali al campo sociale (secondo una tradizione molto lunga da
Condorcet, Hegel, Comte, Marx… ); in quella analisi Weber chiama in causa la sola “ragione
strumentale”, indica cioè il ruolo e gli effetti della razionalità ma «egli si lascia guidare dall’idea
limitata della razionalità rispetto allo scopo dell’azione», cioè della ragione strumentale non
cogliendo la natura più densa e complessa dell’agire comunicativo (della ragione comunicativa). È
una impostazione riduzionistica che sacrifica le potenzialità e la densità del sociale poiché viene
formalizzato con il rischio di non cogliere la natura indefinita e quindi la potenzialità ambivalenti
(di autoasservimento e di emancipazione) del suo nucleo fondativo: il mondo vitale, tessuto sociale
di fondo della prassi comunicativa. Un fondamento che, trascurato o non fatto oggetto di esame,
viene di fatto consegnato alle sue formalizzazioni storiche determinate nei tre settori della cultura,
società, persona [teoria dei tre mondi], che tendono a presentarsi come assoluti (moderni, ultimi
nello sviluppo) nascondendo la provvisorietà che deriva loro dal fatto di essere costruiti secondo le
concezioni e le urgenze di un periodo dato.
«Weber analizza quel processo di disincantamento legato alla storia della religione, che deve
soddisfare le condizioni interne necessarie per la comparsa del razionalismo occidentale, con
l’ausilio di un concetto di razionalità complesso, anche se in larga misura non chiarito. Per contro,
nell’analisi della razionalizzazione sociale, quale si viene affermando nella modernità, egli si lascia
guidare dall’idea limitata della razionalità rispetto allo scopo. Weber condivide questo concetto con
Marx, da un lato, con Horkheimer e Adorno, dall’altro. In via preliminare voglio chiarire il mio
modo di vedere la questione mediante un raffronto approssimativo di queste tre posizioni.
Secondo Marx la razionalizzazione sociale si afferma direttamente nello sviluppo delle forze
produttive, vale a dire nell’ampliamento del sapere empirico, nel perfezionamento delle tecniche
produttive e nella sempre più efficiente mobilitazione, qualificazione e organizzazione della forza
lavoro socialmente utile. Per contro i rapporti di produzione, quindi le istituzioni che esprimono la
distribuzione del potere sociale e regolano l’accesso differenziale ai mezzi di produzione, sono
rivoluzionati soltanto sotto la spinta alla razionalizzazione delle forze produttive. Max Weber
giudica in modo diverso il quadro istituzionale dell’economia capitalistica e dello Stato moderno:
non come rapporti di produzione che imprigionano il potenziale di razionalizzazione, ma come
sottosistemi di agire razionale rispetto allo scopo nei quali si dispiega socialmente il razionalismo
occidentale. Tuttavia egli paventa, quale conseguenza della burocratizzazione, una reificazione dei
rapporti sociali che soffochi gli stimoli motivazionali della condotta razionale di vita. Horkheimer e
Adorno, in seguito anche Marcuse, interpretano Marx partendo da questa prospettiva weberiana.
Nel segno di una ragione strumentale autonomizzatasi la razionalità del dominio della natura si
fonde con l’irrazionalità del dominio di classe, le forze produttive sprigionatesi stabilizzano i
rapporti di produzione che generano alienazione. La «Dialettica dell’illuminismo» cancella
l’ambivalenza che Max Weber ancora nutriva nei confronti dei processi di razionalizzazione e
capovolge senza esitazione la positiva valutazione datane da Marx. La scienza e la tecnica, che per
Marx sono un potenziale inequivocabilmente emancipativo, diventano esse stesse veicolo di
repressione sociale.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 230- 231)
4.2. il mondo della vita e la prassi del discorso retta dall’obiettivo di una comunicazione per
l’intesa alla prova dei sistemi autorganizzati.
O il difficile incontro tra le due strategie proposte da Habermas: sistema e mondo vitale.
4.2.1. La logica di sistema. «…la teoria dei sistemi ascrive la formazione politica dell’opinione e
della volontà (dominata dalla competizione tra partiti) a quel pubblico di cittadini e di clienti che è
sradicato dal suo mondo di vita — cioè da società civile, cultura politica e socializzazione
pulsionale — e incorporato nel sistema politico. In questo sistema, governo e amministrazione non
soltanto formano il complesso di più alta densità organizzativa, ma innestano anche una controcircolazione rispetto al circuito ufficiale del potere. Autoprogrammandosi largamente,
l’amministrazione controlla e dirige il processo legislativo attraverso indirizzi di governo, estorce
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lealismo di massa al pubblico dei cittadini attraverso partiti statalizzati, prende direttamente accordi
con le proprie clientele. […] Avendo bandito dal suo quadro categoriale ogni elemento normativo,
la teoria dei sistemi non reagisce più alle inibizioni normative imposte da una circolazione di potere
regolata come Stato di diritto. Con il registrare acutamente come il processo democratico si svuoti
dall’interno sotto la pressione degli imperativi funzionali, la teoria dei sistemi non manca di fornire
utili contributi a una teoria democratica. […] Un autismo che colpisce in modo particolare il sistema
politico, rinchiudendolo in maniera ermetica e autoreferenziale nei confronti dei suoi ambienti. Di
fronte a questo incapsulamento autopoietico diventa difficile spiegare come il sistema politico
debba ancora poter integrare la società nel suo insieme, anche se esso si è specializzato in
prestazioni di controllo che dovrebbero eliminare i disturbi interni ai sistemi e armonizzare tra loro
— in maniera, come si dice, compatibile con l’ambiente — sistemi funzionali che vanno
reciprocamente alla deriva. […] … un concetto di potere che elimina il nesso interno esistente tra
diritto e potere politico.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 398-399)
4.2.2. La logica del mondo vitale e il senso del legame e del passaggio dal mondo della vita ai tre
mondi (cultura, società, persona) considerati nel tema delle relazioni tra società e Stato. I temi
centrali nella riflessione di Habermas sul senso e sul ruolo dell’agire comunicativo (Habermas
1981, Teoria dell’agire comunicativo) diventano determinanti ora (Habermas 1992 Fatti e norme)
per fissare la separazione e il legame tra società civile e Stato. Finora questo rapporto è illustrato a
partire dal diritto (origine e forme) considerato il suo ruolo specifico, indicato con le parole:
«funzione socio-integrativa del diritto». Ora è partire dalla società civile e dal dato, fortemente
presente nella riflessione di Habermas, della sua crescente complessità e della tendenza
autonomistica dei diversi centri economici, linguistici, religiosi, etnici… che la caratterizzano
sempre più, che occorre ribadire la funzione dello Stato; e non a partire dal concetto di potere, ma
nel contesto di una teoria del discorso.
4.2.2.1. La distinzione e la relazione (di tipo dialettico) tra società civile e Stato dominano La
filosofia del diritto di Hegel e la sua teoria politica. Quell’ambito teoretico della riflessione politica,
nel capitolo riguardante il rapporto tra società civile e sfera pubblica politica, diventa contesto di
ripresa e rilancio di temi, concetti e tesi centrali nell’analisi di Habermas: sul ruolo del mondo di
vita, considerato in rapporto alle sue tre espressioni formalizzate di mondo (cultura, società,
persona); sulla natura, funzione e potenzialità del linguaggio quotidiano come bagaglio di
possibilità espressive e comunicative; sul significato, processo di formazione e azione di quella
realtà / non realtà (in termini di soggettività operativa) definita come sfera pubblica e sulla connessa
opinione pubblica (la stessa nozione di “società civile” non può essere considerata come avente i
tratti di un soggetto operativo di cui si possano indicare le direzioni intraprese, ma è un contesto di
opportunità più o meno garantite); sul ruolo dei rapporti di comunicazione e di discorso nel definire
il mondo della vita, il linguaggio quotidiano, il potere politico nella forma della democrazia fondata
sul diritto; il rapporto tra centro e periferia, nella dialettica del rapporto società civile e Stato.
4.2.2.2. L’esito dell’applicazione degli strumenti analitici di Habermas al tema della relazione tra
società civile e Stato. «L’integrazione di una società altamente complessa non è faccenda sbrigabile
nelle forme del paternalismo sistemico, ossia prescindendo dal potere comunicativo del pubblico
dei cittadini. Sistemi semanticamente chiusi non possono indursi da soli ad inventare quel
linguaggio comune che serve a percepire e articolare quanto è urgente e paradigmatico sul piano
sociale complessivo. A tal scopo risulta già disponibile — sotto il livello di soglia in cui si
differenziano tra loro i codici speciali — un linguaggio ordinario, circolante nell’intero corpo
sociale, che per la trattazione dei problemi sociali complessivi viene comunque utilizzato sia nelle
reti periferiche della sfera pubblica politica sia entro il complesso parlamentare. Già per questa sola
ragione diventa impossibile concepire politica e diritto come sistemi autopoietici chiusi.
Costituendosi come Stato di diritto, il sistema politico è internamente differenziato nei settori del
potere amministrativo e del potete comunicativo, e rimane così sempre aperto in direzione del
mondo di vita. Infatti la formazione istituzionalizzata dell'opinione e della volontà resta dipendente
dagli apporti provenienti dai nessi comunicativi informali relativi a sfera pubblica, libere
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associazioni e sfera privata. [vedi qui: cultura, società, persona] In altre parole, il sistema d'azione
politico è inserito in contesti del mondo di vita. […]
Questa diagnosi misconosce tuttavia le prestazioni che un linguaggio ordinario multifunzionale può
fornire proprio in virtù della sua non-specializzazione. Questo linguaggio ordinario è il medium
dell’agire orientato all’intesa: attraverso esso il mondo di vita si riproduce e le sue componenti
s'intersecano l’una con l’altra. I sistemi d'azione altamente specializzati nella riproduzione culturale
(scuola), nella socializzazione pulsionale (famiglia) o nell`integrazione sociale (per es. il diritto)
non operano affatto dentro compartimenti stagni. Attraverso il comune codice del linguaggio
ordinario — e scorrendo per così dire in parallelo — ognuno di questi sistemi soddisfa anche alle
funzioni degli altri due, tenendo in piedi un rapporto con la totalità del mondo di vita.» […]
Nel suo insieme, il mondo di vita forma una rete di azioni comunicative. Dal punto di vista del
coordinamento, la sua componente relativa alla società si compone della totalità delle relazioni
interpersonali legittimamente ordinate. Essa comprende anche collettivi, associazioni e
organizzazioni che si specializzano in funzioni determinate.» (Habermas 1992 Fatti e norme,418421)
4.3. La sede dell’ambivalenza e della trasformazione delle forme della democrazia diventa
dunque il variegato mondo «delle relazioni interpersonali legittimamente ordinate» che
compongono e pullulano nella società civile. Il problema politico nuovo che si pone alla democrazia
contemporanea consiste nel gestire e assecondare quello che Habermas (ottimisticamente) chiama
una tendenza funzionale (se non proprio “naturale”) della differenziazione sociale a cercare una
convergenza organica nel sociale attraverso il senso civico politico. «Rientra infatti nella logica di
differenziazione funzionale d’una società il fatto che i sottosistemi, già sviluppatisi per
differenziazione, si reintegrino globalmente a livello superiore della società. Se, decentrandosi, la
società non fosse più in grado di salvaguardare la propria unità, e dunque non potesse più trarre
vantaggio dalla crescita di complessità delle sue singole parti, essa finirebbe per cadere vittima delle
proprie (riuscite) differenziazioni parziali.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 408) Un processo di
integrazione in cui occorre articolare il ruolo dei soggetti (alcuni soggetti) implicati. Un primo
problema è creato dalla relazione tra “centro” gestionale dello Stato (i “tre poteri”) e la vasta
periferia che agisce più o meno autonomamente nel sociale. Un secondo e connesso problema è
quello creato dalla presenza e ruolo politico diretto dei partiti (espressione della società civile ma
diretti gestori, in qualche modo, del politico) e la varietà dei soggetti sociale e, soprattutto, dei
movimenti; il problema è quello della loro diversa natura e della loro relazione.
4.3.1. «Il centro del sistema politico è rappresentato dai noti complessi istituzionali a)
dell’amministrazione (incluso il governo), b) dell'apparato giudiziario, c) della formazione
democratica dell’opinione e della volontà (inclusi i corpi parlamentari, le elezioni politiche, la
competizione dei partiti). Questo centro — che si distingue dalla ramificata periferia in virtù di
formali competenze decisionali e di effettive prerogative — è dunque in se stesso articolato
«poliarchicamente». Al suo interno però la capacità d’azione è in rapporto diretto con la «densità»
della complessità organizzativa. Il complesso parlamentare è estremamente aperto alla percezione e
tematizzazione dei problemi sociali; tuttavia esso paga questa sua sensibilità con una capacità di
elaborare i problemi decisamente inferiore a quella del complesso amministrativo. Ai margini
dell’amministrazione vediamo formarsi una sorta di periferia interna, che è costituita dalle diverse
istituzioni dotate di diritti di autogestione, ovvero di funzioni di controllo e di sovranità
direttamente delegate dallo Stato (università, sistemi assicurativi, rappresentanze professionali, enti,
associazioni benefiche, fondazioni ecc.). Complessivamente poi il centro ha una sua periferia
esterna, la quale si divide — semplificando molto — tra i cosiddetti «consumatori» e i cosiddetti
«fornitori». […] Da questi sistemi negoziali bisogna però distinguere circoli, associazioni e gruppi
d’interesse che — rivolti al parlamento e all'amministrazione, ma spesso anche attraverso i canali i
dell’apparato giudiziario — «forniscono» espressione linguistica ai problemi sociali, avanzano
rivendicazioni politiche, articolano interessi o bisogni, influenzando in tal modo la formulazione dei
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progetti legislativi e degli indirizzi politici. Il ventaglio parte dalle «lobbies» rappresentanti espliciti
interessi di settore, passa attraverso associazioni (dalle riconoscibili finalità partitiche) e istituzioni
culturali (come accademie, associazioni di scrittori, «radical professionals», e così via), per
giungere infine ai gruppi rappresentanti interessi pubblici (con obiettivi tipo tutela ambientale,
controllo dei prodotti di consumo, protezione degli animali ecc.) nonché alle chiese e alle
associazioni filantropiche. Queste associazioni — che contribuiscono a plasmare le opinioni
specializzandosi sia su temi e contributi particolari sia sulla capacità in generale d'indirizzare
l’opinione pubblica — appartengono strutturalmente a quella società civile su cui poggia una sfera
pubblica dominata dai mass media. Quest'ultima, con i suoi flussi comunicativi informali,
differenziati e intrecciati, rappresenta il contesto periferico propriamente detto.» (Habermas 1992
Fatti e norme, 421-423)
4.3.2. partiti (“ politica di professione” - Weber) e sub-politica o partiti e movimenti. La
correlazione. « Le aspettative si appuntano sulla capacità di queste strutture di percepire i problemi
sociali complessivi, di interpretarli, anzi di «metterli in scena» in maniera innovativa e capace di
attirare l'attenzione. A queste aspettative «forti» la periferia sarà capace di rispondere solo nella
misura in cui le reti della comunicazione pubblica non-istituzionalizzata rendano possibile processi
formativi dell’opinione più o meno spontanei.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 426)
4.3.2.1. presentazione dei movimenti e della loro impossibilità a diventare partiti (necessità che non
lo diventino): il loro più facile, o più diretto, legame con il mondo della vita. «Il senso è una risorsa
scarsa che non si lascia rigenerare o ingrandire come vogliamo, laddove per «senso» io intendo il
valore minimo della spontaneità sociale. Anche quest'ultima è — come tutte le grandezze empiriche
— una grandezza condizionata. Senonché le sue condizioni risiedono in quei contesti del mondo di
vita che limitano dall’interno la capacità dei consociati giuridici di organizzare in prima persona la
loro convivenza. Ciò che da ultimo rende possibile la modalità discorsiva di socializzazione
caratterizzante una comunità giuridica non è mai semplicemente a disposizione della volontà dei
suoi membri.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 426)
4.3.2.2. il tema della rappresentatività e della rappresentanza e il rischio della mancata relazione tra
centro e periferia, tra partiti e movimenti. « Certo la sociologia delle comunicazioni di massa ci
offre un quadro piuttosto scettico delle sfere pubbliche delle democrazie occidentali, assoggettate
come sono al potere e manipolare dai mass media. Non che i movimenti sociali, le iniziative e i fori
civici, i circoli politici e le associazioni, insomma le varie strutture della società civile, non siano
effettivamente in grado di recepire i problemi. Soltanto che i segnali e gli impulsi da loro lanciati
sarebbero generalmente troppo deboli per risvegliare a breve termine nel sistema politico processi
di apprendimento, oppure per guidare in esso nuovi processi decisionali. […] Siccome recettività,
capacità cognitiva e attenzione del pubblico sono risorse straordinariamente scarse — per la cui
conquista le reti televisive si danno quotidianamente battaglia —, la presentazione di notizie e
commenti deve quasi sempre sottostare alle strategie di mercato e alle «ricette» degli esperti di
pubblicità.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 442-443, 447)
4.3.2.3. Di qui processi di degenerazione della consapevolezza politica. Sembra fattore tipico per la
nascita di un movimento, accanto all’urgenza di un tema, la convinzione di non poter essere
rappresentati, il rifiuto della delega, la consapevolezza delle scadenze elettorali come eventi che
rinnovano la perdita, la percezione della democrazia del voto come recente inganno, ancor più
subdolo del modello assolutistico in quanto il continuo appello al voto del popolo serve alla sua
esclusione dall’esercizio del potere, escluso dal suo controllo. Il movimento è dunque anche no alla
delega, no al voto, no ai partiti, no ai sistemi rappresentativi, contro l’inganno democratico delle
istituzioni.
Il non sentirsi rappresentati è però contemporaneamente, una richiesta di rappresentanza diretta,
assolutamente personalizzata, rigorosamente individuale in cui si rivendica per sé decisione e potere
per una gestione in proprio che possiede i tratti della stessa distanza dal bene comune e
dall’interesse generale che si rimprovera alle istituzioni cui si nega la rappresentatività. Un diritto
alla rappresentanza diretta, in una società in cui l’apparire è tutto, lontana dalla prassi democratica e
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civile di un agire comunicativo ispirato alla partecipazione. È una rivendicazione che si configura
come una resa dei conti, come una richiesta rancorosa di riconoscimento per la rappresentanza
come valore in sé e assoluto. Il male di volere una rappresentanza assoluta come il male di non
essere rappresentati determinano entrambi la morte della democrazia e della società come società
civile. Emergono i tratti del populismo: «Si tratta di movimenti tanto moderni nelle forme di
mobilitazione quanto antidemocratici nelle finalità che si propongono.» (Habermas 1992 Fatti e
norme, 440)
4.3.3. Torna qui, a questo proposito, come contesto e per l’armonizzazione, la nozione e il ruolo
della “sfera pubblica” (già presentato): «Pur essendo un fenomeno sociale elementare — come
azione, attore, gruppo o collettività —, la sfera pubblica esula dai concetti tradizionalmente attinenti
all’ordinamento della società. La sfera pubblica non è pensabile come istituzione né tantomeno
come organizzazione; essa non è, di per sé, struttura normativa che preveda il diversificarsi di
competenze e di ruoli, regole di appartenenza ecc. Neppure rappresenta un sistema: se infatti
consente differenziazioni interne, verso l'esterno resta sempre contrassegnata da orizzonti aperti,
permeabili e mobili. Piuttosto potremmo descrivere la sfera pubblica come una rete per comunicare
informazioni e prese di posizione, insomma opinioni. In questo processo i flussi comunicativi sono
filtrati e sintetizzati in maniera da convogliarsi in opinioni pubbliche relative a temi specifici. Così
come l’insieme del mondo di vita, anche la sfera pubblica si riproduce attraverso l’agire
comunicativo (dove basta padroneggiare un linguaggio naturale) e viene a dipendere dalla generale
comprensibilità della prassi comunicativa quotidiana. […] La sfera pubblica però non si specializza
in nessuna di queste due prospettive; nell’affrontare problemi politicamente rilevanti essa deve
affidarli all’elaborazione specialistica del sistema politico. Essa si distingue piuttosto per una
struttura di comunicazione che concerne una terza prospettiva dell'agire orientato all'intesa: non le
funzioni e neppure i contenuti della comunicazione quotidiana, bensì lo spazio sociale generato
dall’agire comunicativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 427-428)
5. “Indeterminatezza del diritto e razionalità della giurisdizione”
«… lo Stato democratico di diritto non si configura come una struttura perfetta, ma piuttosto come
un'impresa difficile e delicata la quale — in larga misura fallibile e bisognosa di revisioni — è
progettata al fine di realizzare ogni volta daccapo, nel mutare delle circostanze, il sistema dei diritti,
vale a dire d'interpretarlo meglio, d'istituzionalizzarlo in maniera più adeguata, sfruttandone il
contenuto in maniera sempre più esauriente. Questa è la prospettiva che i cittadini assumono
quando, impegnandosi attivamente a realizzare il sistema dei diritti, vorrebbero superare in maniera
pratica la tensione esistente tra fattualità sociale e validità, appellandosi alle condizioni di contesti
sempre nuovi e teoricamente padroneggiati. La teoria del diritto non può far sua questa prospettiva
del partecipante. Tuttavia essa può ricostruire da quale concezione paradigmatica del diritto e dello
Stato democratico di diritto i cittadini si lasciano guidare, dopo aver visto quali restrizioni strutturali
ostacolino nella loro società l’autoorganizzarsi della comunità giuridica. […] Ogni costituzione
storicamente esistente ha un duplice riferimento temporale. Come documento storico essa ricorda
— interpretandolo — l’atto della fondazione e indica così un punto d’inizio. Nello stesso tempo il
suo carattere normativo ci ricorda che il compito d’interpretare e sviluppare il sistema dei diritti si
pone daccapo per ogni nuova generazione. Come progetto di società giusta, una costituzione
articola l’orizzonte d’attesa di un futuro che è ogni volta presente. Sotto questo aspetto — di un
incessante processo costituente di lungo periodo — il procedimento democratico della produzione
giuridica legittima acquista una posizione tutta particolare. Per questo motivo ci siamo chiesti se —
ed eventualmente in che modo — in società complesse come le nostre un procedimento tanto
esigente sia implementabile con un’efficacia sufficiente ad imporre nel sistema politico una
circolazione di potere disciplinata come Stato di diritto. Le risposte a questa domanda informano a
loro volta la nostra concezione paradigmatica del diritto. […] Le decisioni vincolanti per tutti
devono anche essere interpretabili come realizzazione di diritti.» (Habermas 1992 Fatti e norme,
48
455-456) «In ultima istanza, infatti, la politica non ha libera disponibilità sulle condizioni che
rendono possibile produrre un diritto legittimo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 457)
«Siccome questi diritti devono essere interpretati in modi diversi col mutare dei contesti sociali, la
luce che essi gettano su tali contesti si frange nello spettro di paradigmi giuridici mutevoli. Le varie
costituzioni storiche si lasciano intendere come altrettante interpretazioni d'una sola e medesima
prassi: quella con cui consociati giuridici liberi ed eguali si autodeterminano. Ma come tutte le altre
prassi, anche questa è situata nella storia. Gli interessati non possono che partire dalla loro prassi
determinata, se vogliono mettere in chiaro ciò che questa prassi significa in generale.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 458)
5.1. Due paradigmi: Stato liberale, Stato sociale.
«Non esiste «il» sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli
di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi
possono guidarci a una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui poggia la prassi
intersoggettiva di un’autolegislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo.» (Habermas 1992
Fatti e norme, 155)
«Nella storia giuridica moderna i due paradigmi più importanti — e ancor oggi concorrenti tra loro
— sono quelli del diritto formale borghese, da un lato, e del diritto materializzato dello Stato
sociale, dall'altro. Interpretando diritto e politica alla luce della teoria discorsiva, io intendo mettere
a fuoco un terzo paradigma giuridico, capace di superare dentro di sé i due precedenti. Ritengo
infatti che ai sistemi giuridici nati in questo fine secolo nelle democrazie di massa dello Stato
sociale si adatti i bene una concezione proceduralista del diritto.» (Habermas 1992 Fatti e
norme,232)
La storia e la tradizione non vincola deterministicamente ma è l’unico contesto che orienta e che
assiste il sociale nella sua autodefinizione prendendo (antropomorficamente) in cura
l’indeterminatezza del diritto; non perché intende negarla come un male, ma in quanto la considera
un bene: una situazione che tiene aperta la possibilità e promuove un diritto sul fondamento
dell’agire discorsivo. La tradizione fornisce storicamente due modelli generali di costituzione del
diritto: Stato liberale (borghese, fondato sulla proclamazione delle libertà negative; in Usa
repubblicani), Stato sociale (democratica, fondato anche sulla promozione e sostegno delle libertà
positive; in Usa democratici o liberals). Aprendo una lunga storia: «la storica controversia tra il
paradigma sociale e quello liberale», perché in tema e in questione sembra esserci la «linea di
demarcazione separante autonomia privata e autonomia pubblica» (Habermas 1992 Fatti e norme,
490-491).
Un duplice sguardo o due metodi, più che due rigidi sistemi (magari in partitica opposizione) frutto
di una lettura e analisi di carattere giuridico e di carattere storico; che fonde quindi osservazione
empirica e costruzione teorica nell’evoluzione dei modelli del diritto e nell’ambito della sua
relazione con il sociale. La pluralità dei modelli rimette al centro l’ambivalenza imprescindibile di
fattualità e validità; validità e legittimazione che prende forma in una posizione mossa a cogliere,
interpretare e sostenere i cambiamenti in atto, esprimendoli e garantendoli nella forma del diritto
con finalità democratica.
5.1.1. Un duplice modello o la trasformazione storica del diritto: dal diritto a impostazione liberale
al diritto a impostazione sociale e i due modelli che si definiscono. «…questo processo veniva
percepito dalla giurisprudenza tedesca come una crisi del diritto. […] L'esaurirsi del paradigma
dello Stato sociale ha suscitato problemi giuridici che hanno certamente colpito in primo luogo
l’attenzione degli esperti, inducendoli a studiare i modelli sociali iscritti nel diritto.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 461, 467)
Un breve riepilogo di impostazione storica dà l’idea complessiva del tema in gioco, e indica la
trasformazione o il passaggio da un modello all’altro nel corso del XX secolo: «Il diritto privato
classico giudicava l’autodeterminazione individuale — nel senso della libertà negativa di poter fare
o non fare ciò che si vuole — sufficientemente garantita dai diritti della persona e dalla tutela contro
49
gli illeciti civili, ma soprattutto dalla libertà di contratto (specie nello scambio di beni e prestazioni)
nonché dal diritto alla proprietà (con le garanzie connesse di godimento e disponibilità, anche nelle
successioni) unitamente alle garanzie istituzionali di matrimonio e famiglia. La nascita di nuove
sfere giuridiche quali diritto del lavoro, diritto della previdenza sociale [Sozialrecht] e diritto
dell’economia, nonché la materializzazione del diritto dei contratti, degli illeciti civili e delle
proprietà, finirono per modificare radicalmente la situazione. Principi che fino a quel momento
erano stati univocamente ascritti o al diritto privato o a quello pubblico, ora venivano a collegarsi e
a confondersi. Sembrava che tutto il diritto privato andasse al di là d’una semplice tutela
dell’autodeterminazione individuale, dovendo anche servire a realizzare la giustizia sociale: «Perciò
anche nel diritto privato la garanzia dell'esistenza dei consociati e la tutela dei più deboli acquistano
lo stesso rango del perseguimento degli interessi individuali» (K. Hesse). In questa prospettiva
vediamo considerazioni etico-sociali penetrare in rami del diritto prima unificabili solo dal punto di
vista dell’assicurazione dell’autonomia privata. L’obiettivo della giustizia sociale richiede ora che si
diano interpretazioni differenziate a rapporti giuridici formalmente eguali ma materialmente diversi,
motivo per cui istituti giuridici identici possono anche assolvere funzioni sociali diverse.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 470; impostazione storica ripresa e applicate al diritto di proprietà e
di contratto, in 476ss)
5.1.1.1. Si riapre il problema storico-giuridico di quanto il sociale possa incidere nella traslazione
delle norme giuridiche da una posizione di libertà negativa a una di libertà positiva, ma anche
viceversa (si pensi ai recenti dibattiti sul diritto nei confronti del corpo, del vivere, della morte; sui
diritti dell’ambiente…), e in quali ambiti.
5.1.1.2. Occorre infatti prendere in considerazione «le diverse «sfere», o ambiti d'azione, il cui
«contenuto di pubblicità» sta in rapporto inverso all’intensità della tutela giurisdizionale
individualmente concessa. Quest’intensità si riduce via via che il singolo individuo, attraverso i suoi
ruoli, viene a trovarsi sempre più irretito nei legami sociali, ovvero — per usare un altro
vocabolario teorico — via via che i suoi margini di scelta vengono determinati dai processi dei
sistemi funzionali e delle grandi organizzazioni (processi non influenzabili dal singolo individuo).»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 471) La “dimensione pubblica” (la “pubblicità”) si afferma quindi
non necessariamente perché lo Stato prevarica, ma perché la società è maggiormente interconnessa
e non c’è nessun diritto privato che possa essere garantito a prescindere dalle relazioni sociali in cui
è sempre più collegato. Quale proprietà privata potrebbe diventare un diritto di fatto certo oltre che
giuridicamente garantito senza un consenso universale intorno ad esso e senza un suo ingresso nel
mondo vitale, terreno comune di intesa e di riconoscimento reciproco immediato di una collettività?
5.1.1.3. In termini più generali (e teoretici) sulla dinamica della relazione tra dimensione privata e
dimensione pubblica del diritto (che non corrisponde affatto a due diverse classi di diritti, ma a
diverse dimensioni o ambiti di realizzazione del diritto): «La libertà positiva della persona etica si
realizza nell'esecuzione consapevole d'una storia individuale di vita. Questa libertà si esprime in
quelle sfere private dove le biografie degli appartenenti a un mondo di vita intersoggettivamente
condiviso s'intrecciano nel quadro di tradizioni comuni e sul piano delle interazioni semplici.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 472)
5.1.1.4. Allora la conciliazione: non “la crisi del diritto”, nel passaggio dal modello liberale al
modello sociale, ma una sua nuova fase, quella attuale e attualizzabile. «Ciò che appare come
restrizione è soltanto il rovescio del concreto realizzarsi di eguali libertà soggettive per tutti. Questo
perché l'autonomia privata — nel senso di questo universale diritto di libertà — implica un
universale diritto d’eguaglianza, ossia un diritto alla parità di trattamento secondo norme che
garantiscano un’eguaglianza giuridica sostanziale. Ciò può certo produrre, per l’una o per l’altra
delle parti in causa, delle restrizioni di fatto rispetto allo «status quo ante». Ma in tal caso siamo di
fronte non a restrizioni normative del principio di libertà giuridica, ma all’eliminazione di privilegi
che sono incompatibili con l’eguale ripartizione di libertà soggettive richiesta da questo principio.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 474; sul tema, in forma storica narrativa le pagine 475-476)
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I diritti privati devono fare i conti con la loro imprescindibile dimensione sociale che ne garantisce
l’esistenza (se non proprio con la priorità etico-politica data ai problemi sociali); e anche se i “beni
comuni” si privatizzano, entrano nell’ambito della proprietà privata, essi non perdono affatto
l’urgenza di beni sociali e da questo aspetto sociale è condizionato ogni processo di (progressiva,
auspicata o deprecata) privatizzazione dei “beni comuni”; la dimensione “bene comune” è una
dimensione imprescindibile.
5.2. La terza situazione, un terzo modello: concezione proceduralista del diritto.
Oltre l’opposizione tra i due modelli (liberale e sociale), opposizione mai di fatto avvenuta ma
ideologicamente sempre proclamata; qui ora il terzo o attuale sistema o modello.
«…proprio le trasformazioni sociali che ci fanno prendere coscienza del cambio di paradigma
c'inducono anche a concepire il rapporto tra autonomia privata e autonomia politica non più in
termini di contrapposizione, bensì di rimando reciproco.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 470)
5.2.1. I due modelli diventano avvertenze per una doppia cautela, e dunque si confermano entrambi
a rischio, entrambi irrinunciabili.
«Mentre il modello del libero mercato vede nella società il risultato di forze spontanee, dunque una
sorta di «seconda natura» che si sottrae all’influenza dei singoli attori, il punto di vista dello Stato
come istanza del controllo e della pianificazione toglie alla società questa sua connotazione
naturalistica e deterministica. Non appena gli equilibri sistemici oscillano al di là di una certa soglia
di «compatibilità sociale», lo Stato deve lasciarsi imputare le situazioni di crisi come un effetto del
suo deficit di controllo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 480) Ma, il rischio o il timore presente nel
modello sociale: «Uno Stato sociale assistenziale che attribuisce le opportunità di vita e che — con
il diritto al lavoro, a sicurezza, salute, casa, promozione del risparmio, istruzione, tempo libero e
basi naturali della vita — concede a ognuno il fondamento materiale di un'esistenza dignitosa, corre
manifestamente il rischio di compromettere con le sue misure intrusive l’autonomia degli individui.
Cioè proprio quell’autonomia per favorire la quale esso deve soddisfare i presupposti fattuali di un
godimento delle libertà negative ispirato alle pari opportunità.» (Habermas 1992 Fatti e norme,
481)
5.2.2. L’incontro tra i due modelli formulato nel termini di una teoria fondata sull’agire discorsivo,
su di una prassi comunicativa volta all’intesa e sugli elementi che la sorreggono concretamente;
occorre tener presente che tale fondazione si impone, per Habermas, in un’epoca post-metafisica.
«Nella concezione postmetafisica del mondo vale come legittimo solo un diritto derivante dalla
discorsiva formazione dell’opinione e della volontà di cittadini giuridicamente equiparati. A loro
volta questi cittadini possono esercitare la loro autonomia pubblica — garantita dai diritti
democratici della partecipazione politica — solo nella misura in cui venga loro concessa
un’autonomia privata. Una garantita autonomia privata serve a tutelare la genesi di quella pubblica,
così come (per converso) un conforme esercizio dell’autonomia pubblica serve a tutelare la genesi
di quella privata. La stessa circolarità o interdipendenza si manifesta nella genesi del diritto vigente.
Il diritto legittimo si riproduce soltanto come quella circolazione di potere che, regolamentata in
Stato di diritto, si alimenta delle comunicazioni d’una sfera pubblica non manipolata e radicata —
attraverso le istituzioni della società civile — nelle sfere private del mondo di vita. In questa
concezione della società, l'onere delle aspettative normative generalmente intese si trasferisce dal
piano delle qualità, competenze e autonomie degli attori al piano delle forme di comunicazione
attraverso cui interagiscono tra loro dimensioni informali e dimensioni istituzionalizzate della
formazione dell’opinione e della volontà.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 483)
5.2.3. Dunque il “terzo” modello si presenta come una teoria proceduralista del diritto.
Il postulato: «Il diritto è a disposizione della politica: ma prescrive anche alla politica le condizioni
procedurali cui essa deve attenersi per poter disporre del diritto (K. Günther)» (Habermas 1992
Fatti e norme, 508) o, in modo essenziale, «genesi democratica del diritto» (Habermas 1992 Fatti e
norme, 523). In realtà non si tratta di un terzo modello che si affianchi ai due storici, ma di una
posizione che evidenzia ad un tempo l’irrinunciabilità dei due modelli storici, quello dello Stato
51
liberale e quello dello Stato sociale, connessi più di quanto solitamente avvertano e ammettono, ma
anche i rischi derivanti da una loro affermazione unilaterale. Alle spalle dei due modelli e a loro
reale sede fondativa si colloca il modello proceduralista che li sostiene formalmente affermandone
la necessità e denunciandone i rischi. «Un ordinamento giuridico è legittimo nella misura in cui
paritariamente assicura ai suoi cittadini la cooriginaria autonomia pubblica e privata. Nello stesso
tempo, tuttavia, esso resta debitore della sua legittimità alle forme comunicative di cui questa
autonomia ha bisogno per esprimersi e confermarsi. Questa è la chiave per una concezione
proceduralista del diritto. Dopo che le garanzie dell'autonomia privata offerte dal diritto formale si
sono rivelate insufficienti, e dopo che anche il controllo sociale operante attraverso il diritto
minaccia l'autonomia privata che esso intende ripristinare, l'unica via d’uscita consiste nel
tematizzare il nesso di quelle forme comunicative che tutelano simultaneamente l’autonomia privata
e pubblica nelle condizioni stesse del loro nascere.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 483-484) «La
teoria del discorso riconduce la legittimità del diritto a procedure e a presupposti comunicativi
capaci di fondare — dopo che essi siano stati istituzionalizzati giuridicamente — la supposizione
che i processi di produzione e di applicazione giuridica conducano a risultati razionali. Le norme
licenziate dal legislatore politico e i diritti riconosciuti dal potere giudiziario comprovano la loro
«razionalità» per il fatto che i destinatari sono trattati da liberi ed eguali associati di una comunità di
soggetti giuridici, dunque, in altre parole, per il fatto che esiste una parità di trattamento tra persone
giuridiche tutelate nella loro integrità. […] Il diritto è legittimo quando, chiudendo il cerchio, fa
coincidere l'autonomia privata dei suoi destinatari (assoggettati alla parità di trattamento) con
l'autonomia pubblica di cittadini che devono giudicare sui criteri della parità (essendo essi gli autori
giuridicamente equiparati dell’ordinamento).» (Habermas 1992 Fatti e norme, 490)
«Le cecità complementari dei due paradigmi giuridici, quello dello Stato sociale e quello liberale,
risalgono allo stesso tipo di errore. Essi fraintendono in termini «distributivi» la costituzione
giuridica di libertà, assimilandola a un’eguale distribuzione di beni acquisiti o corrisposti.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 496)
5.2.4. Salvare il mondo della vita è salvare la natura proceduralista del diritto (ricordando la
funzione sociointegrativa del diritto).
5.2.4.1. Il futuro della democrazia, e le sue garanzie, è legato alla capacità di salvare il mondo della
vita come risorsa inesauribile di segni, conservati lì come patrimonio comune di intesa per la loro
indifferenzialità (indefinitezza) semantica [ricorda il tema, in forma letteraria, in Jasper Fforde “il
mare del testo” in Jasper Fforde (2003), Il pozzo delle trame perdute (Marcos y marcos, Milano
2007); e nell’espressione “dal bazar del mondo” di F. Scott Fitzgerald, Tenera è la notte (Torino,
Einaudi, 2005, cap. 4, I, p. 27). Sulla stessa linea le posizioni di Habermas sul multiculturalismo,
posizioni che trovano nel mondo della vita il proprio fondamento metafisico-culturale, così come vi
trova fondamento una relazione di società improntata alla volontà di intesa.
5.2.4.2. « D'altro canto la razionalità comunicativa — nello svelarci il segreto di una legittimità
derivante dalla legalità — non potrà neppure «rimpiazzare» il vecchio sovrano. Nella democrazia
infatti questo seggio deve sempre rimanere vuoto, e non soltanto nel senso letterale del termine. La
prestazione (solo apparentemente) paradossale del diritto consiste in ciò: esso imbriglia il potenziale
conflitto di svincolate libertà individuali attraverso norme che tutelano l'eguaglianza e che sono
coattive soltanto in quanto riconosciute come legittime sul vacillante terreno di svincolate libertà
comunicative.» (Habermas 1993-1996 Solidarietà tra estranei, 111)
5.3. “Indeterminatezza del diritto e razionalità della giurisdizione” e conseguente teoria
proceduralista del diritto all’interno dell’attuale società complessa.
«Finora ho trattato il paradigma procedurale solo rispetto alla realizzazione dei diritti. Ma la nuova
concezione giuridica viene a riguardare da vicino (direi in primo luogo) anche il problema di come
nelle società complesse possa ulteriormente svilupparsi lo Stato democratico di diritto. La
transizione al modello dello Stato sociale, come abbiamo visto, fu giustificata dal fatto che certi
diritti soggettivi potevano essere conculcati non solo da interventi illegali, ma anche dalla mancata
52
prestazione di servizi da parte della pubblica amministrazione.» (Habermas 1992 Fatti e norme,
506)
5.3.1. Il postulato, di nuovo, sulla funzione del diritto. «Tuttavia il perseguimento di finalità
collettive doveva subordinarsi alla funzione prioritaria del diritto (ossia alla normazione di
aspettative comportamentali), in maniera tale che la politica fosse sempre interpretabile come una
realizzazione di diritti. «Il diritto è a disposizione della politica: ma prescrive anche alla politica le
condizioni procedurali cui essa deve attenersi per poter disporre del diritto» (K. Günther). Le
restrizioni imposte alla politica dalla forma del diritto sono di tipo strutturale e non, come teme il
neo-liberalismo, di tipo quantitativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 508)
5.3.2. Il dato attuale della complessità e le trasformazioni che impone. «Se assumiamo come traccia
la crescente complessità dei compiti dello Stato, diventa plausibile una certa periodizzazione della
sua attività. Lo Stato fu inizialmente costretto a specializzarsi nel mantenimento dell'ordine
pubblico, poi nella giusta distribuzione di compensazioni sociali, infine nella gestione di rischi
collettivi.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 515) Il tema che si impone si configura nei termini di
una “solidarietà tra estranei” (rilevante il testo: Habermas Jürgen, 1993-1996 Solidarietà tra
estranei. Interventi su «Fatti e norme»).
«Come associazione di liberi ed eguali il diritto è già potenzialmente democrazia. La democrazia
richiede una società già abituata alla libertà, capace e desiderosa di esercitare libertà comunicativa e
prassi civica. In questo senso i comunitaristi hanno ragione nel sottolineare che è la solidarietà (non
la competizione) ciò che lega insieme una società. Tuttavia democrazia è — nell’epoca del
disincanto postmetafisico — anche il pluralismo delle individualità collettive e dei modelli di vita,
dunque solidarietà tra persone che si riconoscono il diritto di rimanere reciprocamente estranee.»
(Habermas 1992 Fatti e norme. Avvertenza Leonardo Ceppa, XII)
5.3.3. una società della polifunzionalità, operante nei tre mondi (cultura, società, persona) è società
in cui soggetti diversi (per appartenenze, comunità, ideologie, ruoli…) operano e agiscono, di diritto
e di fatto, alla costituzione possibile di un mondo della vita, di forme di intesa e dello stesso diritto,
soprattutto vista la natura proceduralista del diritto in democrazia. «Le dimensioni
quantitativamente e qualitativamente nuove dei compiti statali hanno modificato il fabbisogno di
legittimazione. Quanto più il diritto viene impiegato come strumento di controllo politico e di
pianificazione sociale, tanto maggiore diventa l’onere di legittimazione cui la genesi democratica
del diritto deve far fronte.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 507)
Una posizione programmatica generale. «Le persone (quindi anche i soggetti giuridici) acquistano
identità solo tramite socializzazione. [in nota: Individuazione tramite socializzazione, in Il pensiero
post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, 184-236] Se ciò è vero, una teoria dei diritti rettamente
intesa richiederà comunque una "politica di riconoscimento" che tuteli l'integrità dell'individuo
anche riguardo al nesso di vita costitutivo della sua identità. A questo fine non c'è nessun bisogno di
elaborare “contromodelli” che partano da una diversa prospettiva normativa per correggere il taglio
individualistico del sistema dei diritti. Basta realizzare fino in fondo questo stesso sistema. E certo
sarebbe difficile pensare a questa realizzazione prescindendo dai movimenti sociali e dalle lotte
politiche. È ciò che ci insegna per esempio la storia del femminismo, il quale nel corso degli anni
ha dovuto adottare strategie sempre nuove per realizzare i suoi obiettivi di politica giuridica
superando ogni sorta di resistenze. Nell'ultimo secolo, i movimenti femministi delle "pari
opportunità" hanno ripercorso lo stesso modello evolutivo già tracciato dallo sviluppo del diritto
occidentale. Questo modello può essere descritto come dialettica tra eguaglianza giuridica ed
eguaglianza fattuale (eguaglianza "de jure" versus eguaglianza “de facto"). Eguali competenze
giuridiche concedono libertà d'azione il cui uso differenziale non promuove l’eguaglianza fattuale
delle situazioni di vita e delle posizioni di potere. Per un verso — se non vogliamo che il senso
normativo dell’eguaglianza giuridica si rovesci nel contrario — bisogna naturalmente realizzare i
presupposti fattuali che consentono a tutti di utilizzare, con pari opportunità, le competenze
giuridiche loro assegnate. Per un altro verso, tuttavia, questo riequilibrio delle situazioni di fatto e
delle posizioni di potere non deve produrre interventi "normalizzatori" che coartino il margine
53
d'azione dei potenziali fruitori impedendo loro di organizzarsi l'esistenza in forme autonome. Finché
restringiamo la nostra ottica soltanto alle garanzie dell'autonomia privata — rimuovendo il nesso
interno che ricollega i diritti individuali dei privati all'autonomia pubblica dei cittadini partecipanti
alla produzione giuridica — la politica del diritto è destinata a oscillare senza rimedio tra gli
estremi di un paradigma giuridico liberale à la Locke e il paradigma giuridico altrettanto miope di
uno stato socio-assistenziale.» (Habermas Jürgen 1996 Lotta di riconoscimento nello stato
democratico di diritto, 70-71)
5.3.3.1. il dato primo che socialmente emerge prende la forma di disorientamento, problema,
avvertenza, allarme…: «… una società decentrata e funzionalmente differenziata che prolifera in
una molteplicità di sistemi; … una società policentricamente frantumata; … si è frantumata in
maniera centrifugale in sottosistemi che possono comunicare soltanto con se stessi e nel proprio
codice particolare; …lo sguardo artificialmente estraniato dell’osservatore sistemico…» (Habermas
1992 Fatti e norme, 60, 61,70)
5.3.3.2. Il presupposto laico post-metafisico mette in campo un’altra consapevolezza: «In una
società pluralistica, la teoria della giustizia può presumere d’essere accettata solo restringendosi a
una concezione rigorosamente post-metafisica, ossia evitando di prender partito nella lotta tra
concorrenti forme di vita e visioni del mondo» (Habermas 1992 Fatti e norme, 76-77)
Il richiamo di Rawls: «Ora, una teoria della giustizia modellata su rapporti di vita moderni dovrà
sempre dare per scontata una molteplicità di forme e di progetti di vita coesistenti sul piano
dell'equiparazione giuridica; tra di loro, riguardati dalla prospettiva di tradizioni e di storie di vita
diverse, sussisterà sempre un ragionevole dissenso. La teoria dovrà allora limitarsi allo stretto
cerchio di quelle fondamentali questioni politico-morali su cui sia ragionevole attendersi un
«consenso per intersezione». Si tratta delle questioni che riguardano valori, diciamo così, neutrali
dal punto di vista della «visione del mondo» oppure valori inclusi in tutte le dottrine comprensive
concorrenti. Il problema è sempre quello di trovare principi, o norme, che incarnino interessi
suscettibili di generalizzazione. Rawls pensa che una teoria post-metafisica della giustizia,
includendo un concetto debole (ossia puramente formale) di bene, rappresenti quella sezione di
enunciati normativi in cui «s’intersecano» più ampie (ma dipendenti dal contesto) interpretazioni di
Sé e del mondo di tipo etico, quando non addirittura di tipo religioso o metafisico. Io vorrei soltanto
aggiungere che queste immagini concorrenti del mondo — se non vorranno eludere le condizioni
del pensiero post-metafisico — dovranno accettare di esporsi senza riserve al confronto pubblico e
argomentativo.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 77)
5.3.4. In questo contesto problematico il ruolo dei modelli / paradigmi giuridici.
«I paradigmi giuridici consentono di elaborare diagnosi orientative della situazione. Essi illuminano
l’orizzonte di ogni società impegnata a realizzare il suo sistema dei diritti. In questo senso hanno
un’insostituibile funzione di «apertura del mondo». I paradigmi dischiudono prospettive
interpretative in cui i principi dello Stato di diritto — interpretati in certo modo — diventano
riferibili al contesto sociale complessivo. Essi rendono visibili le restrizioni e le possibilità in base a
cui realizzare quei diritti fondamentali che hanno sempre bisogno — come principi insaturi — di
ulteriore interpretazione e sviluppo. Perciò anche il paradigma proceduralista, come tutti gli altri
paradigmi, contiene in sé elementi normativi ed elementi descrittivi.» (Habermas 1992 Fatti e
norme, 518) Il loro essere insaturi e la concezione proceduralista del diritto sono aspetti fortemente
collegati, la natura procedurale del diritto è resa operativa sulla base della teoria del discorso;
infatti, ribadendo, secondo Habermas, occorre «applicare il principio discorsivo anche al diritto e
alla produzione giuridica». (Habermas 1993-1996 Solidarietà tra estranei, 25)
5.3.5. Perciò, in termini più fondamentali, nel contesto di società sempre più polifunzionali, il ruolo
di un modello / sistema politico fondato sulle coordinate presentate da una teoria dell’agire
comunicativo.
«La teoria discorsiva del diritto concepisce lo Stato democratico di diritto come quella
istituzionalizzazione di procedure e di presupposti comunicativi che — scorrendo sui binari del
diritto legittimo e garantendo l’autonomia privata — rende possibile una formazione discorsiva
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dell’opinione e della volontà. A sua volta quest'ultima, tramite l’esercizio dell'autonomia politica,
rende possibile una legittima statuizione giuridica. La teoria comunicativa della società — per
converso — concepisce il sistema politico come uno tra i sistemi d’azione esistenti.» (Habermas
1992 Fatti e norme, 518) «Dai precedenti paradigmi giuridici in competizione, quello procedurale
non si differenzia per il fatto d’essere «formale» nel senso di «vuoto» o «povero di contenuto».
Esso vede piuttosto nella società civile e nella sfera pubblica dei punti di riferimento in grado di
dare un peso nuovo (un ruolo finora sottovalutato) al processo democratico che deve realizzare il
sistema dei diritti. […] E nelle società complesse soltanto le pratiche comunicative
dell’autodeterminazione sono ancora in grado di rigenerare le forze della solidarietà sociale.»
(Habermas 1992 Fatti e norme, 526-527)
«A questo punto ci chiediamo su che cosa poggi la legittimità di regole siffatte, in qualunque
momento rivedibili dal legislatore politico. Questa domanda diventa cruciale soprattutto nelle
contemporanee società pluralistiche. In esse si sono per un verso dissolte le «visioni del mondo»
comprensive e le etiche collettivamente vincolanti mentre, per l'altro verso, la morale posttradizionale di coscienza che è sopravvissuta non offre più basi sufficienti al diritto naturale prima
fondato in senso religioso o metafisico. L’unica fonte post-metafisica di legittimità è costituita
evidentemente dalla procedura democratica con cui viene generato il diritto. Ma cos'è che dà forza
legittimante a questa procedura? La teoria del discorso dà a questa domanda una risposta semplice e
a prima vista inverosimile. La procedura democratica rende possibile il libero «scorrere» di temi e
contributi, informazioni e ragioni; essa assicura così alla formazione politica della volontà un
carattere discorsivo e fonda la fallibilistica presunzione che risultati prodotti in conformità alle
procedure siano più o meno ragionevoli.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 530)
5.4. In conclusione: paradigma proceduralista del diritto, comunicazione, democrazia.
«Siamo così giunti al nocciolo del paradigma proceduralista del diritto. La chiave d'accesso alla
genesi democratica del diritto sta — per usare le parole di Ingeborg Maus — nella «incessante
combinazione e vicendevole mediazione di sovranità popolare giuridicamente istituzionalizzata e
sovranità popolare non-istituzionalizzata». Il sostrato sociale per realizzare il sistema dei diritti non
è più costituito né dalle spontanee forze del mercato né dalle misure intenzionali dello Stato di
welfare, bensì dai flussi comunicativi e dalle influenze pubblicistiche che si convertono in potere
comunicativo emergendo (tramite procedure democratiche) dalla società civile e dalla sfera
pubblica. Una coltivata autonomia delle sfere pubbliche autonome, l’allargata partecipazione dei
cittadini, l’imbrigliamento del potere dei media, la funzione mediatrice svolta da partiti politici nonstatalizzati: ecco gli elementi che acquistano un’importanza centrale. A scongiurare l’occupazione
della sfera pubblica politica da parte dei poteri sono indirizzate le proposte di chi vorrebbe ancorare
nella costituzione elementi plebiscitari (referendum, petizioni ecc.), oppure introdurre procedimenti
tipici della democrazia di base…» (Habermas 1992 Fatti e norme, 523)
«Da dove traggono legittimità in ultima istanza tutte queste norme? Da ragioni sostantive oppure
dal procedimento? A seconda di come intendiamo questo processo generativo di legittimità,
dipenderà il ruolo che la distinzione «forma/contenuto» assume nel paradigma giuridico
proceduralista. Nel ricostruire il senso d’un legittimo ordinamento giuridico io prendo le mosse
dalla decisione di un (qualsiasi) gruppo di persone di voler legittimamente regolare la loro
convivenza — a partire da quel momento — con gli strumenti del diritto positivo. Al fine di dare
esecuzione a questa loro intenzione, tali persone entrano in una prassi comune. Il senso
performativo di questa prassi costituente consiste nel trovare e stabilire collettivamente quali regole
i partecipanti debbano mutuamente riconoscersi sulla base delle premesse prima ricordate. Dunque
la prassi costituente deve dare per presupposte due cose: a) un diritto positivo che ci fornisca (come
medium) l’obbligatorietà delle regole, b) un principio di discorso che valga come «bussola» per la
razionalità delle consultazioni e delle deliberazioni. [quindi sottolinea: comunicazione e diritto] La
combinazione e l’intreccio di questi due elementi formali sono tutto quanto ci serve per poter
stabilire i processi di produzione e applicazione d’un diritto legittimo. Nelle condizioni del pensiero
55
postmetafisico, infatti, non possiamo più contare su un consenso materiale che vada al di là di
questo. La restrizione a presupposti che siano formali in questo senso è quanto ci viene richiesto
dalle condizioni specificamente moderne di un pluralismo di visioni del mondo, forme di vita
culturali, situazioni d'interesse, e così via. Questa restrizione non significa naturalmente che una
prassi costituente di questo genere sia priva di contenuti normativi. Al contrario: nel senso
performativo di questa prassi, che il sistema dei diritti e i principi costituzionali non fanno altro che
sviluppare, è già contenuto come suo nucleo dogmatico-dottrinale l’idea di Rousseau e di Kant di
un’autolegislazione di consociati giuridici liberi ed eguali. Questa idea non è soltanto formale. Ma
dal momento ch’essa si lascia compiutamente sviluppare nelle forme di una prassi costituente
contenutisticamente non predeterminata (nonché nelle forme pratiche che danno sviluppo
costituzionale al sistema dei diritti insaturi), sussiste la giustificata presunzione ch’essa sia
ideologicamente neutrale, almeno nella misura in cui le diverse interpretazioni del sé e del mondo
siano non fondamentalistiche, e dunque compatibili (nel senso delle «not unreasonable
comprehensive doctrines» di cui parla John Rawls) con le condizioni del pensiero post-metafisico.»
(Habermas 1993-1996 Solidarietà tra estranei, 48-49)
6. per un ideale internazionalistico (finale d’obbligo) fondato su intesa e diritto o
diritto all’intesa: lo Stato deve creare le condizioni perché venga realizzato il diritto
degli uomini all’intesa reciproca e quindi alla pace come produzione di civiltà.
Lo scenario si configura come la naturale e storica estensione e realizzazione pratica delle teorie
politiche ed etiche (e morali) presentate da Habermas. (Forse serve ricordare che per Habermas vale
la distinzione tra etica e morale: etica o la dimensione civile e sociale, un sentire personale e
socialmente condiviso; morale o la filosofia pratica fondata su principi e definizioni di regole
universali considerate razionali, universali, proprio di ogni individuo ed esprimibili quindi in
termini formali, come nella tradizione di Kant)
Vale il principio teoretico e pratico reggente: «Interpretare la realtà in maniera diversa non
significa: all’interno del medesimo sistema di riferimento di fatti descrivibili dare diverse
interpretazioni selettive; significa piuttosto: progettare diversi sistemi di riferimento. Questi non si
determinano più secondo un criterio teoretico di corrispondenza tra segni e stati-di-cose. Ogni
sistema di riferimento, piuttosto, fissa praticamente delle disposizioni che predeterminano una
determinata relazione dei segni con gli stati-di-cose: vi sono tanti tipi di «stati-di-cose» quante sono
le grammatiche. Interpretare diversamente la realtà, sul piano del trascendentalismo linguistico, non
significa neppure: interpretarla «soltanto» in maniera diversa; ma significa: integrare la realtà in
forme di vita diverse. […] A ogni etica o forma di vita corrisponde una logica propria, cioè la
grammatica di un determinato e non riducibile gioco linguistico. Anche ora le proposizioni etiche
non possono esser espresse; solo che, la grammatica che Io posso render perspicace per mezzo
dell’analisi linguistica, diventa ora anche etica: non è più logica del linguaggio unitario e
dell’universo dei fatti, ma l’ordine costitutivo di un mondo sociale di vita.» (Habermas Jürgen 1967
Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970, 192, 193).
6.1. Torna centrale e generale il tema della necessaria integrazione (correlazione, confronto,
incontro…) tra mondo della vita e sistema per una aperta e giusta società democratica.
Il problema di «… collegare il concetto di mondo della vita introdotto nella Logik der
Sozialwissenschaften (1967; Logica delle scienze sociali) col concetto di sistema che mantiene i
confini. Da questo si sviluppa nella Theorie des kommunikativen Handels (1981; «Teoria dell’agire
comunicativo») la concezione binaria della società come mondo della vita e come sistema. Questa
comporta infine radicali conseguenze per il concetto di democrazia.
Da allora io considero l’economia e l'apparato statale come sfere d’azione integrate sistemicamente,
che non potrebbero più venir riformate democraticamente dall’interno, vale a dire convertite a una
modalità politica di integrazione, senza che ne venga intaccata la loro caparbietà sistemica e quindi
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turbata la loro funzionalità. Ciò è confermato dal fallimento del socialismo di Stato. L’impulso
verso una radicale democratizzazione viene ora piuttosto contrassegnato da uno spostamento di
forze all’interno di una «divisione dei poteri» conservata in linea di principio. E qui deve istituirsi
un nuovo equilibrio non già tra poteri dello Stato, ma tra diverse risorse di integrazione sociale. Lo
scopo non è più semplicemente l'«abolizione» di un sistema economico reso capitalisticamente
autonomo e di un sistema di governo reso burocraticamente autonomo, bensì la protezione
democratica dalle invasioni colonizzatrici degli imperativi del sistema negli ambiti del mondo della
vita. Con ciò viene abbandonata l’idea, propria della filosofia della prassi, dell'alienazione e
dell’appropriazione di forze essenziali oggettivate. Una modifica radicaldemocratica del processo di
legittimazione mira a un nuovo equilibrio tra i poteri dell’integrazione sociale, in modo che la forza
sociointegrativa della solidarietà — la «comunicazione, forza produttiva» — possa affermarsi
contro i «poteri» delle altre due risorse di governo, il denaro e il potere amministrativo, e con ciò far
valere le esigenze orientate su valori d’uso del mondo della vita.» Habermas Jürgen 1962, 1990
Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011, XIX-XXX)
6.2. Si tratta qui dell’esito sociale politico dell’etica discorsiva. « L'etica discorsiva non pretende
soltanto di poter ricavare un principio morale universale dal contenuto normativo delle necessarie
premesse pragmatiche dell’argomentazione in genere. Questo stesso principio si riferisce piuttosto
al riscatto discorsivo di pretese normative di validità, vale a dire, collega la validità delle norme alla
possibilità di un’adesione motivata da parte di tutti gli eventualmente interessati, nella misura in cui
costoro si assumono il ruolo di partecipanti all’argomentazione. Secondo questa lettura, il
chiarimento di questioni politiche, in quanto concerne il loro nucleo morale, è rinviato
all’istituzione di una pubblica prassi argomentativa.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica
dell’opinione pubblica, XXXIII- XXXIV)
6.3. L’Europa ad una svolta e di fronte ad un dilemma (un dibattito Streek-Habermas). La crisi
economica pone l’Europa (e la politica) di fronte ad un dilemma, in discussione e destino. «Il
dilemma dell’Europa: capitalismo vs democrazia. L’integrazione politica ci salverà? Una
discussione tedesca, i destini di tutti, di Maurizio Ferrera (Corriere della sera, 21 luglio 2013) Non
ci vuole molta perspicacia per capire che il futuro dell’Europa dipende oggi dalla Germania. Il
governo di Berlino è stato sinora alquanto riluttante a rivelare i propri piani strategici. In vista delle
elezioni di settembre, Angela Merkel, e gli altri leader politici si sono infatti sforzati di «depoliticizzare» il tema europeo, per non spaventare gli elettori ed evitare rigurgiti di nazionalismo e
populismo. Al di fuori dell’arena elettorale, il dibattito tedesco è tuttavia molto vivace. Negli ultimi
mesi si è accesa ad esempio una vera e propria controversia fra due intellettuali di grande calibro: il
sociologo Wolfgang Streeck e il filosofo Jürgen Habermas. Oggetto del contendere è, appunto, il
futuro dell’Unione Europea. Secondo Streeck, l’integrazione economica sta uccidendo la
democrazia per difendere il capitalismo: meglio ripristinare al più presto i ripari dello Stato
nazionale. Per Habermas invece l’approfondimento politico della Ue è l’unica via per salvare la
democrazia e riconciliarla con il mercato. Pur toccando temi «alti» di teoria sociale, lo StreeckHabermas Debatte ha avuto grandissima eco nei mezzi di informazione ed è un vero peccato che le
barriere linguistiche ne abbiano sinora ostacolato una maggiore diffusione internazionale.»
Entrambi rimandano ad una formazione e a interessi primi nella tradizione della Scuola di
Francoforte e nel pensiero di Adorno, giungono a posizione quasi antitetiche: di ritorno “alle mura”
dello stato nazionale per Streeck (che vede in azione il capitale finanziario e i suoi gendarmi a
difesa degli interessi della finanzia internazionale e a distruzione dei governi nazionali e della
democrazia), di rilancio e realizzazione convinta e strutturata dell’Unione europea per Habermas.
«In una lunga recensione apparsa lo scorso maggio, Habermas ha rivolto critiche molto incisive alle
tesi di Streek. Come è noto, anche Habermas viene dalla Scuola di Francoforte, e infatti condivide
l’idea che capitalismo e democrazia siano in costante tensione tra loro. Nel corso del tempo,
tuttavia, il grande filosofo ha preso le distanze dal neomarxismo, avvicinandosi alla prospettiva
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weberiana e alla tradizione del liberalismo pragmatico ed egalitario. Streeck ha ragione, sostiene
Habermas, a criticare l’eccesso di influenza del capitale finanziario e ad attaccare il «federalismo
esecutivo» della Ue di oggi, quasi del tutto scollegato dai tradizionali circuiti della rappresentanza.
Ma il sociologo del «Max Planck» sbaglia due volte: primo, nel formulare una implausibile teoria
della cospirazione; secondo, nel raccomandare l’«opzione nostalgica» di un ritorno al passato.
Secondo Habermas, la democrazia può salvarsi solo grazie all’Europa, più precisamente grazie alla
realizzazione di una genuina Unione Politica. Ciò che il filosofo ha in mente è una «Comunità di
Stati», i quali continuerebbero a giocare un ruolo di primo piano nell’attuazione delle politiche
pubbliche e nella salvaguardia delle libertà civili. Una comunità, tuttavia, capace di fornire ai
cittadini europei una Wir-Perspektive (una prospettiva del «noi»), uno stimolo a tenere in conto gli
interessi di tutti e non solo quelli dei propri connazionali.»
6.3.1. Per questi obiettivi si impongono incisive riforme istituzionali e culturali: «“detronizzare” il
Consiglio Europeo e rivitalizzare il metodo comunitario.» Più nello specifico: «Per procedere verso
questa meta, Habermas ritiene assolutamente necessario superare lo status quo su due fronti cruciali
il primo è istituzionale: «detronizzare» il Consiglio Europeo e rivitalizzare il metodo comunitario. Il
secondo è sostanziale: accettare un più elevato livello di redistribuzione tra Stati tramite il bilancio
dell’Unione. Mutualizzazione del debito, eurobond, unione bancaria e così via: solo con questi
strumenti è possibile uscire dalla crisi salvaguardando democrazia e solidarietà.» (Maurizio Ferrera)
6.3.2. Una convinzione: la democrazia e i suoi presupposti comunicativi di coinvolgimento e
partecipazione sociale si presenta come il contesto di incontro tra politica, società e storia; un
modello cioè che, per la sua duttilità, attua un coinvolgimento del politico nel sociale e una capacità
di sostenere e gestire i mutamenti in corso secondo una finalità etica universale. «La democrazia si
trova perciò a un punto di svolta, un’altra di quelle grandi divisioni che permettono di crescere e
adeguarsi alle esigenze di una società che cambia. Come al tempo di Tocqueville aveva assunto un
significato più ampio, seguendo la tradizione americana — uguaglianza dei diritti e delle
opportunità —, adesso la vecchia democrazia si mostra insufficiente ad affrontare la complessità
del mondo liquido. Così la separazione tra politica e potere, su cui insiste Zygmunt Bauman (Danni
collaterali, Laterza), si rivela in fondo una diminutio capitis della democrazia; un meccanismo
perverso che tende a sottrarre ai cittadini il diritto di autodeterminarsi. La pratica della deregulation
ne è lo strumento utile ma occasionale, da usarsi finché la sua mediocre carica ideologica non sarà
esaurita. La proposta avanzata da Beck di avere più Europa (Europa tedesca, Laterza), nel senso di
procedere a passi rapidi verso l’unità politica ed economica, eliminando le due velocità e le distanze
tra i Paesi creditori e debitori, appare ostacolata, o meglio non prevista, nei ruolini di marcia verso
un’egemonia dei mercati. Il non-luogo sottratto al controllo politico, dove regna sovrana la legge
del profitto in nome di un individualismo spregiudicato. Per ironia della sorte in una cultura che
riconosce valore all’individuo nella strenua lotta per sopravvivere, all’interno di un sistema privo di
reti di protezione e che ritiene superata la Solidarietà pubblica, ma che di questa inedita formula di
aggregazione sociale — le moltitudini di spinoziana memoria —— privilegia il solo versante
economico.» (Bordoni Carlo, Beck, Bauman e la Germania, «Merkiavelli» la temporeggiatrice:
rinviare e dividere (per vincere), Corriere della sera, 21.07.2013)
6.3.3. I fondamenti delle tesi di Habermas. Ad una impostazione (quella di Streeck) che sembra
storicamente nostalgica e ideologicamente precostituita intorno ai concetti romantici di nazione e di
popolo (pur nel riconoscimento del ruolo imprescindibile della nostalgia e della ideologia come
fattori o componenti di orientamento e decisione), Habermas oppone un modello politico fondato
giuridicamente sulla dialettica tra fatti e norme (Fatti e norme) e culturalmente su di un agire
comunicativo mirato all’intesa (Teoria dell’agire comunicativo).
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