UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA INTERFACOLTA’ IN EDUCAZIONE FISICA E TECNICA SPORTIVA “UN CANESTRO PER LA DIVERSITA’” Docente Relatore: Chiar.mo Prof. Rodolfo Carrera Tesi di laurea di: Bruno Ferrari Matricola: 366787/08 Anno Accademico: 2010-2011 1 INDICE Introduzione…………………………………………………………………..pag. 4 Capitolo I: “La disabilità mentale…” – Concetto di disabilità, etimologia della parola “disabilità”, lo “stato di salute”, breve introduzione alle principali forme di disabilità mentale………………………………………………………………...pag. 6 1.1 “…L’autismo…”………………………….………………………………..pag. 15 1.1.1 La valutazione Epidemiologica……….………….pag. 19 1.1.2 La valutazione Sintomatologica………………….pag. 21 1.2 “…La sindrome di Down…”………………………………………………pag. 24 1.2.1 La valutazione Epidemiologica………….………..pag. 25 1.2.2 La valutazione Sintomatologica……………….….pag. 26 1.3 “…La Psicosi”……………………………………………………………...pag. 28 1.3.1 Eziologia e Diagnosi……….………………………..pag. 30 1.3.2 Epidemiologia e Psicoterapia..………………………pag. 31 Capitolo II: “Il Basket e la Disabilità Mentale”……………………….…..pag. 33 2.1 “Il Metodo Calamai”……………………………………………………..…pag. 35 2.1.1L’indice del gioco: i punti focali………….………….pag. 37 2.1.2 “L’integrazione” con lo sport…….………..……..….pag. 39 2 Capitolo III: Progetto “Special Team Annabella ’87” – Il basket per gli atleti diversamente abili……..……………………………………………………..…pag. 41 3.1 Ma perché proprio il basket?............................................pag. 45 3.2 Il Progetto: una “palestra di vita”……………………….pag. 48 3.3 Un canestro per la conoscenza!........................................pag. 50 3.4 L’attività motoria con i ragazzi…….……………..…….pag. 53 Capitolo IV: La mia esperienza all’Oratorio San Mauro……………...…pag. 58 4.1 Direttamente sul campo di gioco…..…..…………………pag. 60 4.2 L’approccio degli operatori e gli allenamenti dei ragazzi..pag. 62 Conclusioni………………………………………………………………..…pag. 66 Bibliografia…………………………………………………………………..pag. 68 Sitografia……………………………………………………………………..pag. 69 Ringraziamenti……………………………………………………………...pag. 70 3 Introduzione Ho conosciuto la realtà dell’Oratorio San Mauro quasi per caso: da sempre mi ha interessato l’argomento legato ai problemi di disabilità nel mondo sportivo. Quando mi sono incontrato con il Professore Rodolfo Carrera (tutt’ora mio relatore e sostenitore di questo elaborato di tesi) mi è stata rivolta la fatidica domanda: “Ferrari, ma ti riferisci alla disabilità fisica o mentale?” La mia risposta a questo quesito era quasi scontata ed, ovviamente, risposi diretto sulla disabilità mentale: un argomento difficile da trattare, ma affascinante in tutta la sua complessità. Dopo la mia risposta, il Professore non attese nemmeno un istante per chiamare il responsabile e metterlo al corrente della mia voglia, del mio interesse a scoprire in prima persona il Progetto e di conseguenza la squadra dei ragazzi dello “Special Team Annabella ‘87”, che si riuniscono settimanalmente alla palestra dell’Oratorio San Mauro, a Pavia. Il Professore, notando tutto il mio interesse verso questa tipologia di argomento, mi suggerì da subito questo centro sportivo dove poter iniziare a muovermi e notare con i miei occhi quanto si era già mosso in questi anni verso questo tipo di disabilità. Diciamo che la scelta del mio elaborato di tesi, terminato il mio percorso universitario triennale di scienze motorie, non è però stata così casuale: la scoperta della squadra dello “Special Team Annabella ‘87” è avvenuta grazie al Professore Carrera, mio docente e sostenitore di queste tipologie di iniziative sulla disabilità legate al mondo sportivo; ma l’interesse e la motivazione verso questo campo c’era già in me da molto tempo. Ho avuto modo di stare a contatto con ragazzi e bambini autistici in passato quando ho lavorato presso alcuni “centri estivi”: diciamo che vivere a contatto con queste tipologie di realtà (anche se numericamente ristrette e non paragonabili alla realtà dell’Oratorio San Mauro) ha fatto scattare una molla in me, una sorta di voglia di conoscere ed approfondire queste realtà. Se poi tutto ciò si associa al mondo sportivo, o meglio ancora tramite il mondo sportivo, si può dire che il connubio risulta perfetto. Per un ragazzo come me che ama lo sport e l’attività sportiva in generale non era assolutamente un problema affrontare questa realtà attraverso lo sport, anzi diventava una motivazione ancora più piacevole per entrare in modo dolce in questo mondo speciale. Affrontare questo argomento non è stato così semplice, anche perché è un mondo talmente ampio e le direzioni da intraprendere sono molteplici: il mio obbiettivo era focalizzare l’attenzione delle persone su questa tematica della disabilità legata al mondo sportivo, di far conoscere queste realtà come lo “Special Team Annabella ’87” che, attraverso il gioco della pallacanestro, diventa fondamentale per il miglioramento della qualità di vita sociale (ed anche sportiva, perché no?) di 4 ogni ragazzo. Con questo voglio ribadire che, comunque, la mia preoccupazione maggiore non è tanto quella di “sponsorizzare” questa attività, ma far capire quanto risultano importanti queste attività legate al “Metodo Calamai” (di cui parleremo successivamente nell’elaborato) e tutti i risultati ottenuti seguendo la famosa citazione “alzando lo sguardo verso l’alto” per cercare di combattere la chiusura di questi ragazzi verso il mondo esterno e verso la relazione con l’altro. Il titolo “Un canestro per la diversità”, come sottolineato anche dal mio relatore, è una sorta di provocazione: la risposta a facili ipocrisie sta nel diverso modo di interpretare una disciplina sportiva orientata, contrariamente alla norma, al combattere questa condizione di chiusura verso tutto ciò che circonda il ragazzo, al suo “recupero” e alla sua integrazione. Qualcuno potrebbe obbiettare sul fatto della “diversità”, ma io l’ho intesa sotto questo punto di vista: questo elaborato è riferito chiaramente verso i ragazzi che hanno tutte queste difficoltà. In quest’ultima parte volevo sottolineare e se possibile suggerire una cosa alle persone: quando si sente parlare di disabilità motoria o mentale le persone tendono spesso ad essere sorprese, meravigliate di tutte queste tipologie di iniziative. Il problema è che dopo esserne venuti a conoscenza ci si ferma li, quasi per compassione e sentendosi impacciati di fronte alle disabilità e a queste iniziative. All’inizio della mia esperienza ero anch’io titubante (dovuto al fatto che comunque ero anch’io alle prime armi da questo punto di vista e senza aver mai partecipato a tali iniziative), ma solo osservando e partecipando direttamente a queste iniziative si capisce la vera essenza ed unicità di questi progetti. Infine, consiglio alle persone di provare a superare questa barriera ed andare oltre la semplice conoscenza; di provare direttamente queste attività e superare le proprie convinzioni. Quest’esperienza arriva a rapirti prima il cuore della mente. 5 Capitolo I “La Disabilità mentale:…” Concetto di disabilità, etimologia della parola “disabilità”, lo “stato di salute”, breve introduzione alle principali forme di disabilità mentale. 6 Prima ancora di iniziare a parlare di disabilità mentale occorre però dare qualche spiegazione sulla parola “disabilità”. Cosa intendiamo con questo termine? La DISABILITA’ è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale. Si caratterizza per spostamenti, più o meno marcati, nella realizzazione di compiti e nell’espressione di comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso. Possono essere: 1. transitorie o permanenti, 2. reversibili o irreversibili, 3. progressive o reversive. Le disabilità possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione di un soggetto, specialmente dal punto di vista psicologico, a una menomazione fisica e sensoriale. Si riferisce alla perdita delle capacità funzionali estrinseche (attraverso arti e comportamenti) che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno. La classificazione ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps) del 1980 dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) distingueva tra: menomazione intesa come perdita a carico di funzioni fisiche e/o psichiche. Rappresenta l'estensione di uno stato patologico. Se tale disfunzione è congenita si parla di minorazione; disabilità, qualsiasi limitazione della capacità di agire, naturale conseguenza ad uno stato di minorazione/menomazione; handicap, svantaggio vissuto minorazione/menomazione. da una persona a seguito di disabilità o Questo significa che mentre la disabilità viene intesa come lo svantaggio che la persona presenta a livello personale, l'handicap rappresenta lo svantaggio sociale della persona con disabilità. L'ICIDH prevede la sequenza: Menomazione → Disabilità → Handicap. Tuttavia, non è automatica, in quanto l'handicap può essere diretta conseguenza di una menomazione, senza la mediazione dello stato di disabilità. Le origini della parola “handicap” risalgono a descrivere una condizione di svantaggio fisico. Il vero significato, in realtà, molti non lo sanno perché è sempre stato dato per scontato il concetto vero e proprio di: "handicap". 7 Questo termine racchiude in sé 2 parole: "hand" e "cap". Dall'inglese "hand" significa mano e "cap" significa cappello. Traducendo la parola intera, si deduce la seguente descrizione: “mano nel cappello”. Si parla di handicap per descrivere uno svantaggio fisico, senza tenere in considerazione la condizione che si crea quando viene detta questa parola: nel disabile sorge un senso di disagio e rabbia per la sua situazione. Segue una classificazione delle disabilità: Disabilità comportamentali Disabilità nella comunicazione Disabilità nella cura della propria persona Disabilità motorie Disabilità nell’assetto corporeo Disabilità nella destrezza Disabilità contestuali Disabilità in attitudini particolari Altre disabilità La “classificazione dello stato di salute” (che sotto segue, nella Figura 1) definisce lo stato di salute delle persone dichiarando che l'individuo "sano" si identifica come "individuo in stato di benessere psicofisico" ribaltando, di fatto la concezione di stato di salute. Il concetto di disabilità cambia nel corso degli anni e secondo questa nuova classificazione (approvata da quasi tutte le nazioni afferenti all'ONU) diventa un termine ombrello che identifica le difficoltà di funzionamento della persona sia a livello personale che nella partecipazione sociale. In questa classificazione i fattori biomedici e patologici non sono gli unici presi in considerazione: si tratta anche l'interazione sociale e l'approccio diventa multi-prospettico su diversi aspetti quali biologico, personale, sociale. 8 Funzioni corporee Strutture corporee 1. Funzioni mentali 2. Funzioni sensoriali e dolore 3. Funzioni della voce e dell'eloquio 4. Funzioni dei sistemi cardiovascolare, ematologico, 1. Sistema nervoso 2. Visione e udito 3. Comunicazione verbale 4. Sistemi cardiovascolare e immunologico, immunologico, respiratorio apparato respiratorio 5. Funzioni dell'apparato digerente e dei sistemi 5. Apparato digerente e sistemi metabolico metabolico ed endocrino ed endocrino 6. Funzioni riproduttive e genitourinarie 7. Funzioni neuro - muscolo - scheletriche correlate 6. Sistemi genitourinario e riproduttivo 7. Movimento 8. Cute e strutture correlate al movimento 8. Funzioni cutanee e delle strutture correlate Attività e partecipazione 1. Fattori ambientali Apprendimento ed applicazione delle conoscenze 1. Prodotti e tecnologia 2. Compiti e richieste generali 2. Ambiente naturale e cambiamenti effettuati 3. Comunicazione dall'uomo 4. Mobilità 3. Relazione e sostegno sociale 5. Cura della propria persona 4. Atteggiamenti 6. Vita domestica 7. Interazione e relazioni personali 5. Sistemi, servizi e politici 8. Aree di vita principali 9. Vita sociale, civile e di comunità Fig. 1 “International Classification of Functioning, Disability and Health” (ICF) Considerato il nuovo standard di classificazione dello stato di malattia e di salute. 9 È importante, però, sgombrare subito il campo da un equivoco: ICF non riguarda solo le persone con disabilità, riguarda tutti, ha dunque uso e valore universale. Non ci si riferisce solo ad un disturbo, strutturale o funzionale, ma il punto di partenza è la considerazione dello stato di "salute". I punti fondamentali da seguire in questa classificazione sono: 1. Le funzioni corporee→ sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le funzioni psicologiche. 2. Le strutture corporee→ sono parti anatomiche del corpo come organi, arti e loro componenti. 3. Attività→ è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo. 4. Partecipazione→ è il coinvolgimento di un individuo in una situazione di vita. 5. I fattori ambientali→ sono caratteristiche, del mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti, che possono avere impatto sulle prestazioni di un individuo in un determinato contesto. La classificazione sopra riportata si ferma ai primi due livelli, ma nel documento OMS si arriva a livelli superiori di dettaglio, estendendo le classificazioni in ulteriori sotto classificazioni. Ad ogni livello di classificazione è associata una sigla. Ad esempio, la classificazione b11420 viene inserita nella seguente gerarchia di livelli, che ad essa è associata la definizione di funzioni mentali che producono la consapevolezza della propria identità: b → Strutture corporee b1 → Funzioni mentali b11 → Funzioni mentali globali b114 → Funzioni dell’orientamento b1142 → Orientamento alla persona b11420 → Orientamento a se stessi Il documento ICF copre tutti gli aspetti della salute umana, raggruppandoli nel dominio della salute (health domain, che comprende il vedere, udire, camminare, imparare e ricordare) e in quello 10 ‘”collegato” alla salute (health - related domains: includono mobilità, istruzione, partecipazione alla vita sociale e simili). Rispetto a ciascuna delle centinaia di voci classificate, ad ogni individuo può essere associato uno o più qualificatori che quantificano il suo "funzionamento". Analoghi qualificatori esistono per le attività, per le quali si parla di restrizioni e per la partecipazione, per la quale si possono avere limitazioni. La classificazione "positiva", che parte dal funzionamento per dire se e quanto ciascuno se ne discosta non avendo l’obbligo di dover specificare le cause di una menomazione o disabilità, ma solo di indicarne gli effetti. È da sottolineare il fatto che il termine "handicap" è stato abbandonato, estendendo il termine disabilità a ricoprire sia la restrizione di attività che la limitazione di partecipazione. Dopo questa doverosa introduzione e spiegazione sull’arduo argomento della disabilità, ci addentriamo in punta di piedi nel caso più specifico riguardante una tematica difficile da trattare: la Disabilità Mentale. La 4° edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” ha sostituito con il termine ritardo mentale i precedenti lemmi in uso per indicare questa malattia: quelli di oligofrenia, frenastenia, ipofrenia, insufficienza mentale ed imbecillità sono stati “cancellati”. Nei soggetti affetti da ritardo mentale, il funzionamento intellettivo è significativamente inferiore alla media. Perché il ritardo sia correttamente diagnosticato, occorre vi siano associate rilevanti difficoltà, che vengono convenzionalmente individuate in alcune delle seguenti aree: Comunicazione Cura della persona Vita in famiglia Attività sociali Capacità di usare le risorse della comunità Autodeterminazione Scuola Lavoro Tempo libero Salute Sicurezza 11 Il ritardo mentale risulta dall'insieme dei deficit dello sviluppo cognitivo e socio-relazionale. Viene definito dalla compresenza di un quoziente intellettivo inferiore a 70, e due o più problemi adattativi insorti entro i 18 anni di età. Per queste tipologie di persone è necessario il contatto con le persone normodotate. Generalmente il disabile mentale facilita i rapporti: per natura non è né inibito né diffidente, ma disponibile. La sua intelligenza ridotta non deve però indurre a parlargli un linguaggio infantile, in quanto il più debole di mente capisce spesso molto più di quanto si supponga. Molti hanno inoltre una memoria particolarmente buona. Nei rapporti con il disabile mentale va considerato che non agisce con la ragione. Il suo animo è comunque aperto alla bontà e alla comprensione. I bambini affetti da queste patologie reagiscono con estrema sensibilità alle dimostrazioni d’affetto e alla lode. In seno alla propria famiglia hanno la migliore possibilità di svilupparsi. Il rapporto con loro richiede spesso molta pazienza: le cose vanno costantemente ripetute; non si deve mai chiedere troppo in una volta bisogna procedere lentamente e gradatamente, mostrando loro come va eseguita un’azione completamente nuova. Non bisogna tralasciare le forme dolci e i semplici complimenti: ogni buona parola infonde loro fiducia in se stessi e li incita a progredire. 12 “La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità” La “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità” del 2007 richiama esplicitamente a diversi principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: non discriminazione, eguaglianza, pari opportunità, rispetto dell'identità individuale. Si compone di 50 articoli: i primi 30 si incentrano sui diritti fondamentali (associazionismo, diritto di cura, diritto alla formazione personale, ecc.), gli altri 20 riguardano le strategie operative atte a promuovere la cultura della disabilità. La cosa che balza subito all’occhio è che in questa convenzione manca ancora, a livello internazionale, un'univoca e coerente definizione del concetto di "disabilità”. Tuttavia l'articolo 1 parla esplicitamente di persone disabili, definendole come "coloro che presentano una duratura e sostanziale alterazione fisica, psichica, intellettiva o sensoriale la cui interazione con varie barriere può costituire un impedimento alla loro piena ed effettiva partecipazione nella società, sulla base dell'uguaglianza con gli altri”. Inoltre l'articolo definisce anche lo scopo stesso della Convenzione, che è quello di promuovere tutti i diritti delle persone disabili al fine di assicurare uno stato di uguaglianza. Anche l'articolo 3 è fondamentale, perché indica i principi stessi entro i quali la Convenzione si muove, elencandoli esplicitamente: I. il rispetto della persona nelle sue scelte di autodeterminazione; II. la non discriminazione; III.l'integrazione sociale; IV. l'accettazione delle condizioni di diversità della persona disabile; V. rispetto delle pari opportunità e dell'uguaglianza tra uomini e donne; VI. l'accessibilità; VII. il rispetto dello sviluppo dei bambini disabili. 13 Dopo questa doverosa introduzione al difficile argomento sul tema della DISABILITA’, nel prossimo capitolo focalizzeremo l’attenzione su alcune delle principali patologie riguardanti i disturbi mentali. Di seguito saranno elencate 3 patologie riguardanti la disabilità mentali quali l’autismo, la sindrome di Down e la psicosi trattando in particolar modo la schizofrenia. La descrizione delle varie malattie non è una nota medica, in quanto non sono qualificato in tale ambito, ma è semplicemente un’elencazione dei vari handicap (con conseguente descrizione del disturbo mentale) in modo tale da prendere atto della “diversità” delle persone considerate in questo ambito. 14 1.1 …“L’Autismo”… Il nostro punto di partenza sarà cercare di capire questo particolare “mondo”, un’immagine molto somigliante a quella dell’iceberg. Alla parte che emerge dall’acqua, corrispondono i comportamenti che possiamo osservare nella persona affetta da autismo: le manifestazioni di auto-aggressività, il gettare gli oggetti, i movimenti stereotipati. Ma la parte più grande dell’iceberg è quella sommersa, che corrisponde a ciò che non vediamo, lo stress cui sono sottoposte le persone affette da autismo. Non possiamo pensare di risolvere i problemi di comportamento delle persone affette da autismo se non conosciamo questa “parte sommersa”. Quando si lavora con persone colpite da handicap mentale senza autismo, normalmente ci si aspetta che il problema di comportamento si manifesti e poi lo si affronta; ma nelle persone affette da autismo bisogna agire in maniera del tutto differente, fare in modo di prevenire i problemi di comportamento. Penso che affrontare l’autismo da un punto di vista professionale sia una vera e propria sfida, perché non esistono ricette universali: il requisito indispensabile per chi lavora a contatto con persone affette d’autismo è la capacità di mettersi nei panni della persona stessa, essere in grado di calarsi nel loro modo di pensare perché tali persone hanno un pensiero diverso dal nostro essere. Quanto più noi riusciamo ad essere empatici, tanto più riusciamo a capire i motivi dello stress e dei problemi di comportamento, quali sono gli ostacoli che li causano e come rimuoverli: solo facendo in questo modo, possiamo fare un piano educativo veramente individualizzato. Questa strada è davvero ardua da percorrere, ma ne vale veramente la pena! Sebbene le cause dell'autismo non siano ancora così note, oggi sappiamo che l'autismo è un disturbo dello sviluppo di natura biologica, che colpisce lo sviluppo del cervello. A tutt'oggi questo disturbo non è diagnosticabile alla nascita perché è identificato attraverso modelli comportamentali che si manifestano nel bambino dai 18 mesi ai 3 anni. Lo sviluppo del linguaggio varia nei soggetti: alcuni di essi hanno una buona proprietà di linguaggio, ma mancano ancora di completa comprensione e presentano alcune difficoltà nella conversazione; mentre buona parte di coloro affetti da autismo “franco” non sono in grado di parlare e richiedono forme alternative di comunicazione come simboli e immagini. 15 L'autismo è una disabilità grave, che colpisce la maggior parte delle aree dell'interazione con gli altri, ma anche con il mondo. Alcuni soggetti possono presentare problemi aggiuntivi d’integrazione delle informazioni sensoriali e ipersensibilità al rumore, alla luce, al tatto e persino agli odori. Possono anche avere una ridotta reattività al dolore e ad alcuni rumori, e di conseguenza avere bisogno di una formazione specifica per affrontare il pericolo, riconoscere e rispondere adeguatamente alle esigenze della propria salute. Bisogna infine ricordare che il comportamento delle persone con autismo è l'espressione del loro tentativo di affrontare un mondo difficile, e questi individui hanno bisogno di un aiuto e un sostegno, non di punizioni per la loro disabilità. Sotto l'unica etichetta di “Autismo” sono compresi individui unificabili dal fatto che, a partire dalla prima infanzia, hanno presentato difficoltà nel capire ed esprimere sentimenti e nell'inserirsi in modo reciproco negli scambi sociali. Gillberg e Coleman1, entrambi noti professori per le ricerche nel campo psichiatrico in età infantile ed adolescenziale, considerano l’autismo non come un unico disturbo a spettro ma come una sindrome o una serie di sindromi causate da molte singole patologie diverse e distinte. La necessità di individuare i fattori causali dell’autismo, legata alla grande complessità e varietà dei sintomi con cui si manifesta, ha portato nel corso degli anni all’elaborazione di modelli interpretativi, spesso, molto contrastanti tra loro. Le teorie più recenti sulla genesi dell’autismo attribuiscono un ruolo fondamentale a fattori neurofisiologici e genetici. Tale atteggiamento interpretativo si è andato via via sostituendo alle iniziali ipotesi psicodinamiche e ambientali, sostenute principalmente dagli autori ad indirizzo psicodinamico. Oggi la teoria più comunemente accettata è che elementi genetici e ambientali agiscano nelle fasi precoci dello sviluppo del bambino, durante la gravidanza, o durante i primi anni di vita. L’ipotesi attuale è che nell’autismo siano implicati non meno di 3 e non più di 15-20 geni. Ognuno di questi agisce come fattore di rischio, ossia causa l’insorgenza della malattia, solo se sono presenti altri fattori di rischio (fattori genetici, oppure ambientali, che favoriscono l’espressione dei geni “malati”). Nel 1997 vengono dati alcuni assunti su cui si basa l'attuale definizione di autismo: è una sindrome clinica (definita su base comportamentale), poiché non è stato ancora identificato un elemento 1 Lars Christopher Gillberg, nato il 19 Aprile 1950, è un professore di bambini e adolescenti psichiatria presso Università di Göteborg, in Svezia; professore onorario presso l' Institute of Child Health (ICH) , University College di Londra. È stato anche professore presso le università di Bergen , New York , Odense , San Giorgio (University of London) , San Francisco , e Strathclyde . Egli è noto per le sue ricerche sull’autismo nei bambini, la sindrome di Asperger , la sindrome di Tourettes , sindrome dell'X fragile , disturbo dello spettro autistico (ASD), l'ADHD , e anoressia nervosa. 16 oggettivo che accomuni tutti i casi dal punto di vista biomedico e perché si caratterizza in sottotipi diversi per eziologia e trattamento. Specifica che si tratta di un disturbo a spettro, che presuppone cioè un “miscuglio” di sintomi combinati anche in modo molto diverso tra loro e con livelli di gravità differenti. Inoltre lo descrive come un disturbo ubiquitario in quanto diffuso in tutto il mondo, in tutte le razze e in tutti i tipi di famiglie in modo differente da individuo ad individuo che, inoltre, si presenta spesso in associazione con altre sindromi, disordini specifici e disabilità dello sviluppo. 17 18 1.1.1 Valutazione Epidemiologica L’incidenza dell’autismo è stimata da 2 a 10 soggetti su 10.000, a seconda dei criteri diagnostici usati: in Europa la percentuale di incidenza risulta tra 2 e 4 individui su 10.000 (dati di Massimo Borghese e Stefania Porcaro, riferiti all’anno 2000). Il rapporto maschi - femmine è di 4:1: questa proporzione potrebbe essere una conseguenza dell’iniziale femminilizzazione degli embrioni umani inizialmente; infatti, le trasformazioni genetiche a cui vanno incontro i maschi li potrebbero rendere più “fragili”. Tuttavia i dati ci mostrano che non esistano differenze d’incidenza tra le diverse popolazioni, razze e categorie sociali. La ricerca di Eric Fombonne2 si concentra su fonti epidemiologiche sulle malattie mentali nell’infanzia e fattori di rischio correlati, con particolare attenzione sull'epidemiologia dell’autismo. Egli, parlando al congresso internazionale di Autism Europe a Catania dell’ottobre 2010, ha definito sconcertanti i risultati degli studi genetici sull’autismo degli ultimi anni. In totale, soltanto una percentuale che si colloca tra l’8% e il 15% dei casi di autismo può essere fondatamente ascritta a fattori genetici. Inoltre ha affermato che per quanto riguarda le tendenze epidemiologiche l’evidenza rimane ambigua. Uno degli elementi emergenti dal congresso è il fatto che non vi è una sicura evidenza scientifica di un aumento oggettivo dei casi di autismo nel mondo, anche perché il dato non è scientificamente evidente, anche se molti scienziati propendono per una ipotesi di aumento. Fombonne, inoltre, scarta decisamente l’ipotesi di una derivazione dell’autismo da una intossicazione da metalli pesanti, e da mercurio in particolare. Lo studio CHARGE3 fa rilevare esattamente lo stesso livello di mercurio nel sangue di bambini con o senza sindrome autistica. Di contro, ha affermato Fombonne, una quantità di studi connette il rischio di autismo con l’età del padre e della madre. Si tratta sempre di singoli fattori tra molti. 2 Eric Fombonne, nato nel 1954 a Parigi (Francia), è un professore di psichiatria ed epidemiologo. Dirige la divisione di psichiatria infantile presso la McGill University in Canada e il reparto di psichiatria presso il “Children Hospital” di Montreal, dove ha giocato un ruolo chiave nel lancio della sua clinica sull'autismo. La sua ricerca si concentra su indagini epidemiologiche sulle malattie mentali e fattori di rischio ad essi correlati, con particolare attenzione sull'epidemiologia dell’autismo. Inoltre egli è un membro del “National Institute of Mental Health” (NIMH), ed anche del “National Institute of Health” (NIH), l’organo consultivo per i programmi di ricerca sull'autismo. Nel mese di ottobre 2002 è diventato presidente della “Association of Child and Adolescent Psychiatry of Canada” (APCAPC). 3 “Childhood Autism Risks from Genetics and the Environment” è stato lanciato nel 2003 come studio da 1.000 a 2.000 bambini con diversi modelli di sviluppo. L'obiettivo è quello di comprendere meglio le cause ed i fattori che contribuiscono all'autismo o nel ritardo dello sviluppo. Tre gruppi di bambini sono stati arruolati nello studio: bambini con autismo, bambini con ritardo nello sviluppo che non hanno l'autismo e bambini “normali”. 19 Fig. 2 Fino al 1980 si contavano dai 3 ai 5 autistici diagnosticati come tali entro il terzo anno di vita, ogni 10.000 nati, e la percentuale di bambini che mostravano segni di ritardato sviluppo psicomotorio e comunicativo sin dai primi mesi di vita, era superiore a quella dei soggetti che dopo 18-20 mesi di sviluppo normale cominciavano a perdere le acquisizioni motorie e linguistiche per scivolare più o meno rapidamente nella sintomatologia autistica. Il primo significativo cambiamento statistico-epidemiologico si può collocare nel quinquennio 1980-1985, quando fu possibile verificare due importanti variazioni rispetto ai rilievi precedenti: il raddoppio dei casi di autismo, ed il pareggio della percentuale di quelli definibili insorti come tali, con quelli cosiddetti di autismo regressivo. Nel decennio successivo, i dati sono diventati ancor più allarmanti e significativi: dai 3-5 autistici su 10.000 nati, si è passati a 30-35 su 10.000; e i casi di autismo regressivo (che fino al 1980 rappresentavano un terzo del totale) hanno raggiunto il 75% contro il 25% delle forme che potremmo definire congenite. 1.1.2 Valutazione Sintomatologica 20 L’autismo è un disturbo molto complesso ed è pervasivo in quanto coinvolge molteplici aree di sviluppo. Le aree maggiormente colpite sono: l’area psicomotoria, l’area cognitiva, l’area comunicativa, quella linguistica ed infine l’area emotiva e sociale. Area Psicomotoria: il principale problema motorio dei soggetti autistici è rappresentato dalla presenza di stereotipie, movimenti ripetitivi a-finalistici, che possono interferire con lo svolgimento di attività finalizzate. Nella loro forma più grave, le stereotipie diventano comportamenti aggressivi, che sono fortemente compromettenti per il benessere generale e destabilizzanti per il contesto sociale. Molto frequentemente si verifica che l’utilizzo degli oggetti risulta inappropriato: essi, vengono usati non per la loro funzione, ma per delle specifiche caratteristiche sensoriali, esplorate attraverso modalità inappropriate (annusare, leccare un oggetto, ecc…). L’organizzazione prassica degli autistici può essere molto povera e molti di loro non sviluppano attività finalizzate costruttive e rappresentative. E’ presente, inoltre, una tendenza a rimanere rigidamente legati a determinate abitudini che diventano rigidi rituali, effettuati con modalità ripetitive e strutturate: la rottura di tali rituali può generare crisi di ansia e di agitazione ed aumentare la frequenza e l’intensità dei comportamenti aggressivi. Infine, il disturbo autistico non rimane un problema isolato ma lo si associa a disturbi del sonno ed a disturbi del comportamento quali l’iperattività. Area cognitiva: la sindrome autistica è generalmente associata a deficit cognitivi di diverso grado: gli studi mostrano che i QI (Quoziente Intellettivo) di Performance sono in genere più alti dei punteggi di QI Verbale. Questo confermerebbe la relativa forza nelle abilità vissuto-spaziali della maggior parte dei soggetti con questo disturbo. Altri studi mostrano che circa il 70% dei soggetti con autismo ha un QI non verbale al di sotto di 70, e circa il 50% sotto il valore di 50, ovvero nell’ambito del ritardo mentale moderato o grave. Questo non vuol dire che tutti gli autistici siano mentalmente ritardati, e comunque anche tra questi ultimi si possono presentare delle prestazioni migliori in alcune specifiche competenze ed abilità (meccaniche, matematiche, ecc…). 21 I deficit più severi nell’area cognitiva riguardano la capacità di simbolizzazione, di generalizzazione, di formazione di categorie, di astrazione partendo da situazioni concrete, di usare il principio della casualità. Inoltre si è ipotizzato un deficit nella “teoria della mente”, ossia la capacità che permette di comprendere gli stati mentali altrui, che di conseguenza sarebbe fondamentale per la reciprocità sociale. Altri studi parlano di un deficit nelle funzioni esecutive, ossia quei processi di controllo e coordinazione del funzionamento del sistema cognitivo: esse comprendono la capacità di spostare e mantenere l’attenzione sull’informazione pertinente per completare un compito, formare piani, inibire le reazioni impulsive, organizzare le azioni e monitorarne il risultato. Area comunicativa e linguistica: le anomalie della comunicazione verbale e non verbale nell’autismo sono molto rilevanti e sono probabilmente correlate alle anomalie relazionali, anche se non sono chiari i rapporti che ci sono tra queste due aree sintomatologiche. I disturbi in tale area sono molto diversificati, variano da soggetto a soggetto. La maggior parte dei soggetti autistici presenta una produzione verbale deficitaria nelle varie componenti: il ritmo di acquisizione è lento, il patrimonio lessicale è limitato e spesso è utilizzato in modo inappropriato. Anche quando c’è un buon livello espressivo, sono presenti alterazioni della prosodia, ecolalia, inversioni pronominali, sostituzioni e omissioni lessicali o fonologiche. Inoltre, anche la comprensione è molto spesso inadeguata. Un altro aspetto significativamente presente è la mancanza di intenzionalità comunicativa: spesso il bambino usa il linguaggio solo in situazione di necessità con singole parole per arrivare al suo “interesse”. Alle alterazioni del linguaggio verbale si associano quelle del linguaggio non verbale: infatti studi che si sono occupati di indagare lo sviluppo comunicativo non verbale di questi soggetti hanno dimostrato che essi utilizzano il gesto in funzione “richiestiva”, ma non dichiarativa (Caselli, Volterra, 2002). Area emotiva e sociale: questa è probabilmente l’area maggiormente compromessa. I soggetti autistici presentano una marcata tendenza all’isolamento, una scarsa iniziativa al rapporto diretto ed indifferenza al contesto relazionale. Tali comportamenti si manifestano nella tendenza all’ isolamento dall’ambiente sociale, spesso tramite azioni non finalizzate. 22 I comportamenti affettivi ed emotivi nei confronti delle figure genitoriali possono essere scarsi, anche se è presente l’attaccamento verso la madre, che si stabilizza con lo sviluppo: nei primi mesi di vita (8-9 mesi) non si presenta la normale “paura dell’estraneo”. L’indifferenza al contesto relazionale si manifesta nella carenza, o totale assenza, di interazioni spontanee: inoltre raramente lo sguardo è rivolto direttamente all’interlocutore, l’aggancio visivo è molto incostante ed anche il rapporto corporeo è scarso. Tuttavia, all’età di 5-6 anni o più tardi, i legami di attaccamento si intensificano e si attenua l’isolamento affettivo. Alla base dei problemi relazionali e sociali dell’autismo c’è la difficoltà nel comprendere le emozioni ed i sentimenti: ciò ostacola il rapporto empatico e lo sviluppo di rapporti affettivi stabili, oltre che la condivisione degli interessi. Il bambino autistico spesso manifesta gli stati emotivi in maniera inadeguata e con modalità non sempre comprensibili: può avere reazioni di collera o angoscia sia verso gli altri, che verso se stesso in situazioni che normalmente non producono tali reazioni. Oltre alla difficoltà nel comprendere le emozioni essi presentano una gamma di espressioni facciali ridotta e spesso non adeguata al contesto sociale. 23 1.2 …“La sindrome di Down”… La sindrome di Down è una delle disabilità mentali prodotte da un'anomalia negli autosomi. Il suo nome deriva da John Langdon Down4 che ha descritto la patologia nel 1862, usando il termine mongoloidismo, a causa dei tratti somatici del viso dei pazienti che richiama quelli delle popolazioni asiatiche orientali, quali i mongoli. Altro termine utilizzato per alcune tipologie della sindrome è trisomia 21. Nel 1959 Jerome Lejeune5 scoprì che la sindrome di Down è causata dalla presenza di un cromosoma 21 in più (o parte di esso). Per questo motivo è descritta come, appunto, trisomia 21. Circa nel 95% dei casi, la causa di questa anomalia genetica è la mancata disgiunzione dei cromosomi che si verifica durante una delle divisioni meiotiche che portano alla formazione dei gameti della madre. Ne consegue che lo zigote avrà un assetto di 47 cromosomi, con un cromosoma 21 soprannumerario in tutte le cellule dell'individuo affetto, anziché il normale numero diploide di 46 cromosomi. Un'altra forma ci mostra la presenza di 47 cromosomi in tutte le cellule dell'individuo: è caratterizzata dalla mancata disgiunzione in una delle mitosi che avvengono dopo la formazione dello zigote. L'individuo è caratterizzato da mosaicismo, cioè da due popolazioni cellulari, quella con 47 cromosomi e quella con il normale numero di 46. Questa forma sarà più lieve quanto maggiore sarà il numero delle cellule con un numero normale di cromosomi. Gli individui mostrano grandi differenze nello sviluppo linguistico, psicomotorio e intellettivo; di conseguenza variano le speranze d’integrazione nel mondo lavorativo. La speranza di vita, una volta considerevolmente inferiore ad oggi, varia a seconda del paese ma negli ultimi decenni è clamorosamente aumentata, sicché non è raro che l'interessato raggiunga i sessant'anni ed oltre. 4 (1828-1896), è stato un medico britannico, conosciuto per la descrizione di ciò che è ora chiamata sindrome di Down. Ebbe una carriera caratterizzata da onori e medaglie d'oro. I suoi sforzi erano volti a classificare ciò che lui chiamava malattia degli "idioti Mongoli". I suoi risultati sono stati basati su misurazioni del diametro della testa e del palato di questi individui nonché con altre osservazioni a volte anche con l'uso delle fotografie. 5 (1926-1994), è stato un pediatra e genetista francese. Scienziato e medico, è lo scopritore della causa della Sindrome di Down. 24 1.2.1 Valutazione Epidemiologica La sindrome di Down è la causa cromosomica di ritardo mentale più diffusa. Essa interessa tutte le etnie, sia maschi che femmine e ha un tasso d’incidenza di un caso ogni 700-1.000 nati vivi. Molti di più sono i concepimenti che riguardano la trisomia 21, dato che 3 casi su 4 si concludono con un aborto o con la nascita di un bambino/a morto/a. Se questo non avvenisse il rapporto sarebbe attorno a 1:200 circa. Tale incidenza dipende molto dall’età della madre. A questo proposito è importante una precisazione per eliminare qualsiasi dubbio. Non bisogna pensare che un bambino con sindrome di Down abbia SEMPRE alle spalle una madre anziana: non è così! Fig. 3 Il grafico ci mostra come l'età della madre sia correlata fortemente alla probabilità di avere un individuo affetto dalla sindrome di Down. Si nota, infatti, che, in media, la probabilità per donne di un'età compresa tra 20 e 24 anni è decisamente minore rispetto a quella di donne dai 45 anni in su (si parla di circa 1 su 1550 contro 1 su 25). Però il grafico può portare a delle inesatte affermazioni, come già precedentemente chiarito: il fatto che la probabilità sia così differente in relazione all'età della madre non deve far pensare che la maggior parte delle donne che partoriscono un figlio affetto da trisomia-21 sia d'età relativamente avanzata. 25 1.2.2 Valutazione Sintomatologica All'ecografia fetale ci possono essere alcuni segni di probabilità: il femore, in rapporto alla lunghezza delle altre ossa, è molto corto diminuzione della quantità di movimento globale del feto Nella maggior parte dei casi l'individuo presenta alcuni di questi “sintomi”: 1. Mongoloidismo, corpo basso e tozzo e collo grosso; 2. Macroglossia che viene considerata una caratteristica sindromica: in realtà nella maggior parte dei casi è solo apparente poiché è dovuta ad una riduzione delle dimensioni della cavità orale a causa dell'ipotonia dei muscoli facciali che fa sì che la lingua sembri sproporzionata rispetto ad essa; 3. Ipotonia più o meno marcata, presente nel 95% dei casi; 4. Plica palmare. L'unica plica trasversale concorre a configurare la caratteristica alterazione della mano denominata "mano di scimmia"; 5. Cardiopatia congenita; 6. Alterazione funzionamento della tiroide; 7. Ritardo di organizzazione delle tappe motorie (anche imponente), non per un danno del sistema neuromotorio, ma per deficit della prassia. 26 Il ritardo mentale varia da forme più gravi (QI 25-50) a forme lievi nei mosaici genetici. Comporta anche ritardo nel linguaggio. In modo molto accentuato si nota che l'occhio della persona affetta da questa malattia presenta un taglio (dovuto ad una plica denominata "epicanto", non presente nelle popolazioni caucasiche ed africane) che invece di essere normalmente a forma di dosso, cioè che va dal basso verso l'alto formando una curva, è allungato dalle ghiandole lacrimali alla parte posteriore dell'occhio stesso, simile a quello delle popolazioni mongole, quindi dell'Asia orientale. Difatti anche il termine usato principalmente dai medici per designare tale anomalia è proprio: “mongolismo”. Si ha maggiore sensibilità alle infezioni e spesso, disfunzioni del cuore (difetto del setto interatriale, interventricolare) e di altri organi: principalmente per tal motivo è appunto spiegata la vita media dei soggetti (non supera i 30-40 anni). Attualmente però, come già sottolineato precedentemente, la media si è innalzata sino a 60 anni, perché col progredire delle tecniche chirurgiche, molte anomalie cardiache anatomiche possono essere trattate con successo. 27 1.3 …“La Psicosi”… Questo termine fu introdotto nel 1845 da Ernst von Feuchtersleben con il significato di "malattia mentale o follia". È la più grave forma di disturbo psichiatrico, frutto dell’espressione di una severa alterazione dell'equilibrio psichico dell'individuo, con conseguente compromissione dell'esame di realtà, e frequente presenza di disturbi del pensiero, deliri ed allucinazioni. L'eziologia del disturbo, ovvero la sua causa, è come per molte condizioni mediche, multifattoriale e in larga parte poco conosciuta. I sintomi di questa patologia sono descrivibili sottoforma di: 1. disturbi di forma del pensiero, 2. disturbi di contenuto del pensiero, 3. disturbi della senso-percezione. Disturbi di forma del pensiero: sono alterazioni del flusso ideativo fino alla "fuga delle idee" ed all'incoerenza; alterazioni dei nessi associativi, come la paralogia, la tangenzialità, le risposte di traverso, i salti di palo in frasca; Disturbi di contenuto del pensiero: ideazione prevalente delirante (deliri, spunti interpretativi); Disturbi della senso-percezione: dis-percezioni ed allucinazioni uditive (a carattere imperativo, commentante, denigratorio o teleologico), visive, olfattive, tattili, cenestesiche. Di queste tre categorie di sintomi, il disturbo del contenuto del pensiero (delirio) è quello caratterizzante tutti i quadri psicotici: infatti nei disturbi psicotici dell'umore le allucinazioni possono essere assenti, così come nel disturbo delirante cronico (paranoia) non si osservano evidenti disturbi della forma del pensiero. 28 Trattando la Psicosi, introduciamo il caso particolare della SCHIZOFRENIA, che è una o forse la forma più grave di psicosi. E’ una forma di malattia psichiatrica caratterizzata da un decorso superiore ai sei mesi (tendenzialmente cronica o recidivante), dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, con una gravità tale da limitare le normali attività della persona. È da tenere presente che schizofrenia è un termine piuttosto generico: esso non indica un'entità nosografica unitaria, ma una classe di disturbi, tutti caratterizzati da una certa gravità e dalla compromissione del cosiddetto "esame di realtà" da parte del soggetto. A questa gruppo appartengono quadri sintomatici e tipi di personalità anche molto diversi fra loro, estremamente variabili per gravità e decorso. Nei casi molto gravi, i sintomi possono arrivare alla catatonia, al mutismo e/o provocare totale inabilitazione. Nella maggioranza dei casi di schizofrenia vi è qualche forma di apparente disorganizzazione o incoerenza del pensiero. Vi sono però certe forme dove questo sintomo non compare, e compaiono invece rigide costruzioni paranoidi. La schizofrenia si caratterizza, secondo la tradizione medica, per due tipi di sintomi: I. sintomi positivi: sono comportamenti o esperienze del soggetto "in più" rispetto all'esperienza e al comportamento dell'individuo normale. Questi sintomi possono essere: le idee fisse, i deliri, le allucinazioni e il disturbo del pensiero (a seconda dei casi è sufficiente che ve ne siano uno o due per diagnosticare il disturbo, non è necessario la presenza contemporanea di tutti questi sintomi). II. sintomi negativi: diminuzione, declino o scomparsa di alcune capacità o esperienze normali del soggetto. Possono includere inadeguatezza nel comportamento della persona, distacco emotivo o assenza di emozioni, povertà di linguaggio e di funzioni comunicative, incapacità di concentrazione, mancanza di piacere e mancanza di motivazione. Alcuni modelli descrittivi nella schizofrenia includono addirittura un terzo tipo di sintomi, definita “schizofrenia di terzo tipo detta sindrome disorganizzata”: compaiono soprattutto disturbo del pensiero e problemi di pianificazione. I sintomi possono prendere la forma di deficit neurocognitivi: si tratta dell'indebolimento di alcune funzioni di base quali la memoria, l'attenzione, la risoluzione di problemi, la funzione esecutiva e la cognizione sociale. 29 1.3.1 Eziologia e Diagnosi Nell'attribuire la causa di questo disturbo, psicologi e psichiatri sono ormai d’accordo: la causa è un complesso mix di fattori genetico - biologico - psicologici. Un aumento della produzione della dopamina sembra giocare un ruolo chiave nell'eziologia di questa sindrome tanto che è stata chiamata in causa l'ipotesi dopaminergica: i neuroni dopaminergici dell'area tegmentale ventrale scaricano molta più dopamina sui neuroni gabaergici situati nel sistema mesocorticale (corteccia prefrontale) e nel sistema mesolimbico (nucleo striato ventrale). La malattia si manifesta di solito tra i 18 e i 28 anni. In alcuni casi l'esordio può avvenire anche all’improvviso; in altri può essere preceduto da un periodo in cui la persona si chiude in se stessa, appare sempre meno interessata al mondo circostante, lascia senza motivo amici e relazioni sentimentali, perde il lavoro o interrompe la scuola. Per quanto riguarda le cause, tuttavia c’è ancora molta incertezza. Nella popolazione “sana” la probabilità di sviluppare la schizofrenia si avvicina all' 1% del campione. Infine, non sono da sottovalutare le esperienze soggettive e il contesto familiare in cui il paziente affetto da schizofrenia viene allevato e in cui vive: è dimostrato che l'ambiente è determinante nello sviluppo della malattia. La diagnosi precoce è di fondamentale importanza dato che si è visto che il trattamento tempestivo può influenzare il decorso della malattia. Purtroppo, in molti casi, i primi sintomi sono difficilmente distinguibili rispetto a una "normale" crisi adolescenziale. Di seguito sono pubblicati dei “criteri” per il soddisfacimento della diagnosi della patologia: 1. Sintomi caratteristici: la presenza persistente di due o più dei sintomi che seguono, per un periodo significativo che si considera di almeno un mese: deliri allucinazioni disorganizzazione del discorso verbale (es: incoerenza, divagazione, ecc) grave disorganizzazione del comportamento (es: nelle abitudini diurne, disturbi del sonno, piangere o ridere frequentemente e in appropriatamente) presenza di sintomi negativi, cioè che trasmettono un forte senso di disinteresse, lontananza o assenza del soggetto: appiattimento affettivo (mancanza o forte 30 diminuzione di risposte emozionali), alogia (assenza di discorso), avolizione (mancanza di motivazione), disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di contatto visivo. 2. Deficit o disfunzione sociale e/o occupazionale: per un periodo di tempo significativo uno o più degli ambiti principali della vita del soggetto sono gravemente compromessi rispetto a prima della comparsa del disturbo (lavoro, relazioni interpersonali, cura del proprio corpo, alimentazione ecc.) 3. Durata: persistenza dei sintomi "B" per almeno sei mesi, che includano almeno un mese di persistenza dei sintomi "A". 1.3.2 Epidemiologia e Psicoterapia E’ classificabile come una malattia ubiquitaria, riscontrata in ogni epoca e cultura. Il suo tasso d'incidenza è di 15-25 dei casi all'anno per 100.000 abitanti. Mentre il tasso di prevalenza varia tra lo 0,6% e lo 0,8%. Nel 75% dei casi l'esordio avviene in età giovanile (tra i 15 e i 35). Dopo i 35 anni sembra più frequente nella donna che nell'uomo. Alcuni studi però dimostrano che non esistono sostanziali differenze nella distribuzione tra i sessi. Secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono circa 24 milioni le persone che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello. Nelle donne si osserva la tendenza a sviluppare la malattia in età più avanzata. Prendendo il caso specifico dell’Italia vediamo che vi sono circa 245.000 persone che soffrono di questo disturbo: coloro che si ammalano appartengono a tutte le classi sociali, ma una leggera maggioranza del disturbo si ha nelle classi socio-economiche più basse e tra gli individui con un livello d'istruzione inferiore. Tuttavia possiamo confermare che questo però non vale a dire che questa patologia deriva principalmente dall'emarginazione o dal disagio sociale. Non vi sono aree geografiche in cui l’incidenza risulti particolarmente alta; al contrario una prognosi decisamente migliore si è evidenziata per i soggetti appartenenti ai paesi in via di sviluppo. Inoltre, alcuni risultati dimostrano che i quadri clinici che si manifestano in maniera acuta presentano una evoluzione migliore di quelli con esordio insidioso e progressivo: tuttavia, la 31 tendenza ad un esito migliore nei paesi in via di sviluppo è comunque stata riscontrata sia per i quadri clinici ad esordio acuto che per quelli ad esordio progressivo. Tralasciando la terapia farmaceutica (di natura medica), vogliamo trattare un diverso metodo di trattamento terapeutico attraverso la PSICOTERAPIA. Questa può coinvolgere familiari e conoscenti, allo scopo di individuare eventuali difficoltà relazionali col malato e gestire il suo isolamento. Inoltre, la psicoterapia, può aiutare il paziente a contestualizzare il problema e le risposte dell'ambiente, rendendolo maggiormente autoconsapevole facilitandone il contatto di realtà e rinforzando “l'Io”. Le ultime ricerche ed esperienze sia in campo psichiatrico che psicoterapico dimostrano che un approccio integrato (farmacologico + psicoterapeutico) ottiene un controllo migliore della patologia. Infine, di seguito, elenchiamo i principali componenti per il trattamento della schizofrenia. Le tre “categorie” sono: farmaci, per alleviare i sintomi e prevenire le ricadute; interventi educativi e psicosociali, per aiutare i pazienti e le loro famiglie a risolvere i problemi, confrontarsi con gli stress, rapportarsi con la malattia e le sue complicanze, ed aiutare a prevenire le ricadute; riabilitazione sociale, per aiutare i pazienti a reintegrarsi nella comunità e riguadagnare le capacità sociali ed occupazionali. 32 Capitolo II “Il Basket e la Disabilità Mentale”… «Il basket è l’unico sport che tende al cielo e questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra. La palla è un mediatore per far esprimere a pieno se stessi e riuscire a superare i propri limiti...». Cit. Marco Calamai 33 La proposta del gioco della pallacanestro come forma di scambio e di rapporto interpersonale per migliorare la condizione di disabilità. Questo è il principio fondamentale! La pallacanestro è uno sport di contatto, di movimento dove regnano l’ordine e l’organizzazione di lavoro: questi sono elementi importanti per il “lavoro” sul ragazzo disabile che ha bisogno di punti di riferimento sicuri. Come afferma Calamai: “…il basket non è lo sport più bello o il migliore possibile: lo ritengo solo il più adatto come disciplina di squadra per i ragazzi con handicap mentale, per gli stimoli che manda, per il senso del gruppo che crea, per il fascino del canestro che lo caratterizza…” La palla è uno strumento che riesce a catturare l’attenzione di questi giocatori speciali: il canestro per loro non solo rappresenta il punto per la vittoria della partita, ma una grande speranza al di fuori del rettangolo di gioco; il passaggio a sua volta significa un´apertura, un contatto diretto con gli altri (aspetto non irrilevante quando si parla di queste persone); infine il palleggio diventa uno strumento di conoscenza dello spazio. Il basket sa, quindi, affascinare e rendere partecipe il ragazzo diversamente abile: all’interno delle situazioni proposte dal gioco stesso, egli può esprimere ogni sua potenzialità nascosta e mostrare tutte le sue capacità. Marco Calamai6, come già precedentemente descritto, afferma che uno degli elementi più importanti nel basket è il tiro della palla in quanto “il basket è l'unico sport che tende al cielo e questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra”.. Sottolinea, inoltre, che “…il momento del tiro è un giusto connubio di esplosività e delicatezza: la prima, l'esplosività, è la componente iniziale del gesto; mentre la seconda, la delicatezza, si concretizza nel momento in cui si lascia la palla tra le mani; in questo modo si impara a dosare la forza e ad impiegarla per un fine definito e positivo…”. Da più di 15 anni è impegnato come tecnico nell´handicap psichico nelle sue varie forme (dall´autismo alla psicosi alla sindrome di Down) attraverso la proposta del gioco della pallacanestro come prima forma di scambio e di rapporto interpersonale. L’obbiettivo dell´attività sportiva tramite lo sport del basket è la comunicazione che avviene attraverso l’attrezzo fondamentale del gioco: la palla. I risultati ottenuti sono incoraggianti e assolutamente visibili da tutti quanti: molti dei ragazzi coinvolti sono arrivati ad una capacità importante di comunicazione e di relazione, non solo nell´ambito del gioco ma anche e soprattutto della vita quotidiana. 6 Marco Calamai (Firenze, 27 giugno 1951) è un allenatore di pallacanestro italiano. Nella sua carriera, ha guidato per 12 stagioni con 365 partite dirette dal 1982 al 1995 tre squadre impegnate a salvarsi in Serie A1 maschile: Venezia, Firenze e Libertas Livorno. E’ stato inoltre campione del mondo alla guida della nazionale militare italiana nel 1990. Collabora con la cattedra di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna e con lo Iusm di Roma; docente al Master di Psicosport di Milano. 34 2.1 “Il Metodo Calamai” Il metodo di lavoro di Calamai “…non è uno schema fisso o un elenco di concetti, ma un percorso di ricerca prima interiore, un cammino di sperimentazione che va al di la della strada conosciuta e codificata…”. Il suo metodo non è un insieme di regole fisse bensì un “progetto di gioco” che non si ferma al semplice modello di gioco già conosciuto, ma si spinge ad andare oltre. L’obbiettivo è il completo coinvolgimento dell’allenatore (il responsabile dell’attività) che si deve immergere in una nuova esperienza totalmente diversa da quella sportiva abituale. Egli ha la possibilità di scoprire nuovi valori e apprendere significati diversi di gesti già abbondantemente conosciuti nel consueto gioco sportivo, come quello del basket. “…Il metodo di gioco è un rimettere tutto in discussione per cercare di andare al di là di un silenzio, di un rifiuto, di una paura, con la delicatezza del rispetto e il gusto della scoperta…”. Il metodo di lavoro si basa su alcuni principi fondamentali. I 2 punti essenziali sono: Avere profonda competenza del gioco della pallacanestro; Possedere un’apertura verso la diversità e la capacità di entrare in contatto con quel mondo delicato. A sostegno di questa teoria ci sono inoltre 3 concetti fondamentali da cui non si può non prescindere: 1. puntare sulla qualità di ogni singolo ragazzo disabile; 2. sfruttare il piacere e il divertimento nel e del gioco; 3. usare il passaggio, vero segreto di questo progetto, come strumento di comunicazione tra chi per paura o incapacità non riesce a farlo con la parola. 35 Calamai inoltre pone alla base del suo metodo la figura dell’allenatore, quale colonna portante di questo progetto ambizioso ed impegnativo. A lui vengono richiesti 4 “requisiti”: 1. conservare la sua immagine di tecnico, senza confusione di ruoli o di incarichi, con il supporto di un’equipe adeguata formata da professionisti del settore, educatori e volontari, motivati e rispettosi dei diversi ruoli; 2. essere capace di trattare i ragazzi disabili come i giocatori normodotati, con severità, incoraggiamenti, richiami, mettendo poche e chiare regole di lavoro e facendole rispettare; 3. essere in grado di valorizzare la ricchezza della diversità della sua squadra integrando il gruppo dei giocatori disabili con giocatori normodotati disponibili a lasciarsi coinvolgere; 4. sapere mantenere lo stesso agonismo, la stessa voglia di vincere che caratterizzano i tecnici delle squadre di normodotati che partecipano a campionati regolari. Il punto di vista e l’angolazione sugli avversari da battere non è lo stesso della pratica sportiva indirizzata esclusivamente ai normodotati: “…non sono più le altre squadre, ma nemici interni dei ragazzi disabili, le loro paure, le insicurezze, il loro timore di sbagliare…”. Lo schema è uno strumento di lavoro, “…una lente di ingrandimento attraverso il quale leggere tutto il testo e rileggere sé stessi, valutando le personali caratteristiche di allenatore e di educatore…”. Passione, energia, voglia di conoscere, impegno e dedizione: questi sono i punti che permettono di creare un rapporto utile e costruttivo con i ragazzi disabili. 36 2.1 “L’indice del gioco: i punti focali” “…Ecco, la parola chiave per quanto mi riguarda è proprio LIBERTA’ e questo stato dell’animo con cui mi sono messo in gioco con i ragazzi disabili mi ha permesso di scoprire e di approfondire concetti essenziali di questa intensa esperienza sportiva…”. I punti focali vengono “insegnati” dai ragazzi disabili: sono maestri nel fare capire all’allenatore, al responsabile del lavoro quasi siano i veri valori, il vero senso di parole basilari per qualunque esperienza di gioco. Di seguito ne considereremo 4, come afferma Calamai nel suo libro: “Uno sguardo verso l’alto”. 1. L’attesa: nella vita quello che conta non sono le affermazioni che fanno scalpore, bensì sono i semplici fatti concreti che fanno la differenza. Nel caso di questi ragazzi speciali, quando alcuni di essi trovano difficoltà nell’esecuzione di esercizi allora li interverranno altri compagni più capaci per aiutare dolcemente l’allievo meno bravo. In quel momento “si capisce davvero il senso dell’attesa”. Il verbo attendere non significa aspettare mettendo ansia ed agitazione al compagno. Il vero significato è quello di trasmettere alla persona meno capace, o più lenta nel fare un qualcosa, che c’è qualcuno che lo aspetta, lo capisce, lo motiva e crede in lui. Questa parola è molto abusata perché la nostra realtà conosce solo il contrario: la fretta, cattiva alleata nel momento delle valutazioni sportive e non solo. I ragazzi disabili ci mostrano quanto sia importante l’attesa,“sanno leggere nell’anima dei compagni”. Questa è senza dubbio, come afferma Calamai, una scelta vincente di una nuova pedagogia sportiva. 2. L’ascolto: parola chiave per l’educatore sportivo, ma sicuramente non la più usata nello sport quotidiano. Nel mondo sportivo, oggi, è molto più facile apprendere, cogliere un bisogno attraverso l’uso della “voce alta”. Ci viene molto più facile, ma sarà giusto? Quello che ci vuole far considerare Calamai è che il “sapere ascoltare il silenzio di chi non sa o non vuole esprimersi con la voce” è importantissimo. Anche le persone silenziose hanno un modo di comunicare: non avviene con la voce, ma attraverso un gioco di posture e sguardi ci comunicano tutto. Questo è ciò che avviene con i ragazzi disabili, che sono sempre disponibili nell’ascoltare il compagno silenzioso facendolo integrare e sfruttando a pieno le 37 sue capacità. Questi ragazzi, possedendo alte capacità empatiche, ci trasmettono il pensiero che la comunicazione è sempre possibile (in ogni modo), bisogna “solo” saper ascoltare. Fondamentale diventa l’importanza dell’allenatore, che si deve calare in questa realtà a pieno regime cercando di discostarsi dal modo tradizionale di allenare. 3. La regola: questo termine non significa solamente restrizione o limitazione bensì un modo per la buona riuscita del gioco stesso; diventa ancora più fondamentale avere delle regole quando siamo a contatto diretto con ragazzi disabili anche se non è per nulla facile l’attuazione di tali punti. Per il ragazzo disabile queste regole diventano “…una protezione e una forma di ordine al loro caos interiore…”. Ovviamente queste norme devono essere poche, chiare, di facile attuazione e comprensibili dal gruppo. Quando tutti i ragazzi capiscono questo “regolamento”, il gioco diventa più divertente e simile al tradizionale sport conosciuto per atleti normodotati. La regola assume una forma diversa rispetto al tradizionale significato che assume nello sport per normodotati: non è più una semplice limitazione, ma diventa “…una tutela e paracadute per la libera espressione di grandi qualità nascoste, che rischiano di rimanere inespresse senza una guida…”. 4. Integrazione: ultima parola cruciale, ma non per importanza. Questo termine offre molti spunti di riflessione: noi tratteremo l’esempio dell’inserimento di ragazzi normodotati con ragazzi disabili, che scelgono per volere proprio di partecipare a tale esperienza. Si forma un gruppo misto, sia nelle capacità fisiche che in quelle mentali, che trasforma quest’esperienza in un’attività molto stimolante. “…la diversità arricchisce davvero chi la sa vivere, frequentare senza preconcetti. Ognuno dei componenti di questa squadra mista ha qualcosa da dare agli altri...”. I benefici che traggono i ragazzi disabili sono sotto gli occhi di tutti: sia dal punto di vista del gioco, ma soprattutto nel rapporto interpersonale. Il coinvolgimento e la disponibilità dei ragazzi normodotati è di fondamentale importanza per la riuscita di tutto questo. “…L’esperienza di questo gruppo misto così speciale e così integrato è tanto intensa nel significato e nei risultati ottenuti che sa meravigliare anche chi, come me, l’ha promossa e voluta…”. Parole di Marco Calamai… Uno degli obiettivi finali del Progetto è quello di poter svolgere questa attività sportiva in un contesto di integrazione. Infatti, come afferma Calamai, si può dire che in questo contesto si può superare quella sottile linea che separa l'inserimento e l'integrazione, concetti apparentemente simili ma profondamente diversi: l'inserimento si riferisce all'accesso di una persona con disabilità sia psichica che fisica; l'integrazione implica invece sia l'accesso che l'accoglienza di queste persone. 38 2.2 “Integrazione” con lo sport Dall’ultimo punto focale per la riuscita del “Metodo Calamai” prendiamo spunto per continuare a parlare del concetto di INTEGRAZIONE, partendo proprio dalle origini del processo integrativo. La gestione ufficiale del settore handicap e sport è affidata alla FISD (Federazione Italiana Sport Disabili) nata nel 1990 (dal 2003 affidato al CIP, Comitato Italiano Paralimpico). E’ un organismo preposto per lo svolgimento dell’attività sportiva da parte delle persone disabili in ambito nazionale in collaborazione con il CIO (Comitato Internazionale Olimpico) e il IPC (International Paralympic Committèe), responsabile dell’organizzazione dei Giochi Paralimpici. Per quanto riguarda il nostro caso specifico dell’attività fisica per persone affette da handicap mentale, ricordiamo l’anno 1968: nasce negli Stati Uniti un programma preposto alla promozione dell’attività di sport non agonistico per atleti “portatori” di handicap mentale. Nella nostra nazione, dal 1996 è stato formato un settore specifico per la disabilità mentale creato appunto dalla FISD. Questo è il quadro generale, descritto in breve sintesi, dell’integrazione oggi sia in Italia che nel resto del Mondo. Tralasciando ora quello che riguarda le normative, leggi e tutto quanto ne consegue, introduciamo il pensiero principale che accomuna molti atleti disabili: il sogno di abbattere il muro che divide atleti normodotati e quelli diversamente abili, il desiderio di arrivare ad uno sport unico che unisca tutti quanti senza fare nette divisioni tra essi! “...Il ricongiungimento di tutti gli atleti sotto la bandiera dello sport unico…” è il pensiero di Calamai: un percorso (arduo) che deve confluire a questo obbiettivo finale. Sia le Società che i Gruppi sportivi di appartenenza devono essere gli stessi per tutti gli atleti che si affronteranno in gare e tornei tra persone con capacità diverse. “…La frequentazione aiuta, l’emulazione stimola, lo scambio apre e così l’integrazione si attua…” è il ragionamento di Calamai. Senza eliminare la struttura già esistente, riservando (almeno inizialmente) i tornei e le gare previste appositamente per atleti diversabili, bisogna introdurre a livello sperimentale manifestazioni e tornei dove si affrontino squadre composte da atleti normodotati e disabili, in gruppi misti. In seguito, si può organizzare un più alto livello di gare e tornei dove si scontrino atleti normodotati con quelli diversabili: unica condizione per gareggiare insieme sono i tempi ottenuti. Come afferma Calamai, “…l’unico giudice rimane il cronometro e non il certificato di disabilità o di idoneità 39 sportiva…”. Durante questi tornei sperimentali, il fatto che ci siano atleti normodotati dev’essere uno stimolo, un incoraggiamento per gli atleti diversabili: quest’ultimi dovendo stare al passo con le prestazioni dei ragazzi normodotati, in modo automatico raggiungono rendimenti e miglioramenti impensabili; superiori rispetto a quelli che riserverebbero per le manifestazioni riguardanti solo individui disabili. Quindi occorre sottolineare che, tramite il “Metodo Calamai”, non ci si limita solo all’organizzazione di tornei, gare e manifestazioni prettamente riferiti ad atleti disabili ma si va oltre questi aspetti: dare la possibilità ai giocatori speciali di potersi confrontare con atleti normodotati, aiutati ed integrati appunto da volontari. Questo passo “delicato ed impegnativo” diventa successivamente “doveroso ed appagante”. La diversità è una fonte di valore e di ricchezza: i miglioramenti e i risultati ottenuti tramite questi metodi di lavoro sono sotto gli occhi di tutti. 40 Capitolo III Progetto "Special Team Annabella 87" Il basket per atleti diversamente abili 41 Fig. 4 Articolo da “La Provincia Pavese” dell’ottobre 2006 Il Potere del basket e del “Metodo Calamai” ideato da un italiano, che per la prima volta nel mondo è riuscito a rompere i ghetti delle diverse disabilità e mettere in comunicazione persone con handicap e normodotati, consapevoli di far parte di un'unica squadra. Da Bologna, dove il Metodo ha mosso i primi passi, fino a Pavia con il progetto "A canestro in modo speciale...". A introdurlo e crederci fin dall'inizio sono stati proprio due ex giocatori del coach Marco Calamai: Chicco Falerni e Dante Anconetani. Lo hanno fatto con l'entusiasmo dei ventenni di ieri, del quintetto fantastico dell'Annabella '87, che si è rimessa insieme contando sull'apporto del medico sportivo di quella squadra, il dottor Albino Rossi, e della stessa sponsorizzazione, concessa dai fratelli Ruggero e Riccardo Ravizza. Inoltre possono contare sull’importante collaborazione del Panathlon e, logisticamente, dell’oratorio San Mauro (la sede delle attività a Pavia). 42 …“Avere il coraggio di guardare al cielo, stare finalmente a testa alta. Facile direte voi. Una chimera fino a poco tempo fa per Alessandro (ragazzino autistico) e i suoi compagni di una squadra di basket davvero speciale: appuntamento settimanale all'Oratorio di San Salvatore, quartiere di San Mauro a Pavia. Sono i ragazzi dello Special Team Annabella '87. Un gruppo stupendo di cestisti in erba che hanno scoperto i benefici del "Metodo Calamai": «Una concreta integrazione attraverso il gioco della pallacanestro tra giocatori diversamente abili e giocatori normodotati »…” Tratto da “Avvenire” del 7 dicembre 2007 43 Fig. 5 Articolo tratto da “La Provincia Pavese” dell’ottobre 2006 44 3.1 Il Progetto: una “palestra di vita” Il progetto “Special Team Annabella ‘87” permette la possibilità d’inserimento nel contesto sportivo, che è dapprima una normale palestra per l’attività fisica, ma che in seguito diventerà anche "palestra di vita", nel quale il bambino può apprendere nuove competenze dal punto di vista cognitivo, affettivo e relazionale e nel quale potrà divertirsi. Trasmettendo al bambino una serie di nuove competenze che gli permettano di essere autonomo nella gestione dei suoi spazi nella vita quotidiana, il basket agisce anche sulla dimensione educativa dell' "evoluzione del comportamento". Il principio fondamentale del basket è quello di “dover” essere un momento di divertimento e di crescita. In quei momenti di sport si cercano soluzioni alternative, in modo da continuare a motivare i bambini e ragazzi a non farli cadere nella frustrazione determinata dal non riuscire ad arrivare al risultato del "canestro". Ciò che unisce i ragazzi con disabilità sono spesso il dolore, la sensibilità e il rifiuto da parte della società. È dunque fondamentale la formazione di un gruppo: se ad esso si riesce inoltre a fornire una motivazione ancora più positiva, lo stare assieme risulterà ancora più piacevole. La modalità dello stare insieme passa per il piacere di farlo e per il divertimento che ne consegue: in queste condizioni è più facile che una persona autistica si apra e si stacchi dalla propria condizione di chiusura. La gioia di praticare uno sport fornisce la forza per aprirsi alle relazioni con le altre persone, condizione non irrilevante. Il contesto altamente strutturato e la sequenza degli esercizi proposti stimola da una parte l'acquisizione di nuovi comportamenti funzionali alla crescita, dall'altra la riduzione dei comportamenti ritenuti non funzionali. È possibile osservare la comparsa di capacità di coordinazione e di utilizzo del proprio corpo inaspettate e anche la graduale scomparsa delle stereotipie tipiche dei bambini autistici. Nel basket vengono individuati i bisogni e le esigenze del bambino e i comportamenti su cui è necessario successivamente intervenire per poi insegnare al bambino condotte più funzionali che sostituiscano quelle disadattive. 45 In seguito, mediante l'intervento programmato, viene attivata l'acquisizione del nuovo comportamento, ponendo attenzione affinché esso sia "armonizzato" rispetto alle attitudini del bambino e possa "fondersi" con le sue stesse caratteristiche. L’obiettivo fondamentale del Progetto non è che il bambino impari a "fare canestro", ma acquisisca nuove competenze fisiche che possa utilizzare nella vita quotidiana. Non è importante che il bambino impari a relazionarsi solamente con l'operatore, ma (grazie all'esperienza di relazione salda con il proprio operatore) possa migliorare in generale le sue competenze relazionali. “Il basket agisce particolarmente sulla dimensione dello "Sviluppo Dinamico Corporeo" costituendo una naturale occasione per valorizzare le capacità fisiche che molto spesso vengono messe in secondo piano rispetto ai disagi psicologici” (Coste, 1989). Un passo rilevante dell'approccio relazionale nell'attività sportiva con i bambini autistici è rappresentato dal contatto corporeo diretto. “I primi contatti dovrebbero essere leggeri ma decisi, non violenti o bruschi, ma neppure esitanti: è importante che attraverso il contatto non si trasmetta aggressività, la quale spesso, indurrebbe i bambini ad una chiusura difensiva o ad una reazione negativa” (Salvitti, 2001). Attraverso il gioco, quello del basket in questo caso, il bambino autistico ha la possibilità di migliorare la coordinazione, la resistenza, la forza e la velocità. Esso impara a superare la fatica, che è uno dei primi ostacoli per la riabilitazione fisica, come giustamente afferma Calamai. Questo sport è fondamentale per migliorare anche il tono dei gruppi muscolari, per riprendere coscienza del proprio corpo e per riorganizzare gli schemi motori, migliorando la coordinazione e l'equilibrio. Agisce, inoltre, per un migliorare il proprio "schema corporeo" e guida il bambino verso la capacità di "mentalizzare" le proprie azioni. Tutti questi aspetti permettono una positiva attuazione di sé ed una effettiva socializzazione in modo tale da rendere possibile anche la presa di coscienza globale di un insieme organizzato e dei rapporti che collegano lo spazio cinestetico con lo spazio oggettuale. Il basket “diventa”, da attività ludica primaria, vero e proprio mezzo di conoscenza, di apprendimento, di esplorazione dello spazio in relazione al proprio corpo, di consapevolezza delle proprie azioni e reazioni. Sotto questo profilo l'attività motoria diventa lo strumento indispensabile per inquadrare tutte le capacità del bambino: dalla personalità all’individuazione delle componenti psicologiche e caratteriali favorendo, inoltre, le attività espressive e stimolare la spinta creativa. Lo sport del basket favorisce l'utilizzo del proprio corpo come strumento fondamentale di esplorazione e di comunicazione con l'ambiente esterno. Non sempre tale comunicazione sarà di 46 tipo verbale, anzi nel caso (più probabile) essa sia notevolmente ridotta, il basket favorisce la creazione di canali comunicativi alternativi proprio attraverso il corpo. Questo momento ludico e motorio assume un ruolo determinante nella vita del bambino e del ragazzo autistico. L'attività psicomotoria si intreccia con altre forme di educazione per completare il processo educativo del ragazzo/bambino. Alla luce di quanto descritto sopra giungeremo alla conclusione che il basket, quindi, non è solo esercizio fisico e muscolare, ma agisce spesso sulla personalità e sulle capacità del bambino in modo da migliorarle tramite il gioco, suscitando interesse e divertimento nel ragazzo. 47 3.2 Ma perché proprio il basket? “…A tutti loro e alle richieste che esprimono con le parole, i gesti e i silenzi il basket sa dare risposte certe ed esaurienti…” cit. Marco Calamai La scelta di questo sport non è casuale: “il basket è l'unico sport che tende al cielo e questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra”. Questa affermazione, già precedentemente descritta, è la motivazione principale che fa propendere la scelta di questo sport abbinata a queste tipologie di persone. La palla affascina sempre: nel basket, questa viene toccata dai ragazzi con le mani (aspetto da non sottovalutare perché spesso negli altri sport essa viene toccata con i piedi con conseguenti e maggiori difficoltà). Secondo punto importantissimo riguarda il canestro: diventa un elemento attrattivo perché è posizionato in alto, un modo per puntare lo sguardo verso l’alto, per uscire dalla condizione chiusa, per aprirsi verso gli altri; è stretto, quindi stimola i ragazzi perché il riuscire a fare il canestro implica grande gioia e soddisfazione (condizione gratificante per i giovani); per la sua forma ricorda il centro della vita. Questo sport diventa, per questi ragazzi speciali, un’esperienza unica nel loro corpo: l’allungamento che inizialmente è motorio diventa un’apertura verso il mondo, verso gli altri. I principi, le norme e le regole del gioco sono esattamente le stesse della pallacanestro professionistica, ma adattate ed indirizzate a questi ragazzi speciali senza snaturare il senso della disciplina sportiva. Il piacere dev’essere inteso come un fattore di crescita, una possibilità di divertimento all’interno di un gruppo. Il riunirsi in una squadra è una forma di protezione dove ogni ragazzo si sente accettato senza nessun tipo di discriminazione: “accogli per essere accolto, accetta per essere accettato”. 48 Questa regola è condivisa da tutti e da questo punto di partenza si struttura il lavoro sportivo dove impegno e dedizione non vengono mai a mancare. L’aspirazione del gruppo è quella di contagiare positivamente più persone possibili che riescano attraverso la pallacanestro ad affrontare le difficoltà ed inserirsi nella società. 49 3.3 Un canestro per la conoscenza! Un titolo intrigante per descrivere come la pallacanestro possa diventare uno strumento di conoscenza nel quale il ragazzo riesce ad apprendere, dapprima gesti motori semplici, e successivamente i valori che si rispecchieranno nella vita quotidiana. Qual è il primo strumento che può aiutare una prima apertura dei ragazzi? La risposta è semplice: la palla! Questo oggetto aiuta a conquistare una prima fiducia dei ragazzi verso il proprio allenatore, ad entrare in contatto con loro e con il mondo che si creano. “…Non ho ancora trovato un ragazzo con disabilità mentale che abbia respinto il mio approccio attraverso il pallone…” : questa citazione di Calamai ci esplicita quanto sia importante il pallone nel primo approccio con il ragazzo. L’aspetto fondamentale per la crescita di un ragazzo è il piacere: attraverso ciò è possibile arrivare ad una conoscenza di sé e delle proprie capacità per mezzo dell’attrezzo di gioco, che diventa stimolante da questo punto di vista. Accarezzare la palla, palleggiarla, maneggiarla, guidarla sul proprio corpo o su un altro oggetto, non farla cadere, stringerla, fissarla: sono tutte modalità, diverse tra loro, di approccio con il pallone e tutte importanti nel medesimo modo. Un altro aspetto, non irrilevante, è la pesantezza di questo strumento di gioco. Questa è una peculiarità che la palla possiede e molte volte non viene sottolineata: per maneggiare la palla non bastano solo destrezza e fantasia, ma anche attenzione e forza. La pesantezza stimola l’attenzione, la concentrazione del ragazzo: non si può trattare questo oggetto con superficialità e leggerezza perché questo comporterebbe distrazione e scarso controllo dell’oggetto. I ragazzi mostrano, tramite il loro impegno costante durante gli allenamenti, quanto sia importante la concentrazione e la delicatezza che bisogna rivolgere alla palla. In conclusione di questo piccolo discorso sullo strumento di gioco così affascinante, bisogna sottolineare che la palla striscia, vola, rimbalza, rotola, ma ha un’altra caratteristica importante: la sua pesantezza. 50 Con questo oggetto stimolante, i ragazzi disabili iniziano il percorso di conoscenza, esperienza nel gioco. Il pallone diventa, quindi, una “spalla su cui appoggiarsi” per sperimentare nuove esperienze, nuove attività in cui esprimere tutte le proprie capacità. “…Non credo che esista uno strumento di conoscenza di sé e del proprio corpo più divertente e affascinante di un pallone…”. Dopo una prima conoscenza della palla, il ragazzo cerca di sviluppare le proprie capacità allargando i suoi orizzonti: può andare oltre, può osare, può cercare lo scambio con il compagno rivolgendogli uno sguardo, può alzare gli occhi verso l’alto alla ricerca di centrare l’obbiettivo finale del gioco ovvero il canestro. Le sue competenze, ovviamente, devono essere stimolate attraverso una guida sicura, quella dell’operatore che lo segue con sensibilità e competenza alla ricerca della scoperta di “nuovi territori”. Tra le caratteristiche primarie del gioco del basket c’è il tiro, che differisce dagli altri sport in quanto non avviene in modo rasoterra, né parallelo al terreno né dall’alto verso il basso come nella pallavolo. Nella pallacanestro il tiro assume un significato diverso attraverso il tirare verso l’alto: diventa metaforicamente un “puntare al cielo sollevandosi dalle piccolezze terrene”. Questa è la motivazione (che prima abbiamo spiegato) della scelta di questo sport per queste tipologie di ragazzi: il cestino è posto in alto per richiamare lo sguardo ed accendere la speranza di ognuno. La verticalità consente al ragazzo di acquisire sicurezza e competenze più ampie, non solo a livello sportivo ma anche nella vita quotidiana. Tutto quello che accade a livello fisico si rispecchia a livello psicologico: il movimento dello slancio verso l’alto rappresenta un’apertura al mondo, una possibilità ed una conquista mai provata prima ad ora. Un’ultima parte la voglio dedicare alla scoperta dell’altro, del compagno tramite il passaggio che viene inteso nel significato di comunicazione. Il basket presenta quindi un’altra metafora della vita: il passaggio al compagno di gioco assume la valenza di comunicazione, di dialogo verso l’altro. Se analizziamo la comunicazione (verbale e non) notiamo che essa implica una “conoscenza” di tempi, di modi, di bisogni dell’altra persona. Nel gioco avviene la stessa cosa: devo guardare il compagno, devo capire che lui mi vede, devo vedere che lui si predispone per prendere il mio passaggio (alto, basso, rimbalzato). Sostanzialmente è la “conoscenza dell’altro” nello sport, così come avviene nella vita. Il passaggio è l’aspetto più complesso, “la vera metafora del dialogo”: bisogna evitare di mantenere singolarmente il possesso della palla, ma cercare una comunicazione con il compagno per attivare il gioco di squadra, anche se è un processo difficile da eseguire. Per molti ragazzi, appunto, la difficoltà è proprio l’apertura verso gli altri: tramite il mezzo affascinante, quale la palla, si riesce a far avvenire ciò in modo meno esplicito. La palla, quindi, 51 diventa lo “strumento facilitatore della comunicazione” perché essa permette il contatto con gli altri, fa interagire con gli altri ragazzi (aspetto fondamentale). Questo è, inoltre, il vero significato del gioco di squadra, il bisogno dell’altro: quest’aspetto successivamente è fondamentale anche nella vita di tutti i giorni. La palla, strumento di piacere, aiuta nella conoscenza dell’altro perché sa mediare le timidezze e le paure che i ragazzi hanno quando sono a contatto con l’altro. Essa, tramite il lancio ed il passaggio, rappresenta un “sinonimo” del dialogo, un modo per sperimentare il contatto con l’altro attuato non direttamente ma coadiuvato con il fantastico strumento della palla. 52 3.4 L’attività motoria con i ragazzi Le esercitazioni proposte durante gli allenamenti si svolgono quasi sempre in gruppo, ma il lavoro individuale non viene certamente tralasciato in quanto assume un ruolo fondamentale nella partecipazione del ragazzo nell’attività collettiva. Gli esercizi con l’utilizzo della palla servono ai ragazzi per prendere contatto con questo “mezzo di lavoro” ma soprattutto di divertimento: hanno finalità di aggregazione e comunicazione con le altre persone che spesso sono distanti non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Le attività prevedono esercizi semplici, affascinanti, che catturano l’attenzione del ragazzo affinché questi riesce ad eseguirli pressoché subito o che comunque abbia la percezione del “potercela fare” in breve tempo. Prerequisiti del gioco: Prendere sul serio i bambini che pur con i loro limiti sono ricchi di potenzialità; intuire le qualità dei singoli, cercando di eliminare il pensiero del soggetto di avere limitazioni nell’eseguire gli esercizi ; riconoscere nelle problematiche dei ragazzi “speciali” anche le nostre problematiche. Di seguito, sono elencati le tipologie di esercitazioni proposte durante gli allenamenti della squadra. 1. Esercizi di contatto e possesso palla: sono finalizzati alla scoperta di sé, attraverso il contatto del pallone sul corpo e le sensazioni che ne derivano. Esempi di esercizi: La conquista: scoperta della palla → la finalità è quella della conoscenza di se stessi attraverso la presa, il contatto visivo e tattile dello strumento di gioco. Approccio con la palla: carezza sul corpo → è un passo in avanti rispetto all’esercizio precedente; la carezza della palla sul corpo permette al ragazzo di entrare in relazione al mezzo di gioco, imparando a conoscerlo in diversi modi. 53 Palla accarezzata sulla parete → questa tecnica rappresenta una prima uscita da sé stessi ed un approccio guidato verso la comunicazione con gli altri. Il muro media la paura del contatto diretto con i compagni: difatti la palla non viene passata direttamente al compagno, ma lasciata premuta sulla parete in attesa dell’arrivo del compagno. Il contatto con l’altro inizia, anche se indirettamente. 2. Esercizi di tiro a canestro: è il premio per il giocatore, il risultato di tutti gli sforzi. Dal primo giorno si fa in modo che tutti riescano ad arrivarci, usando vari sistemi: abbassandolo, sollevando i più piccoli, alzando i ragazzi tramite tavoli o sedie, sfruttando cesti di altra natura per aiutare ragazzi in difficoltà. In questo modo si arriva alla scoperta dell’alto, attraverso l’allungamento fisico, un’apertura della postura ed una tendenza alla verticalità dovuta al movimento del tiro. Esempi di esercizi: Tiro a canestro in fila → indica la solidarietà tra ragazzi; la protezione tramite il gruppo; il rispetto della regola, del tempo e della relazione. Gara di tiro a squadre → imparare a reggere le prime forme di agonismo di una gara. Il titolare in questa situazione è protetto dalla sua squadra, ma sente la tensione della prova per il risultato finale della gara. I suoi compagni sono dalla sua parte e lo sostengono. Tiro senza pensare → la conclusione a canestro immediata ha lo scopo di ridurre i pensieri, le paure ed i timori del tiratore. Questo esercizio, insieme al “tiro bendato” e “tiro all’indietro” hanno lo scopo di diminuire o togliere la pressione del dover centrare il canestro. Sono esercitazioni nate con l’obbiettivo di eliminare il senso di colpa nello sbagliare il tiro: se realizzate danno gratificazioni importanti a ragazzi che ne hanno veramente bisogno. A seguito di queste esercitazioni di tiro si possono proporre “staffette di gioco a punteggio” che hanno lo scopo di: creare competizione tra squadre, dare il senso di appartenenza a un gruppo e la protezione che ne deriva, la gratificazione per l’incitamento degli altri e per il canestro segnato. 3. Esercizi di passaggio: queste proposte hanno lo scopo di portare alla scoperta dell’altro da sé, attraverso la comunicazione che permette lo scambio della palla tra i compagni. Le 2 regole alla base di ogni esercizio di passaggio sono: 54 passare la palla a chi non ce l’ha, passare la palla solamente a chi la cerca con lo sguardo. Esempi di esercizi: esercizio di passaggio a terra, passaggio diretto e battuto, passaggio in verticale/orizzontale, passaggi misti, palla sul tavolo strisciata sopra/sotto, palla sulla parete. 4. Esercizi di palleggio: tramite queste esercitazioni il ragazzo disabile può aprirsi alla conoscenza dello spazio circostante uscendo dalla condizione chiusa e riservata in cui esso vive. Le finalità di queste proposte educative sono quelle di fare uscire il ragazzo dal proprio angolo chiuso, aprendosi alla valutazione di un mondo tutto da scoprire. Lo scopo è sempre quello di stimolare i ragazzi verso la realtà: valutandola, entrandoci grazie alla protezione del pallone che guida il giovane nello spazio aperto e verso la relazione con l’altro. Esempi di esercizi: palleggio sul posto, da seduto, da seduto con passaggio e cambio di posto, ecc. Fig. 6 Un’esercitazione d’ allenamento dei ragazzi all’Oratorio San Mauro (Pavia). 55 Tutte queste esercitazioni sopra elencate sono rivolte a migliorare tutte le capacità dei ragazzi, ognuna con delle proprie finalità. Lo scopo principale è comunque unico: migliorare la vita di questi ragazzi, divertendosi e facendo sport. Abbinando gli esercizi precedenti, si possono, o meglio si devono costruire dei percorsi di gioco obbligati nei quali ogni ragazzo abbia una funzione da svolgere con successo: appunto così nascono i circuiti della pallacanestro. Sta all’istruttore dare il meglio di sé, spaziando con la fantasia, alla ricerca di tutto quanto sia utile per la costruzione del percorso di allenamento. L’obiettivo è quello di creare una situazione di gioco dove vengono stimolati tutti gli individui utilizzando tutto quanto è possibile per la riuscita di questo percorso. Più il percorso di gioco è vario e stimolante, più il ragazzo disabile si interessa, si adatta e trova soluzioni per migliorarsi. Dal lavoro fatto da Marco Calamai e vedendo gli allenamenti dei ragazzi non si possono non sottolineare 4 aspetti tecnico-teorici che risultano evidenti: il movimento verso l’alto; la dimensione del piacere; gli atti motori semplici; prendere la palla. Il movimento verso l’alto è una “metafora corporea” per uscire dalla condizione chiusa in cui vive il ragazzo disabile: una forma di crescita in cui diventare grandi, acquisire autonomia, relazionarsi con gli altri. Nello sport della pallacanestro questo movimento è attuato per arrivare allo scopo finale, quello del canestro. Per questo basket adattato diventa un’opportunità straordinaria per favorire l’esperienza e la memoria corporea che consentono di pensare con il corpo alla crescita. Lo slancio verso il canestro viene considerato da questi ragazzi in forma di immagine senza parole: “il canestro ti aiuta a diventare grande”. La dimensione del piacere diventa molto intensa nel gioco del basket: il ragazzo risveglia una forza vitale che fornisce l’energia per superare la fatica che devono affrontare per muoversi, comunicare 56 ed interagire con gli altri. Tramite questa pratica sportiva, il ragazzo si relaziona con gli altri attraverso il semplice dare e ricevere la sfera, che diventa sinonimo di piacere. Dare - prendere, percorsi avanti - indietro, movimenti verso l’alto - il basso, dentro - fuori, il vicino - lontano: questi sono tutti atti motori semplici che sono simultaneamente anche cognitivi e relazionali. Il “prendere la palla” è un gesto semplice ma comporta un mix di processi al suo interno: gli occhi, così come il capo, sono orientati in direzione della palla in modo da identificare l’oggetto; il muovere le mani in direzione della palla implica una localizzazione del corpo rispetto all’oggetto e allo spazio; toccare la palla consegue la sensibilità alla cute e aziona l’articolazione dei muscoli. A livello neurologico, aiuta a realizzare compiti cognitivi deputati all’individualizzazione di oggetti e all’attuazione di movimenti solitamente richiesti anche nella normale vita quotidiana. 57 Capitolo IV “La mia esperienza all’Oratorio San Mauro” Fig. 7 La squadra dello “Special Team Annabella ‘87” al completo. 4.1 58 “Direttamente sul campo di gioco” Martedì, ore 14.00: è il fatidico giorno: “il giorno di allenamento”. Mi presento all’Oratorio San Mauro, sede del progetto dove incontro subito uno dei responsabili e fondatori del Progetto: Enrico “Chicco” Falerni. Da subito si dimostra molto disponibile e, senza troppi giri di parole, inizia a parlarmi del Progetto che si svolge presso il centro descrivendomi le attività proposte, il metodo di allenamento, l’approccio degli operatori verso i ragazzi. Intendo spiegargli che il mio elaborato di tesi si riferisce principalmente al “Metodo Calamai” (come descritto precedentemente) e sono molto interessato al Progetto dell’Oratorio. Ascoltando le mie parole, Enrico intende sottolinearmi che il Progetto portato avanti all’Oratorio San Mauro differisce in un punto da tal metodo e lo si nota chiaramente osservando gli allenamenti nella palestra. Il metodo prevede l’inserimento dei normodotati nella squadra dei diversabili: questo non avviene all’Oratorio, nel senso che la squadra non è mista bensì è interamente formata dai ragazzi che sono supportati “esternamente” dagli operatori ed allenatori che collaborano per la buona riuscita degli allenamenti. Gli operatori che collaborano al Progetto sono tutti volontari che mettono a disposizione tutta la loro competenza, dedizione, buona volontà oltre al loro tempo libero senza nessuna tipologia di ricompensa economica: al contrario vi è una sorta di “ricompensa umana”, una gratificazione molto più alta rispetto al lato di natura prettamente economico. Difatti, nella palestra, vi sono le ragazze dell’Istituto Magistrale “A.Cairoli” di Pavia (indirizzo socio-psico-pedagogico) coinvolte nel Progetto e supportate dalla Prof.ssa Maria Stella Lana. Queste ragazze aiutano e sono parte integrante dell’area di Progetto: ad ogni ragazza viene affidato un ragazzo da seguire, a volte anche 2 ragazze per diversabile. Il rapporto operatore-ragazzo, quindi, è 1:1 (a volte 2:1). Questo avviene perché ogni ragazzo è “un caso a sé”, da seguire individualmente, da “coccolare”, da stimolare per permettere il divertimento del ragazzo oltre che il miglioramento della sua condizione. L’unica “fatica” avviene nel tenere a bada i ragazzi un po’ più grandi che, oltre ad avere un po’ più di forza fisica vivono anche il periodo adolescenziale come qualsiasi altro ragazzo: hanno voglia di “disubbidire” ai più grandi e vivono il “periodo dell’ormone libero”, quella della prima scoperta sessuale. Per questo motivo l’osservazione di questi ragazzi avviene da parte di 2 persone o degli operatori un po’ più esperti e più grandi (fisicamente parlando). 59 Mentre ascolto le illustranti parole di Enrico, noto con piacere un continuo ingresso di persone nella palestra: sono i ragazzi dello “Special Team Annabella ’87”, sprizzanti di gioia e scalpitanti per iniziare a fare il loro consueto allenamento settimanale. Continuo a vedere con i miei occhi l’ingresso di ragazzi, accompagnati dai genitori o parenti. Uno dei primi che vedo entrare è un bambino di 9 anni (affetto da sindrome di Down, come mi racconta Chicco) che cerca subito un pallone per iniziare a palleggiare. Chicco mi conferma con le parole quello che i miei occhi vedono chiaramente: “…vedi, non vedono l’ora di iniziare a giocare!”. Ed è proprio così! Le sue parole si soffermano subito su un aspetto importante che intende evidenziarmi: la famiglia. Sono le fondamenta per ogni persona e per questi ragazzi lo sono ancor di più. Parenti, genitori, fratelli o sorelle: sono tutte quelle persone che si fanno chilometri su chilometri per portare i ragazzi all’Oratorio, che prendono permessi da lavoro per il proprio figlio, che spendono anche momenti liberi per poter vedere il proprio figlio o fratello gioire, divertirsi ed aprirsi verso le altre persone. Sono quasi le 14:30 (ora di inizio delle attività motorie) ed il numero dei ragazzi continua ad incrementarsi arrivando a toccare all’incirca una trentina: da quando è partita l’iniziativa questo numero continua a crescere, difatti Chicco mi dice che il numero dei ragazzi che fanno parte di questa squadra è arrivato a toccare addirittura quota 43 quest’anno. I presenti in palestra sono tutti bambini e ragazzi perché gli allenamenti sono divisi in 2 parti: dalle ore 14:30 alle 15:45 spazio ai bambini ed ai ragazzi, successivamente fino alle ore 17:00 vi sono gli adulti. Nella prima “ora e un quarto di allenamento” si cerca di “far aprire” i ragazzi e farli relazionare col mondo esterno, di farli uscire dalla loro condizione un po’ chiusa, di farli collaborare e comunicare con i compagni con l’aiuto degli operatori attraverso il divertimento e il piacere del gioco. La difficoltà sta nel riuscire a tenere l’attenzione dei ragazzi che spesso tendono a distrarsi, non per noia ma perché comunque essendo bambini e ragazzi tendono a voler uscire dagli schemi dettati dagli allenatori. Noto con piacere che tutto quello che mi dice lo riscontro con i miei occhi nella pratica, segno di un’ottima organizzazione ed un lavoro ben programmato e ben attuato, aspetto che non spesso si verifica. La seconda “ora e un quarto di allenamento” è quella dedicata agli adulti, ma spesso accade che si fermino anche dei ragazzi dell’ora precedente. Sono, ovviamente, i ragazzi più grandi di età che riescono, attraverso gli allenamenti del basket, ad estraniarsi dalla realtà chiusa in cui spesso purtroppo vivono e a trarre divertimento e felicità durante gli allenamenti. Nella secondo parte l’allenamento diventa più tecnico: si cerca di insegnare la tecnica di base, i gesti motori del basket, dai più semplici ai più difficili in base alle caratteristiche degli individui. 60 Quello che balza subito all’occhio è proprio un allenamento sportivo dove le attività proposte sono rapportate alle persone presenti e alle loro capacità. Tutto quello che viene proposto dagli operatori e soprattutto mostrato viene successivamente eseguito dai ragazzi con il massimo impegno ed interesse. “Quello che viene mostrato fisicamente ai ragazzi!” è un’affermazione che intendo sottolineare perché per la buona riuscita dell’esercizio occorre saperlo dimostrare in primis, farlo vedere muovendosi e proponendolo nella sua completezza: tutto ciò dev’essere fatto dall’istruttore, dall’operatore o dall’allenatore. Non bisogna soffermarsi al semplice “fai questo…fai quello!” detto semplicemente in modo verbale al ragazzo, ma l’aspetto del ripetere il gesto e l’esercizio permette all’allievo di poter emulare il proprio allenatore e capire come va fatto il compito sportivo. Fig. 8 Un’esercitazione di tiro al canestro durante l’allenamento presso il centro sportivo dell’Oratorio San Mauro (Pavia) 4.2 61 “L’approccio degli operatori e gli allenamenti dei ragazzi” Fondamentale è l’apporto e il lavoro che viene fatto da parte degli allenatori, degli operatori, di tutte quelle persone che collaborano con i ragazzi durante gli allenamenti. “Da quando è iniziato il Progetto fin ad ora, l’approccio degli operatori è cambiato e su molti aspetti sicuramente migliorato. Le prime volte si era un po’ più “impacciati” e c’era un po’ di timore per come trattare questi ragazzi”: questo è il succo del discorso sull’approccio con i ragazzi da parte di Chicco Falerni. Non bisogna aver paura di sperimentare le attività con i ragazzi perché loro capiscono tutto quello che gli viene proposto e dimostrato fisicamente: tutti hanno delle capacità, bisogna solamente riuscire a tirarle fuori anche perché, come già ben descritto precedentemente, la difficoltà maggiore per questi ragazzi è l’apertura verso gli altri e verso il mondo esterno. Se un allenatore non sperimenta mai niente di nuovo, non si può mai vedere un risultato migliore: bisogna provare con i ragazzi cercando di non proporre atti motori, gesti ed esercitazioni che vanno oltre le possibilità del bambino, del ragazzo o dell’adulto. Tutto quanto proposto dev’essere correlato alle capacità dei ragazzi; se essi rispondono bene alle nuove esercitazioni si può continuare su quella linea altrimenti senza nessun tipo di problema di fa un passo indietro. “PAZIENZA” è una parola d’importanza rilevante che non può mancare nell’elenco delle parole chiave dell’attività sportiva con questa tipologia di ragazzi e che si sposa perfettamente anche per i giovani dell’Oratorio San Mauro. Falerni mi sottolinea quanta pazienza bisogna avere con questi ragazzi, quanta tolleranza e calma bisogna avere con loro: “Ti spazientisci prima tu di loro, ma la gratificazione finale che hai nel vedere i risultati ottenuti dai ragazzi non ha prezzo!”. Già, perché i risultati ottenuti spesso arrivano dopo molto tempo e non con poche difficoltà: ma senza una buona pazienza ed una buona dedizione e sopportazione non è possibile il miglioramento di ogni singolo ragazzo sia a livello sportivo che a livello sociale e relazionale. Un’altra parola chiave per quanto riguarda gli allenamenti è PROGRESSIVITA’: ovviamente si va dall’esercizio più semplice come il passare la palla seduti tutti in cerchio (facendola rotolare sul pavimento) all’esercizio più complesso come il tiro al canestro dopo una serie di slalom e controllo palla fra i conetti. Non bisogna “partire subito in quarta” con i ragazzi, ma fare in modo che tutti riescano ad imparare a fare gli esercizi più semplici per poi progredire con le difficoltà. All’Oratorio San Mauro non ci si interessa delle patologie dei ragazzi presenti al centro, non interessa di che patologia soffre il ragazzo. Sia ben chiaro che questo non vuol dire che non ci si interessa di come sta il bambino o della sua salute, ma quello che voglio far capire è che non si fa 62 una divisione fra bambini autistici e psicotici o fra autistici e Down perché non è d’interesse degli operatori e/o allenatori fare “discriminazioni” di una malattia rispetto ad un’altra o divisioni d’importanza fra patologie mediche. Quello che interessa è il miglioramento del ragazzo, l’apertura verso il mondo esterno, la comunicazione con gli altri attraverso l’accarezzare, il palleggiare, il passare ad un compagno, il tirare la palla: tutto questo attraverso il divertimento proposto dal gioco del basket. Di seguito sono proposte alcune delle esercitazioni della “prima ora e un quarto di lavoro motorio” (quella parte dedicata ai ragazzi e bambini) con susseguente spiegazione dell’attività proposta, ovviamente sempre seguendo la metodologia di allenamento riferita alla progressività precedentemente descritta. 1°esercizio: tutti seduti in cerchio, passaggio della palla seguendo un ordine ed un senso (prima orario, poi anti-orario, poi diretto al compagno scelto, ecc…). Quest’esercitazione propone il passaggio della palla al compagno in diverse modalità con lo scopo di creare un’apertura del canale della comunicazione verso l’altro, in modo da “colloquiare” con il mondo esterno. Anche la modalità del passaggio è importante: la presa della palla va fatta con i palmi delle mani aperti, così facendo si cerca di far aprire i “pugni chiusi” di questi bambini/ragazzi che stanno a significare la condizione di chiusura verso il nuovo e verso l’altro. 2°esercizio: il cerchio, formato dai ragazzi, rimane il punto fisso da cui partire con la seconda esercitazione: permette il contatto (indiretto, ma che diventa in successione diretto tramite il passaggio diretto al compagno di gioco) con il compagno, con il gruppo. All’interno del cerchio, il ragazzo che riceve la palla dal compagno, si alza in piedi e comincia a palleggiare circoscrivendo esternamente il cerchio dei compagni seduti fino al ritorno alla sua posizione di partenza con conseguente passaggio ad un altro compagno che ripeterà successivamente lo stesso gesto motorio. In questa prova motoria si arriva ad un livello successivo di “apertura verso l’altro” perché il ragazzo sceglie il compagno con cui dialogare (tramite il passaggio diretto al collega di gioco) e di seguito inizia l’atto motorio del palleggiare, gesto che consente la scoperta dello spazio, del “nuovo” tramite il controllo della palla nel palleggio (ovviamente una scoperta guidata perché il ragazzo è costantemente seguito ed indirizzato da un operatore o allenatore). 3°esercizio: tralasciando le altre esercitazioni che riprendono il palleggio come scoperta dello spazio circostante e dell’ambiente esterno, vorrei descrivere un compito motorio che riguarda il gesto più importante che racchiude tutti i temi fin qui descritti: il tiro al canestro, 63 ovvero “alzare lo sguardo verso l’alto”. Vi sono molteplici esercitazioni che propongono questa tipologia di attività che seguono il metodo della progressione delle difficoltà. Il semplice mettersi in fila uno dietro l’altro di fronte al canestro spiega molto bene qual è l’obbiettivo di tale prova motoria. Il semplice “andare a tirare al canestro” stimola la verticalità, in modo da rendere il ragazzo più sicuro e stabile nelle sue azioni non solo motorie ma anche nella vita quotidiana. Provare e riuscire a compiere questa azione avvalora tutte le possibilità che possiede un ragazzo, ma che rimangono spesso latenti e nascoste. Chi riesce ad aprirsi, al tendere verso l’alto tramite questo “semplice gesto” acquista sicurezza e competenze più ampie: tutto ciò che viene compiuto nell’atto fisico viene rispecchiato nell’ambito psicologico. Lo slancio verso l’alto rappresenta una modalità di apertura verso il mondo mai scoperta prima ad ora, una nuova possibilità, una specie di conquista che provoca timore e paura nel ragazzo ma che in molti casi rappresenta una speranza futura. Vedere la felicità di un bambino nel fare canestro è un qualcosa che ti fa sorridere, che ti colpisce in positivo perché il tirare a canestro racchiude molto più di un semplice punto sportivo. In questi allenamenti ho visto con i miei occhi quanto entusiasmo e felicità generi questo semplice gesto che ha un significato più intenso e nascosto: “…centrare un canestro significa avere delle capacità, […] entrare in quella vita che spaventa e allora meglio la fuga nell’angolo isolato […] Questo comportamento per tanto tempo mi ha sconcertato ed incuriosito, poi ho capito, perché dopo la fuga nel loro mondo quei ragazzi sono sempre tornati […] E ogni volta il canestro centrato li ha spaventati un po’ di meno…” è quello che dice Marco Calamai. Nella “seconda ora e un quarto di allenamento” (quella parte dedicata agli adulti) le attività ricalcano a grandi linee lo stesso percorso perché l’obbiettivo finale è lo stesso, ma si possono inserire esercitazioni più tecniche che hanno lo scopo di migliorare le capacità fisiche ed, appunto, tecniche dell’individuo. Si cerca di insegnare e migliorare tutti quei gesti che fanno parte del bagaglio tecnico che possiede un giocatore di basket quali ad esempio il palleggio con una mano, la tecnica di tiro, le modalità di passaggio, ecc… La progressività delle difficoltà negli allenamenti è sempre rispettata, si va sempre dall’esercitazione più semplice all’esercitazione più complessa valutando le risposte motorie dei ragazzi. A concludere le 2 parti di allenamento (quella della prima parte dedicata a bambini/ragazzi e quella riferita agli adulti) vi è un momento che coinvolge tutti: dopo i 3 fischi che sanciscono la fine dell’allenamento ragazzi, bambini, operatori, allenatori si racchiudono nella metà campo 64 per stringersi tutti attorno allo stesso cerchio. In quel momento, tutte le persone tendono le mani verso il centro del cerchio e parte un grido festoso che racchiude tutta la contentezza e gioia dei ragazzi, ma anche degli allenatori ed operatori che capiscono quanto sia importante il loro contributo per il superamento delle difficoltà di questi giovani. Fig. 9 Il momento finale dell’allenamento: dopo i 3 fischi che sanciscono la fine dell’allenamento, si forma in mezzo al campo il cerchio che unisce ragazzi, operatori ed allenatori con l’urlo di gioia e felicità. Conclusioni 65 Con questo lavoro ho voluto concentrare l’attenzione delle persone sul fenomeno della disabilità, in questo caso mentale, legata al mondo sportivo inteso come il mezzo per: il miglioramento delle capacità dell’individuo diversabile sia dal punto di vista psicologico (fattore rilevante in questo caso specifico) sia dal punto di vista fisico (dovuto allo sport della pallacanestro); l’acquisizione di autonomia, sicurezza: la crescita del ragazzo attraverso, appunto, il piacere del gioco; il miglioramento della vita sociale e di tutte le forme di relazione verso l’altro e verso il “mondo esterno” attraverso tutte le metafore sportive che ci consente il gioco della pallacanestro: l’esempio specifico del passaggio che sta a significare, come già precedentemente descritto, l’apertura del canale della comunicazione verso l’altro o il tiro al canestro che rappresenta l’alzare lo sguardo verso l’alto, condizione non trascurabile per chi è abituato a stare in una condizione sempre chiusa; l’integrazione “possibile” delle persone attraverso il gioco del basket; il divertimento dei ragazzi: parola chiave per rendere possibile la buona riuscita dell’attività, il coinvolgimento dei ragazzi e il raggiungimento degli obiettivi (precedentemente elencati). Le chiavi di lettura per il mio elaborato sono molteplici: la prima riguarda sicuramente la parte descrittiva che ci porta all’introduzione del difficile attinente al tema della disabilità, prima a carattere generale e successivamente nell’argomento particolare riguardante quella mentale parlando dei casi specifici di alcune patologie; la seconda informativa che si concentra sul “Metodo Calamai”, con la descrizione del metodo che è il punto di partenza per la formazione del Progetto “Special Team Annabella ‘87”, le finalità ed obbiettivi dello speciale “metodo di lavoro”; la terza che si concentra sul Progetto vero e proprio che si svolge all’Oratorio San Mauro a Pavia, dalla fondazione della “squadra speciale” fino ai giorni nostri e dando spazio anche alle idee per il futuro: in questa parte mi sono dedicato allo spiegare tutte le attività proposte ai ragazzi, al perché della scelta del gioco del basket, alle scoperte guidate che questo sport ci consente, in modo dolce e leggero e che noi, molto spesso, non consideriamo neanche; la quarta ed ultima chiave è di tipo “emozionale”, in quanto è la parte dedicata alle mie testimonianze dirette alla palestra dell’Oratorio San Mauro: in quest’ultimo capitolo viene descritto il mio contatto diretto con questa realtà sia con questi ragazzi fantastici che con gli operatori, allenatori, responsabili e tutte le persone che fanno parte di questo Progetto, la mia esperienza 66 vissuta in prima persona al centro e il racconto di quello che i miei occhi hanno visto durante gli allenamenti all’Oratorio. La mia conclusione di questo elaborato vuole sottolineare che tutte queste parole scritte su una settantina di pagine hanno poca valenza rispetto al vivere in prima persona un’esperienza del genere: il mio consiglio, se posso permettermi di darne, è che l’assistere ed essere coinvolti in primis a Progetti e realtà come questi valgono la pena di essere vissuti. Infine, invito tutte le persone ad andare ad assistere a realtà dove sono coinvolti questi ragazzi speciali, come lo “Special Team Annabella ‘87”, per capire l’unicità e la bellezza di queste esperienze. Bibliografia 67 Calamai Marco, “Uno sguardo verso l’alto” – Un progetto di pallacanestro sperimentale con ragazzi disabili. Edizione Franco Angeli, Milano, 2008. A cura di Maria Stella Lana, “Emozioni sotto canestro”, Edizione Grafiche Univers, Pavia. 68 Sitografia www.wikipedia.it www.filodallatorre.it www.sanmauropavia.it www.epicentro.it www.who.int (sito OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità) www.alzalosguardo.blogspot.com 69 Ringraziamenti Quest’ultima parte è dedicata ai miei più sentiti e doverosi ringraziamenti verso le persone che mi hanno aiutato, sostenuto e incoraggiato non solo alla stesura di questa elaborato di tesi, ma in tutto il mio percorso universitario fino al raggiungimento di questa laurea triennale: Ai miei genitori, mamma Antonella e papà Roberto che mi hanno permesso di frequentare questa università; A mio fratello Alberto e a mia nonna Wilma; Alla mia fidanzata Federica, che oltre ad aver dato anche un grande contributo nella stesura di questa tesi, mi sopporta ogni giorno; A tutti i miei compagni di università, in particolar modo Cristian e Federico, i miei colleghi più vicini nonché amici; Al mio relatore Rodolfo Carrera, che mi ha sostenuto ed incoraggiato nell’elaborazione della mia tesi oltre ad avermi permesso di conoscere la splendida realtà dello “Special Team Annabella ‘87”; A tutti i docenti della facoltà di Scienze Motorie (della sede di Voghera, dove ho frequentato questi 3 anni fantastici); A tutte le persone dell’Oratorio San Mauro, i componenti dello “Special Team Annabella ‘87”, i responsabili, gli operatori, i Professori, i volontari ed allenatori, in particolar modo ad Enrico “Chicco” Falerni; A tutti i miei amici, che senza un contributo particolare mi hanno sostenuto ed aiutato in qualsiasi momento. 70