UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA
FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA INTERFACOLTA’ IN EDUCAZIONE FISICA E
TECNICA SPORTIVA
“UN CANESTRO PER LA DIVERSITA’”
Docente Relatore:
Chiar.mo Prof. Rodolfo Carrera
Tesi di laurea di:
Bruno Ferrari
Matricola: 366787/08
Anno Accademico: 2010-2011
1
INDICE
Introduzione…………………………………………………………………..pag. 4
Capitolo I: “La disabilità mentale…” – Concetto di disabilità, etimologia della
parola “disabilità”, lo “stato di salute”, breve introduzione alle principali forme di
disabilità mentale………………………………………………………………...pag. 6
1.1 “…L’autismo…”………………………….………………………………..pag. 15
1.1.1 La valutazione Epidemiologica……….………….pag. 19
1.1.2 La valutazione Sintomatologica………………….pag. 21
1.2 “…La sindrome di Down…”………………………………………………pag. 24
1.2.1 La valutazione Epidemiologica………….………..pag. 25
1.2.2 La valutazione Sintomatologica……………….….pag. 26
1.3 “…La Psicosi”……………………………………………………………...pag. 28
1.3.1 Eziologia e Diagnosi……….………………………..pag. 30
1.3.2 Epidemiologia e Psicoterapia..………………………pag. 31
Capitolo II: “Il Basket e la Disabilità Mentale”……………………….…..pag. 33
2.1 “Il Metodo Calamai”……………………………………………………..…pag. 35
2.1.1L’indice del gioco: i punti focali………….………….pag. 37
2.1.2 “L’integrazione” con lo sport…….………..……..….pag. 39
2
Capitolo III: Progetto “Special Team Annabella ’87” – Il basket per gli atleti
diversamente abili……..……………………………………………………..…pag. 41
3.1 Ma perché proprio il basket?............................................pag. 45
3.2 Il Progetto: una “palestra di vita”……………………….pag. 48
3.3 Un canestro per la conoscenza!........................................pag. 50
3.4 L’attività motoria con i ragazzi…….……………..…….pag. 53
Capitolo IV: La mia esperienza all’Oratorio San Mauro……………...…pag. 58
4.1 Direttamente sul campo di gioco…..…..…………………pag. 60
4.2 L’approccio degli operatori e gli allenamenti dei ragazzi..pag. 62
Conclusioni………………………………………………………………..…pag. 66
Bibliografia…………………………………………………………………..pag. 68
Sitografia……………………………………………………………………..pag. 69
Ringraziamenti……………………………………………………………...pag. 70
3
Introduzione
Ho conosciuto la realtà dell’Oratorio San Mauro quasi per caso: da sempre mi ha interessato
l’argomento legato ai problemi di disabilità nel mondo sportivo. Quando mi sono incontrato con il
Professore Rodolfo Carrera (tutt’ora mio relatore e sostenitore di questo elaborato di tesi) mi è stata
rivolta la fatidica domanda: “Ferrari, ma ti riferisci alla disabilità fisica o mentale?” La mia risposta
a questo quesito era quasi scontata ed, ovviamente, risposi diretto sulla disabilità mentale: un
argomento difficile da trattare, ma affascinante in tutta la sua complessità.
Dopo la mia risposta, il Professore non attese nemmeno un istante per chiamare il responsabile e
metterlo al corrente della mia voglia, del mio interesse a scoprire in prima persona il Progetto e di
conseguenza la squadra dei ragazzi dello “Special Team Annabella ‘87”, che si riuniscono
settimanalmente alla palestra dell’Oratorio San Mauro, a Pavia.
Il Professore, notando tutto il mio interesse verso questa tipologia di argomento, mi suggerì da
subito questo centro sportivo dove poter iniziare a muovermi e notare con i miei occhi quanto si era
già mosso in questi anni verso questo tipo di disabilità.
Diciamo che la scelta del mio elaborato di tesi, terminato il mio percorso universitario triennale di
scienze motorie, non è però stata così casuale: la scoperta della squadra dello “Special Team
Annabella ‘87” è avvenuta grazie al Professore Carrera, mio docente e sostenitore di queste
tipologie di iniziative sulla disabilità legate al mondo sportivo; ma l’interesse e la motivazione verso
questo campo c’era già in me da molto tempo. Ho avuto modo di stare a contatto con ragazzi e
bambini autistici in passato quando ho lavorato presso alcuni “centri estivi”: diciamo che vivere a
contatto con queste tipologie di realtà (anche se numericamente ristrette e non paragonabili alla
realtà dell’Oratorio San Mauro) ha fatto scattare una molla in me, una sorta di voglia di conoscere
ed approfondire queste realtà. Se poi tutto ciò si associa al mondo sportivo, o meglio ancora tramite
il mondo sportivo, si può dire che il connubio risulta perfetto. Per un ragazzo come me che ama lo
sport e l’attività sportiva in generale non era assolutamente un problema affrontare questa realtà
attraverso lo sport, anzi diventava una motivazione ancora più piacevole per entrare in modo dolce
in questo mondo speciale.
Affrontare questo argomento non è stato così semplice, anche perché è un mondo talmente ampio e
le direzioni da intraprendere sono molteplici: il mio obbiettivo era focalizzare l’attenzione delle
persone su questa tematica della disabilità legata al mondo sportivo, di far conoscere queste realtà
come lo “Special Team Annabella ’87” che, attraverso il gioco della pallacanestro, diventa
fondamentale per il miglioramento della qualità di vita sociale (ed anche sportiva, perché no?) di
4
ogni ragazzo. Con questo voglio ribadire che, comunque, la mia preoccupazione maggiore non è
tanto quella di “sponsorizzare” questa attività, ma far capire quanto risultano importanti queste
attività legate al “Metodo Calamai” (di cui parleremo successivamente nell’elaborato) e tutti i
risultati ottenuti seguendo la famosa citazione “alzando lo sguardo verso l’alto” per cercare di
combattere la chiusura di questi ragazzi verso il mondo esterno e verso la relazione con l’altro.
Il titolo “Un canestro per la diversità”, come sottolineato anche dal mio relatore, è una sorta di
provocazione: la risposta a facili ipocrisie sta nel diverso modo di interpretare una disciplina
sportiva orientata, contrariamente alla norma, al combattere questa condizione di chiusura verso
tutto ciò che circonda il ragazzo, al suo “recupero” e alla sua integrazione.
Qualcuno potrebbe obbiettare sul fatto della “diversità”, ma io l’ho intesa sotto questo punto di
vista: questo elaborato è riferito chiaramente verso i ragazzi che hanno tutte queste difficoltà.
In quest’ultima parte volevo sottolineare e se possibile suggerire una cosa alle persone: quando si
sente parlare di disabilità motoria o mentale le persone tendono spesso ad essere sorprese,
meravigliate di tutte queste tipologie di iniziative. Il problema è che dopo esserne venuti a
conoscenza ci si ferma li, quasi per compassione e sentendosi impacciati di fronte alle disabilità e a
queste iniziative. All’inizio della mia esperienza ero anch’io titubante (dovuto al fatto che
comunque ero anch’io alle prime armi da questo punto di vista e senza aver mai partecipato a tali
iniziative), ma solo osservando e partecipando direttamente a queste iniziative si capisce la vera
essenza ed unicità di questi progetti.
Infine, consiglio alle persone di provare a superare questa barriera ed andare oltre la semplice
conoscenza; di provare direttamente queste attività e superare le proprie convinzioni.
Quest’esperienza arriva a rapirti prima il cuore della mente.
5
Capitolo I
“La Disabilità mentale:…”
Concetto
di
disabilità,
etimologia
della
parola
“disabilità”, lo “stato di salute”, breve introduzione alle
principali forme di disabilità mentale.
6
Prima ancora di iniziare a parlare di disabilità mentale occorre però dare qualche spiegazione sulla
parola “disabilità”. Cosa intendiamo con questo termine?
La DISABILITA’ è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una
ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma,
pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio
nel partecipare alla vita sociale.
Si caratterizza per spostamenti, più o meno marcati, nella realizzazione di compiti e
nell’espressione di comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso.
Possono essere:
1. transitorie o permanenti,
2. reversibili o irreversibili,
3. progressive o reversive.
Le disabilità possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione di
un soggetto, specialmente dal punto di vista psicologico, a una menomazione fisica e sensoriale.
Si riferisce alla perdita delle capacità funzionali estrinseche (attraverso arti e comportamenti) che
per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno.
La classificazione ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps)
del 1980 dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) distingueva tra:

menomazione intesa come perdita a carico di funzioni fisiche e/o psichiche. Rappresenta
l'estensione di uno stato patologico. Se tale disfunzione è congenita si parla di minorazione;

disabilità, qualsiasi limitazione della capacità di agire, naturale conseguenza ad uno stato di
minorazione/menomazione;

handicap, svantaggio vissuto
minorazione/menomazione.
da
una
persona
a
seguito
di
disabilità
o
Questo significa che mentre la disabilità viene intesa come lo svantaggio che la persona presenta a
livello personale, l'handicap rappresenta lo svantaggio sociale della persona con disabilità.
L'ICIDH prevede la sequenza: Menomazione → Disabilità → Handicap.
Tuttavia, non è automatica, in quanto l'handicap può essere diretta conseguenza di una
menomazione, senza la mediazione dello stato di disabilità. Le origini della parola “handicap”
risalgono a descrivere una condizione di svantaggio fisico.
Il vero significato, in realtà, molti non lo sanno perché è sempre stato dato per scontato il concetto
vero e proprio di: "handicap".
7
Questo termine racchiude in sé 2 parole: "hand" e "cap". Dall'inglese "hand" significa mano e "cap"
significa cappello. Traducendo la parola intera, si deduce la seguente descrizione: “mano nel
cappello”. Si parla di handicap per descrivere uno svantaggio fisico, senza tenere in considerazione
la condizione che si crea quando viene detta questa parola: nel disabile sorge un senso di disagio e
rabbia per la sua situazione. Segue una classificazione delle disabilità:
 Disabilità comportamentali
 Disabilità nella comunicazione
 Disabilità nella cura della propria persona
 Disabilità motorie
 Disabilità nell’assetto corporeo
 Disabilità nella destrezza
 Disabilità contestuali
 Disabilità in attitudini particolari
 Altre disabilità
La “classificazione dello stato di salute” (che sotto segue, nella Figura 1) definisce lo stato di salute
delle persone dichiarando che l'individuo "sano" si identifica come "individuo in stato di benessere
psicofisico" ribaltando, di fatto la concezione di stato di salute.
Il concetto di disabilità cambia nel corso degli anni e secondo questa nuova classificazione
(approvata da quasi tutte le nazioni afferenti all'ONU) diventa un termine ombrello che identifica le
difficoltà di funzionamento della persona sia a livello personale che nella partecipazione sociale.
In questa classificazione i fattori biomedici e patologici non sono gli unici presi in considerazione:
si tratta anche l'interazione sociale e l'approccio diventa multi-prospettico su diversi aspetti quali
biologico, personale, sociale.
8
Funzioni corporee
Strutture corporee
1.
Funzioni mentali
2.
Funzioni sensoriali e dolore
3.
Funzioni della voce e dell'eloquio
4.
Funzioni dei sistemi cardiovascolare, ematologico,
1.
Sistema nervoso
2.
Visione e udito
3.
Comunicazione verbale
4.
Sistemi cardiovascolare e immunologico,
immunologico, respiratorio
apparato respiratorio
5.
Funzioni dell'apparato digerente e dei sistemi
5.
Apparato digerente e sistemi metabolico
metabolico ed endocrino
ed endocrino
6.
Funzioni riproduttive e genitourinarie
7.
Funzioni neuro - muscolo - scheletriche correlate
6.
Sistemi genitourinario e riproduttivo
7.
Movimento
8.
Cute e strutture correlate
al movimento
8.
Funzioni cutanee e delle strutture correlate
Attività e partecipazione
1.
Fattori ambientali
Apprendimento ed applicazione delle
conoscenze
1.
Prodotti e tecnologia
2.
Compiti e richieste generali
2.
Ambiente naturale e cambiamenti effettuati
3.
Comunicazione
dall'uomo
4.
Mobilità
3.
Relazione e sostegno sociale
5.
Cura della propria persona
4.
Atteggiamenti
6.
Vita domestica
7.
Interazione e relazioni personali
5.
Sistemi, servizi e politici
8.
Aree di vita principali
9.
Vita sociale, civile e di comunità
Fig. 1
“International Classification of Functioning, Disability and Health” (ICF)
Considerato il nuovo standard di classificazione dello stato di malattia e di salute.
9
È importante, però, sgombrare subito il campo da un equivoco: ICF non riguarda solo le persone
con disabilità, riguarda tutti, ha dunque uso e valore universale.
Non ci si riferisce solo ad un disturbo, strutturale o funzionale, ma il punto di partenza è la
considerazione dello stato di "salute".
I punti fondamentali da seguire in questa classificazione sono:
1. Le funzioni corporee→ sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le
funzioni psicologiche.
2. Le strutture corporee→ sono parti anatomiche del corpo come organi, arti e loro
componenti.
3. Attività→ è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo.
4. Partecipazione→ è il coinvolgimento di un individuo in una situazione di vita.
5. I fattori ambientali→ sono caratteristiche, del mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti,
che possono avere impatto sulle prestazioni di un individuo in un determinato contesto.
La classificazione sopra riportata si ferma ai primi due livelli, ma nel documento OMS si arriva a
livelli superiori di dettaglio, estendendo le classificazioni in ulteriori sotto classificazioni. Ad ogni
livello di classificazione è associata una sigla.
Ad esempio, la classificazione b11420 viene inserita nella seguente gerarchia di livelli, che ad essa
è associata la definizione di funzioni mentali che producono la consapevolezza della propria
identità:
b → Strutture corporee
b1 → Funzioni mentali
b11 → Funzioni mentali globali
b114 → Funzioni dell’orientamento
b1142 → Orientamento alla persona
b11420 → Orientamento a se stessi
Il documento ICF copre tutti gli aspetti della salute umana, raggruppandoli nel dominio della salute
(health domain, che comprende il vedere, udire, camminare, imparare e ricordare) e in quello
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‘”collegato” alla salute (health - related domains: includono mobilità, istruzione, partecipazione alla
vita sociale e simili).
Rispetto a ciascuna delle centinaia di voci classificate, ad ogni individuo può essere associato uno o
più qualificatori che quantificano il suo "funzionamento".
Analoghi qualificatori esistono per le attività, per le quali si parla di restrizioni e per la
partecipazione, per la quale si possono avere limitazioni.
La classificazione "positiva", che parte dal funzionamento per dire se e quanto ciascuno se ne
discosta non avendo l’obbligo di dover specificare le cause di una menomazione o disabilità, ma
solo di indicarne gli effetti.
È da sottolineare il fatto che il termine "handicap" è stato abbandonato, estendendo il termine
disabilità a ricoprire sia la restrizione di attività che la limitazione di partecipazione.
Dopo questa doverosa introduzione e spiegazione sull’arduo argomento della disabilità, ci
addentriamo in punta di piedi nel caso più specifico riguardante una tematica difficile da trattare: la
Disabilità Mentale.
La 4° edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” ha sostituito con il
termine ritardo mentale i precedenti lemmi in uso per indicare questa malattia: quelli di oligofrenia,
frenastenia, ipofrenia, insufficienza mentale ed imbecillità sono stati “cancellati”.
Nei soggetti affetti da ritardo mentale, il funzionamento intellettivo è significativamente inferiore
alla media. Perché il ritardo sia correttamente diagnosticato, occorre vi siano associate rilevanti
difficoltà, che vengono convenzionalmente individuate in alcune delle seguenti aree:

Comunicazione

Cura della persona

Vita in famiglia

Attività sociali

Capacità di usare le risorse della comunità

Autodeterminazione

Scuola

Lavoro

Tempo libero

Salute

Sicurezza
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Il ritardo mentale risulta dall'insieme dei deficit dello sviluppo cognitivo e socio-relazionale. Viene
definito dalla compresenza di un quoziente intellettivo inferiore a 70, e due o più problemi adattativi
insorti entro i 18 anni di età.
Per queste tipologie di persone è necessario il contatto con le persone normodotate. Generalmente il
disabile mentale facilita i rapporti: per natura non è né inibito né diffidente, ma disponibile.
La sua intelligenza ridotta non deve però indurre a parlargli un linguaggio infantile, in quanto il più
debole di mente capisce spesso molto più di quanto si supponga.
Molti hanno inoltre una memoria particolarmente buona.
Nei rapporti con il disabile mentale va considerato che non agisce con la ragione. Il suo animo è
comunque aperto alla bontà e alla comprensione.
I bambini affetti da queste patologie reagiscono con estrema sensibilità alle dimostrazioni d’affetto
e alla lode. In seno alla propria famiglia hanno la migliore possibilità di svilupparsi.
Il rapporto con loro richiede spesso molta pazienza: le cose vanno costantemente ripetute; non si
deve mai chiedere troppo in una volta bisogna procedere lentamente e gradatamente, mostrando
loro come va eseguita un’azione completamente nuova.
Non bisogna tralasciare le forme dolci e i semplici complimenti: ogni buona parola infonde loro
fiducia in se stessi e li incita a progredire.
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“La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità”
La “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità” del 2007 richiama esplicitamente a
diversi principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: non discriminazione, eguaglianza,
pari opportunità, rispetto dell'identità individuale.
Si compone di 50 articoli: i primi 30 si incentrano sui diritti fondamentali (associazionismo, diritto
di cura, diritto alla formazione personale, ecc.), gli altri 20 riguardano le strategie operative atte a
promuovere la cultura della disabilità.
La cosa che balza subito all’occhio è che in questa convenzione manca ancora, a livello
internazionale, un'univoca e coerente definizione del concetto di "disabilità”.
Tuttavia l'articolo 1 parla esplicitamente di persone disabili, definendole come "coloro che
presentano una duratura e sostanziale alterazione fisica, psichica, intellettiva o sensoriale la cui
interazione con varie barriere può costituire un impedimento alla loro piena ed effettiva
partecipazione nella società, sulla base dell'uguaglianza con gli altri”.
Inoltre l'articolo definisce anche lo scopo stesso della Convenzione, che è quello di promuovere tutti
i diritti delle persone disabili al fine di assicurare uno stato di uguaglianza.
Anche l'articolo 3 è fondamentale, perché indica i principi stessi entro i quali la Convenzione si
muove, elencandoli esplicitamente:
I. il rispetto della persona nelle sue scelte di autodeterminazione;
II. la non discriminazione;
III.l'integrazione sociale;
IV. l'accettazione delle condizioni di diversità della persona disabile;
V. rispetto delle pari opportunità e dell'uguaglianza tra uomini e donne;
VI. l'accessibilità;
VII.
il rispetto dello sviluppo dei bambini disabili.
13
Dopo questa doverosa introduzione al difficile argomento sul tema della DISABILITA’, nel
prossimo capitolo focalizzeremo l’attenzione su alcune delle principali patologie riguardanti i
disturbi mentali.
Di seguito saranno elencate 3 patologie riguardanti la disabilità mentali quali l’autismo, la sindrome
di Down e la psicosi trattando in particolar modo la schizofrenia.
La descrizione delle varie malattie non è una nota medica, in quanto non sono qualificato in tale
ambito, ma è semplicemente un’elencazione dei vari handicap (con conseguente descrizione del
disturbo mentale) in modo tale da prendere atto della “diversità” delle persone considerate in questo
ambito.
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1.1
…“L’Autismo”…
Il nostro punto di partenza sarà cercare di capire questo particolare “mondo”, un’immagine molto
somigliante a quella dell’iceberg.
Alla parte che emerge dall’acqua, corrispondono i comportamenti che possiamo osservare nella
persona affetta da autismo: le manifestazioni di auto-aggressività, il gettare gli oggetti, i movimenti
stereotipati. Ma la parte più grande dell’iceberg è quella sommersa, che corrisponde a ciò che non
vediamo, lo stress cui sono sottoposte le persone affette da autismo. Non possiamo pensare di
risolvere i problemi di comportamento delle persone affette da autismo se non conosciamo questa
“parte sommersa”.
Quando si lavora con persone colpite da handicap mentale senza autismo, normalmente ci si aspetta
che il problema di comportamento si manifesti e poi lo si affronta; ma nelle persone affette da
autismo bisogna agire in maniera del tutto differente, fare in modo di prevenire i problemi di
comportamento.
Penso che affrontare l’autismo da un punto di vista professionale sia una vera e propria sfida,
perché non esistono ricette universali: il requisito indispensabile per chi lavora a contatto con
persone affette d’autismo è la capacità di mettersi nei panni della persona stessa, essere in grado di
calarsi nel loro modo di pensare perché tali persone hanno un pensiero diverso dal nostro essere.
Quanto più noi riusciamo ad essere empatici, tanto più riusciamo a capire i motivi dello stress e dei
problemi di comportamento, quali sono gli ostacoli che li causano e come rimuoverli: solo facendo
in questo modo, possiamo fare un piano educativo veramente individualizzato.
Questa strada è davvero ardua da percorrere, ma ne vale veramente la pena!
Sebbene le cause dell'autismo non siano ancora così note, oggi sappiamo che l'autismo è un disturbo
dello sviluppo di natura biologica, che colpisce lo sviluppo del cervello.
A tutt'oggi questo disturbo non è diagnosticabile alla nascita perché è identificato attraverso modelli
comportamentali che si manifestano nel bambino dai 18 mesi ai 3 anni.
Lo sviluppo del linguaggio varia nei soggetti: alcuni di essi hanno una buona proprietà di
linguaggio, ma mancano ancora di completa comprensione e presentano alcune difficoltà nella
conversazione; mentre buona parte di coloro affetti da autismo “franco” non sono in grado di
parlare e richiedono forme alternative di comunicazione come simboli e immagini.
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L'autismo è una disabilità grave, che colpisce la maggior parte delle aree dell'interazione con gli
altri, ma anche con il mondo. Alcuni soggetti possono presentare problemi aggiuntivi d’integrazione
delle informazioni sensoriali e ipersensibilità al rumore, alla luce, al tatto e persino agli odori.
Possono anche avere una ridotta reattività al dolore e ad alcuni rumori, e di conseguenza avere
bisogno di una formazione specifica per affrontare il pericolo, riconoscere e rispondere
adeguatamente alle esigenze della propria salute.
Bisogna infine ricordare che il comportamento delle persone con autismo è l'espressione del loro
tentativo di affrontare un mondo difficile, e questi individui hanno bisogno di un aiuto e un
sostegno, non di punizioni per la loro disabilità.
Sotto l'unica etichetta di “Autismo” sono compresi individui unificabili dal fatto che, a partire dalla
prima infanzia, hanno presentato difficoltà nel capire ed esprimere sentimenti e nell'inserirsi in
modo
reciproco
negli
scambi
sociali.
Gillberg e Coleman1, entrambi noti professori per le ricerche nel campo psichiatrico in età infantile
ed adolescenziale, considerano l’autismo non come un unico disturbo a spettro ma come una
sindrome o una serie di sindromi causate da molte singole patologie diverse e distinte.
La necessità di individuare i fattori causali dell’autismo, legata alla grande complessità e varietà dei
sintomi con cui si manifesta, ha portato nel corso degli anni all’elaborazione di modelli
interpretativi, spesso, molto contrastanti tra loro.
Le teorie più recenti sulla genesi dell’autismo attribuiscono un ruolo fondamentale a fattori
neurofisiologici e genetici. Tale atteggiamento interpretativo si è andato via via sostituendo alle
iniziali ipotesi psicodinamiche e ambientali, sostenute principalmente dagli autori ad indirizzo
psicodinamico.
Oggi la teoria più comunemente accettata è che elementi genetici e ambientali agiscano nelle fasi
precoci dello sviluppo del bambino, durante la gravidanza, o durante i primi anni di vita.
L’ipotesi attuale è che nell’autismo siano implicati non meno di 3 e non più di 15-20 geni. Ognuno
di questi agisce come fattore di rischio, ossia causa l’insorgenza della malattia, solo se sono presenti
altri fattori di rischio (fattori genetici, oppure ambientali, che favoriscono l’espressione dei geni
“malati”).
Nel 1997 vengono dati alcuni assunti su cui si basa l'attuale definizione di autismo: è una sindrome
clinica (definita su base comportamentale), poiché non è stato ancora identificato un elemento
1
Lars Christopher Gillberg, nato il 19 Aprile 1950, è un professore di bambini e adolescenti psichiatria presso
Università di Göteborg, in Svezia; professore onorario presso l' Institute of Child Health (ICH) , University College di
Londra. È stato anche professore presso le università di Bergen , New York , Odense , San Giorgio (University of
London) , San Francisco , e Strathclyde . Egli è noto per le sue ricerche sull’autismo nei bambini, la sindrome di
Asperger , la sindrome di Tourettes , sindrome dell'X fragile , disturbo dello spettro autistico (ASD), l'ADHD , e
anoressia nervosa.
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oggettivo che accomuni tutti i casi dal punto di vista biomedico e perché si caratterizza in sottotipi
diversi
per
eziologia
e
trattamento.
Specifica che si tratta di un disturbo a spettro, che presuppone cioè un “miscuglio” di sintomi
combinati anche in modo molto diverso tra loro e con livelli di gravità differenti.
Inoltre lo descrive come un disturbo ubiquitario in quanto diffuso in tutto il mondo, in tutte le
razze e in tutti i tipi di famiglie in modo differente da individuo ad individuo che, inoltre, si
presenta spesso in associazione con altre sindromi, disordini specifici e disabilità dello sviluppo.
17
18
1.1.1 Valutazione Epidemiologica
L’incidenza dell’autismo è stimata da 2 a 10 soggetti su 10.000, a seconda dei criteri diagnostici
usati: in Europa la percentuale di incidenza risulta tra 2 e 4 individui su 10.000 (dati di Massimo
Borghese e Stefania Porcaro, riferiti all’anno 2000).
Il rapporto maschi - femmine è di 4:1: questa proporzione potrebbe essere una conseguenza
dell’iniziale femminilizzazione degli embrioni umani inizialmente; infatti, le trasformazioni
genetiche a cui vanno incontro i maschi li potrebbero rendere più “fragili”.
Tuttavia i dati ci mostrano che non esistano differenze d’incidenza tra le diverse popolazioni, razze
e categorie sociali.
La ricerca di Eric Fombonne2 si concentra su fonti epidemiologiche sulle malattie mentali
nell’infanzia e fattori di rischio correlati, con particolare attenzione sull'epidemiologia dell’autismo.
Egli, parlando al congresso internazionale di Autism Europe a Catania dell’ottobre 2010, ha definito
sconcertanti i risultati degli studi genetici sull’autismo degli ultimi anni. In totale, soltanto una
percentuale che si colloca tra l’8% e il 15% dei casi di autismo può essere fondatamente ascritta a
fattori genetici.
Inoltre ha affermato che per quanto riguarda le tendenze epidemiologiche l’evidenza rimane
ambigua. Uno degli elementi emergenti dal congresso è il fatto che non vi è una sicura evidenza
scientifica di un aumento oggettivo dei casi di autismo nel mondo, anche perché il dato non è
scientificamente evidente, anche se molti scienziati propendono per una ipotesi di aumento.
Fombonne, inoltre, scarta decisamente l’ipotesi di una derivazione dell’autismo da una
intossicazione da metalli pesanti, e da mercurio in particolare.
Lo studio CHARGE3 fa rilevare esattamente lo stesso livello di mercurio nel sangue di bambini con
o senza sindrome autistica. Di contro, ha affermato Fombonne, una quantità di studi connette il
rischio di autismo con l’età del padre e della madre. Si tratta sempre di singoli fattori tra molti.
2
Eric Fombonne, nato nel 1954 a Parigi (Francia), è un professore di psichiatria ed epidemiologo. Dirige la
divisione di psichiatria infantile presso la McGill University in Canada e il reparto di psichiatria presso il “Children
Hospital” di Montreal, dove ha giocato un ruolo chiave nel lancio della sua clinica sull'autismo. La sua ricerca si
concentra su indagini epidemiologiche sulle malattie mentali e fattori di rischio ad essi correlati, con particolare
attenzione sull'epidemiologia dell’autismo. Inoltre egli è un membro del “National Institute of Mental Health” (NIMH),
ed anche del “National Institute of Health” (NIH), l’organo consultivo per i programmi di ricerca sull'autismo. Nel mese
di ottobre 2002 è diventato presidente della “Association of Child and Adolescent Psychiatry of Canada” (APCAPC).
3
“Childhood Autism Risks from Genetics and the Environment” è stato lanciato nel 2003 come studio da 1.000
a 2.000 bambini con diversi modelli di sviluppo. L'obiettivo è quello di comprendere meglio le cause ed i fattori che
contribuiscono all'autismo o nel ritardo dello sviluppo. Tre gruppi di bambini sono stati arruolati nello studio: bambini
con autismo, bambini con ritardo nello sviluppo che non hanno l'autismo e bambini “normali”.
19
Fig. 2
Fino al 1980 si contavano dai 3 ai 5 autistici diagnosticati come tali entro il terzo anno di vita, ogni 10.000 nati, e la
percentuale di bambini che mostravano segni di ritardato sviluppo psicomotorio e comunicativo sin dai primi mesi di
vita, era superiore a quella dei soggetti che dopo 18-20 mesi di sviluppo normale cominciavano a perdere le
acquisizioni motorie e linguistiche per scivolare più o meno rapidamente nella sintomatologia autistica.
Il primo significativo cambiamento statistico-epidemiologico si può collocare nel quinquennio 1980-1985, quando fu
possibile verificare due importanti variazioni rispetto ai rilievi precedenti: il raddoppio dei casi di autismo, ed il
pareggio della percentuale di quelli definibili insorti come tali, con quelli cosiddetti di autismo regressivo.
Nel decennio successivo, i dati sono diventati ancor più allarmanti e significativi: dai 3-5 autistici su 10.000 nati, si è
passati a 30-35 su 10.000; e i casi di autismo regressivo (che fino al 1980 rappresentavano un terzo del totale) hanno
raggiunto il 75% contro il 25% delle forme che potremmo definire congenite.
1.1.2 Valutazione Sintomatologica
20
L’autismo è un disturbo molto complesso ed è pervasivo in quanto coinvolge molteplici aree di
sviluppo. Le aree maggiormente colpite sono: l’area psicomotoria, l’area cognitiva, l’area
comunicativa, quella linguistica ed infine l’area emotiva e sociale.
Area Psicomotoria: il principale problema motorio dei soggetti autistici è rappresentato dalla
presenza di stereotipie, movimenti ripetitivi a-finalistici, che possono interferire con lo svolgimento
di attività finalizzate.
Nella loro forma più grave, le stereotipie diventano comportamenti aggressivi, che sono fortemente
compromettenti per il benessere generale e destabilizzanti per il contesto sociale.
Molto frequentemente si verifica che l’utilizzo degli oggetti risulta inappropriato: essi, vengono
usati non per la loro funzione, ma per delle specifiche caratteristiche sensoriali, esplorate attraverso
modalità inappropriate (annusare, leccare un oggetto, ecc…).
L’organizzazione prassica degli autistici può essere molto povera e molti di loro non sviluppano
attività finalizzate costruttive e rappresentative.
E’ presente, inoltre, una tendenza a rimanere rigidamente legati a determinate abitudini che
diventano rigidi rituali, effettuati con modalità ripetitive e strutturate: la rottura di tali rituali può
generare crisi di ansia e di agitazione ed aumentare la frequenza e l’intensità dei comportamenti
aggressivi.
Infine, il disturbo autistico non rimane un problema isolato ma lo si associa a disturbi del sonno ed a
disturbi del comportamento quali l’iperattività.
Area cognitiva: la sindrome autistica è generalmente associata a deficit cognitivi di diverso grado:
gli studi mostrano che i QI (Quoziente Intellettivo) di Performance sono in genere più alti dei
punteggi di QI Verbale. Questo confermerebbe la relativa forza nelle abilità vissuto-spaziali della
maggior parte dei soggetti con questo disturbo.
Altri studi mostrano che circa il 70% dei soggetti con autismo ha un QI non verbale al di sotto di
70, e circa il 50% sotto il valore di 50, ovvero nell’ambito del ritardo mentale moderato o grave.
Questo non vuol dire che tutti gli autistici siano mentalmente ritardati, e comunque anche tra questi
ultimi si possono presentare delle prestazioni migliori in alcune specifiche competenze ed abilità
(meccaniche, matematiche, ecc…).
21
I deficit più severi nell’area cognitiva riguardano la capacità di simbolizzazione, di
generalizzazione, di formazione di categorie, di astrazione partendo da situazioni concrete, di usare
il principio della casualità.
Inoltre si è ipotizzato un deficit nella “teoria della mente”, ossia la capacità che permette di
comprendere gli stati mentali altrui, che di conseguenza sarebbe fondamentale per la reciprocità
sociale.
Altri studi parlano di un deficit nelle funzioni esecutive, ossia quei processi di controllo e
coordinazione del funzionamento del sistema cognitivo: esse comprendono la capacità di spostare e
mantenere l’attenzione sull’informazione pertinente per completare un compito, formare piani,
inibire le reazioni impulsive, organizzare le azioni e monitorarne il risultato.
Area comunicativa e linguistica: le anomalie della comunicazione verbale e non verbale
nell’autismo sono molto rilevanti e sono probabilmente correlate alle anomalie relazionali, anche se
non sono chiari i rapporti che ci sono tra queste due aree sintomatologiche.
I disturbi in tale area sono molto diversificati, variano da soggetto a soggetto.
La maggior parte dei soggetti autistici presenta una produzione verbale deficitaria nelle varie
componenti: il ritmo di acquisizione è lento, il patrimonio lessicale è limitato e spesso è utilizzato in
modo inappropriato. Anche quando c’è un buon livello espressivo, sono presenti alterazioni della
prosodia, ecolalia, inversioni pronominali, sostituzioni e omissioni lessicali o fonologiche.
Inoltre, anche la comprensione è molto spesso inadeguata.
Un altro aspetto significativamente presente è la mancanza di intenzionalità comunicativa: spesso il
bambino usa il linguaggio solo in situazione di necessità con singole parole per arrivare al suo
“interesse”.
Alle alterazioni del linguaggio verbale si associano quelle del linguaggio non verbale: infatti studi
che si sono occupati di indagare lo sviluppo comunicativo non verbale di questi soggetti hanno
dimostrato che essi utilizzano il gesto in funzione “richiestiva”, ma non dichiarativa (Caselli,
Volterra, 2002).
Area emotiva e sociale: questa è probabilmente l’area maggiormente compromessa.
I soggetti autistici presentano una marcata tendenza all’isolamento, una scarsa iniziativa al rapporto
diretto ed indifferenza al contesto relazionale. Tali comportamenti si manifestano nella tendenza all’
isolamento dall’ambiente sociale, spesso tramite azioni non finalizzate.
22
I comportamenti affettivi ed emotivi nei confronti delle figure genitoriali possono essere scarsi,
anche se è presente l’attaccamento verso la madre, che si stabilizza con lo sviluppo: nei primi mesi
di vita (8-9 mesi) non si presenta la normale “paura dell’estraneo”.
L’indifferenza al contesto relazionale si manifesta nella carenza, o totale assenza, di interazioni
spontanee: inoltre raramente lo sguardo è rivolto direttamente all’interlocutore, l’aggancio visivo è
molto incostante ed anche il rapporto corporeo è scarso. Tuttavia, all’età di 5-6 anni o più tardi, i
legami di attaccamento si intensificano e si attenua l’isolamento affettivo.
Alla base dei problemi relazionali e sociali dell’autismo c’è la difficoltà nel comprendere le
emozioni ed i sentimenti: ciò ostacola il rapporto empatico e lo sviluppo di rapporti affettivi stabili,
oltre che la condivisione degli interessi. Il bambino autistico spesso manifesta gli stati emotivi in
maniera inadeguata e con modalità non sempre comprensibili: può avere reazioni di collera o
angoscia sia verso gli altri, che verso se stesso in situazioni che normalmente non producono tali
reazioni.
Oltre alla difficoltà nel comprendere le emozioni essi presentano una gamma di espressioni facciali
ridotta e spesso non adeguata al contesto sociale.
23
1.2
…“La sindrome di Down”…
La sindrome di Down è una delle disabilità mentali prodotte da un'anomalia negli autosomi. Il suo
nome deriva da John Langdon Down4 che ha descritto la patologia nel 1862, usando il termine
mongoloidismo, a causa dei tratti somatici del viso dei pazienti che richiama quelli delle
popolazioni asiatiche orientali, quali i mongoli. Altro termine utilizzato per alcune tipologie della
sindrome è trisomia 21. Nel 1959 Jerome Lejeune5 scoprì che la sindrome di Down è causata dalla
presenza di un cromosoma 21 in più (o parte di esso). Per questo motivo è descritta come, appunto,
trisomia 21.
Circa nel 95% dei casi, la causa di questa anomalia genetica è la mancata disgiunzione dei
cromosomi che si verifica durante una delle divisioni meiotiche che portano alla formazione dei
gameti della madre. Ne consegue che lo zigote avrà un assetto di 47 cromosomi, con un cromosoma
21 soprannumerario in tutte le cellule dell'individuo affetto, anziché il normale numero diploide di
46 cromosomi.
Un'altra forma ci mostra la presenza di 47 cromosomi in tutte le cellule dell'individuo: è
caratterizzata dalla mancata disgiunzione in una delle mitosi che avvengono dopo la formazione
dello zigote. L'individuo è caratterizzato da mosaicismo, cioè da due popolazioni cellulari, quella
con 47 cromosomi e quella con il normale numero di 46. Questa forma sarà più lieve quanto
maggiore sarà il numero delle cellule con un numero normale di cromosomi.
Gli individui mostrano grandi differenze nello sviluppo linguistico, psicomotorio e intellettivo; di
conseguenza variano le speranze d’integrazione nel mondo lavorativo.
La speranza di vita, una volta considerevolmente inferiore ad oggi, varia a seconda del paese ma
negli ultimi decenni è clamorosamente aumentata, sicché non è raro che l'interessato raggiunga i
sessant'anni ed oltre.
4
(1828-1896), è stato un medico britannico, conosciuto per la descrizione di ciò che è ora chiamata sindrome di
Down. Ebbe una carriera caratterizzata da onori e medaglie d'oro. I suoi sforzi erano volti a classificare ciò che lui
chiamava malattia degli "idioti Mongoli". I suoi risultati sono stati basati su misurazioni del diametro della testa e del
palato di questi individui nonché con altre osservazioni a volte anche con l'uso delle fotografie.
5
(1926-1994), è stato un pediatra e genetista francese. Scienziato e medico, è lo scopritore della causa della
Sindrome di Down.
24
1.2.1 Valutazione Epidemiologica
La sindrome di Down è la causa cromosomica di ritardo mentale più diffusa. Essa interessa tutte le
etnie, sia maschi che femmine e ha un tasso d’incidenza di un caso ogni 700-1.000 nati vivi.
Molti di più sono i concepimenti che riguardano la trisomia 21, dato che 3 casi su 4 si concludono
con un aborto o con la nascita di un bambino/a morto/a.
Se questo non avvenisse il rapporto sarebbe attorno a 1:200 circa.
Tale incidenza dipende molto dall’età della madre. A questo proposito è importante una
precisazione per eliminare qualsiasi dubbio. Non bisogna pensare che un bambino con sindrome di
Down abbia SEMPRE alle spalle una madre anziana: non è così!
Fig. 3
Il grafico ci mostra come l'età della madre sia correlata fortemente alla probabilità di avere un individuo affetto dalla
sindrome di Down. Si nota, infatti, che, in media, la probabilità per donne di un'età compresa tra 20 e 24 anni è
decisamente minore rispetto a quella di donne dai 45 anni in su (si parla di circa 1 su 1550 contro 1 su 25).
Però il grafico può portare a delle inesatte affermazioni, come già precedentemente chiarito: il fatto che la probabilità
sia così differente in relazione all'età della madre non deve far pensare che la maggior parte delle donne che
partoriscono un figlio affetto da trisomia-21 sia d'età relativamente avanzata.
25
1.2.2 Valutazione Sintomatologica
All'ecografia fetale ci possono essere alcuni segni di probabilità:

il femore, in rapporto alla lunghezza delle altre ossa, è molto corto

diminuzione della quantità di movimento globale del feto
Nella maggior parte dei casi l'individuo presenta alcuni di questi “sintomi”:
1. Mongoloidismo, corpo basso e tozzo e collo grosso;
2. Macroglossia che viene considerata una caratteristica sindromica: in realtà nella
maggior parte dei casi è solo apparente poiché è dovuta ad una riduzione delle
dimensioni della cavità orale a causa dell'ipotonia dei muscoli facciali che fa sì che
la lingua sembri sproporzionata rispetto ad essa;
3. Ipotonia più o meno marcata, presente nel 95% dei casi;
4. Plica palmare. L'unica plica trasversale concorre a configurare la caratteristica
alterazione della mano denominata "mano di scimmia";
5. Cardiopatia congenita;
6. Alterazione funzionamento della tiroide;
7. Ritardo di organizzazione delle tappe motorie (anche imponente), non per un danno
del sistema neuromotorio, ma per deficit della prassia.
26
Il ritardo mentale varia da forme più gravi (QI 25-50) a forme lievi nei mosaici genetici. Comporta
anche ritardo nel linguaggio.
In modo molto accentuato si nota che l'occhio della persona affetta da questa malattia presenta un
taglio (dovuto ad una plica denominata "epicanto", non presente nelle popolazioni caucasiche ed
africane) che invece di essere normalmente a forma di dosso, cioè che va dal basso verso l'alto
formando una curva, è allungato dalle ghiandole lacrimali alla parte posteriore dell'occhio stesso,
simile a quello delle popolazioni mongole, quindi dell'Asia orientale. Difatti anche il termine usato
principalmente dai medici per designare tale anomalia è proprio: “mongolismo”.
Si ha maggiore sensibilità alle infezioni e spesso, disfunzioni del cuore (difetto del setto interatriale,
interventricolare) e di altri organi: principalmente per tal motivo è appunto spiegata la vita media
dei soggetti (non supera i 30-40 anni).
Attualmente però, come già sottolineato precedentemente, la media si è innalzata sino a 60 anni,
perché col progredire delle tecniche chirurgiche, molte anomalie cardiache anatomiche possono
essere trattate con successo.
27
1.3
…“La Psicosi”…
Questo termine fu introdotto nel 1845 da Ernst von Feuchtersleben con il significato di "malattia
mentale o follia".
È la più grave forma di disturbo psichiatrico, frutto dell’espressione di una severa alterazione
dell'equilibrio psichico dell'individuo, con conseguente compromissione dell'esame di realtà, e
frequente presenza di disturbi del pensiero, deliri ed allucinazioni.
L'eziologia del disturbo, ovvero la sua causa, è come per molte condizioni mediche, multifattoriale
e in larga parte poco conosciuta.
I sintomi di questa patologia sono descrivibili sottoforma di:
1. disturbi di forma del pensiero,
2. disturbi di contenuto del pensiero,
3. disturbi della senso-percezione.
Disturbi di forma del pensiero: sono alterazioni del flusso ideativo fino alla "fuga delle idee" ed
all'incoerenza; alterazioni dei nessi associativi, come la paralogia, la tangenzialità, le risposte di
traverso, i salti di palo in frasca;
Disturbi di contenuto del pensiero: ideazione prevalente delirante (deliri, spunti interpretativi);
Disturbi della senso-percezione: dis-percezioni ed allucinazioni uditive (a carattere imperativo,
commentante, denigratorio o teleologico), visive, olfattive, tattili, cenestesiche.
Di queste tre categorie di sintomi, il disturbo del contenuto del pensiero (delirio) è quello
caratterizzante tutti i quadri psicotici: infatti nei disturbi psicotici dell'umore le allucinazioni
possono essere assenti, così come nel disturbo delirante cronico (paranoia) non si osservano
evidenti disturbi della forma del pensiero.
28
Trattando la Psicosi, introduciamo il caso particolare della SCHIZOFRENIA, che è una o forse la
forma più grave di psicosi.
E’ una forma di malattia psichiatrica caratterizzata da un decorso superiore ai sei mesi
(tendenzialmente cronica o recidivante), dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del
comportamento e dell'affettività, con una gravità tale da limitare le normali attività della persona.
È da tenere presente che schizofrenia è un termine piuttosto generico: esso non indica un'entità
nosografica unitaria, ma una classe di disturbi, tutti caratterizzati da una certa gravità e dalla
compromissione del cosiddetto "esame di realtà" da parte del soggetto.
A questa gruppo appartengono quadri sintomatici e tipi di personalità anche molto diversi fra loro,
estremamente variabili per gravità e decorso. Nei casi molto gravi, i sintomi possono arrivare alla
catatonia, al mutismo e/o provocare totale inabilitazione.
Nella maggioranza dei casi di schizofrenia vi è qualche forma di apparente disorganizzazione o
incoerenza del pensiero. Vi sono però certe forme dove questo sintomo non compare, e compaiono
invece rigide costruzioni paranoidi.
La schizofrenia si caratterizza, secondo la tradizione medica, per due tipi di sintomi:
I. sintomi positivi: sono comportamenti o esperienze del soggetto "in più" rispetto all'esperienza
e al comportamento dell'individuo normale. Questi sintomi possono essere: le idee fisse, i
deliri, le allucinazioni e il disturbo del pensiero (a seconda dei casi è sufficiente che ve ne
siano uno o due per diagnosticare il disturbo, non è necessario la presenza contemporanea di
tutti questi sintomi).
II. sintomi negativi: diminuzione, declino o scomparsa di alcune capacità o esperienze normali
del soggetto. Possono includere inadeguatezza nel comportamento della persona, distacco
emotivo o assenza di emozioni, povertà di linguaggio e di funzioni comunicative, incapacità di
concentrazione, mancanza di piacere e mancanza di motivazione.
Alcuni modelli descrittivi nella schizofrenia includono addirittura un terzo tipo di sintomi, definita
“schizofrenia di terzo tipo detta sindrome disorganizzata”: compaiono soprattutto disturbo del
pensiero e problemi di pianificazione. I sintomi possono prendere la forma di deficit neurocognitivi: si tratta dell'indebolimento di alcune funzioni di base quali la memoria, l'attenzione, la
risoluzione di problemi, la funzione esecutiva e la cognizione sociale.
29
1.3.1 Eziologia e Diagnosi
Nell'attribuire la causa di questo disturbo, psicologi e psichiatri sono ormai d’accordo: la causa è un
complesso mix di fattori genetico - biologico - psicologici.
Un aumento della produzione della dopamina sembra giocare un ruolo chiave nell'eziologia di
questa sindrome tanto che è stata chiamata in causa l'ipotesi dopaminergica: i neuroni
dopaminergici dell'area tegmentale ventrale scaricano molta più dopamina sui neuroni gabaergici
situati nel sistema mesocorticale (corteccia prefrontale) e nel sistema mesolimbico (nucleo striato
ventrale).
La malattia si manifesta di solito tra i 18 e i 28 anni. In alcuni casi l'esordio può avvenire anche
all’improvviso; in altri può essere preceduto da un periodo in cui la persona si chiude in se stessa,
appare sempre meno interessata al mondo circostante, lascia senza motivo amici e relazioni
sentimentali, perde il lavoro o interrompe la scuola.
Per quanto riguarda le cause, tuttavia c’è ancora molta incertezza.
Nella popolazione “sana” la probabilità di sviluppare la schizofrenia si avvicina all' 1% del
campione. Infine, non sono da sottovalutare le esperienze soggettive e il contesto familiare in cui il
paziente affetto da schizofrenia viene allevato e in cui vive: è dimostrato che l'ambiente è
determinante nello sviluppo della malattia.
La diagnosi precoce è di fondamentale importanza dato che si è visto che il trattamento tempestivo
può influenzare il decorso della malattia. Purtroppo, in molti casi, i primi sintomi sono difficilmente
distinguibili rispetto a una "normale" crisi adolescenziale.
Di seguito sono pubblicati dei “criteri” per il soddisfacimento della diagnosi della patologia:
1. Sintomi caratteristici: la presenza persistente di due o più dei sintomi che seguono, per un
periodo significativo che si considera di almeno un mese:

deliri

allucinazioni

disorganizzazione del discorso verbale (es: incoerenza, divagazione, ecc)

grave disorganizzazione del comportamento (es: nelle abitudini diurne, disturbi del
sonno, piangere o ridere frequentemente e in appropriatamente)

presenza di sintomi negativi, cioè che trasmettono un forte senso di disinteresse,
lontananza o assenza del soggetto: appiattimento affettivo (mancanza o forte
30
diminuzione di risposte emozionali), alogia (assenza di discorso), avolizione
(mancanza di motivazione), disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive,
assenza di contatto visivo.
2. Deficit o disfunzione sociale e/o occupazionale: per un periodo di tempo significativo uno o
più degli ambiti principali della vita del soggetto sono gravemente compromessi rispetto a
prima della comparsa del disturbo (lavoro, relazioni interpersonali, cura del proprio corpo,
alimentazione ecc.)
3. Durata: persistenza dei sintomi "B" per almeno sei mesi, che includano almeno un mese di
persistenza dei sintomi "A".
1.3.2 Epidemiologia e Psicoterapia
E’ classificabile come una malattia ubiquitaria, riscontrata in ogni epoca e cultura.
Il suo tasso d'incidenza è di 15-25 dei casi all'anno per 100.000 abitanti. Mentre il tasso di
prevalenza varia tra lo 0,6% e lo 0,8%.
Nel 75% dei casi l'esordio avviene in età giovanile (tra i 15 e i 35). Dopo i 35 anni sembra più
frequente nella donna che nell'uomo. Alcuni studi però dimostrano che non esistono sostanziali
differenze nella distribuzione tra i sessi.
Secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono circa 24 milioni le persone
che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello. Nelle donne si osserva la tendenza a
sviluppare la malattia in età più avanzata. Prendendo il caso specifico dell’Italia vediamo che vi
sono circa 245.000 persone che soffrono di questo disturbo: coloro che si ammalano appartengono a
tutte le classi sociali, ma una leggera maggioranza del disturbo si ha nelle classi socio-economiche
più basse e tra gli individui con un livello d'istruzione inferiore. Tuttavia possiamo confermare che
questo però non vale a dire che questa patologia deriva principalmente dall'emarginazione o dal
disagio sociale.
Non vi sono aree geografiche in cui l’incidenza risulti particolarmente alta; al contrario una
prognosi decisamente migliore si è evidenziata per i soggetti appartenenti ai paesi in via di sviluppo.
Inoltre, alcuni risultati dimostrano che i quadri clinici che si manifestano in maniera acuta
presentano una evoluzione migliore di quelli con esordio insidioso e progressivo: tuttavia, la
31
tendenza ad un esito migliore nei paesi in via di sviluppo è comunque stata riscontrata sia per i
quadri clinici ad esordio acuto che per quelli ad esordio progressivo.
Tralasciando la terapia farmaceutica (di natura medica), vogliamo trattare un diverso metodo di
trattamento terapeutico attraverso la PSICOTERAPIA.
Questa può coinvolgere familiari e conoscenti, allo scopo di individuare eventuali difficoltà
relazionali col malato e gestire il suo isolamento. Inoltre, la psicoterapia, può aiutare il paziente a
contestualizzare il problema e le risposte dell'ambiente, rendendolo maggiormente autoconsapevole facilitandone il contatto di realtà e rinforzando “l'Io”.
Le ultime ricerche ed esperienze sia in campo psichiatrico che psicoterapico dimostrano che un
approccio integrato (farmacologico + psicoterapeutico) ottiene un controllo migliore della
patologia.
Infine, di seguito, elenchiamo i principali componenti per il trattamento della schizofrenia. Le tre
“categorie” sono:
 farmaci, per alleviare i sintomi e prevenire le ricadute;
 interventi educativi e psicosociali, per aiutare i pazienti e le loro famiglie a risolvere i
problemi, confrontarsi con gli stress, rapportarsi con la malattia e le sue complicanze, ed
aiutare a prevenire le ricadute;
 riabilitazione sociale, per aiutare i pazienti a reintegrarsi nella comunità e riguadagnare le
capacità sociali ed occupazionali.
32
Capitolo II
“Il Basket e la Disabilità Mentale”…
«Il basket è l’unico sport che tende al cielo e questa è una rivoluzione per chi è
abituato a guardare sempre per terra. La palla è un mediatore per far esprimere a
pieno se stessi e riuscire a superare i propri limiti...».
Cit. Marco Calamai
33
La proposta del gioco della pallacanestro come forma di scambio e di rapporto interpersonale per
migliorare la condizione di disabilità. Questo è il principio fondamentale!
La pallacanestro è uno sport di contatto, di movimento dove regnano l’ordine e l’organizzazione di
lavoro: questi sono elementi importanti per il “lavoro” sul ragazzo disabile che ha bisogno di punti
di riferimento sicuri.
Come afferma Calamai: “…il basket non è lo sport più bello o il migliore possibile: lo ritengo solo
il più adatto come disciplina di squadra per i ragazzi con handicap mentale, per gli stimoli che
manda, per il senso del gruppo che crea, per il fascino del canestro che lo caratterizza…”
La palla è uno strumento che riesce a catturare l’attenzione di questi giocatori speciali: il canestro
per loro non solo rappresenta il punto per la vittoria della partita, ma una grande speranza al di fuori
del rettangolo di gioco; il passaggio a sua volta significa un´apertura, un contatto diretto con gli altri
(aspetto non irrilevante quando si parla di queste persone); infine il palleggio diventa uno strumento
di conoscenza dello spazio.
Il basket sa, quindi, affascinare e rendere partecipe il ragazzo diversamente abile: all’interno delle
situazioni proposte dal gioco stesso, egli può esprimere ogni sua potenzialità nascosta e mostrare
tutte le sue capacità.
Marco Calamai6, come già precedentemente descritto, afferma che uno degli elementi più
importanti nel basket è il tiro della palla in quanto “il basket è l'unico sport che tende al cielo e
questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra”..
Sottolinea, inoltre, che “…il momento del tiro è un giusto connubio di esplosività e delicatezza: la
prima, l'esplosività, è la componente iniziale del gesto; mentre la seconda, la delicatezza, si
concretizza nel momento in cui si lascia la palla tra le mani; in questo modo si impara a dosare la
forza e ad impiegarla per un fine definito e positivo…”.
Da più di 15 anni è impegnato come tecnico nell´handicap psichico nelle sue varie forme
(dall´autismo alla psicosi alla sindrome di Down) attraverso la proposta del gioco della
pallacanestro come prima forma di scambio e di rapporto interpersonale.
L’obbiettivo dell´attività sportiva tramite lo sport del basket è la comunicazione che avviene
attraverso l’attrezzo fondamentale del gioco: la palla.
I risultati ottenuti sono incoraggianti e assolutamente visibili da tutti quanti: molti dei ragazzi
coinvolti sono arrivati ad una capacità importante di comunicazione e di relazione, non solo
nell´ambito del gioco ma anche e soprattutto della vita quotidiana.
6
Marco Calamai (Firenze, 27 giugno 1951) è un allenatore di pallacanestro italiano.
Nella sua carriera, ha guidato per 12 stagioni con 365 partite dirette dal 1982 al 1995 tre squadre impegnate a
salvarsi in Serie A1 maschile: Venezia, Firenze e Libertas Livorno. E’ stato inoltre campione del mondo alla guida della
nazionale militare italiana nel 1990. Collabora con la cattedra di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna e
con lo Iusm di Roma; docente al Master di Psicosport di Milano.
34
2.1
“Il Metodo Calamai”
Il metodo di lavoro di Calamai “…non è uno schema fisso o un elenco di concetti, ma un percorso
di ricerca prima interiore, un cammino di sperimentazione che va al di la della strada conosciuta e
codificata…”.
Il suo metodo non è un insieme di regole fisse bensì un “progetto di gioco” che non si ferma al
semplice modello di gioco già conosciuto, ma si spinge ad andare oltre. L’obbiettivo è il completo
coinvolgimento dell’allenatore (il responsabile dell’attività) che si deve immergere in una nuova
esperienza totalmente diversa da quella sportiva abituale. Egli ha la possibilità di scoprire nuovi
valori e apprendere significati diversi di gesti già abbondantemente conosciuti nel consueto gioco
sportivo, come quello del basket.
“…Il metodo di gioco è un rimettere tutto in discussione per cercare di andare al di là di un
silenzio, di un rifiuto, di una paura, con la delicatezza del rispetto e il gusto della scoperta…”.
Il metodo di lavoro si basa su alcuni principi fondamentali. I 2 punti essenziali sono:

Avere profonda competenza del gioco della pallacanestro;

Possedere un’apertura verso la diversità e la capacità di entrare in contatto con quel mondo
delicato.
A sostegno di questa teoria ci sono inoltre 3 concetti fondamentali da cui non si può non
prescindere:
1. puntare sulla qualità di ogni singolo ragazzo disabile;
2. sfruttare il piacere e il divertimento nel e del gioco;
3. usare il passaggio, vero segreto di questo progetto, come strumento di comunicazione tra chi
per paura o incapacità non riesce a farlo con la parola.
35
Calamai inoltre pone alla base del suo metodo la figura dell’allenatore, quale colonna portante di
questo progetto ambizioso ed impegnativo.
A lui vengono richiesti 4 “requisiti”:
1. conservare la sua immagine di tecnico, senza confusione di ruoli o di incarichi, con il
supporto di un’equipe adeguata formata da professionisti del settore, educatori e volontari,
motivati e rispettosi dei diversi ruoli;
2. essere capace di trattare i ragazzi disabili come i giocatori normodotati, con severità,
incoraggiamenti, richiami, mettendo poche e chiare regole di lavoro e facendole rispettare;
3. essere in grado di valorizzare la ricchezza della diversità della sua squadra integrando il
gruppo dei giocatori disabili con giocatori normodotati disponibili a lasciarsi coinvolgere;
4. sapere mantenere lo stesso agonismo, la stessa voglia di vincere che caratterizzano i tecnici
delle squadre di normodotati che partecipano a campionati regolari.
Il punto di vista e l’angolazione sugli avversari da battere non è lo stesso della pratica sportiva
indirizzata esclusivamente ai normodotati: “…non sono più le altre squadre, ma nemici interni dei
ragazzi disabili, le loro paure, le insicurezze, il loro timore di sbagliare…”.
Lo schema è uno strumento di lavoro, “…una lente di ingrandimento attraverso il quale leggere
tutto il testo e rileggere sé stessi, valutando le personali caratteristiche di allenatore e di
educatore…”.
Passione, energia, voglia di conoscere, impegno e dedizione: questi sono i punti che permettono di
creare un rapporto utile e costruttivo con i ragazzi disabili.
36
2.1
“L’indice del gioco: i punti focali”
“…Ecco, la parola chiave per quanto mi riguarda è proprio LIBERTA’ e questo stato dell’animo
con cui mi sono messo in gioco con i ragazzi disabili mi ha permesso di scoprire e di approfondire
concetti essenziali di questa intensa esperienza sportiva…”.
I punti focali vengono “insegnati” dai ragazzi disabili: sono maestri nel fare capire all’allenatore, al
responsabile del lavoro quasi siano i veri valori, il vero senso di parole basilari per qualunque
esperienza di gioco.
Di seguito ne considereremo 4, come afferma Calamai nel suo libro: “Uno sguardo verso l’alto”.
1. L’attesa: nella vita quello che conta non sono le affermazioni che fanno scalpore, bensì
sono i semplici fatti concreti che fanno la differenza. Nel caso di questi ragazzi speciali,
quando alcuni di essi trovano difficoltà nell’esecuzione di esercizi allora li interverranno
altri compagni più capaci per aiutare dolcemente l’allievo meno bravo. In quel momento “si
capisce davvero il senso dell’attesa”. Il verbo attendere non significa aspettare mettendo
ansia ed agitazione al compagno. Il vero significato è quello di trasmettere alla persona
meno capace, o più lenta nel fare un qualcosa, che c’è qualcuno che lo aspetta, lo capisce, lo
motiva e crede in lui. Questa parola è molto abusata perché la nostra realtà conosce solo il
contrario: la fretta, cattiva alleata nel momento delle valutazioni sportive e non solo. I
ragazzi disabili ci mostrano quanto sia importante l’attesa,“sanno leggere nell’anima dei
compagni”. Questa è senza dubbio, come afferma Calamai, una scelta vincente di una nuova
pedagogia sportiva.
2. L’ascolto: parola chiave per l’educatore sportivo, ma sicuramente non la più usata nello
sport quotidiano. Nel mondo sportivo, oggi, è molto più facile apprendere, cogliere un
bisogno attraverso l’uso della “voce alta”. Ci viene molto più facile, ma sarà giusto? Quello
che ci vuole far considerare Calamai è che il “sapere ascoltare il silenzio di chi non sa o
non vuole esprimersi con la voce” è importantissimo. Anche le persone silenziose hanno un
modo di comunicare: non avviene con la voce, ma attraverso un gioco di posture e sguardi ci
comunicano tutto. Questo è ciò che avviene con i ragazzi disabili, che sono sempre
disponibili nell’ascoltare il compagno silenzioso facendolo integrare e sfruttando a pieno le
37
sue capacità. Questi ragazzi, possedendo alte capacità empatiche, ci trasmettono il pensiero
che la comunicazione è sempre possibile (in ogni modo), bisogna “solo” saper ascoltare.
Fondamentale diventa l’importanza dell’allenatore, che si deve calare in questa realtà a
pieno regime cercando di discostarsi dal modo tradizionale di allenare.
3. La regola: questo termine non significa solamente restrizione o limitazione bensì un modo
per la buona riuscita del gioco stesso; diventa ancora più fondamentale avere delle regole
quando siamo a contatto diretto con ragazzi disabili anche se non è per nulla facile
l’attuazione di tali punti. Per il ragazzo disabile queste regole diventano “…una protezione e
una forma di ordine al loro caos interiore…”. Ovviamente queste norme devono essere
poche, chiare, di facile attuazione e comprensibili dal gruppo. Quando tutti i ragazzi
capiscono questo “regolamento”, il gioco diventa più divertente e simile al tradizionale sport
conosciuto per atleti normodotati. La regola assume una forma diversa rispetto al
tradizionale significato che assume nello sport per normodotati: non è più una semplice
limitazione, ma diventa “…una tutela e paracadute per la libera espressione di grandi
qualità nascoste, che rischiano di rimanere inespresse senza una guida…”.
4. Integrazione: ultima parola cruciale, ma non per importanza. Questo termine offre molti
spunti di riflessione: noi tratteremo l’esempio dell’inserimento di ragazzi normodotati con
ragazzi disabili, che scelgono per volere proprio di partecipare a tale esperienza. Si forma un
gruppo misto, sia nelle capacità fisiche che in quelle mentali, che trasforma quest’esperienza
in un’attività molto stimolante. “…la diversità arricchisce davvero chi la sa vivere,
frequentare senza preconcetti. Ognuno dei componenti di questa squadra mista ha qualcosa
da dare agli altri...”. I benefici che traggono i ragazzi disabili sono sotto gli occhi di tutti:
sia dal punto di vista del gioco, ma soprattutto nel rapporto interpersonale. Il coinvolgimento
e la disponibilità dei ragazzi normodotati è di fondamentale importanza per la riuscita di
tutto questo. “…L’esperienza di questo gruppo misto così speciale e così integrato è tanto
intensa nel significato e nei risultati ottenuti che sa meravigliare anche chi, come me, l’ha
promossa e voluta…”. Parole di Marco Calamai…
Uno degli obiettivi finali del Progetto è quello di poter svolgere questa attività sportiva in un
contesto di integrazione. Infatti, come afferma Calamai, si può dire che in questo contesto si può
superare quella sottile linea che separa l'inserimento e l'integrazione, concetti apparentemente simili
ma profondamente diversi: l'inserimento si riferisce all'accesso di una persona con disabilità sia
psichica che fisica; l'integrazione implica invece sia l'accesso che l'accoglienza di queste persone.
38
2.2
“Integrazione” con lo sport
Dall’ultimo punto focale per la riuscita del “Metodo Calamai” prendiamo spunto per continuare a
parlare del concetto di INTEGRAZIONE, partendo proprio dalle origini del processo integrativo.
La gestione ufficiale del settore handicap e sport è affidata alla FISD (Federazione Italiana Sport
Disabili) nata nel 1990 (dal 2003 affidato al CIP, Comitato Italiano Paralimpico).
E’ un organismo preposto per lo svolgimento dell’attività sportiva da parte delle persone disabili in
ambito nazionale in collaborazione con il CIO (Comitato Internazionale Olimpico) e il IPC
(International Paralympic Committèe), responsabile dell’organizzazione dei Giochi Paralimpici.
Per quanto riguarda il nostro caso specifico dell’attività fisica per persone affette da handicap
mentale, ricordiamo l’anno 1968: nasce negli Stati Uniti un programma preposto alla promozione
dell’attività di sport non agonistico per atleti “portatori” di handicap mentale.
Nella nostra nazione, dal 1996 è stato formato un settore specifico per la disabilità mentale creato
appunto dalla FISD.
Questo è il quadro generale, descritto in breve sintesi, dell’integrazione oggi sia in Italia che nel
resto del Mondo. Tralasciando ora quello che riguarda le normative, leggi e tutto quanto ne
consegue, introduciamo il pensiero principale che accomuna molti atleti disabili: il sogno di
abbattere il muro che divide atleti normodotati e quelli diversamente abili, il desiderio di arrivare ad
uno sport unico che unisca tutti quanti senza fare nette divisioni tra essi!
“...Il ricongiungimento di tutti gli atleti sotto la bandiera dello sport unico…” è il pensiero di
Calamai: un percorso (arduo) che deve confluire a questo obbiettivo finale.
Sia le Società che i Gruppi sportivi di appartenenza devono essere gli stessi per tutti gli atleti che si
affronteranno in gare e tornei tra persone con capacità diverse.
“…La frequentazione aiuta, l’emulazione stimola, lo scambio apre e così l’integrazione si attua…”
è il ragionamento di Calamai.
Senza eliminare la struttura già esistente, riservando (almeno inizialmente) i tornei e le gare previste
appositamente per atleti diversabili, bisogna introdurre a livello sperimentale manifestazioni e tornei
dove si affrontino squadre composte da atleti normodotati e disabili, in gruppi misti.
In seguito, si può organizzare un più alto livello di gare e tornei dove si scontrino atleti normodotati
con quelli diversabili: unica condizione per gareggiare insieme sono i tempi ottenuti. Come afferma
Calamai, “…l’unico giudice rimane il cronometro e non il certificato di disabilità o di idoneità
39
sportiva…”. Durante questi tornei sperimentali, il fatto che ci siano atleti normodotati dev’essere
uno stimolo, un incoraggiamento per gli atleti diversabili: quest’ultimi dovendo stare al passo con le
prestazioni dei ragazzi normodotati, in modo automatico raggiungono rendimenti e miglioramenti
impensabili; superiori rispetto a quelli che riserverebbero per le manifestazioni riguardanti solo
individui disabili.
Quindi occorre sottolineare che, tramite il “Metodo Calamai”, non ci si limita solo
all’organizzazione di tornei, gare e manifestazioni prettamente riferiti ad atleti disabili ma si va oltre
questi aspetti: dare la possibilità ai giocatori speciali di potersi confrontare con atleti normodotati,
aiutati ed integrati appunto da volontari. Questo passo “delicato ed impegnativo” diventa
successivamente “doveroso ed appagante”.
La diversità è una fonte di valore e di ricchezza: i miglioramenti e i risultati ottenuti tramite questi
metodi di lavoro sono sotto gli occhi di tutti.
40
Capitolo III
Progetto "Special Team Annabella 87"
Il basket per atleti diversamente abili
41
Fig. 4
Articolo da “La Provincia Pavese” dell’ottobre 2006
Il Potere del basket e del “Metodo Calamai” ideato da un italiano, che per la prima volta nel mondo
è riuscito a rompere i ghetti delle diverse disabilità e mettere in comunicazione persone con
handicap e normodotati, consapevoli di far parte di un'unica squadra.
Da Bologna, dove il Metodo ha mosso i primi passi, fino a Pavia con il progetto "A canestro in
modo speciale...".
A introdurlo e crederci fin dall'inizio sono stati proprio due ex giocatori del coach Marco Calamai:
Chicco Falerni e Dante Anconetani. Lo hanno fatto con l'entusiasmo dei ventenni di ieri, del
quintetto fantastico dell'Annabella '87, che si è rimessa insieme contando sull'apporto del medico
sportivo di quella squadra, il dottor Albino Rossi, e della stessa sponsorizzazione, concessa dai
fratelli Ruggero e Riccardo Ravizza.
Inoltre possono contare sull’importante collaborazione del Panathlon e, logisticamente, dell’oratorio
San Mauro (la sede delle attività a Pavia).
42
…“Avere il coraggio di guardare al cielo, stare finalmente a testa alta.
Facile direte voi. Una chimera fino a poco tempo fa per Alessandro
(ragazzino autistico) e i suoi compagni di una squadra di basket davvero
speciale: appuntamento settimanale all'Oratorio di San Salvatore,
quartiere di San Mauro a Pavia. Sono i ragazzi dello Special Team
Annabella '87. Un gruppo stupendo di cestisti in erba che hanno scoperto
i benefici del "Metodo Calamai": «Una concreta integrazione attraverso il
gioco della pallacanestro tra giocatori diversamente abili e giocatori
normodotati »…”
Tratto da “Avvenire” del 7 dicembre 2007
43
Fig. 5
Articolo tratto da “La Provincia Pavese” dell’ottobre 2006
44
3.1
Il Progetto: una “palestra di vita”
Il progetto “Special Team Annabella ‘87” permette la possibilità d’inserimento nel contesto
sportivo, che è dapprima una normale palestra per l’attività fisica, ma che in seguito diventerà anche
"palestra di vita", nel quale il bambino può apprendere nuove competenze dal punto di vista
cognitivo, affettivo e relazionale e nel quale potrà divertirsi.
Trasmettendo al bambino una serie di nuove competenze che gli permettano di essere autonomo
nella gestione dei suoi spazi nella vita quotidiana, il basket agisce anche sulla dimensione educativa
dell' "evoluzione del comportamento".
Il principio fondamentale del basket è quello di “dover” essere un momento di divertimento e di
crescita. In quei momenti di sport si cercano soluzioni alternative, in modo da continuare a motivare
i bambini e ragazzi a non farli cadere nella frustrazione determinata dal non riuscire ad arrivare al
risultato del "canestro".
Ciò che unisce i ragazzi con disabilità sono spesso il dolore, la sensibilità e il rifiuto da parte della
società. È dunque fondamentale la formazione di un gruppo: se ad esso si riesce inoltre a fornire una
motivazione ancora più positiva, lo stare assieme risulterà ancora più piacevole.
La modalità dello stare insieme passa per il piacere di farlo e per il divertimento che ne consegue: in
queste condizioni è più facile che una persona autistica si apra e si stacchi dalla propria condizione
di chiusura. La gioia di praticare uno sport fornisce la forza per aprirsi alle relazioni con le altre
persone, condizione non irrilevante.
Il contesto altamente strutturato e la sequenza degli esercizi proposti stimola da una parte
l'acquisizione di nuovi comportamenti funzionali alla crescita, dall'altra la riduzione dei
comportamenti ritenuti non funzionali.
È possibile osservare la comparsa di capacità di coordinazione e di utilizzo del proprio corpo
inaspettate e anche la graduale scomparsa delle stereotipie tipiche dei bambini autistici.
Nel basket vengono individuati i bisogni e le esigenze del bambino e i comportamenti su cui è
necessario successivamente intervenire per poi insegnare al bambino condotte più funzionali che
sostituiscano quelle disadattive.
45
In seguito, mediante l'intervento programmato, viene attivata l'acquisizione del nuovo
comportamento, ponendo attenzione affinché esso sia "armonizzato" rispetto alle attitudini del
bambino e possa "fondersi" con le sue stesse caratteristiche.
L’obiettivo fondamentale del Progetto non è che il bambino impari a "fare canestro", ma acquisisca
nuove competenze fisiche che possa utilizzare nella vita quotidiana.
Non è importante che il bambino impari a relazionarsi solamente con l'operatore, ma (grazie
all'esperienza di relazione salda con il proprio operatore) possa migliorare in generale le sue
competenze relazionali.
“Il basket agisce particolarmente sulla dimensione dello "Sviluppo Dinamico Corporeo"
costituendo una naturale occasione per valorizzare le capacità fisiche che molto spesso vengono
messe in secondo piano rispetto ai disagi psicologici” (Coste, 1989).
Un passo rilevante dell'approccio relazionale nell'attività sportiva con i bambini autistici è
rappresentato dal contatto corporeo diretto. “I primi contatti dovrebbero essere leggeri ma decisi,
non violenti o bruschi, ma neppure esitanti: è importante che attraverso il contatto non si trasmetta
aggressività, la quale spesso, indurrebbe i bambini ad una chiusura difensiva o ad una reazione
negativa” (Salvitti, 2001).
Attraverso il gioco, quello del basket in questo caso, il bambino autistico ha la possibilità di
migliorare la coordinazione, la resistenza, la forza e la velocità.
Esso impara a superare la fatica, che è uno dei primi ostacoli per la riabilitazione fisica, come
giustamente afferma Calamai.
Questo sport è fondamentale per migliorare anche il tono dei gruppi muscolari, per riprendere
coscienza del proprio corpo e per riorganizzare gli schemi motori, migliorando la coordinazione e
l'equilibrio. Agisce, inoltre, per un migliorare il proprio "schema corporeo" e guida il bambino
verso la capacità di "mentalizzare" le proprie azioni.
Tutti questi aspetti permettono una positiva attuazione di sé ed una effettiva socializzazione in
modo tale da rendere possibile anche la presa di coscienza globale di un insieme organizzato e dei
rapporti che collegano lo spazio cinestetico con lo spazio oggettuale.
Il basket “diventa”, da attività ludica primaria, vero e proprio mezzo di conoscenza, di
apprendimento, di esplorazione dello spazio in relazione al proprio corpo, di consapevolezza delle
proprie azioni e reazioni. Sotto questo profilo l'attività motoria diventa lo strumento indispensabile
per inquadrare tutte le capacità del bambino: dalla personalità all’individuazione delle componenti
psicologiche e caratteriali favorendo, inoltre, le attività espressive e stimolare la spinta creativa.
Lo sport del basket favorisce l'utilizzo del proprio corpo come strumento fondamentale di
esplorazione e di comunicazione con l'ambiente esterno. Non sempre tale comunicazione sarà di
46
tipo verbale, anzi nel caso (più probabile) essa sia notevolmente ridotta, il basket favorisce la
creazione di canali comunicativi alternativi proprio attraverso il corpo.
Questo momento ludico e motorio assume un ruolo determinante nella vita del bambino e del
ragazzo autistico. L'attività psicomotoria si intreccia con altre forme di educazione per completare il
processo educativo del ragazzo/bambino.
Alla luce di quanto descritto sopra giungeremo alla conclusione che il basket, quindi, non è solo
esercizio fisico e muscolare, ma agisce spesso sulla personalità e sulle capacità del bambino in
modo da migliorarle tramite il gioco, suscitando interesse e divertimento nel ragazzo.
47
3.2
Ma perché proprio il basket?
“…A tutti loro e alle richieste che esprimono con le parole, i gesti e i
silenzi il basket sa dare risposte certe ed esaurienti…”
cit. Marco Calamai
La scelta di questo sport non è casuale: “il basket è l'unico sport che tende al cielo e questa è una
rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra”. Questa affermazione, già
precedentemente descritta, è la motivazione principale che fa propendere la scelta di questo sport
abbinata a queste tipologie di persone.
La palla affascina sempre: nel basket, questa viene toccata dai ragazzi con le mani (aspetto da non
sottovalutare perché spesso negli altri sport essa viene toccata con i piedi con conseguenti e
maggiori difficoltà). Secondo punto importantissimo riguarda il canestro:

diventa un elemento attrattivo perché è posizionato in alto, un modo per puntare lo sguardo
verso l’alto, per uscire dalla condizione chiusa, per aprirsi verso gli altri;

è stretto, quindi stimola i ragazzi perché il riuscire a fare il canestro implica grande gioia e
soddisfazione (condizione gratificante per i giovani);

per la sua forma ricorda il centro della vita.
Questo sport diventa, per questi ragazzi speciali, un’esperienza unica nel loro corpo: l’allungamento
che inizialmente è motorio diventa un’apertura verso il mondo, verso gli altri.
I principi, le norme e le regole del gioco sono esattamente le stesse della pallacanestro
professionistica, ma adattate ed indirizzate a questi ragazzi speciali senza snaturare il senso della
disciplina sportiva.
Il piacere dev’essere inteso come un fattore di crescita, una possibilità di divertimento all’interno di
un gruppo. Il riunirsi in una squadra è una forma di protezione dove ogni ragazzo si sente accettato
senza nessun tipo di discriminazione: “accogli per essere accolto, accetta per essere accettato”.
48
Questa regola è condivisa da tutti e da questo punto di partenza si struttura il lavoro sportivo dove
impegno e dedizione non vengono mai a mancare.
L’aspirazione del gruppo è quella di contagiare positivamente più persone possibili che riescano
attraverso la pallacanestro ad affrontare le difficoltà ed inserirsi nella società.
49
3.3
Un canestro per la conoscenza!
Un titolo intrigante per descrivere come la pallacanestro possa diventare uno strumento di
conoscenza nel quale il ragazzo riesce ad apprendere, dapprima gesti motori semplici, e
successivamente i valori che si rispecchieranno nella vita quotidiana.
Qual è il primo strumento che può aiutare una prima apertura dei ragazzi? La risposta è semplice: la
palla! Questo oggetto aiuta a conquistare una prima fiducia dei ragazzi verso il proprio allenatore,
ad entrare in contatto con loro e con il mondo che si creano.
“…Non ho ancora trovato un ragazzo con disabilità
mentale che abbia respinto il mio approccio attraverso il
pallone…” : questa citazione di Calamai ci esplicita quanto
sia importante il pallone nel primo approccio con il ragazzo.
L’aspetto fondamentale per la crescita di un ragazzo è il
piacere: attraverso ciò è possibile arrivare ad una
conoscenza di sé e delle proprie capacità per mezzo
dell’attrezzo di gioco, che diventa stimolante da questo
punto di vista.
Accarezzare la palla, palleggiarla, maneggiarla, guidarla sul
proprio corpo o su un altro oggetto, non farla cadere,
stringerla, fissarla: sono tutte modalità, diverse tra loro, di approccio con il pallone e tutte
importanti nel medesimo modo.
Un altro aspetto, non irrilevante, è la pesantezza di questo strumento di gioco. Questa è una
peculiarità che la palla possiede e molte volte non viene sottolineata: per maneggiare la palla non
bastano solo destrezza e fantasia, ma anche attenzione e forza.
La pesantezza stimola l’attenzione, la concentrazione del ragazzo: non si può trattare questo oggetto
con superficialità e leggerezza perché questo comporterebbe distrazione e scarso controllo
dell’oggetto. I ragazzi mostrano, tramite il loro impegno costante durante gli allenamenti, quanto sia
importante la concentrazione e la delicatezza che bisogna rivolgere alla palla.
In conclusione di questo piccolo discorso sullo strumento di gioco così affascinante, bisogna
sottolineare che la palla striscia, vola, rimbalza, rotola, ma ha un’altra caratteristica importante: la
sua pesantezza.
50
Con questo oggetto stimolante, i ragazzi disabili iniziano il percorso di conoscenza, esperienza nel
gioco. Il pallone diventa, quindi, una “spalla su cui appoggiarsi” per sperimentare nuove esperienze,
nuove attività in cui esprimere tutte le proprie capacità.
“…Non credo che esista uno strumento di conoscenza di sé e del proprio corpo più divertente e
affascinante di un pallone…”.
Dopo una prima conoscenza della palla, il ragazzo cerca di sviluppare le proprie capacità allargando
i suoi orizzonti: può andare oltre, può osare, può cercare lo scambio con il compagno rivolgendogli
uno sguardo, può alzare gli occhi verso l’alto alla ricerca di centrare l’obbiettivo finale del gioco
ovvero il canestro. Le sue competenze, ovviamente, devono essere stimolate attraverso una guida
sicura, quella dell’operatore che lo segue con sensibilità e competenza alla ricerca della scoperta di
“nuovi territori”.
Tra le caratteristiche primarie del gioco del basket c’è il tiro, che differisce dagli altri sport in
quanto non avviene in modo rasoterra, né parallelo al terreno né dall’alto verso il basso come nella
pallavolo. Nella pallacanestro il tiro assume un significato diverso attraverso il tirare verso l’alto:
diventa metaforicamente un “puntare al cielo sollevandosi dalle piccolezze terrene”.
Questa è la motivazione (che prima abbiamo spiegato) della scelta di questo sport per queste
tipologie di ragazzi: il cestino è posto in alto per richiamare lo sguardo ed accendere la speranza di
ognuno. La verticalità consente al ragazzo di acquisire sicurezza e competenze più ampie, non solo
a livello sportivo ma anche nella vita quotidiana. Tutto quello che accade a livello fisico si
rispecchia a livello psicologico: il movimento dello slancio verso l’alto rappresenta un’apertura al
mondo, una possibilità ed una conquista mai provata prima ad ora.
Un’ultima parte la voglio dedicare alla scoperta dell’altro, del compagno tramite il passaggio che
viene inteso nel significato di comunicazione.
Il basket presenta quindi un’altra metafora della vita: il passaggio al compagno di gioco assume la
valenza di comunicazione, di dialogo verso l’altro. Se analizziamo la comunicazione (verbale e
non) notiamo che essa implica una “conoscenza” di tempi, di modi, di bisogni dell’altra persona.
Nel gioco avviene la stessa cosa: devo guardare il compagno, devo capire che lui mi vede, devo
vedere che lui si predispone per prendere il mio passaggio (alto, basso, rimbalzato).
Sostanzialmente è la “conoscenza dell’altro” nello sport, così come avviene nella vita.
Il passaggio è l’aspetto più complesso, “la vera metafora del dialogo”: bisogna evitare di
mantenere singolarmente il possesso della palla, ma cercare una comunicazione con il compagno
per attivare il gioco di squadra, anche se è un processo difficile da eseguire.
Per molti ragazzi, appunto, la difficoltà è proprio l’apertura verso gli altri: tramite il mezzo
affascinante, quale la palla, si riesce a far avvenire ciò in modo meno esplicito. La palla, quindi,
51
diventa lo “strumento facilitatore della comunicazione” perché essa permette il contatto con gli
altri, fa interagire con gli altri ragazzi (aspetto fondamentale). Questo è, inoltre, il vero significato
del gioco di squadra, il bisogno dell’altro: quest’aspetto successivamente è fondamentale anche
nella vita di tutti i giorni.
La palla, strumento di piacere, aiuta nella conoscenza dell’altro perché sa mediare le timidezze e le
paure che i ragazzi hanno quando sono a contatto con l’altro. Essa, tramite il lancio ed il passaggio,
rappresenta un “sinonimo” del dialogo, un modo per sperimentare il contatto con l’altro attuato non
direttamente ma coadiuvato con il fantastico strumento della palla.
52
3.4
L’attività motoria con i ragazzi
Le esercitazioni proposte durante gli allenamenti si svolgono quasi sempre in gruppo, ma il lavoro
individuale non viene certamente tralasciato in quanto assume un ruolo fondamentale nella
partecipazione del ragazzo nell’attività collettiva.
Gli esercizi con l’utilizzo della palla servono ai ragazzi per prendere contatto con questo “mezzo di
lavoro” ma soprattutto di divertimento: hanno finalità di aggregazione e comunicazione con le altre
persone che spesso sono distanti non solo fisicamente, ma anche psicologicamente.
Le attività prevedono esercizi semplici, affascinanti, che catturano l’attenzione del ragazzo affinché
questi riesce ad eseguirli pressoché subito o che comunque abbia la percezione del “potercela fare”
in breve tempo.
Prerequisiti del gioco:

Prendere sul serio i bambini che pur con i loro limiti sono ricchi di potenzialità;

intuire le qualità dei singoli, cercando di eliminare il pensiero del soggetto di avere
limitazioni nell’eseguire gli esercizi ;

riconoscere nelle problematiche dei ragazzi “speciali” anche le nostre problematiche.
Di seguito, sono elencati le tipologie di esercitazioni proposte durante gli allenamenti della squadra.
1. Esercizi di contatto e possesso palla: sono finalizzati alla scoperta di sé, attraverso il
contatto del pallone sul corpo e le sensazioni che ne derivano.
Esempi di esercizi:

La conquista: scoperta della palla → la finalità è quella della conoscenza di se stessi
attraverso la presa, il contatto visivo e tattile dello strumento di gioco.

Approccio con la palla: carezza sul corpo → è un passo in avanti rispetto
all’esercizio precedente; la carezza della palla sul corpo permette al ragazzo di
entrare in relazione al mezzo di gioco, imparando a conoscerlo in diversi modi.
53

Palla accarezzata sulla parete → questa tecnica rappresenta una prima uscita da sé
stessi ed un approccio guidato verso la comunicazione con gli altri. Il muro media la
paura del contatto diretto con i compagni: difatti la palla non viene passata
direttamente al compagno, ma lasciata premuta sulla parete in attesa dell’arrivo del
compagno. Il contatto con l’altro inizia, anche se indirettamente.
2. Esercizi di tiro a canestro: è il premio per il giocatore, il risultato di tutti gli sforzi. Dal
primo giorno si fa in modo che tutti riescano ad arrivarci, usando vari sistemi: abbassandolo,
sollevando i più piccoli, alzando i ragazzi tramite tavoli o sedie, sfruttando cesti di altra
natura per aiutare ragazzi in difficoltà.
In questo modo si arriva alla scoperta dell’alto, attraverso l’allungamento fisico, un’apertura
della postura ed una tendenza alla verticalità dovuta al movimento del tiro.
Esempi di esercizi:

Tiro a canestro in fila → indica la solidarietà tra ragazzi; la protezione tramite il
gruppo; il rispetto della regola, del tempo e della relazione.

Gara di tiro a squadre → imparare a reggere le prime forme di agonismo di una gara.
Il titolare in questa situazione è protetto dalla sua squadra, ma sente la tensione della
prova per il risultato finale della gara. I suoi compagni sono dalla sua parte e lo
sostengono.

Tiro senza pensare → la conclusione a canestro immediata ha lo scopo di ridurre i
pensieri, le paure ed i timori del tiratore. Questo esercizio, insieme al “tiro bendato”
e “tiro all’indietro” hanno lo scopo di diminuire o togliere la pressione del dover
centrare il canestro. Sono esercitazioni nate con l’obbiettivo di eliminare il senso di
colpa nello sbagliare il tiro: se realizzate danno gratificazioni importanti a ragazzi
che ne hanno veramente bisogno.
A seguito di queste esercitazioni di tiro si possono proporre “staffette di gioco a punteggio”
che hanno lo scopo di: creare competizione tra squadre, dare il senso di appartenenza a un
gruppo e la protezione che ne deriva, la gratificazione per l’incitamento degli altri e per il
canestro segnato.
3. Esercizi di passaggio: queste proposte hanno lo scopo di portare alla scoperta dell’altro da
sé, attraverso la comunicazione che permette lo scambio della palla tra i compagni.
Le 2 regole alla base di ogni esercizio di passaggio sono:
54

passare la palla a chi non ce l’ha,

passare la palla solamente a chi la cerca con lo sguardo.
Esempi di esercizi: esercizio di passaggio a terra, passaggio diretto e battuto, passaggio in
verticale/orizzontale, passaggi misti, palla sul tavolo strisciata sopra/sotto, palla sulla parete.
4. Esercizi di palleggio: tramite queste esercitazioni il ragazzo disabile può aprirsi alla
conoscenza dello spazio circostante uscendo dalla condizione chiusa e riservata in cui esso
vive. Le finalità di queste proposte educative sono quelle di fare uscire il ragazzo dal proprio
angolo chiuso, aprendosi alla valutazione di un mondo tutto da scoprire. Lo scopo è sempre
quello di stimolare i ragazzi verso la realtà: valutandola, entrandoci grazie alla protezione del
pallone che guida il giovane nello spazio aperto e verso la relazione con l’altro.
Esempi di esercizi: palleggio sul posto, da seduto, da seduto con passaggio e cambio di
posto, ecc.
Fig. 6
Un’esercitazione d’ allenamento dei ragazzi all’Oratorio San Mauro (Pavia).
55
Tutte queste esercitazioni sopra elencate sono rivolte a migliorare tutte le capacità dei ragazzi,
ognuna con delle proprie finalità. Lo scopo principale è comunque unico: migliorare la vita di questi
ragazzi, divertendosi e facendo sport.
Abbinando gli esercizi precedenti, si possono, o meglio si devono costruire dei percorsi di gioco
obbligati nei quali ogni ragazzo abbia una funzione da svolgere con successo: appunto così nascono
i circuiti della pallacanestro. Sta all’istruttore dare il meglio di sé, spaziando con la fantasia, alla
ricerca di tutto quanto sia utile per la costruzione del percorso di allenamento.
L’obiettivo è quello di creare una situazione di gioco dove vengono stimolati tutti gli individui
utilizzando tutto quanto è possibile per la riuscita di questo percorso. Più il percorso di gioco è vario
e stimolante, più il ragazzo disabile si interessa, si adatta e trova soluzioni per migliorarsi.
Dal lavoro fatto da Marco Calamai e vedendo gli allenamenti dei ragazzi non si possono non
sottolineare 4 aspetti tecnico-teorici che risultano evidenti:

il movimento verso l’alto;

la dimensione del piacere;

gli atti motori semplici;

prendere la palla.
Il movimento verso l’alto è una “metafora corporea” per uscire dalla condizione chiusa in cui vive il
ragazzo disabile: una forma di crescita in cui diventare grandi, acquisire autonomia, relazionarsi con
gli altri. Nello sport della pallacanestro questo movimento è attuato per arrivare allo scopo finale,
quello del canestro. Per questo basket adattato diventa un’opportunità straordinaria per favorire
l’esperienza e la memoria corporea che consentono di pensare con il corpo alla crescita.
Lo slancio verso il canestro viene considerato da questi ragazzi in forma di immagine senza parole:
“il canestro ti aiuta a diventare grande”.
La dimensione del piacere diventa molto intensa nel gioco del basket: il ragazzo risveglia una forza
vitale che fornisce l’energia per superare la fatica che devono affrontare per muoversi, comunicare
56
ed interagire con gli altri. Tramite questa pratica sportiva, il ragazzo si relaziona con gli altri
attraverso il semplice dare e ricevere la sfera, che diventa sinonimo di piacere.
Dare - prendere, percorsi avanti - indietro, movimenti verso l’alto - il basso, dentro - fuori, il vicino
- lontano: questi sono tutti atti motori semplici che sono simultaneamente anche cognitivi e
relazionali.
Il “prendere la palla” è un gesto semplice ma comporta un mix di processi al suo interno: gli occhi,
così come il capo, sono orientati in direzione della palla in modo da identificare l’oggetto; il
muovere le mani in direzione della palla implica una localizzazione del corpo rispetto all’oggetto e
allo spazio; toccare la palla consegue la sensibilità alla cute e aziona l’articolazione dei muscoli. A
livello neurologico, aiuta a realizzare compiti cognitivi deputati all’individualizzazione di oggetti e
all’attuazione di movimenti solitamente richiesti anche nella normale vita quotidiana.
57
Capitolo IV
“La mia esperienza all’Oratorio San Mauro”
Fig. 7
La squadra dello “Special Team Annabella ‘87” al completo.
4.1
58
“Direttamente sul campo di gioco”
Martedì, ore 14.00: è il fatidico giorno: “il giorno di allenamento”.
Mi presento all’Oratorio San Mauro, sede del progetto dove incontro subito uno dei responsabili e
fondatori del Progetto: Enrico “Chicco” Falerni.
Da subito si dimostra molto disponibile e, senza troppi giri di parole, inizia a parlarmi del Progetto
che si svolge presso il centro descrivendomi le attività proposte, il metodo di allenamento,
l’approccio degli operatori verso i ragazzi.
Intendo spiegargli che il mio elaborato di tesi si riferisce principalmente al “Metodo Calamai”
(come descritto precedentemente) e sono molto interessato al Progetto dell’Oratorio. Ascoltando le
mie parole, Enrico intende sottolinearmi che il Progetto portato avanti all’Oratorio San Mauro
differisce in un punto da tal metodo e lo si nota chiaramente osservando gli allenamenti nella
palestra.
Il metodo prevede l’inserimento dei normodotati nella squadra dei diversabili: questo non avviene
all’Oratorio, nel senso che la squadra non è mista bensì è interamente formata dai ragazzi che sono
supportati “esternamente” dagli operatori ed allenatori che collaborano per la buona riuscita degli
allenamenti. Gli operatori che collaborano al Progetto sono tutti volontari che mettono a
disposizione tutta la loro competenza, dedizione, buona volontà oltre al loro tempo libero senza
nessuna tipologia di ricompensa economica: al contrario vi è una sorta di “ricompensa umana”, una
gratificazione molto più alta rispetto al lato di natura prettamente economico.
Difatti, nella palestra, vi sono le ragazze dell’Istituto Magistrale “A.Cairoli” di Pavia (indirizzo
socio-psico-pedagogico) coinvolte nel Progetto e supportate dalla Prof.ssa Maria Stella Lana.
Queste ragazze aiutano e sono parte integrante dell’area di Progetto: ad ogni ragazza viene affidato
un ragazzo da seguire, a volte anche 2 ragazze per diversabile. Il rapporto operatore-ragazzo,
quindi, è 1:1 (a volte 2:1). Questo avviene perché ogni ragazzo è “un caso a sé”, da seguire
individualmente, da “coccolare”, da stimolare per permettere il divertimento del ragazzo oltre che il
miglioramento della sua condizione. L’unica “fatica” avviene nel tenere a bada i ragazzi un po’ più
grandi che, oltre ad avere un po’ più di forza fisica vivono anche il periodo adolescenziale come
qualsiasi altro ragazzo: hanno voglia di “disubbidire” ai più grandi e vivono il “periodo dell’ormone
libero”, quella della prima scoperta sessuale.
Per questo motivo l’osservazione di questi ragazzi avviene da parte di 2 persone o degli operatori un
po’ più esperti e più grandi (fisicamente parlando).
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Mentre ascolto le illustranti parole di Enrico, noto con piacere un continuo ingresso di persone nella
palestra: sono i ragazzi dello “Special Team Annabella ’87”, sprizzanti di gioia e scalpitanti per
iniziare a fare il loro consueto allenamento settimanale.
Continuo a vedere con i miei occhi l’ingresso di ragazzi, accompagnati dai genitori o parenti. Uno
dei primi che vedo entrare è un bambino di 9 anni (affetto da sindrome di Down, come mi racconta
Chicco) che cerca subito un pallone per iniziare a palleggiare. Chicco mi conferma con le parole
quello che i miei occhi vedono chiaramente: “…vedi, non vedono l’ora di iniziare a giocare!”. Ed è
proprio così!
Le sue parole si soffermano subito su un aspetto importante che intende evidenziarmi: la famiglia.
Sono le fondamenta per ogni persona e per questi ragazzi lo sono ancor di più. Parenti, genitori,
fratelli o sorelle: sono tutte quelle persone che si fanno chilometri su chilometri per portare i ragazzi
all’Oratorio, che prendono permessi da lavoro per il proprio figlio, che spendono anche momenti
liberi per poter vedere il proprio figlio o fratello gioire, divertirsi ed aprirsi verso le altre persone.
Sono quasi le 14:30 (ora di inizio delle attività motorie) ed il numero dei ragazzi continua ad
incrementarsi arrivando a toccare all’incirca una trentina: da quando è partita l’iniziativa questo
numero continua a crescere, difatti Chicco mi dice che il numero dei ragazzi che fanno parte di
questa squadra è arrivato a toccare addirittura quota 43 quest’anno.
I presenti in palestra sono tutti bambini e ragazzi perché gli allenamenti sono divisi in 2 parti: dalle
ore 14:30 alle 15:45 spazio ai bambini ed ai ragazzi, successivamente fino alle ore 17:00 vi sono gli
adulti. Nella prima “ora e un quarto di allenamento” si cerca di “far aprire” i ragazzi e farli
relazionare col mondo esterno, di farli uscire dalla loro condizione un po’ chiusa, di farli
collaborare e comunicare con i compagni con l’aiuto degli operatori attraverso il divertimento e il
piacere del gioco. La difficoltà sta nel riuscire a tenere l’attenzione dei ragazzi che spesso tendono a
distrarsi, non per noia ma perché comunque essendo bambini e ragazzi tendono a voler uscire dagli
schemi dettati dagli allenatori.
Noto con piacere che tutto quello che mi dice lo riscontro con i miei occhi nella pratica, segno di
un’ottima organizzazione ed un lavoro ben programmato e ben attuato, aspetto che non spesso si
verifica.
La seconda “ora e un quarto di allenamento” è quella dedicata agli adulti, ma spesso accade che si
fermino anche dei ragazzi dell’ora precedente. Sono, ovviamente, i ragazzi più grandi di età che
riescono, attraverso gli allenamenti del basket, ad estraniarsi dalla realtà chiusa in cui spesso
purtroppo vivono e a trarre divertimento e felicità durante gli allenamenti.
Nella secondo parte l’allenamento diventa più tecnico: si cerca di insegnare la tecnica di base, i
gesti motori del basket, dai più semplici ai più difficili in base alle caratteristiche degli individui.
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Quello che balza subito all’occhio è proprio un allenamento sportivo dove le attività proposte sono
rapportate alle persone presenti e alle loro capacità. Tutto quello che viene proposto dagli operatori
e soprattutto mostrato viene successivamente eseguito dai ragazzi con il massimo impegno ed
interesse. “Quello che viene mostrato fisicamente ai ragazzi!” è un’affermazione che intendo
sottolineare perché per la buona riuscita dell’esercizio occorre saperlo dimostrare in primis, farlo
vedere muovendosi e proponendolo nella sua completezza: tutto ciò dev’essere fatto dall’istruttore,
dall’operatore o dall’allenatore. Non bisogna soffermarsi al semplice “fai questo…fai quello!” detto
semplicemente in modo verbale al ragazzo, ma l’aspetto del ripetere il gesto e l’esercizio permette
all’allievo di poter emulare il proprio allenatore e capire come va fatto il compito sportivo.
Fig. 8
Un’esercitazione di tiro al canestro durante l’allenamento presso il centro sportivo dell’Oratorio San Mauro (Pavia)
4.2
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“L’approccio degli operatori e gli allenamenti dei ragazzi”
Fondamentale è l’apporto e il lavoro che viene fatto da parte degli allenatori, degli operatori, di tutte
quelle persone che collaborano con i ragazzi durante gli allenamenti.
“Da quando è iniziato il Progetto fin ad ora, l’approccio degli operatori è cambiato e su molti
aspetti sicuramente migliorato. Le prime volte si era un po’ più “impacciati” e c’era un po’ di
timore per come trattare questi ragazzi”: questo è il succo del discorso sull’approccio con i ragazzi
da parte di Chicco Falerni.
Non bisogna aver paura di sperimentare le attività con i ragazzi perché loro capiscono tutto quello
che gli viene proposto e dimostrato fisicamente: tutti hanno delle capacità, bisogna solamente
riuscire a tirarle fuori anche perché, come già ben descritto precedentemente, la difficoltà maggiore
per questi ragazzi è l’apertura verso gli altri e verso il mondo esterno.
Se un allenatore non sperimenta mai niente di nuovo, non si può mai vedere un risultato migliore:
bisogna provare con i ragazzi cercando di non proporre atti motori, gesti ed esercitazioni che vanno
oltre le possibilità del bambino, del ragazzo o dell’adulto. Tutto quanto proposto dev’essere
correlato alle capacità dei ragazzi; se essi rispondono bene alle nuove esercitazioni si può
continuare su quella linea altrimenti senza nessun tipo di problema di fa un passo indietro.
“PAZIENZA” è una parola d’importanza rilevante che non può mancare nell’elenco delle parole
chiave dell’attività sportiva con questa tipologia di ragazzi e che si sposa perfettamente anche per i
giovani dell’Oratorio San Mauro. Falerni mi sottolinea quanta pazienza bisogna avere con questi
ragazzi, quanta tolleranza e calma bisogna avere con loro: “Ti spazientisci prima tu di loro, ma la
gratificazione finale che hai nel vedere i risultati ottenuti dai ragazzi non ha prezzo!”. Già, perché i
risultati ottenuti spesso arrivano dopo molto tempo e non con poche difficoltà: ma senza una buona
pazienza ed una buona dedizione e sopportazione non è possibile il miglioramento di ogni singolo
ragazzo sia a livello sportivo che a livello sociale e relazionale.
Un’altra parola chiave per quanto riguarda gli allenamenti è PROGRESSIVITA’: ovviamente si va
dall’esercizio più semplice come il passare la palla seduti tutti in cerchio (facendola rotolare sul
pavimento) all’esercizio più complesso come il tiro al canestro dopo una serie di slalom e controllo
palla fra i conetti. Non bisogna “partire subito in quarta” con i ragazzi, ma fare in modo che tutti
riescano ad imparare a fare gli esercizi più semplici per poi progredire con le difficoltà.
All’Oratorio San Mauro non ci si interessa delle patologie dei ragazzi presenti al centro, non
interessa di che patologia soffre il ragazzo. Sia ben chiaro che questo non vuol dire che non ci si
interessa di come sta il bambino o della sua salute, ma quello che voglio far capire è che non si fa
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una divisione fra bambini autistici e psicotici o fra autistici e Down perché non è d’interesse degli
operatori e/o allenatori fare “discriminazioni” di una malattia rispetto ad un’altra o divisioni
d’importanza fra patologie mediche. Quello che interessa è il miglioramento del ragazzo, l’apertura
verso il mondo esterno, la comunicazione con gli altri attraverso l’accarezzare, il palleggiare, il
passare ad un compagno, il tirare la palla: tutto questo attraverso il divertimento proposto dal gioco
del basket.
Di seguito sono proposte alcune delle esercitazioni della “prima ora e un quarto di lavoro motorio”
(quella parte dedicata ai ragazzi e bambini) con susseguente spiegazione dell’attività proposta,
ovviamente sempre seguendo la metodologia di allenamento riferita alla progressività
precedentemente descritta.

1°esercizio: tutti seduti in cerchio, passaggio della palla seguendo un ordine ed un senso
(prima orario, poi anti-orario, poi diretto al compagno scelto, ecc…). Quest’esercitazione
propone il passaggio della palla al compagno in diverse modalità con lo scopo di creare
un’apertura del canale della comunicazione verso l’altro, in modo da “colloquiare” con il
mondo esterno. Anche la modalità del passaggio è importante: la presa della palla va fatta
con i palmi delle mani aperti, così facendo si cerca di far aprire i “pugni chiusi” di questi
bambini/ragazzi che stanno a significare la condizione di chiusura verso il nuovo e verso
l’altro.

2°esercizio: il cerchio, formato dai ragazzi, rimane il punto fisso da cui partire con la
seconda esercitazione: permette il contatto (indiretto, ma che diventa in successione diretto
tramite il passaggio diretto al compagno di gioco) con il compagno, con il gruppo.
All’interno del cerchio, il ragazzo che riceve la palla dal compagno, si alza in piedi e
comincia a palleggiare circoscrivendo esternamente il cerchio dei compagni seduti fino al
ritorno alla sua posizione di partenza con conseguente passaggio ad un altro compagno che
ripeterà successivamente lo stesso gesto motorio. In questa prova motoria si arriva ad un
livello successivo di “apertura verso l’altro” perché il ragazzo sceglie il compagno con cui
dialogare (tramite il passaggio diretto al collega di gioco) e di seguito inizia l’atto motorio
del palleggiare, gesto che consente la scoperta dello spazio, del “nuovo” tramite il controllo
della palla nel palleggio (ovviamente una scoperta guidata perché il ragazzo è costantemente
seguito ed indirizzato da un operatore o allenatore).

3°esercizio: tralasciando le altre esercitazioni che riprendono il palleggio come scoperta
dello spazio circostante e dell’ambiente esterno, vorrei descrivere un compito motorio che
riguarda il gesto più importante che racchiude tutti i temi fin qui descritti: il tiro al canestro,
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ovvero “alzare lo sguardo verso l’alto”. Vi sono molteplici esercitazioni che propongono
questa tipologia di attività che seguono il metodo della progressione delle difficoltà. Il
semplice mettersi in fila uno dietro l’altro di fronte al canestro spiega molto bene qual è
l’obbiettivo di tale prova motoria. Il semplice “andare a tirare al canestro” stimola la
verticalità, in modo da rendere il ragazzo più sicuro e stabile nelle sue azioni non solo
motorie ma anche nella vita quotidiana. Provare e riuscire a compiere questa azione avvalora
tutte le possibilità che possiede un ragazzo, ma che rimangono spesso latenti e nascoste. Chi
riesce ad aprirsi, al tendere verso l’alto tramite questo “semplice gesto” acquista sicurezza e
competenze più ampie: tutto ciò che viene compiuto nell’atto fisico viene rispecchiato
nell’ambito psicologico. Lo slancio verso l’alto rappresenta una modalità di apertura verso il
mondo mai scoperta prima ad ora, una nuova possibilità, una specie di conquista che
provoca timore e paura nel ragazzo ma che in molti casi rappresenta una speranza futura.
Vedere la felicità di un bambino nel fare canestro è un qualcosa che ti fa sorridere, che ti
colpisce in positivo perché il tirare a canestro racchiude molto più di un semplice punto
sportivo. In questi allenamenti ho visto con i miei occhi quanto entusiasmo e felicità generi
questo semplice gesto che ha un significato più intenso e nascosto: “…centrare un canestro
significa avere delle capacità, […] entrare in quella vita che spaventa e allora meglio la
fuga nell’angolo isolato […] Questo comportamento per tanto tempo mi ha sconcertato ed
incuriosito, poi ho capito, perché dopo la fuga nel loro mondo quei ragazzi sono sempre
tornati […] E ogni volta il canestro centrato li ha spaventati un po’ di meno…” è quello che
dice Marco Calamai.
Nella “seconda ora e un quarto di allenamento” (quella parte dedicata agli adulti) le attività
ricalcano a grandi linee lo stesso percorso perché l’obbiettivo finale è lo stesso, ma si possono
inserire esercitazioni più tecniche che hanno lo scopo di migliorare le capacità fisiche ed,
appunto, tecniche dell’individuo. Si cerca di insegnare e migliorare tutti quei gesti che fanno
parte del bagaglio tecnico che possiede un giocatore di basket quali ad esempio il palleggio con
una mano, la tecnica di tiro, le modalità di passaggio, ecc…
La progressività delle difficoltà negli allenamenti è sempre rispettata, si va sempre
dall’esercitazione più semplice all’esercitazione più complessa valutando le risposte motorie dei
ragazzi.
A concludere le 2 parti di allenamento (quella della prima parte dedicata a bambini/ragazzi e
quella riferita agli adulti) vi è un momento che coinvolge tutti: dopo i 3 fischi che sanciscono la
fine dell’allenamento ragazzi, bambini, operatori, allenatori si racchiudono nella metà campo
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per stringersi tutti attorno allo stesso cerchio. In quel momento, tutte le persone tendono le mani
verso il centro del cerchio e parte un grido festoso che racchiude tutta la contentezza e gioia dei
ragazzi, ma anche degli allenatori ed operatori che capiscono quanto sia importante il loro
contributo per il superamento delle difficoltà di questi giovani.
Fig. 9
Il momento finale dell’allenamento:
dopo i 3 fischi che sanciscono la fine dell’allenamento, si forma in mezzo al campo il cerchio che unisce ragazzi,
operatori ed allenatori con l’urlo di gioia e felicità.
Conclusioni
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Con questo lavoro ho voluto concentrare l’attenzione delle persone sul fenomeno della disabilità, in
questo caso mentale, legata al mondo sportivo inteso come il mezzo per:

il miglioramento delle capacità dell’individuo diversabile sia dal punto di vista psicologico
(fattore rilevante in questo caso specifico) sia dal punto di vista fisico (dovuto allo sport
della pallacanestro);

l’acquisizione di autonomia, sicurezza: la crescita del ragazzo attraverso, appunto, il piacere
del gioco;

il miglioramento della vita sociale e di tutte le forme di relazione verso l’altro e verso il
“mondo esterno” attraverso tutte le metafore sportive che ci consente il gioco della
pallacanestro: l’esempio specifico del passaggio che sta a significare, come già
precedentemente descritto, l’apertura del canale della comunicazione verso l’altro o il tiro al
canestro che rappresenta l’alzare lo sguardo verso l’alto, condizione non trascurabile per chi
è abituato a stare in una condizione sempre chiusa;

l’integrazione “possibile” delle persone attraverso il gioco del basket;

il divertimento dei ragazzi: parola chiave per rendere possibile la buona riuscita dell’attività,
il coinvolgimento dei ragazzi e il raggiungimento degli obiettivi (precedentemente elencati).
Le chiavi di lettura per il mio elaborato sono molteplici: la prima riguarda sicuramente la parte
descrittiva che ci porta all’introduzione del difficile attinente al tema della disabilità, prima a
carattere generale e successivamente nell’argomento particolare riguardante quella mentale
parlando dei casi specifici di alcune patologie;
la seconda informativa che si concentra sul “Metodo Calamai”, con la descrizione del metodo che è
il punto di partenza per la formazione del Progetto “Special Team Annabella ‘87”, le finalità ed
obbiettivi dello speciale “metodo di lavoro”;
la terza che si concentra sul Progetto vero e proprio che si svolge all’Oratorio San Mauro a Pavia,
dalla fondazione della “squadra speciale” fino ai giorni nostri e dando spazio anche alle idee per il
futuro: in questa parte mi sono dedicato allo spiegare tutte le attività proposte ai ragazzi, al perché
della scelta del gioco del basket, alle scoperte guidate che questo sport ci consente, in modo dolce e
leggero e che noi, molto spesso, non consideriamo neanche;
la quarta ed ultima chiave è di tipo “emozionale”, in quanto è la parte dedicata alle mie
testimonianze dirette alla palestra dell’Oratorio San Mauro: in quest’ultimo capitolo viene descritto
il mio contatto diretto con questa realtà sia con questi ragazzi fantastici che con gli operatori,
allenatori, responsabili e tutte le persone che fanno parte di questo Progetto, la mia esperienza
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vissuta in prima persona al centro e il racconto di quello che i miei occhi hanno visto durante gli
allenamenti all’Oratorio.
La mia conclusione di questo elaborato vuole sottolineare che tutte queste parole scritte su una
settantina di pagine hanno poca valenza rispetto al vivere in prima persona un’esperienza del
genere: il mio consiglio, se posso permettermi di darne, è che l’assistere ed essere coinvolti in
primis a Progetti e realtà come questi valgono la pena di essere vissuti. Infine, invito tutte le persone
ad andare ad assistere a realtà dove sono coinvolti questi ragazzi speciali, come lo “Special Team
Annabella ‘87”, per capire l’unicità e la bellezza di queste esperienze.
Bibliografia
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 Calamai Marco, “Uno sguardo verso l’alto” – Un progetto di pallacanestro
sperimentale con ragazzi disabili.
Edizione Franco Angeli, Milano, 2008.
 A cura di Maria Stella Lana, “Emozioni sotto canestro”,
Edizione Grafiche Univers, Pavia.
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Sitografia
 www.wikipedia.it
 www.filodallatorre.it
 www.sanmauropavia.it
 www.epicentro.it
 www.who.int (sito OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità)
 www.alzalosguardo.blogspot.com
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Ringraziamenti
Quest’ultima parte è dedicata ai miei più sentiti e doverosi ringraziamenti verso le persone
che mi hanno aiutato, sostenuto e incoraggiato non solo alla stesura di questa elaborato di
tesi, ma in tutto il mio percorso universitario fino al raggiungimento di questa laurea
triennale:
Ai miei genitori, mamma Antonella e papà Roberto che mi hanno permesso di frequentare
questa università;
A mio fratello Alberto e a mia nonna Wilma;
Alla mia fidanzata Federica, che oltre ad aver dato anche un grande contributo nella stesura
di questa tesi, mi sopporta ogni giorno;
A tutti i miei compagni di università, in particolar modo Cristian e Federico, i miei colleghi
più vicini nonché amici;
Al mio relatore Rodolfo Carrera, che mi ha sostenuto ed incoraggiato nell’elaborazione della
mia tesi oltre ad avermi permesso di conoscere la splendida realtà dello “Special Team
Annabella ‘87”;
A tutti i docenti della facoltà di Scienze Motorie (della sede di Voghera, dove ho frequentato
questi 3 anni fantastici);
A tutte le persone dell’Oratorio San Mauro, i componenti dello “Special Team Annabella
‘87”, i responsabili, gli operatori, i Professori, i volontari ed allenatori, in particolar modo ad
Enrico “Chicco” Falerni;
A tutti i miei amici, che senza un contributo particolare mi hanno sostenuto ed aiutato in
qualsiasi momento.
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