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Il Medioevo
La ragione e l’orizzonte della fede
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1
Medioevo e fine dell’Impero
Il Medioevo ha origine dalla dissoluzione
dell’impero romano a partire dal V secolo e dal
contemporaneo venir meno dell’autorità centrale
nell’Europa occidentale e nell’Africa nord
occidentale. A tali fenomeni si aggiunge lo
spopolamento delle città a favore delle campagne,
la diminuzione della produzione di beni e degli
scambi commerciali e, infine, un diffuso sentimento
di insicurezza dovuto alle frequenti invasioni di
popoli barbarici provenienti dall’oriente germanico
e asiatico.
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2
Alto Medioevo
Il periodo medievale può essere suddiviso in tre
epoche: l’Alto Medioevo (secc. V-XI), il periodo della
rinascita dopo il Mille (secc. XI-XIII) e il Basso
Medioevo (secc. XIV-XV).
• La prima, detta altomedievale, è caratterizzata dal
costituirsi dei regni barbarici e poi del Sacro
Romano Impero con la sua struttura feudale.
• Accanto a ciò si assiste all’affermarsi sempre più
ampio dell’autorità della Chiesa cattolica facente
riferimento al pontefice romano.
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3
La cultura nell’alto medioevo
La cultura altomedievale si limita, all’inizio, all’opera
di conservazione e ricopiatura di testi dell’antichità
greco-latina ad opera dei monaci e del personale
ecclesiastico, custode della tradizione culturale
d’occidente. Dal IX secolo si assiste alla cosiddetta
rinascenza carolingia, in occasione della nascita del
Sacro Romano Impero di Carlo Magno e dei suoi
successori, e al fiorire della scuola palatina, alla
corte dell’imperatore, il cui protagonista è Alcuino
di York.
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La prime scuole medievali
Nei primi secoli del Medioevo, come si è detto, la cultura veniva
trasmessa in ambito ecclesiastico, all’interno di istituzioni promosse
dai monasteri (scuole monacali) o dai vescovati (scuole episcopali) con
lo scopo di formare il clero, oppure dall’imperatore stesso che si
circondava di intellettuali , anch’essi per lo più ecclesiastici, a palazzo
(scuola palatina).
• Di particolare importanza è la scuola di Alcuino fiorita nell’ultimo
ventennio dell’VIII secolo. Essa prevedeva tre gradi di studio: nel
primo si imparavano la lettura, la scrittura e i rudimenti della Bibbia;
nel grado successivo le arti del Trivio (grammatica, retorica e
dialettica che attenevano allo sviluppo del discorso e alle regole
della comunicazione e del pensiero) e del Quadrivio (aritmetica,
geometria, astronomia e musica) che dall’epoca del tardo impero
romano erano considerate i fondamenti della formazione del dotto.
In ultimo, a completamento dell’istruzione della persona, si
approfondiva la lettura e l’interpretazione della Sacra Scrittura.
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L’eredità della fede cristiana
Sotto il profilo dei contenuti la cultura medievale di trova
di fronte a due grandi tradizioni, cui non sente di poter
rinunciare. La prima e più importante è quella cristiana,
codificata ormai da secoli di riflessione dei padri della
Chiesa sulla Scrittura e sul messaggio di Cristo e codificata
nella fede della Chiesa stessa attraverso i grandi concili –
primi fra tutti Nicea, Efeso, Costantinopoli. Così gli
intellettuali del Medioevo erano già da sempre posti
nell’orizzonte di una fede che indicava loro le verità
ultime della vita e del mondo. Tale fede rappresentava un
punto di vista irrinunciabile e gelosamente custodito.
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L’eredita della riflessione filosofica e
del sapere antichi
La seconda grande eredità è costituita dal patrimonio di studi filosofici,
etici, scientifici, storici, linguistici, letterari e dal patrimonio di poesia,
invenzione, arte che gli antichi, greci e romani, avevano elaborato. I
medievali lo avvertivano come un’eredità importantissima di saperi in
grado dei offrire orizzonti di saggezza che abbandonare sarebbe stato
assurdo e ingiusto. Già i Padri della Chiesa avevano efficacemente
utilizzato alcuni spunti della cultura filosofica, storica e letteraria antica
per illustrare concetti cristiani. Infatti ritenevano che la cultura umana
contenesse di per sé un anelito alla Verità che il cristianesimo non aveva
negato bensì realizzato in modo più vero e profondo. Per questo quella
stessa cultura, che si era formata grazie al buon uso delle facoltà razionali
umane, benché non ancora illuminate dalla fede, poteva risultare di
grande aiuto a giustificare in modo ragionevole le verità di fede.
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La fede e la ragione
Ma, avendo a che fare con due orientamenti così diversi: una Verità
ultima che va creduta per fede e delle verità razionali che vanno
cercate e indagate mediante lo sviluppo di un’autonoma ricerca,
bisognava in qualche modo armonizzarli e chiarirne i rapporti (talora
infatti gli antichi avevano fatto affermazioni anche di carattere religioso
evidentemente incompatibili con la fede cristiana). Pertanto sempre,
negli autori fondamentali della filosofia medievale, lo sfondo delle
discussioni e delle elaborazioni teoretiche è quello di una preventiva
presa di posizione circa la problematica del rapporto tra ragione e
fede. Si trattava di capire se tra queste due fonti del discorso vero (la
fede e/o la ragione come riferimento che misura la verità delle proprie
affermazioni) vi sia armonia o conflitto e, nel caso di un possibile
conflitto, quali delle due fonti sia da privilegiare.
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Una periodizzazione
Senza pretesa di esaustività, si può periodizzare la trattazione della
tematica fede-ragione all’interno della filosofia delle scholae e, poi,
delle università (che viene chiamata pertanto filosofia scolastica, una
sorta di sinonimo di filosofia medievale).
• Nella prima fase del pensiero medievale (alta scolastica fino al IX
secolo), lo stesso uso della filosofia per indagare i principali
misteri del cristianesimo nello stile che era stato dei Padri della
Chiesa, cioè delle grandi personalità che avevano contribuito al
formarsi della dottrina cattolica sancita via via dai concili , induce
gli autori a ritenere pressoché indubitabile l’armonia di fede e
ragione, laddove la fede indica le Verità principali in cui l’uomo
deve credere per ottenere la salvezza e la ragione le indaga
cercando di spiegarle, specificarle e illuminarle.
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Una cartina al tornasole: la questione
degli universali
Ogni epoca del Medioevo dà la sua peculiare
versione di come intende i rapporti tra ragione e
fede. Interessante è però un dibattito che attraversa
la cultura medievale lungo i secoli, quello sui
cosiddetti universali, cioè sui concetti che, come
quelli di genere e specie, indicano non singoli
individui ma classi di individui. Ricordiamo che da
Platone i concetti universali sono considerati essere
le idee, mentre per Aristotele indicano le specie di
oggetti che coincidono con la loro forma.
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Il tema del contendere
La questione riguarda le capacità degli universali di individuare
delle vere realtà. Se le idee esistono veramente, come diceva
Platone, la ragione che le pensa, pensa delle realtà e ne coglie il
senso ultimo. Ma siccome queste realtà, essendo verità eterne,
sono al tempo stesso create, volute e pensate da Dio (questo,
come si sa è l’aggiunta con cui Agostino cristianizza Platone), la
ragione si armonizza perfettamente con il pensiero divino e
riesce dare un visione corretta del mondo. Se invece sono solo
pensieri umani, o addirittura parole senza una reale
corrispondenza nella realtà, questi concetti possono avere un
utilizzo limitato ai bisogni umani senza offrire una verità delle
cose pienamente affidabile. La ragione quindi non potrà più
collaborare con la fede alla descrizione del mondo e la fede non
potrà più fare affidamento sulla ragione per spiegare le sue
verità.
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La nascita della questione:Porfirio
e Boezio
Nel III sec. d. C. il filosofo neoplatonico Porfirio (allievo di
Plotino) pubblica un testo che vuole introdurre alla lettura
delle Categorie di Aristotele, un’ importante opera di logica
del filosofo di Stagira. L’opera si intitola Isagoge o Introduzione
alle Categorie di Aristotele (dal greco eisagoghé =
introduzione).
All’inizio del VI secolo, nell’ambito di un progetto, mai portato
a termine, di traduzione in latino di tutto il corpus aristotelico
e platonico, il filosofo romano Severino Boezio (480-526)
traduce in latino non solo l’Organon aristotelico (cioè tutte le
opere logiche dello Stagirita), ma anche l’Isagoge porfiriana
(che viene pure dallo stesso Boezio commentata).
Questi testi diventano oggetto di studio attento e
approfondito da parte dei filosofi scolastici.
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L’argomento più discusso
L’argomento più discusso tra i filosofi medievali è quello relativo ai
generi e alle specie aristoteliche. Porfirio, introducendo il tema aveva
detto: "Non dirò, riguardo ai generi e alle specie,
• se siano sostanze esistenti per sé,
• o se siano semplici pensieri
e, nel caso siano sussistenti, se siano realtà
• corporee
• o incorporee
e, infine, se siano
• separate dai sensibili
• ovvero poste in essi.
Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più vaste
indagini."
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Quale realtà hanno i generi e le
specie?
Come si è detto, è proprio questo tema che appassiona i
medievali: quale realtà possono avere quei termini, come i
generi e le specie, che si predicano di una molteplicità di
individui? Infatti genere e specie, lo ricordiamo a partire da
Aristotele, sono termini linguistici e concettuali che hanno
una estensione tale da comprendere tanti individui. Generi
sono insiemi di individui all’interno dei quali si possono
ritagliare dei sottoinsiemi che chiamiamo specie. Per
esempio uomo è genere che contiene in sé il sottoinsieme
«italiano» «svizzero» etc.: questi ultimi sono specie del
genere uomo. D’altro canto «italiano» o «svizzero» etc.
sono a loro volta generi di «lombardo» o «ticinese» etc., i
quali ultimi sono appunto specie del loro genere.
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Il problema
• Ora il problema è il seguente:
• Quando io dico Socrate è un uomo, sto dicendo che appartiene alla
specie umana, la quale a sua volta appartiene al genere animale e
così via. Ma in questo caso «uomo» che cosa indica?
1) Indica che in Socrate vi è un’ «umanità» come idea platonica
REALMENTE ESISTENTE alla quale Socrate parteciperebbe,
2) oppure indica un carattere distintivo di Socrate che mi aiuta a
definirlo come un essere determinato che possiede una forma la
quale NON HA REALTÀ SE NON DENTRO la sostanza Socrate
(Aristotele),
3) o infine è solamente un modo che ho per «chiamare» Socrate,
cioè semplicemente un NOME con cui indico l’individuo Socrate,
partendo dalla mia esperienza e astraendolo da lui come da altri
individui che hanno caratteri simili.
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Ante rem
• Queste alternative sottendono tre diverse prospettive.
• La prima corrisponde ad un realismo di matrice
platonico-agostiniana in cui generi come umanità,
bontà, umanità, bellezza etc., hanno una sussistenza
per sé nella mente di Dio, prima della loro esistenza
come termini linguistici che designano caratteri delle
cose. Tale impostazione pensa gli universali come
termini ante-rem, prima della cosa, cioè prima
dell’esistenza delle cose indicate dal termine (la Bontà,
platonicamente intesa viene prima delle cose buone).
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Anselmo
Questa posizione è stata sostenuta da Anselmo d’Aosta, per il
quale la recitutudo (cioè la capacità di dire rettamente e
veritativamente le cose) del linguaggio, del pensiero e delle
cose sensibili stesse è nient’altro che il loro adeguarsi all’idea
così come è presente nel pensiero di Dio, un’idea che ha
quindi un grado addirittura più elevato di realtà che non le
cose sensibili individuali stesse.
• Il problema che sorge in questo ambito è il modo in cui
l’unica essenza universale possa essere partecipe di più
individui (senza moltiplicarsi) e di come possa divenire
causa della loro identità profonda (rimanendo da loro
separata) nel caso di un universale che designi la sostanza
di una cosa (tali questioni erano alla base della critica
aristotelica alle idee di Platone).
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In re
La seconda prospettiva, più vicina ad Aristotele, considera
l’universale come un termine che indica una realtà
esclusivamente inerente alle cose, dentro le cose.
L’universale è un’essenza reale presente nella cosa (in re)
come una sua caratteristica distintiva – sostanziale o
accidentale. Questa posizione viene valorizzata, insieme ad
altri, da S. Tommaso. I termini universali quindi non
indicano realtà che hanno un’esistenza autonoma, ma
comunque si riferiscono alle realtà individuali in carne ed
ossa presenti nel nostro mondo e servono per indicarne
l’essere in modo vero e affidabile.
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Post rem
La terza soluzione considera l’universale come un concetto astratto
dalle cose, quindi senza un’ esistenza reale, bensì con un’esistenza
esclusivamente logica.
• Prima esiste la cosa e poi il concetto la pensa. Il concetto viene
dunque dopo la cosa (post rem). Questa impostazione, nella forma
in cui è stata qui esposta, viene sostenuta da Pietro Abelardo
(1079-1142), grande mente filosofica del XII secolo. Egli ritiene che
l’universale sia sermo (concetto, discorso, logos) che significa una
data condizione, uno determinato stato degli individui,
consentendo così di conoscerli e di distinguerli, senza presupporre
l’esistenza reale della medesima essenza per molteplici singoli enti,
con tutti i problemi che ne derivano. Questa posizione, pur
insistendo sulla esclusiva realtà logica dei termini, si rende alla fine
conciliabile con Aristotele e non giunge fino a negare le prerogative
conoscitive della ragione.
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L’estremismo di Roscellino (1050-1120)
All’interno della terza prospettiva si colloca la posizione
estremistica di Roscellino, il quale ritiene che reale sia
solo l’individuo e che l’individuo solo possa esistere:
Nihil est praeter individuum. La realtà dei nomi universali
consiste solamente nel fatto che essi sono reali emissioni
di fiato (flatus vocis) o reali segni scritti su un foglio.
Questa solo è la loro realtà, fuori di essa nulla
corrisponde a loro: il linguaggio degli universali pare
essere una sorta di gioco con delle cose che non danno
alcun aiuto nel descrivere la realtà. Unico elemento che
nel linguaggio ha una funzione utile alla comprensione
del mondo è il nome proprio della singola cosa reale (per
esempio Socrate per l’individuo Socrate).
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Nominalismo
L’idea di Roscellino, per cui l’universale è
esclusivamente un nome senza che vi sia una sua
corrispondenza con la realtà, viene chiamata
nominalismo. Il nominalismo ha come conseguenza
gnoseologica un distacco tra linguaggio-pensiero e
realtà, perché i concetti – che noi indichiamo
sempre con termini universali – e le operazioni che
enunciano leggi generali del mondo, sono destinati
a rimanere confinati in un ambito linguistico senza
possibilità di definire stati di cose reali.
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Conseguenze teologiche del
nominalismo
La disputa sembra in sé molto astratta, ma in realtà i medievali ci si
appassionarono perché, seguendo Anselmo ed altri, vi trovarono
importantissime conseguenze teologiche, che coinvolgevano i
fondamenti della loro religiosità, che sempre costituiva il centro della
loro vita.
Per esempio: dal punto di vista teologico il nominalismo di Roscellino
porta a considerare le tre Persone della Trinità come tre dei distinti –
questa è almeno l’accusa di Anselmo – perché la parola Dio/Trinità, che
indicherebbe l’unità della sostanza divina nelle tre Persone non
avrebbe significato alcuno nella realtà. Quindi esisterebbero Padre,
Figlio e Spirito con un’assoluta unità di pensiero e volontà, ma non
l’unica Trinità divina. Tale tesi viene condannata al concilio di Soissons
nel 1092.
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Il senso gnoseologico della disputa
• Riassumendo: il senso gnoseologico della disputa sta tutto nella fiducia
che si è disposti ad accordare alla ragione e alla sua capacità di restituirci
un’immagine fedele della realtà.
• Se l’universale è reale, i concetti che designano la realtà profonda di una
cosa, la sua essenza, sono una realtà effettiva, di cui la cosa sensibile ed
esistente è un epifenomeno conoscibile proprio in virtù della possibilità di
individuarne l’essenza platonica ante rem o la sostanza aristotelica in re.
• Se l’universale è nome significativo, secondo l’impostazione di Abelardo, le
definizioni, pur non corrispondendo a realtà sussistenti, aiutano a
conoscerne le condizioni reali .
• Se l’universale è flatus vocis, la ragione gira a vuoto, perché le parole che
esprimono i concetti non si riferiscono ad alcuna realtà effettiva: la
scienza è una costruzione del tutto aleatoria. Aleatoria sembra anche
essere lo stesso principio roscelliniano per cui nihil est praeter individuum,
visto che in questa frase sembra designare l’individuo in generale, parola
che notoriamente non ha alcun senso.
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La conciliazione tomista
S. Tommaso, riprendendo la questione, opera una
conciliazione tra le tre posizioni in campo.
• Per lui gli universali sussistono nella mente di Dio
prima della creazione (ante rem), vengono da Dio posti
nelle cose all’atto della creazione (in re), e così
possono essere conosciuti dall’uomo (post rem). Tale
posizione, conciliando le tre precedenti, salva in ogni
caso la conoscibilità del reale e le prerogative della
ragione. Faccenda che risulterà più complessa con
l’ultima scolastica nominalista del francescano
Guglielmo di Okham (1280-1349 circa).
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Il risultato tomista
Così facendo Tommaso intendeva riportare ad una perfetta
conciliazione la ragione e la fede: 1) Il Dio-Trinità crea il mondo,
questo ci dice la fede. Ma egli lo fa in modo razionale e fondandosi
sul suo pensiero: la bellezza e l’armonia dell’universo lo
testimoniano. 2)Ecco allora che le idee che Dio ha in mente, sono
rinvenibile nella struttura intima (forma) delle cose. 3) Ma proprio
perché il mondo è razionale, Dio stesso dota la migliore delle sue
creature della perfezione della ragione. Tale facoltà serve agli
uomini per conoscere la realtà e iniziare qual percorso di ritorno a
Dio che sarà completato dalla fede nella Rivelazione cristiana. Il
quadro viene così completato mostrando la superiorità della fede,
irrinunciabile per la salvezza, ma al contempo l’irrinunciabilità della
ragione per capire il progetto di Dio e afferrarlo più a fondo.
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L’egemonia platonica nel Basso
Medioevo
Torniamo ora al Basso Medioevo. Se Porfirio e Boezio sono
filosofi di stampo platonico che tengono in notevole
considerazione le opere logiche di Aristotele, contribuendo
alla loro sopravvivenza lungo il tutto il periodo medioevale,
via via il resto della riflessione Aristotelica viene posto in
ombra e, soprattutto sulla scia di Agostino, ma anche del
neo-platonismo dello pseudo Dionigi Aeropagita (un
autore del IV sec. d.C., ma considerato dai medievali quel
personaggio che fu convertito da San Paolo durante il suo
famoso discorso ai filosofi dell’Areopago di Atene – Atti 17,
22-31).
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Il platonismo apofatico di Scoto
Eriugena
• Scoto nasce tra l‘800 e l'810 in Irlanda e muore dopo l'877 in
Francia. Cresciuto come «magister artium» (maestro nelle arti
liberali) alla corte di Carlo il Calvo, scrive molte opere in cui
riflette sul ruolo della filosofia e della teologia nel grande
compito che è prospettato da Dio all’uomo, quello di ritornare a
Lui nella salvezza e nella vita eterna. Nel libro intitolato nelle
«Annotazioni su Marziano» cerca di fornire un’interpretazione
del testo «Le nozze di Mercurio e Filologia» in cui un intellettuale
latino-africano del IV-V secolo, Marziano Capella, descrive
l’allegoria della Filologia che ascende al cielo accompagnata dalle
sette arti liberali e in tale racconto costruisce una specie di
enciclopedia della cultura classica) I primi due libri del suo
commento esaminano le sette arti liberali.
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Le arti liberali
Le arti liberali sono considerate da Scoto un mezzo per il
ritorno dell'anima a Dio attraverso la riflessione filosofica
(infatti le arti si identificano con la filosofia). Essa lavora
nella luce della Rivelazione. La luce della Rivelazione
insieme alla dottrina platonica di Marziano sono quindi
conciliate nell’unica meta cui tendono. In sostanza per
Scoto la filosofia introduce alle superiori verità religiose che
espone, investigandole razionalmente. Per tale motivo, le
arti , che sono potenze innate nell'uomo , vanno risvegliate
con lo studio.
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Scoto e Dionigi
Sotto il profilo teologico, Scoto fa propria l'impostazione
della teologia negativa di Dionigi, che molto deve alla
riflessione di Plotino sull’ ineffabilità dell’Uno. Nel testo
intitolato "Sulle divisioni della natura», Scoto comincia
con una annotazione metodologica sulla convergenza di
vera ragione e vera autorità. L’autorità della Scrittura, dei
Padri della Chiesa e degli antichi saggi è fondata sulla
ragione, che quindi ha il primato, ma una vera autorità
non sconfesserà mai la ragione, quindi autorità e ragione
vanno a coincidere.
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Dio sovraessenziale
Attraverso entrambe, fa intendere nell’"Esposizione della Gerarchia
celeste« di Dionigi, giungiamo a formulare la sostanza della teologia
negativa: si comprende meglio Dio quando, non quando se ne
definisce positivamente l’essenza o la bontà, ma quando si dice che
non è essenza e bontà perché è superessenziale e più che buono". La
sovressenzialità divina, che non assomiglia a nulla di creato, trova una
sua figurazione più nella mostruosità del sublime, si pensi alle figure
strane e deformi che decorano alcune cattedrali paleocristiane, che
nella proporzione del bello (che imita la natura e quindi non riesce a
raccontare la superiorità di Dio). Questo Dio ineffabile è la natura
eccelsa e superiore a tutto il resto, quindi il grado più alto della natura
stessa tra quelli che vengono illustrati nel testo «Sulle divisioni della
natura».
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I gradi della natura
Il primo riguarda la natura che crea e non è creata, cioè Dio stesso.
La natura divina infatti crea tutto e non è creata da nulla e si crea
mirabilmente in ciò che da lei procede, in ciò che da lei, per lei, in
lei è fatto. Il secondo grado riguarda la natura che è creata e crea,
cioè le idee. Esse sono le cause primordiali delle cose, sono nel
Verbo, coeterne a Lui e a Lui riportano risolvendosi in Lui. Il terzo
grado della natura è quella creata che non crea, cioè l'uomo e la
natura immanente. L'uomo ha il compito di risalire dalla caduta nel
peccato a Dio. Il quarto grado della natura è quella che non è
creata e non crea cioè Dio come la meta finale dello sforzo di
emancipazione dell'uomo dalle catene che lo tengono legato a
questo mondo verso quel Dio che è oggetto del suo amore.
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Il mondo creato
Il mondo, cioè la creazione, è effetto dell'incondizionata liberalità
divina. Anche la materia non si oppone all'Uno divino, diversamente
da quanto diceva Plotino, ma deriva da lui e per questo è
originariamente perfetta, come fanno intendere le Scritture a
proposito dell'Eden adamitico. Il passaggio da tale perfezione al
mondo sensibile e corruttibile come lo vediamo è determinato dal
peccato di Adamo dal quale l’uomo si risolleva con la ragione e la fede
nella Rivelazione. Nell' "Omelia sul Prologo del Vangelo di S. Giovanni"
la fede è considerata il primo è necessario stadio della ricerca della
verità, che tuttavia, dal canto suo, è indagabile sia per mezzo della
lettura del cosiddetto "libro della vita" (cioè la natura), sia per mezzo
della lettura della Scrittura: entrambe infatti sono linguaggio di Dio che
in tal modo si esprime limitando da se stesso la propria infinità.
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La rinascita dopo il Mille
Dopo il Mille l’Europa attraversa un periodo di
grande fioritura e rinascita. Si assiste ad una
ripresa economica, ad un nuovo fenomeno di
inurbamento che coincide con l’aumento degli
scambi commerciali, anche via mare. Nasce una
nuova organizzazione civile incentrata sul
comune. Attraverso le crociate la civiltà europea
sui affaccia sul vicino e medio oriente.
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La cultura dopo il mille
Dal punto di vista culturale dall’XI al XIII secolo vi
è una grande esplosione di geni filosofici,
artistici e letterari in concomitanza con la nascita
e la diffusione delle istituzioni universitarie dal
sec. XII.
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Le università
Erano CORPORAZIONI cioè associazioni di
insegnanti e studenti, aperte a persone di ogni
condizione sociale, che si riuniscono per
approfondire le materie di studio e dibattere le
questioni più difficili e controverse. La Chiesa
favorisce l’autonomia delle università e la
nascita di un ceto di maestri, anche laici, che
assieme compiono un percorso di studio in
modo libero e dialettico sulle materie del Trivio
e del Quadrivio.
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Le lezioni e le loro fasi
Le lezioni si svolgono attraverso le seguenti tappe:
• La lectio: lettura e commento di un testo
(generalmente la Scritture o testi dei Padri della
Chiesa, oppure ancora, più tardi il Liber
Sententiarum di Pier Lombardo - 1100-1160 – che
raccoglieva e giustapponeva affermazioni dei
padri anche apparentemente contraddittorie). Da
questa fase nascono le trascrizioni che danno vita
ai commentarii, un genere letterario molto
diffuso nel Medioevo.
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La disputatio
È la discussione su una quaestio (un argomento)
attuata analizzando i pro e i contro prima ad opera
degli studenti e poi dei maestri. Dalla trascrizione
delle disputationes nasce un altro genere letterario:
le quaestiones disputatae su temi particolari
(Quaestio de…) oppure i Quodlibetales su qualsiasi
argomento.
Nella disputatio di definivano anche i ruoli e tutti gli
studenti ad ogni grado accademico dovevano
sostenere una disputatio che ne sanciva l’abilità di
discussione e la profondità degli studi.
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Autorità e originalità
I temi più rilevanti avevano sempre un carattere religioso. Nelle
discussioni era importante la capacità di citazione e interpretazione
delle auctoritates (Sacre Scritture, documenti conciliari, padri della
Chiesa) sulle quali il ragionamento poteva trovare un fondamento
condiviso. Il ricorso alle autorità e il rifiuto assoluto della novità e
dell’originalità (tutti gli autori medievali vogliono sempre rassicurare il
lettore dicendo che non intendono assolutamente dire cose nuove od
originali) non impedivano alla ragione di spaziare liberamente nella
lettura dei testi e nella discussione delle quaestiones. Ci si trova quindi
di fronte al paradosso per cui proprio laddove gli autori medievali
raggiungono un notevole livello di autonomia e sorprendente audacia
argomentativa, questi stessi autori affermano di non proporsi in
nessun modo tale scopo, ma di voler capire gli argomenti dibattuti con
umile riferimento a testi e personalità unanimemente riconosciuti
come normativi.
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Fede e ragione nella scolastica
Nella scolastica propriamente detta, tra 1100 e
1300 vi è un approfondimento della questione e la
definizione di un preciso rapporto gerarchico tra la
ragione e la fede. Qui la filosofia diviene ancilla
theologiae (serva della teologia, secondo
un’espressione di Tommaso d’Aquino), ma
guadagna anche un relativo spazio di autonomia
nelle questioni non direttamente attinenti a temi
teologici, le questioni cioè che riguardano le realtà
creaturali autonome perché così volute da Dio nel
piano della creazione.
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Il platonismo di Anselmo e la
dimostrazione a priori dell’esistenza di
Dio
Anselmo d'Aosta nasce nell'omonima città nel 1033. Nel 1061
entra nel monastero di Bek in Normandia, di cui diverrà presto
superiore e abate. Suo insegnante è Lanfranco di Pavia, noto
per le polemiche contro dialettica e scettiche sul valore della
filosofia con Berengario di Tours. Nel 1092 sostituirà il suo
insegnante alla cattedra vescovile di Londra (Canterbury),
dove per continuare in libertà e coscienza la sua attività
religiosa, entrerà in conflitto con i sovrani inglesi Guglielmo il
Rosso e Enrico I. Muore nel 1095. L'intento della sud del suo
sforzo intellettuale è quello di giustificare con la ragione le
verità di fede. Bisogna sforzarsi di comprendere ciò in cui si
crede, essendo presunzione non ammettere per prima la fede,
ma negligenza non fare appello alla ragione per meglio
conoscere ciò che Dio ha fatto e vuole da noi.
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40
La verità
In Dio, secondo Anselmo, vi è la sintesi di tutte le
verità, che Dio stesso concepisce con uno solo
sguardo, mentre l'uomo non può che cercare di
conoscere ed esprimere analiticamente e
discretamente. Nondimeno il dovere dell'uomo per
avvicinarsi a Dio ricostruendo l'ordine delle cose
così come Dio lo ha pensato. Infatti Dio pensa alla
creazione, un ordine buono e necessario, che Egli
ha prodotto mediante la sua Parola in modo
perfetto. La ricerca umana cerca la rettitudine di
ogni cosa, cioè la corrispondenza di tutte e ciascuna
delle cose del mondo come Dio le ha pensate.
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41
La cose, i pensieri, le parole
Le cose stesse si devono conformare al pensiero di Dio, e
questa è la loro rettitudine, cioè il loro dover essere (dopo il
peccato il mondo si è allontanato da Dio e deve tornarci). Lo
spirito umano le coglie per come devono essere, questa è la
rettitudine della conoscenza. Infine la rettitudine del linguaggio
dice correttamente le cose nella loro rettitudine cioè così come
l'intelletto le ha conosciute, e così come le cose sono state
pensate da Dio nel suo intelletto. Quindi dalla voce si passa alla
rappresentazione mentale e al significato che sono pensieri che
devono riguardare le cose così come devono essere, cioè come
sono state pensate da Dio. In definitiva a Dio si riconduce ogni
nostra conoscenza. Tuttavia, prima di ogni conoscenza, è la fede
a metterci in una relazione vera con Dio. Quindi la stessa fede è
fondamentale per comprendere la realtà: bisogna credere per
comprendere.
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42
L’esistenza di Dio (Monologion)
Dio è quindi il fondamento di ogni nostra riflessione e
conoscenza. Non solo: egli è anche il fondamento di tutta
la stessa realtà che noi conosciamo. Quindi è necessario
non solo credere che esista ma poterlo dimostrare. Nel
Monologion (Discorso a se stesso, 1076) Anselmo aveva
elaborato una serie di dimostrazioni a partire dalla retta
significazione di alcune parole che riguardano il nostro
desiderio di Dio in quanto desiderio di bene, di
grandezza, di continuare ad esistere, e di perfezione,
dimostrando che Dio è la sua realizzazione in quanto Bene
sommo, ente massimo, essere incorruttibile cioè essere
nel senso più pieno del termine e massima perfezione.
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43
L’esistenza di Dio (Proslogion)
Non perfettamente soddisfatto, nel Proslogion (Discorso rivolto ad altri,
1078), Anselmo cerca un unum argumentum definitivo. Egli parte dalla
convinzione secondo cui tutti, anche il non credente, capiscono il significato
della parola di Dio. Il significato che tutti hanno in mente quando si dice Dio è
"ciò di cui non si può pensare un essere maggiore". Raggiunta questa
definizione, ricordiamo che per Anselmo come per gli uomini del medioevo
non ci poteva essere alcun dubbio che esistere fosse una cosa buona.
Dunque, tenendo conto di questa ultima considerazione, se quando pensiamo
Dio pensiamo ad un essere perfettissimo, di cui non c’è uno maggiore, questo
stesso essere deve possedere al massimo grado tutte le caratteristiche e le
qualità buone che sono pensabili nell'universo. Ma da queste caratteristiche
e qualità buone, non potrebbe essere esclusa l'esistenza. Se Dio avesse tutte
le perfezioni, eccetto l'esistenza, sarebbe effettivamente pensabile qualcosa
di maggiore di lui, e sarebbe precisamente quell'ente che, oltre ad avere tutte
le caratteristiche e qualità buone, avesse anche l'esistenza. Ma, siccome Dio è
ciò di cui non si può pensare il maggiore, egli deve per forza avere l'esistenza.
Quindi Dio esiste.
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44
Isole felici?
Questo passaggio dal pensiero di Dio, alla sua esistenza è
valido ovviamente solo per Dio. Infatti solo Dio deve
possedere le caratteristiche buone. Per tutti gli altri enti, che
non sono perfettissimi, il ragionamento non può essere fatto.
Non vale quindi l'obiezione del monaco Gaunilone. Egli
vorrebbe negare ciò che sostiene Anselmo dicendo che se si
pensa alle "isole felici", o qualsiasi altra cosa buona ed
eccellente anche se fantastica e irreale, queste cose non
devono per forza esistere. La dimostrazione di Anselmo è uno
dei vertici della filosofia medievale e occidentale e mostra
l'incondizionata fiducia che Anselmo riponeva nella potenza
della ragione, una fiducia derivante dalla convinzione che
quella potenza era alla potenza di Dio stesso.
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45
La virtù da conservarsi per se stessa
Sotto il profilo etico è importante la riflessione di Anselmo
sulla libertà (De libertate arbitrii). Per Anselmo non è vero che
essere liberi significa poter peccare o non peccare. Infatti
poter peccare è un difetto, una imperfezione, qualcosa che
diminuisce la vera libertà. Quest'ultima è definita come «il
potere di conservare la rettitudine della volontà per amore
della rettitudine stessa». Questo significa che obiettivo
dell'uomo non è contrattare con Dio un contraccambio per il
suo comportamento buono. Non c'è alcun rapporto
contrattuale con Dio. Al contrario, in linea con la riflessione
agostiniana, c'è una grazia che viene da Dio e che coincide con
il dono di poter fare il bene per amore del bene stesso, senza
chiedere per esso alcun "pagamento". In ciò consiste il fine
della virtù umana che apre la strada alla salvezza.
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46
La filosofia araba e l’aristotelismo
medievale
"Dal IX all'XI secolo, mentre l'Europa conosceva solo le opere dei
filosofi greci, gli Arabi, grazie ai contatti avuti con i cristiani
d'oriente (soprattutto in Siria) e alla loro straordinaria capacità di
assimilazione, si misero nella condizione di sfruttare quasi tutte
le grandi opere dei massimi filosofi e scienziati, dando origine ad
una filosofia propria, che si riallacciava direttamente alla grande
tradizione della filosofia greca e che, avrebbe contribuito in
modo determinante alla riscoperta di quest'ultima da parte della
stessa Europa cristiana" (F. Volpi). In particolare i filosofi islamici
potettero usufruire, oltre che dei testi platonici già conosciuti
dalla cristianità, della traduzione del corpus aristotelico, di cui si
conoscevano solo i testi logici, che i filosofi occidentali avevano
trasferito lontano dalla Grecia dopo la chiusura delle scuole
filosofiche ateniesi, accusate da Giustiniano di paganesimo.
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47
Averroè (Ibn Ruschd)
Averroè, il maggiore dei filosofi islamici medievali, nasce
a Cordoba nel 1126 e, dopo aver esercitato la professione
di giudice a Siviglia, ma principalmente dopo aver
dedicato le sue energie allo studio di Aristotele, caduto in
disgrazia presso i sovrani islamici che prima lo avevano
protetto e accusato di ateismo, muore in esilio in
Marocco nel 1198. Egli è celebre per aver commentato
tutti i testi di Aristotele, esclusa la "Politica" tre volte in
tre diversi modi e livelli di profondità. Perciò si meritò
l'appellativo di "Commentatore". Tra le idee più
importanti desunte dalla riflessione su Aristotele e, al
tempo stesso sui fondamenti della religione islamica, vi
sono i seguenti orientamenti:
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48
La filosofia, la teologia, il mondo
1) Mentre i filosofi ragionano in base a dimostrazioni
assolutamente necessarie fondate sul rapporto causa effetto, i
teologi disputano su argomenti probabili, e, infine, gli uomini
comuni si accontentano di ricevere discorsi semplici ed
esortativi, come quelli che rivolge loro il Corano. In ordine alla
verità quindi vi è l'assoluto primato della ragione rispetto alla
religione.
2) Così come aveva affermato Aristotele, il mondo è eterno,
essendo eterna anche la materia che lo costituisce. Il concetto
di creazione, presente nel Corano, è solo un modo di
descrivere per immagini la dipendenza del mondo da Dio,
quale Motore immobile tutta la realtà, affermata e ribadita da
Aristotele sotto il profilo razionale.
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49
Intelletto possibile e agente
3) Secondo Averroè, impegnato nel commento al De
anima di Aristotele, solo l'anima vegetativa e sensitiva
sono forma del corpo, l'anima intellettiva - intelletto
possibile e agente - ne è separata. L'intelletto possibile è
l'unico intelletto che possiede non tanto l'individuo,
quanto l'umanità stessa, cioè la specie umana. L'intelletto
agente ugualmente è unico e universale e coincide con la
Intelligenza del primo cielo, avente una esistenza semi
divina e separata. Ciò nuovamente contrasta con
l'escatologia islamica che è insegna l'immortalità degli
individui umani. Al tempo stesso viene riconfermata la
preminenza della ragione sulla teologia.
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50
Doppia verità e islam
Ciò che consente ad Averroè di rimanere nell'alveo
dell'islamismo è la formulazione di una sorta di
doppia verità per la quale le verità della teologia,
pur inferiori a quelle filosofiche, vengono
mantenute considerando il loro effetto pedagogico
e la necessità di un linguaggio semplice che si
rivolga alle masse. Ma accanto alla verità per le
masse vi è una verità per i dotti che invece coincide
con la filosofia la quale acconto della razionalità
necessaria e dell'insuperabile verità delle cose.
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51
La recezione di Aristotele nel mondo
latino
In Spagna avviene l'incontro fra la cultura arabo-islamica
e quella latino-cristiana. Dopo che Toledo viene
riconquistata dai cristiani nel 1085, molti intellettuali
musulmani ed ebrei rimangono nella città, favorendo lo
scambio tra le diverse culture, sotto la supervisione del
vescovo Raimondo di Sauvetat (1126-1151) che
promuove i contatti e lo sviluppo delle attività di
traduzione (verbum de verbo, da parola a parola, secondo
la modalità tipica di questo periodo, in cui ad ogni parola
del testo originale viene fatta corrispondere sempre la
stessa del testo tradotto) degli scritti principali circolanti
nel mondo ebraico e soprattutto islamico.
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52
Il completamento delle traduzioni
aristoteliche
Questa opera di traduzione prosegue a Toledo fino
al secolo 13º inoltrato e riguarda moltissimi testi di
carattere scientifico e filosofico ma soprattutto la
completezza del corpus aristotelicum, che
finalmente viene reso disponibile in latino. A
completare questo processo, circa gli scritti dello
Stagirita, saranno le traduzioni dirette compiute da
studiosi che avevano potuto avere accesso al
mondo greco dove ancora circolavano (veneziani,
come Giacomo da Venezia e residenti in Oriente
come Guglielmo di Moerbeke, il traduttore di
Aristotele per S. Tommaso).
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53
L’impatto di Aristotele…
Lo spettro di argomenti metafisici, etici, psicologici, fisico-naturalistici,
scientifici affrontati nell’opera aristotelica, di cui si sospettava la grandezza,
ma della quale vi era solo conoscenza dei testi dell’Organon, esercita subito
un grandissimo fascino sul mondo culturale latino. Due però sono i problemi:
1) Aristotele è filosofo pagano, in cui accanto agli interessi metafisici sono
presenti spiccati orientamenti all’indagine del mondo naturale nella sua
autonomia. Questi due elementi costituiscono una difficoltà per la
recezione del filosofo in ambito cristiano dove il platonismo più
«spirituale» era già stato da tempo assimilato e cristianizzato e
rappresentava una consolidata base d’appoggio razionale per
l’approfondimento dei problemi teologici.
2) Alcuni temi incompatibili con la visione cristiana del mondo e presenti in
Aristotele (eternità del mondo, unità dell’intelletto)vengono evidenziati
ed enfatizzati dai commentatori islamici come Averroè. Ciò rende i gli
scritti dello Stagirita ancora più sospetti perché opera di un pagano,
tradotto e corrotto dai principali nemici della cristianità, gli eretici
maomettani.
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54
…dalle condanne…
L’entusiasmo con cui vengono accolte le traduzioni
aristoteliche e i commenti arabi genera infine una
corrente di pensiero molto sospetta e denominata
averroismo latino, costituita da una serie di intellettuali
che disconoscono il primato della teologia e accettano il
razionalismo averroista, pur tentando di mitigarlo
«cristianamente». Le autorità ecclesiali più avvedute si
accorgono del rischio che l’alta cultura prenda una
direzione incompatibile con la fede e corre ai ripari e
provvede a condannare le opere aristoteliche in più
occasioni (1210 e 1215) e a proibirne la lettura nelle
università (in particolare a Parigi).
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55
…all’accettazione
Ma è proprio nelle università che alcune delle personalità di maggior
spicco del mondo ecclesiale intuiscono le enormi possibilità
dell’aristotelismo in ordine
1)all’arricchimento della visione cristiana del mondo grazie alle
categorie metafisiche e
2) all’arricchimento del sapere circa l’universo creato, che celebra
l’opera di Dio e ne conferma l’affidamento alla custodia della ragione
umana.
Ecco allora che, opportunamente confutate e riviste le parti della
dottrina aristotelica incompatibili con la fede, si mette in atto una
nuova grande sintesi tra tradizione biblica e tradizione classica che
genera con S. Tommaso, assieme al vertice della riflessione medievale,
una delle più vaste cattedrali del pensiero della storia della filosofia.
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56
Tommaso d’Aquino
Tommaso d’Aquino (1225-1274), teologo e filosofo domenicano, docente
a Parigi e in diversi studia dei Frati predicatori, è considerato tra le
personalità intellettuali di maggior spicco del suo secolo. Molto
apprezzato nel suo ordine per il suo grande lavoro di sistematizzazione
della dottrina sacra, lo è anche dai massimi vertici della Chiesa, che
richiedono spesso la sua consulenza e la sua presenza in occasioni in cui
sono necessarie precisazioni sui contenuti controversi della fede. Scrive
due grandi opere cumulative del pensiero teologico medievale, la Summa
Theologiae (1265-74; una sintesi del pensiero teologico della Chiesa) e la
Summa contra gentiles (1258-64; una sintesi delle argomentazioni
razionali, teologiche e filosofiche, da opporre ai non credenti per
introdurli alla ragionevolezza del cristianesimo), oltre a un numero alto di
ulteriori testi di tema religioso, metafisico, scientifico, etico, affrontando
tutti i maggiori problemi del dibattito culturale del suo tempo.
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57
La sintesi tomista
Con Tommaso la filosofia di Aristotele viene definitivamente «digerita»
dal cristianesimo. Ciò permette al nostro filosofo di distinguere
precisamente l’ambito della ragione filosofica (aristotelica) e quello
della fede, ma poi di individuarne anche il loro accordo. Per quanto
attiene alla loro differenza, secondo Tommaso, «l’intero campo della
filosofia dipende esclusivamente dalla ragione: significa che la filosofia
non deve ammettere ciò che è inaccessibile alla luce naturale e
dimostrabile con le sue sole risorse. La teologia si fonda invece sulla
Rivelazione. Gli articoli di fede sono delle conoscenze di ordine
sovrannaturale, contenute in formule il cui significato non ci è
interamente penetrabile, ma che dobbiamo accettare come tali» (E.
Gilson).
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58
Armonia di teologia e filosofia
Per quanto attiene alla loro armonizzazione, né Dio
potrebbe ingannarci circa la verità, né la ragione che da
lui proviene: quindi in ultimo le due discipline devono
concordare. Ma siccome la scienza più alta, totale e vera
è quella di Dio, anche se noi non la possiamo conoscere
nella sua profondità, dobbiamo presupporre che ogni
volta che la ragione umana vi si scosta, sta cadendo in un
errore che è compito della ragione stessa emendare. La
ragione, purificata dalla fede, diventerà un grande
strumento per approfondirne i concetti e difenderla
contro gli attacchi, oltre che per indagare la vastità della
natura creata, rendendo così omaggio all’opera di Dio.
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59
Aristotele e Cristo
Ecco allora che, dentro la fede cristiana, Tommaso
può dar vita ad un indagine dell’essere in quanto
essere – cioè dell’ente in generale – nel pieno solco
tracciato dalla Metafisica aristotelica. Questo è
l’impegno del suo denso opuscolo giovanile
intitolato De ente et essentia. Quando si parla della
realtà in generale, per Toammaso, si parla sempre
di qualcosa che è (ente) e se ne cerca sempre la
verità profonda (essenza) condensata generalmente
nella sua definizione, oggetto del nostro pensiero.
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60
L’essenza o quidditas (ciò che è quella
cosa lì)
L’essenza è la verità concettuale di un ente (cioè di un oggetto qualsiasi
della realtà), dalla quale ovviamente dipende la conformazione
dell’ente stesso. Orbene, tale verità noi la vediamo dopo aver
compreso l’ente nella sua esistenza: ho bisogno di avere davanti un
tavolo per definire un tavolo. Ciò accade per noi, ma in senso assoluto
la verità del tavolo precede il tavolo, perché ne è appunto la ragione
profonda. Come? La verità del tavolo, come di tutti gli oggetti della
creazione, risiede innanzitutto in Dio che li ha pensati e voluti e
continua a volerli. Ovviamente Dio può pensare un numero di realtà
infinitamente più alto di quelle realmente esistenti. In generale queste
sono in potenza finché Dio non decide (ab aeterno ovviamente: la
decisione di Dio è presa da sempre perché in Dio non c’è mutamento)
di donare loro la realtà effettiva, che Tommaso chiama atto d’essere.
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61
Come e perché esiste l’essere?
Ecco allora che Tommaso giunge, utilizzando concetti
squisitamente aristotelici, come definizione, genere e
differenza specifica, essenza, potenza e atto a rispondere
alla domanda sul perché della realtà nel suo complesso,
ma stabilendo in ciò l’irrinunciabilità dell’intervento
divino e quindi cristianizzando Aristotele. Così la realtà,
cioè l’ente reale, è quella verità essenziale, contenuta
nella mente divina, cui Dio ha dato l’atto di esistere.
Quella verità che prima dell’intervento di dio esisteva
solo potenzialmente e ora esiste in atto (atto d’essere).
Questo accade perché Dio essendo l’essere in senso
eminente può donarlo alle cose (creazione), infatti Dio è
l’essere mentre tutto il resto ha l’essere da Dio.
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62
Da Dio alle cose
Quindi, come si vede, dall’essere di Dio Tommaso, con l’aiuto di
concetti Aristotelici, intravede la strada che porta all’essere del mondo
e delle cose. Ma ovviamente il primo punto, dato dalla fede, viene a
costituire l’architrave di tutto il ragionamento. La fede in Dio è quindi
necessaria a comprendere la realtà. Nondimeno tale fede, così come
stabilità dalle Scritture, non è aliena dalla ragione, poiché Dio non è
irrazionale. Anzi, sebbene le sue profondità siano misteriose, per alcuni
elementi la ragione può sostenere con argomenti validi e convincenti
alcuni contenuti della fede. Uno di questi è quello che riguarda non
mistero dell’identità della Trinità divina e il suo agire nella storia, bensì
la semplice esistenza di un Dio, ente sommo da cui tutto il resto
deriva. Ciò può divenire pienamente chiaro anche alla pura ragione e
su questo versante vediamo ora l’impegno di Tommaso .
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63
Dimostrare l’esistenza di Dio: il metodo
Ecco allora che Dio appare dimostrabile…ma anche nel
tentativo di farlo Tommaso sceglie un metodo tipicamente
aristotelico. Se Anselmo era partito dalla definizione
dell’essenza di Dio così come è compresa dal pensiero e dal
linguaggio – cioè dal concetto di Dio – e da lì ne deriva
l’esistenza a prescindere da tutto quello che Dio ha fatto
creando il mondo e le cose; Tommaso invece parte proprio
dalla grandezza, bellezza, armonia della creazione divina per
risalire all’esistenza del suo creatore. In questo senso, poiché
inizia dall’idea di Dio, Anselmo e platonico, mentre Tommaso,
poiché parte dalla natura e dal mondo, è aristotelico.
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64
Ex motu
Che Dio esista si può provare per cinque vie.
La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È
certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune
cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un
altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a
movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un
terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere
all’infinito perché altrimenti non vi sarebbe un primo
motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i
motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi
dal primo motore, come il bastone non muove se non in
quanto è mosso dalla mano (D). Dunque è necessario arrivare
ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti
riconoscono che esso è Dio.
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65
Ex causa
La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel
mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si
trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se
medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa
inconcepibile (A). Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è
assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è
causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le
intermedie o una sola; ora, eliminata la causa e tolto anche l’effetto: se
dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa,
non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia (B). Ma procedere
all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa
efficiente; e cosí non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause
intermedie: ciò che evidentemente è falso.
Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti
chiamano
Dio.
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66
Ex contingentia
La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa.
Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere (A).
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché
ciò che può non essere, un tempo non esisteva (B). Se dunque tutte le cose
[esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento
niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe
niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per
qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che
qualche cosa cominciasse ad esistere, e cosí anche ora non ci sarebbe niente,
il che è evidentemente falso (C). Dunque non tutti gli esseri sono contingenti,
ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò
che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure
no (D). D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro
necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause
efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere
all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la
propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono
Dio.
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67
Ex gradu
La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un
fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili
perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o
minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano
di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; cosí piú caldo
è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è
dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo,
e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come
dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in
quanto ente (A). Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa
di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al
massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo
Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa
dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo
chiamiamo Dio.
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68
Ex gubernatore
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi
vediamo che alcune cose, le quali sono prive di
conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine,
come appare dal fatto che esse operano sempre o
quasi sempre allo stesso modo per conseguire la
perfezione: donde appare che non a caso, ma per una
predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è
privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è
diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la
freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere
intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono
ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio.
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69
L’uomo e Dio
Spiegato metafisicamente il mondo e posto al suo
vertice il Dio esistente ed unico, Tommaso può
collocare dentro questo cosmo razionale e ordinato
la vicenda dell’uomo e spiegare il suo compito. Un
indizio fondamentale che l’uomo è stato creato a
immagine di Dio è che egli, grazie al libero arbitrio,
è principio delle sue azioni e ne ha il dominio.
Dotato di un anima razionale e immortale che ne
completa le facoltà vegetative e sensitive, conosce
le cose e il mondo, grazie all’intervento il lui
dell’intelletto possibile e agente, entrambi suoi
possessi personali e individuali.
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70
La volontà
Le facoltà intellettive umane sono completate dalla
volontà che per natura, seguendo l’intelletto e la sua
facoltà di cogliere i principi primi del bene (sinderesi),
tende appunto al bene ultimo e alla felicità. La volontà è
in generale rivolta al bene, ma non è determinata e
costretta nelle scelte concrete perché il nesso tra i singoli
atti, e i beni che essa può volere e cercare, con la felicità
non è sempre evidente. In ogni caso lo scopo della vita
che per natura l’uomo vuole raggiungere è la beatitudine
eterna e definitiva, che in parte si consegue certo per
mezzo dello sforzo individuale, ma che senza la divina
grazia rimarrebbe irraggiungibile in quanto supera le
capacità naturali.
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71
Virtù e redenzione: natura e grazia
La beatitudine è il corrispettivo della virtù, è ciò che nasce sulla
base della virtù, cioè l’abitudine a compiere atti buoni. Sulla via
della virtù vi sono diverse tappe che approdano da quelle cardinali
– fortezza, giustizia, prudenza, temperanza –, che coincidono
aristotelicamente con la scelta del giusto mezzo, a quelle teologali –
fede, speranza e carità. Le prime, conseguibili naturalmente, sono
solo condizioni e premesse per lo sviluppo delle seconde, per le
quali è necessaria la grazia divina che conduce alla salvezza e quindi
alla felicità definitiva. Quindi lo sforzo dell’uomo, attuato con
l’intelletto e la volontà naturali, viene coronato ancora da Dio che
eleva l’essere umano oltre i limiti dati dalla natura decaduta di
Adamo, verso la redenzione definitiva operata da Cristo.
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72
Il basso Medioevo (secc. XIV-XV)
È caratterizzato dalla lenta dissoluzione della
compagine imperiale e dal contemporaneo lento
affermarsi delle strutture statali (in Francia,
Spagna e Inghilterra) sull’istituzione universale
facente capo all’imperatore.
La cultura si allontana progressivamente dalle
istituzioni ecclesiali e comincia un processo di
laicizzazione che culminerà nel periodo
umanistico.
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73
Fede e ragione nella tarda scolastica
Dopo il 1300 la ragione si separa dalla fede e ne
viene sancita la sostanziale incapacità di offrire un
quadro esaustivo dei misteri della religione
cristiana. I contenuti religiosi vanno pertanto
creduti con un atto più volitivo che conoscitivo (cfr.
Duns Scoto e Ockham). La ragione esprime una
certa presa sulla realtà creata senza però garantire
assoluta affidabilità. La sua limitatezza, lungi dallo
sfavorire l’atto di fede, lo rende necessario e
improcrastinabile se si vuole dare una direzione
positiva all’esistenza umana.
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74
Il nominalismo di Ockham
Guglielmo di Ockham (1280-1347), esponente di spicco
del pensiero francescano inglese, ghibellino e in polemica
con l’autorità del papa avignonese Giovanni XXII sulla
questione della povertà, arriva a formulare una visione
della realtà in cui ragione e fede si separano nettamente.
Infatti per Ockham la conoscenza ha un riferimento
esclusivo alle realtà singolari ed esistenti. È diremmo il
riflesso di una intuizione delle cose che, dai sensi, si
comunica direttamente all’intelletto, generando un
pensiero, e poi una parola parlata e infine una scritta.
L’unica verità che la ragione può dare di ciò che pensa è
far vedere che ai termini usati corrisponde
effettivamente una cosa percepita sensibilmente.
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75
I concetti della ragione e le verità di
fede
I concetti della ragione conoscono e descrivono con
verità delle cose, cioè le suppongono, stanno al
posto (suppositio) di cose che si vedono, si sentono
e si toccano. Gli universali sono solo termini stanno
al posto di gruppi di cose (non c’è infatti alcuna
realtà universale).
Per tale motivo di Dio come essere universale, che
non si vede e sente o tocca, non vi può essere
alcuna conoscenza razionale. Le verità di fede
vanno accettate per fede e non si deve ambire a
dimostrarle.
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76
Dio-causa conservante e Dio cristiano
Sebbene Ockham ritenga plausibile che esista una
causa per la quale il mondo, in quanto collezione di
tutte le cose, si conservi e non segua la tendenza
delle cose stesse a dissolversi (corruttibilità),
quindi sebbene possa esistere per Okham una sorta
di Dio inteso come causa prima conservante,
per lui è poi impossibile dimostrare la coincidenza
dei tratti di questo Dio-causa con quelli del Dio
cristiano descritto dalla Bibbia, al quale pertanto si
deve dare il nostro assenso esclusivamente per
fede.
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Il Dio cristiano e la sua onnipotenza
Per fede si deve credere che Dio abbia senza intermediari creato il
mondo come l’insieme di tutti i suoi oggetti e che ciò abbia fatto in
forza della sua onnipotenza assoluta. Non c’è alcun motivo per il quale
l’onnipotenza di Dio possa venir limitata, nemmeno dalla sua ragione.
Noi infatti non possiamo conoscere la ragione di Dio né giudicarla per
mezzo della nostra, poiché la nostra ragione non ha alcuna conoscenza
di ciò che non si vede né tocca. Noi vediamo un mondo di realtà
singolari e contingenti: sono gli oggetti che crediamo che egli abbia
creato e di cui possiamo solo constatare l’esistenza. Nulla ci dice che il
mondo non potrebbe cambiare domani, in tutto o in parte, solo perché
Dio lo vuole. Nulla ci dice che il passato rimanga tale e le realtà siano
domani come lo sono oggi. Tutto è infatti direttamente legato alla
volontà divina che rimane assolutamente libera e pertanto, a maggior
ragione, imperscrutabile.
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La dissoluzione della ratio medievale
Con Ockham e la sua separazione della ragione dalla fede
viene meno quel grande tentativo di generare un visione
complessiva del mondo come un ordine razionale al cui
vertice sta la volontà razionale di Dio. Il sistema della natura e
dell’universo
proprio
del
Medioevo
ne
viene
irrimediabilmente intaccato, aprendo la breccia da un lato al
fideismo di una religione che si affida al sentimento di Dio,
all’abbandonarsi irrazionale alla sua imperscrutabile volontà,
dall’altro ad una ragione che, pur limitata nelle sue pretese,
comincia un percorso di autonomia che paradossalmente ne
gonfierà le prerogative fino ad arrivare alla posizione della sua
assoluta centralità e all’emarginazione di tutte le forme di
coglimento della verità diverse dalla propria.
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L’epoca moderna
Al tempo stesso si chiuderà per il pensiero il
tempo della relazione feconda con lo spirito e
con l’immenso, e si aprirà la stagione del
rapporto con la realtà empirica e materiale vista
come oggetto di dominio da parte della volontà
e della civiltà umana…Nascerà così il Moderno: il
tempo per l’uomo della forza e della potenza
sulla natura, ma anche della superbia e della
solitudine.
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