Storia romana I 2014-2015 STORIA ROMANA I prof. Elio Lo Cascio

Storia romana I 2014-2015
STORIA ROMANA I
prof. Elio Lo Cascio
2014-2015
Introduzione alla storia di Roma
Programma: Profilo di storia politico-istituzionale, economico-sociale e culturale di Roma e del
mondo romano dalle origini al tardoantico.
(1) Varrone, De lingua Latina, V 55
Ager Romanus primum divisus in partis tris, a quo tribus appellata Titiensium, Ramnium, Lucerum.
Nominatae, ut ait Ennius, Titienses ab Tatio, Ramnenses ab Romulo, Luceres, ut Iunius, ab
Lucumone; sed omnia haec vocabula Tusca, ut Volnius, qui tragoedias Tuscas scripsit, dicebat.
L’agro romano fu inizialmente diviso in tre parti, che perciò furono chiamate tribù, dei Titienses, dei
Ramnes, dei Luceres. Come dice Ennio, la tribù dei Titienses prese il nome da Tazio, quella dei
Ramnenses da Romolo, mentre Giunio dice che il nome dei Luceres deriva da Lucumone; questi
sono tutti nomi etruschi, come diceva Volnio, che scrisse tragedie in lingua etrusca.
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T16)
(2) Aulo Gellio, Noctes Atticae, XV 27, 4-5
In eodem Laeli Felicis libro haec scripta sunt: “Is qui non universum populum, sed partem aliquam
adesse iubet, non ‘comitia’, sed ‘concilium’ edicere debet. Tribuni autem neque advocant patricios
neque ad eos referre ulla de re possunt. Ita ne ‘leges’ quidem proprie, sed ‘plebisscita’ appellantur,
quae tribunis plebis ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricii non tenebantur,
donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset, omnes Quirites
tenerentur”. Item in eodem libro hoc scriptum est: “Cum ex generibus hominum suffragium feratur,
‘curiata’ comitia esse; cum ex censu et aetate, ‘centuriata’; cum ex regionibus et locis, ‘tributa’;
centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari
oporteat, intra urbem imperari ius non sit. Propterea centuriata in campo Martio haberi
exercitumque. imperari praesidii causa solitum, quoniam populus esset in suffragiis ferendis
occupatus”.
Nello stesso libro di Lelio Felice è scritto: “Il magistrato che ordina la convocazione non di tutto il
popolo, ma solo di una sua parte, deve convocare un ‘concilium’ e non ‘comitia’. I tribuni dunque
non convocano i patrizi, né possono interpellarli su alcuna questione. Parimenti non si devono
propriamente definire ‘leges’ ma ‘plebisscita’ le deliberazioni approvate su proposta dei tribuni, alle
quali deliberazioni (rogationes) inizialmente i patrizi non erano soggetti, sin quando il dittatore Q.
Ortensio non fece approvare quella legge in base alla quale tutti i Quiriti dovevano osservare ciò
che la plebe aveva statuito”. Nello stesso libro è pure scritto: “Quando le unità di voto sono formate
in base a rapporti di parentela (ex generibus hominum), i comizi si dicono ‘curiati’; quando sono
formate in base al censo e all’età (ex censu et aetate), ‘centuriati’, quando sono formate in base alle
divisioni del territorio (ex regionibus et locis), ‘tributi’; i comizi centuriati non possono tenersi
all’interno del pomerio, perché l’esercito deve essere radunato fuori città, ed è proibito radunarlo in
città. Perciò i comizi centuriati si tengono nel Campo Marzio”.
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(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T66)
(3) Polibio, Historiae, III 22; 26.1
Il primo patto tra Romani e Cartaginesi fu stretto al tempo di Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, i
primi a essere eletti consoli dopo la cacciata dei re; da questi fu consacrato il Tempio di Zeus
Capitolino. Questi fatti avvennero ventotto anni prima del passaggio di Serse in Grecia. Il patto
l’abbiamo trascritto successivamente, cercando di interpretarlo nel modo più preciso possibile; tale,
infatti, è la differenza tra la lingua attuale dei Romani e quella antica che anche i più esperti ne
hanno potuto capire a mala pena, con tutta la loro competenza, solo alcuni pezzi. I patti recitano più
o meno così: «A queste condizioni c’è pace tra i Romani con i loro alleati e i Cartaginesi con i loro:
né i Romani né i loro alleati navighino al di là del Capo Bello [Capo Farina, presso Cartagine], a
meno che non siano costretti da una tempesta o da un attacco nemico. [Seguono clausole,
soprattutto commerciali, valide in caso di presenza di Romani in Libia, Sardegna, Sicilia]… da
parte loro i Cartaginesi non compiano ingiustizie contro il popolo di Ardea, di Anzio, di Laurento,
di Circeo, di Terracina, né contro nessun’altra città dei Latini, che sia sottomessa ai Romani. Si
astengano da quelle città che non siano sottomesse ai Romani, qualora le conquistino, le
restituiscano integre ai Romani. Non costruiscano alcuna fortificazione in territorio latino. Se
giungono nella regione da nemici, non potranno trascorrervi la notte» [… ] Questo è il testo dei
trattati, che ancora si conserva su tavole di bronzo nell’erario degli edili presso il tempio di Giove
Capitolino.
(cfr. Antologia delle fonti, I.1 T11; I.2 T25; I.3 T6)
(4) Lapis Satricanus
[- - -]iei steterai Popliosio Valesiosio / suodales Mamartei
I compagni (suodales) di Publio Valerio donarono a Marte
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T28)
(5) ILS, 212 (Tavola di Lione)
Quondam reges hanc tenuere urbem, nec tamen domesticis successoribus eam tradere contigit [...]
Huic quoque et filio nepotive eius (nam et hoc inter auctores discrepat) insertus Servius Tullius, si
nostros sequimur, captiva natus Ocresia; Si Tuscos, Caeli quondam Vivennae sodalis fidelissimus
omnisque eius casus comes, postquam varia fortuna exactus cum omnibus reliquis Caeliani
exercitus Etruria excessit, montem Caelium occupavit et a duce suo Caelio ita appellitatus,
mutatoque nomine (nam Tusce Mastarna ei nomen erat) ita appellatus est, ut dixi, et regnum summa
cum rei p. utilitate optinuit.
Una volta tennero questa città i re, né tuttavia toccò loro di trasmetterla a successori domestici…Tra
questo [e cioè a Tarquinio Prisco] e il figlio o nipote suo (infatti anche su questo ci sono opinioni
diverse fra gli autori) si collocò Servio Tullio, se seguiamo la nostra tradizione, nato da una
prigioniera Ocresia; se seguiamo gli Etruschi, una volta sodale fedelissimo di Celio Vibenna e
compagno di ogni sua peripezia, dopo che per mutevole fortuna cacciato con tutti i resti
dell’esercito di Celio se ne andò via dall’Etruria, occupò il Monte Celio e lo denominò dal suo duce
Celio, e cambiato il suo nome (infatti in etrusco il suo nome era Mastarna) fu chiamato nel modo
che ho detto e ottenne il regno con somma utilità per la res publica
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T27)
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(6) Livio, Ab Urbe condita, I 42, 4 – 43, 9
Adgrediturque inde ad pacis longe maximum opus, ut quemadmodum Numa divini auctor iuris
fuisset, ita Seruium conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque quibus inter gradus
dignitatis fortunaeque aliquid interlucet posteri fama ferrent. Censum enim instituit, rem
saluberrimam tanto futuro imperio, ex quo belli pacisque munia non viritim, ut ante, sed pro habitu
pecuniarum fierent; tum classes centuriasque et hunc ordinem ex censu discripsit, vel paci decorum
vel bello. Ex iis qui centum milium aeris aut maiorem censum haberent octoginta confecit centurias,
quadragenas seniorum ac iuniorum; prima classis omnes appellati; seniores ad urbis custodiam ut
praesto essent, iuvenes ut foris bella gererent; arma his imperata galea, clipeum, ocreae, lorica,
omnia ex aere; haec ut tegumenta corporis essent: tela in hostem hastaque et gladius. Additae huic
classi duae fabrum centuriae quae sine armis stipendia facerent; datum munus ut machinas in bello
ferrent. Secunda classis intra centum usque ad quinque et septuaginta milium censum instituta, et
ex iis, senioribus iunioribusque, viginti conscriptae centuriae; arma imperata scutum pro clipeo et
praeter loricam omnia eadem. Tertiae classis in quinquaginta milium censum esse voluit; totidem
centuriae et hae eodemque discrimine aetatium factae; nec de armis quicquam mutatum, ocreae
tantum ademptae. In quarta classe census quinque et viginti milium, totidem centuriae factae, arma
mutata: nihil praeter hastam et verutum datum. Quinta classis aucta; centuriae triginta factae;
fundas lapidesque missiles hi secum gerebant; in his accensi cornicines tubicinesque in duas
centurias distributi; undecim milibus haec classis censebatur. Hoc minor census reliquam
multitudinem habuit; inde una centuria facta est, immunis militia. Ita pedestri exercitu ornato
distributoque, equitum ex primoribus civitatis duodecim scripsit centurias; sex item alias centurias,
tribus ab Romulo institutis, sub iisdem quibus inauguratae erant nominibus fecit.
Servio si accinse quindi ad un opera di pace di ineguagliabile portata, al punto che, come Numa era
stato autore del diritto divino, allo stesso modo Servio è ricordato dai posteri come il fondatore di
ogni distinzione in ordini all’interno del corpo civico, grazie alle quali si percepisce una gradazione
di dignità e di condizione. Infatti istituì il censo, innovazione quanto mai salutare per un così grande
futuro impero, in base al quale censo i doveri civili e militari non furono più uguali per tutti, ma
dipesero dalla condizione patrimoniale; allora stabilì in base al censo classi e centurie e
quest’ordinamento, conveniente sia alla pace che alla guerra. Con gli individui con un censo dai
centomila assi in su formò ottanta centurie, quaranta di giovani e quaranta di anziani. Tutti furono
chiamati prima classe. Gli anziani dovevano essere pronti alla difesa della città, i giovani dovevano
sostenere le guerre esterne. Dovevano armarsi di elmo, scudo rotondo, schinieri, corazza, tutte armi
in bronzo a difesa del corpo. Come armi da offesa: giavellotto, lancia lunga, spada corta. A questa
classe furono aggiunte due centurie di fabbri che prestavano servizio militare disarmati: il loro
compito consisteva nel trasportare le macchine belliche durante le operazioni di guerra. La seconda
classe comprendeva gli individui con un censo tra i centomila e i settantacinquemila assi, e con
questi furono arruolate venti centurie tra giovani e anziani; dovevano equipaggiarsi con lo scudo
rettangolare al posto di quello rotondo. Per il resto l’armamento era lo stesso, tranne la corazza. La
terza classe aveva un censo minimo di cinquantamila assi, era composta dello stesso numero di
centurie, e con gli stessi criteri d’età, della seconda classe. Quanto all’armamento, furono solo
sottratti gli schinieri. Nella quarta classe il censo minimo era di venticinquemila assi. Fu creato lo
stesso numero di centurie della seconda e terza classe, ma cambiava l’armamento: solo lancia lunga
e giavellotto. La quinta classe fu aumentata: furono create trenta centurie equipaggiate con fionde e
pietre da lancio. In questa classe erano iscritti gli accensi e i suonatori di corno e di tuba, distribuiti
in tre centurie; il censo minimo di questa classe era di undicimila assi. Il censo minore di questo
comprendeva tutta la restante moltitudine, con la quale fu creata una sola centuria, esente dal
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servizio militare. Equipaggiata e distribuita così la fanteria, formò dodici centurie di cavalieri
arruolate tra i maggiorenti della città. Allo stesso modo creò sei altre centurie (di cavalleria), tre
delle quali erano state istituite da Romolo, e ad esse attribuì gli stessi nomi con i quali erano state
consacrate dagli àuguri.
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T17)
(7) Livio, Ab Urbe condita, I 44, 1-2
Censu perfecto quem maturauerat metu legis de incensis latae cum uinculorum minis mortisque,
edixit ut omnes ciues Romani, equites peditesque, in suis quisque centuriis, in campo Martio prima
luce adessent. Ibi instructum exercitum omnem suouetaurilibus lustravit, idque conditum lustrum
appellatum, quia is censendo finis factus est. Milia octoginta eo lustro civium censa dicuntur; adicit
scriptorum antiquissimus Fabius Pictor, eorum qui arma ferre possent eum numerum fuisse.
Completato il censimento, che aveva portato a termine per il timore della legge sui non censiti
(incensi) che minacciava loro imprigionamento e morte, ordinò che tutti i cittadini romani, cavalieri
e fanti, ciascuno nella propria centuria, si presentassero alle prime luci dell’alba nel Campo Marzio.
Qui purificò (lustravit) col rito dei suovetaurilia l’esercito schierato; e ciò venne detto lustrum
conditum, poiché questo rappresentava la conclusione del censimento. Si dice che siano stati censiti
in occasione di quel ‘lustrum’ ottantamila cittadini; aggiunge il più antico degli scrittori Fabio
Pittore che questo era il numero di coloro che potevano portare le armi (eorum qui arma ferre
possent).
(8) Aulo Gellio, Noctes Atticae, VI 13
Quem ‘classicum’ dicat M. Cato, quem ‘infra classem’. ‘Classici’ dicebantur non omnes, qui in
quinque classibus erant, sed primae tantum classis homines qui centum et viginti quinque milia
aeris ampliusve censi erant. "Infra classem" autem appellabantur secundae classis ceterarumque
omnium classium, qui minore summa aeris, quod supra dixi, censebantur. Hoc eo strictim notavi,
quoniam in M. Catonis oratione, qua Voconiam legem suasit, quaeri solet, quid sit ‘classicus’, quid
‘infra classem’.
Qual è, secondo Catone, il significato di classici e infra classem: classici erano detti non tutti coloro
che erano divisi nelle cinque classi, ma soltanto quelli della prima classe, censiti per un patrimonio
del valore di centoventicinquemila assi o più. Erano detti infra classem quelli che appartenevano
alla seconda o alle altre classi, e che erano censiti per una somma inferiore a quella sopra detta. Ho
ricordato brevemente questo, perché nell’orazione di Marco Catone in favore della legge Voconia
[169 a.C.] si suole ricercare che cosa significhi “classicus”, che cosa “infra classem.”
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T18)
(9) Dodici Tavole
Tav. I 4 (= Aulo Gellio, Noctes Atticae, XVI 10, 5)
Adsiduo uindex adsiduus esto. Proletario ciui quis uolet uindex esto
L’adsiduus sia ‘garante’ per l’adsiduus; per il proletarius, chi vorrà sia garante
Tav. III 6 (= Aulo Gellio, Noctes Atticae, XX 1, 49-50)
Tertiis nundinis partis secanto. Si plus minusue secuerunt, se fraude esto
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Al terzo giorno di mercato (lo) facciano a pezzi. Se uno ha avuto più o meno, la cosa sia considerata
senza colpa (non fraudolenta).
(10) Varrone, de lingua Latina, VII 105
Liber qui suas operas in servitutem pro pecunia quam debebat nectebat, dum solveret, nexus
vocatur, ut ab aere obaeratus.
Il libero che dà le sue giornate di lavoro in schiavitù per la somma di cui è debitore finché non ha
finito di pagare, è definito nexus, come pure obaeratus, dall’aes di cui è debitore .
(11) Livio, Ab Urbe condita, IV 59, 10-11
Additum deinde omnium maxime tempestiuo principum in multitudinem munere, ut ante mentionem
ullam plebis tribunorumue decerneret senatus, ut stipendium miles de publico acciperet, cum ante
id tempus de suo quisque functus eo munere esset.
Si aggiunse quindi la concessione più opportuna tra quelle fatte dai maggiorenti della città alla
plebe, e cioè che prima ancora che lo chiedessero i tribuni della plebe, il senato abbia deciso che i
soldati percepissero una paga dallo stato, mentre prima di allora ciascuno aveva svolto il suo
servizio a proprie spese.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T15)
(12) Livio, Ab Urbe condita, IV 60, 5-6
His vocibus moverunt partem plebis; postremo, indicto iam tributo, edixerunt etiam tribuni auxilio
se futuros si quis in militare stipendium tributum non contulisset. Patres bene coeptam rem
perseueranter tueri; conferre ipsi primi; et quia nondum argentum signatum erat, aes graue
plaustris quidam ad aerarium conuehentes speciosam etiam conlationem faciebant.
Con queste parole i tribuni scossero una parte della plebe; dopo, quando ormai il tributo era stato
imposto, i tribuni dichiararono anche che avrebbero dato il loro sostegno a chi non avesse versato il
tributo per le truppe. I senatori difesero con forza l’opera ben intrapresa; essi stessi pagarono per
primi; e poiché allora non era ancora in uso la moneta d’argento, trasportando con i carri gli assi da
una libbra all’erario, rendevano la contribuzione ancora più appariscente.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T16)
(13) Livio, Ab Urbe condita, V 30, 8-9
Adeoque ea uictoria laeta patribus fuit, ut postero die referentibus consulibus senatus consultum
fieret ut agri Veientani septena iugera plebi diuiderentur, nec patribus familiae tantum, sed ut
omnium in domo liberorum capitum ratio haberetur, uellentque in eam spem liberos tollere.
Tale successo riuscì così gradito ai senatori che il giorno dopo, su proposta dei consoli, il Senato
approvò un decreto con il quale si assegnavano alla plebe, nell’agro veientano, lotti di sette iugeri e
non soltanto ai padri di famiglia ma in modo che si tenesse conto in ogni casa di tutti gli uomini
liberi e con questa aspettativa si fosse invogliati ad allevare figli.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T17)
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(14) Livio, Ab Urbe condita, VIII 14, 2 – 12 passim
Principes senatus relationem consulis de summa rerum laudare sed, cum aliorum causa alia esset,
ita expediri posse consilium dicere, [si] ut pro merito cuiusque statueretur, [si] de singulis
nominatim referrent populis. relatum igitur de singulis decretumque. Lanuuinis ciuitas data
sacraque sua reddita, cum eo ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuuinis municipibus
cum populo Romano esset. Aricini Nomentanique et Pedani eodem iure quo Lanuuini in ciuitatem
accepti. Tusculanis seruata ciuitas quam habebant crimenque rebellionis a publica fraude in
paucos auctores uersum. in Veliternos, ueteres ciues Romanos, quod totiens rebellassent, grauiter
saeuitum... et Antium noua colonia missa, cum eo ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi
coloni uellent; naues inde longae abactae interdictumque mari Antiati populo est et ciuitas data.
Tiburtes Praenestinique agro multati neque ob recens tantum rebellionis commune cum aliis Latinis
crimen sed quod taedio imperii Romani cum Gallis, gente efferata, arma quondam consociassent.
ceteris Latinis populis conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt. Campanis equitum
honoris causa, quia cum Latinis rebellare noluissent, Fundanisque et Formianis, quod per fines
eorum tuta pacataque semper fuisset uia, ciuitas sine suffragio data. Cumanos Suessulanosque
eiusdem iuris condicionisque cuius Capuam esse placuit.
Fu dunque fatta una relazione sui singoli popoli, con relative decisioni: agli abitanti di Lanuvio fu
data la cittadinanza e restituite le proprie cerimonie sacre, con la clausola che il tempio ed il bosco
sacro di Giunone Sospita fossero condivisi dal municipio di Lanuvio e dal popolo Romano. Gli
abitanti di Aricia, Nomento e Pedo ottennero la cittadinanza in base agli stessi diritti degli abitanti
di Lanuvio. Gli abitanti di Tuscolo mantennero la cittadinanza che avevano prima e l'accusa di
ribellione, da delitto collettivo, fu modificato a capo d'accusa per poche persone. Ci si accanì in
maniera particolare contro gli abitanti di Velletri, cittadini romani di vecchia data, che si erano
ribellati tante volte. […] Ad Anzio fu inviata una nuova colonia, con la condizione che a questo
popolo fosse concesso di farne parte, se lo volevano, come coloni; agli Anziati furono portate via le
navi lunghe: fu vietato loro di navigare e fu concessa la cittadinanza. Agli abitanti di Tibur e di
Preneste fu confiscato il territorio e non soltanto per la recente accusa di ribellione, condivisa
insieme agli altri popoli latini, ma perché, stanchi del potere romano, si erano una volta alleati con i
Galli, popolo barbaro. Agli altri popoli latini furono tolti i reciproci diritti di matrimonio,
commercio e riunione. Ai Campani, a titolo di onore per i loro cavalieri, in quanto non si erano
voluti ribellare coi Latini, ai Fondani e Formiani perché la via che passa nel loro territorio era
rimasta sempre sicura e tranquilla, fu concessa la cittadinanza senza diritto di voto. Fu deciso che
gli abitanti di Cuma e Suessula avessero la stessa condizione giuridica di quelli di Capua.
(cfr. Antologia delle fonti, I.3 T16).
(15) Scipionum elogia (CIL, I2 7)
Cornelius Lucius Scipio Barbatus, Cnaivod patre / prognatus, fortis vir sapiensque, quoius forma
virtutei parisuma / fuit, consol censor aidilis quei fuit apud vos, Taurasia Cisauna / Samnio cepit,
subigit omnem Loucanam opsidesque abdoucit.
Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato dal padre Gneo, uomo forte e saggio, la cui bellezza fu
pari alla virtù, fu console, censore ed edile presso di voi, prese Taurasia Cisauna, nel Sannio,
sottomise l’intera Lucania e prese ostaggi.
(16) Polibio, Historiae, VI 53-54
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Quando in Roma si celebra il funerale di un cittadino illustre (τις παρ' αὐτοῖς τῶν ἐπιφανῶν
ἀνδρῶν), questi è portato nel foro presso i Rostri con grande solennità, il più delle volte in piedi,
raramente disteso. Alla presenza di tutto il popolo, un suo figlio maggiorenne, se esiste e si rova in
città, altrimenti il suo parente più prossimo, sale sulla tribuna e parla del valore del morto e delle
imprese che ha compiuto in vita. Così tutto il popolo ricorda e quasi ha davanti agli occhi le sue
imprese. [...] In occasione dei sacrifici pubblici i Romani espongono le immagini degli antenati e le
ornano solennemente; quando muore qualche altro personaggio illustre della famiglia, le fanno
partecipare alle cerimonie funebri, indossate da persone simili al morto per statura e taglia. [...]
L’oratore incaricato dell’elogio funebre, dopo aver parlato del morto, ricorda le imprese e i successi
dei suoi antenati cominciando dal più antico: così la fama degli uomini valorosi viene
continuamente rinnovata e diventa immortale, e la gloria di chi ha ben meritato nei confronti della
patria viene diffusa a tutti e tramandata ai posteri [...]
(cfr. Antologia delle fonti, I.1 T15)
(17) Siculo Flacco, De condicionibus agrorum, 100, 7-13 Th.
Ut vero Romani omnium gentium potiti sunt, agros ex hoste captos in victorem populum partiti sunt.
Alios vero agros vendiderunt, ut Sabinorum ager qui dicitur quaestorius, eum limitibus actis
diviserunt, et denis [quibusdam] quibusque actibus laterculis quinquagena iugera incluserunt,
atque ita per quaestores populi Romani vendiderunt.
Quando i Romani ottennero il predominio su tutti i popoli, si spartirono le terre prese al nemico;
alcuni terreni li misero in vendita, come avvenne col territorio sabino cosiddetto ‘questorio’: lo
divisero tracciando al suolo i confini e delimitarono appezzamenti di cinquanta iugeri, ogni dieci
actus, e in questo modo furono venduti dai questori del popolo romano.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T22)
(18) Livio, Ab urbe condita, XXXI 13, 4-9
Senatus querentes eos non sustinuit: si in Punicum bellum pecunia data in Macedonicum quoque
bellum uti res publica uellet, aliis ex aliis orientibus bellis quid aliud quam publicatam pro
beneficio tamquam ob noxiam suam pecuniam fore? cum et priuati aequum postularent nec tamen
soluendo aere alieno res publica esset, quod medium inter aequum et utile erat decreuerunt, ut,
quoniam magna pars eorum agros uolgo uenales esse diceret et sibimet emptis opus esse, agri
publici qui intra quinquagesimum lapidem esset copia iis fieret: consules agrum aestimaturos et in
iugera asses uectigal testandi causa publicum agrum esse imposituros, ut si quis, cum soluere
posset populus, pecuniam habere quam agrum mallet, restitueret agrum populo. laeti eam
condicionem priuati accepere; trientabulumque is ager, quia pro tertia parte pecuniae datus erat,
appellatus.
Il senato non seppe resistere alle loro proteste: se lo stato voleva impiegare nella guerra macedonica
il denaro ottenuto per la guerra punica, poiché le guerre in Oriente si succedevano una dopo l’altra,
quale sarebbe stato l’esito se non la confisca dei loro beni come conseguenza di un atto generoso?
Dal momento che tali richieste erano legittime, ma tuttavia lo stato non aveva altro modo per
ripagare il prestito, si adottò una soluzione intermedia tra ciò che era giusto e cioè che era utile:
poiché affermavano che vi fosse molto terreno disponibile in vendita e il denaro serviva loro per
comperarlo, si decretò di dar loro terreno pubblico entro il raggio di 50 miglia da Roma. I consoli
avevano il compito di vagliare il terreno e imporre una tassa di concessione (vectigal) pari a un asse
per iugero, in modo da affermare che si trattava pur sempre di terreno pubblico. Quando poi
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avessero preferito riavere il denaro invece della terra, se lo stato fosse stato in condizione di pagare,
si sarebbe ripreso la terra. I creditori accettarono di buon grado questa soluzione e quel terreno
venne chiamato ‘trientabula’, perché era concesso in cambio della terza rata del prestito.
(19) Ovidio, Fasti, V 279-294
Cetera luxuriae nondum instrumenta vigebant; /Aut pecus aut latam dives habebat humum / (Hinc
etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est); / Sed iam de vetito quisque parabat opes. / Venerat in
morem populi depascere saltus, / Idque diu licuit, poenaque nulla fuit; / Vindice servabat nullo sua
publica volgus, / Iamque in privato pascere inertis erat. / Plebis ad aediles perducta licentia talis /
Publicios; animus defuit ante viris. / Rem populus recipit, multam subiere nocentes: / Vindicibus
laudi publica cura fuit. / Multa data est ex parte mihi, magnoque favore / Victores ludos instituere
novos; / Parte locant clivum, qui tunc erat ardua rupes, / Utile nunc iter est, Publiciumque vocant.
Gli altri modi di arricchimento non esistevano ancora; ricco era chi aveva greggi e vasti campi (da
qui i termini locuples e pecunia), ma già qualcuno si preparava ad arricchirsi illecitamente. Era sorta
la pratica di far pascolare il bestiame sulle terre del popolo: ciò fu a lungo possibile senza incorrere
in sanzione alcuna. Il popolo non aveva nessuno che difendesse i suoi diritti sui beni pubblici;
presto far pascolare sulle terre private divenne cosa da stupidi. Questo abuso fu sottoposto agli edili
della plebe, i Publicii: fino a quel momento era mancato il coraggio di farlo. Il popolo ritrova i suoi
beni e una multa è inflitta ai colpevoli. I difensori del popolo furono lodati per il loro impegno in
favore dei beni pubblici. Una parte dei proventi della multa fu data a me e i vincitori istituirono dei
nuovi giochi col favore di tutti. Una parte fu spesa per la sistemazione di una collina che allora era
una rupe scoscesa: oggi è una via percorribile, che si chiama ‘Publicia’.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T24)
(20) Livio, Ab urbe condita, XXI 63, 3-4
[Flaminius] inuisus etiam patribus ob nouam legem, quam Q. Claudius tribunus plebis aduersus
senatum atque uno patrum adiuuante C. Flaminio tulerat, ne quis senator cuiue senator pater
fuisset maritimam nauem, quae plus quam trecentarum amphorarum esset, haberet. id satis habitum
ad fructus ex agris uectandos; quaestus omnis patribus indecorus uisus.
[Flaminio] era odiato dai senatori anche per via di una nuova legge, proposta dal tribuno della plebe
contro il senato, ma con l’appoggio di Gaio Flaminio, unico tra i senatori. Tale legge vietava a un
senatore o aun figlio di un senatore di possedere una nave capace di portare più di trecento anfore.
Tale quantità era ritenuta sufficiente per il trasporto delle derrate dai propri campi, poiché ogni tipo
di attività commerciale era ritenuta indecorosa per un senatore.
(21) Livio, Ab urbe condita, V 34.
De transitu in Italiam Gallorum haec accepimus: Prisco Tarquinio Romae regnante, Celtarum quae
pars Galliae tertia est penes Bituriges summa imperii fuit; ii regem Celtico dabant. Ambigatus is
fuit, uirtute fortunaque cum sua, tum publica praepollens, quod in imperio eius Gallia adeo frugum
hominumque fertilis fuit ut abundans multitudo uix regi uideretur posse. hic magno natu ipse iam
exonerare praegrauante turba regnum cupiens, Bellouesum ac Segouesum sororis filios impigros
iuuenes missurum se esse in quas di dedissent auguriis sedes ostendit; quantum ipsi uellent
numerum hominum excirent ne qua gens arcere aduenientes posset. tum Segoueso sortibus dati
Hercynei saltus; Belloueso haud paulo laetiorem in Italiam uiam di dabant.is quod eius ex populis
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Storia romana I 2014-2015
abundabat, Bituriges, Aruernos, Senones, Haeduos, Ambarros, Carnutes, Aulercos exciuit.
profectus ingentibus peditum equitumque copiis [...]. Ipsi per Taurinos saltus <saltum>que Duriae
Alpes transcenderunt; fusisque acie Tuscis haud procul Ticino flumine, cum in quo consederant
agrum Insubrium appellari audissent cognominem Insubribus pago Haeduorum, ibi omen
sequentes loci condidere urbem; Mediolanium appellarunt.
Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di
Tarquinio Prisco a Roma, i Celti - che sono uno dei tre ceppi etnici della Gallia - si trovavano sotto
il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in carica era
Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto personale quanto dell'intero paese,
perché sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosità
da sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala pena. E siccome
Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell'eccesso di
presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua
sorella, a trovare quelle sedi che gli dèi, per mezzo degli augùrii, avrebbero loro indicato come
appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano necessari all'operazione,
in maniera tale che nessuna tribù potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte
assegnò allora a Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre a Belloveso gli dèi concedevano un
percorso ben più piacevole, e cioè la strada verso l'Italia. Prendendo con sé gli uomini che
risultavano in eccesso tra le tribù dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri,
dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e
cavalieri [...]. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini e valicarono le Alpi nella zona della
Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e
saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava "territorio degli Insubri" (nome identico a
quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale del
destino e fondarono in quel luogo una città che chiamarono Mediolano.
(22) Polibio, Historiae, VI 57, 5-9
Quando uno stato (πολιτεία), liberatosi da molti e gravi pericoli, raggiunge un potere grande e
incontrastato, con tutta evidenza, a causa del benessere diffuso, i suoi cittadini conducono una vita
più sontuosa e diventano più ambiziosi di quanto sarebbe opportuno. Procedendo in questo modo,
l’avidità di potere e la paura d restare ignorati segneranno l’inizio del declino; seguiranno
l’eccessivo splendore e lo sperpero come ulteriori cause di decadenza. Apparentemente la rivolta
inizierà dal popolo, che avrà l’impressione di essere oppresso dai concittadini avidi di potere e
sarà adulato in ogni modo da chi ambirà alla cariche pubbliche. Perciò, divenuto orgoglioso e
cedendo all’impulso della sua tracotanza, il popolo non vorrà più ubbidire e neppure essere alla pari
con chi comanda, ma bramerà il potere illimitato. Di conseguenza, la forma di governo assumerà il
nome, migliore fra tutti, di libertà e democrazia, ma in realtà sarà del tipo peggiore, cioè
l’oclocrazia (ὀχλοκρατία).
(cfr. Antologia delle fonti, I.1 T41)
(23)Appiano, Bellum civile, I 7, 26-31
I Romani, man mano che conquistavano porzioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio
e vi fondavano città, oppure inviavano i propri coloni in quelle già esistenti: queste colonie erano
per loro dei presìdi. Del terreno ottenuto con la guerra, invece, la parte coltivata era subito suddivisa
tra i coloni, oppure venduta o affittata. Ma la parte che dopo la guerra rimaneva incolta, ed era la
maggior parte, non avevano tempo di assegnarla in lotti, ragion per cui decretavano che nel
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frattempo la coltivasse chi voleva, dietro pagamento di un canone sui prodotti annui, un decimo per
il seminato e un quinto per le colture arboree. Si stabiliva un canone anche per gli allevatori di
bestiame sia grosso sia minuto. Agivano così allo scopo di far aumentare la popolazione italica (καὶ
τάδε ἔπραττον ἐς πολυανδρίαν τοῦ Ἰταλικοῦ γένους), da loro ritenuta molto robusta: questo serviva
ad avere alleati a portata di mano. Ma accadde l’esatto contrario. I ricchi (οἱ πλούσιοι), infatti, dopo
aver occupato la maggior parte della terra indivisa e dopo aver ottenuto, col tempo, la sicurezza che
nessuno l’avrebbe più tolta loro, compravano con la persuasione o sottraevano con la forza quelle
altre proprietà di poveri che erano vicine ai loro possedimenti, così da coltivare estesi latifondi
anziché semplici poderi (πεδία μακρὰ ἀντὶ χωρίων ἐγεώργουν). Per i lavori agricoli e per il pascolo
si servivano di schiavi, poiché i liberi sarebbero stati distolti da tali occupazioni per via del servizio
militare; inoltre questa manodopera offriva loro un grande guadagno, in considerazione della
prolificità degli schiavi, i quali aumentavano senza rischio per via della loro esclusione dal servizio
militare. In tal modo i ricchi lo erano sempre di più e gli schiavi aumentavano nelle campagne,
mentre gli Italici diminuivano e vedevano peggiorare le loro condizioni, essendo rovinati dalla
povertà, dai tributi e dal servizio militare (Ἰταλιώτας ὀλιγότης καὶ δυσανδρία κατελάμβανε,
τρυχομένους πενίᾳ τε καὶ ἐσφοραῖς καὶ στρατείαις). Se poi trovavano un po’ di respiro da
quest’ultimo, finivano per essere disoccupati, poiché la terra era in mano ai ricchi, i quali la
facevano coltivare da lavoratori schiavi anziché liberi.
(24) Varrone, de re rustica, I 17, 2
Omnes agri coluntur hominibus servis aut liberis aut utrisque: liberis, aut cum ipsi colunt, ut
plerique pauperculi cum sua progenie, aut mercennariis, cum conducticiis liberorum operis res
maiores, ut vindemias ac faenisicia, administrant, iique quos obaerarios nostri vocitarunt et etiam
nunc sunt in Asia atque in Aegypto et in Illyrico complures. De quibus universis hoc dico: gravia
loca utilius esse mercennariis colere quam servis, et in salubribus quoque locis opera rustica
maiora, ut sunt in condendis fructibus vindemiae aut messis.
Generalmente la terra è coltivata da schiavi, da liberi, o da entrambi: da liberi o se si tratta di
persone che la coltivano da soli, come fanno perlopiù i poveri (pauperculi) con i propri figli, o se si
tratta di salariati (mercennarii), cioè quando si assume manodopera libera per svolgere i lavori
maggiori, ad esempio la vendemmia o il taglio del fieno, senza contare quelli che da noi si
chiamavano obaerarii e che ora si trovano in gran numero in Asia, Egitto e Illirico. Su tutti costoro
la mia opinione è che sia più utile far coltivare i luoghi malsani ai liberi piuttosto che agli schiavi,
mentre per i luoghi salubri, ai liberi sia meglio affidare i compiti più pesanti, come lo sono, al
momento del raccolto, la vendemmia e la mietitura.
(cfr. Antologia delle fonti, I.4 T20)
(25) Lapis Pollae (CIL, I2 638)
Viam fecei ab Regio ad Capuam et / in ea via ponteis omneis, miliarios / tabelarios poseivei. [...] /
Et eidem praetor in / Sicilia fugiteivos Italicorum / conquaeisivei redideique / homines
DCCCCXVII. / Eidemque / primus fecei ut de agro poplico / aratoribus cederent paastores. / Forum
aedisque poplicas heic fece[i].
Ho costruito la via da Raggio a Capua e su questa ho posto tutti i ponti, i miliari e le indicazioni
delle distanze. [...] / E quando ero pretore in Sicilia catturai e riportai 917 schiavi degli Italici che
erano fuggiti. / E fui il primo a ottenere che sull’agro pubblico i pastori cedessero spazio ai
contadini. / Ho costruito il foro e gli edifici pubblici che si trovano qui.
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(26) Livio, Periochae, LVI
Ad exsolvendum foederis Numantini religione populum Mancinus, cum huius rei auctor fuisset,
deditus Numantinis non est receptus. [...] Cum bellum Numantinum vitio ducum non sine pudore
publico duraret, delatus est ultro Scipioni Africano a senatu populoque R. consulatus; quem cum illi
capere ob legem, quae vetabat quemquam iterum consulem fieri, non liceret, sicut priori consulatu
legibus solutus est.
[Ostilio] Mancino fu consegnato ai Numantini, affinché il popolo potesse correttamente annullare il
trattato da questi stipulato, ma fu rifiutato. [...] Poiché la guerra contro Numanzia si prolungava per
colpa dei comandanti, con grande vergogna per lo stato, il senato e il popolo romano offrirono
spontaneamente il consolato a Scipione [Emiliano] Africano, ma poiché costui non poteva rivestire
la carica a causa della legge che vietava l’iterazione del consolato, fu sollevato dal vincolo della
legge, come era già accaduto col primo consolato.
(cfr. Antologia delle fonti, I.2 T81)
(27) Livio, Periochae, LVIII
Tib. Sempronius Gracchus trib. pleb. cum legem agrariam ferret adversus voluntatem senatus et
equestris ordinis: nequis ex publico agro plus quam mille iugera possideret, in eum furorem exarsit,
ut M. Octavio collegae causam diversae partis defendenti potestatem lege lata abrogaret, seque et
<C.> Gracchum fratrem et Appium Claudium socerum triumviros ad dividendum agrum crearet.
promulgavit et aliam legem agrariam, qua sibi latius agrum patefaceret, ut idem triumviri
iudicarent, qua publicus ager, qua privatus esset. deinde cum minus agri esset quam, quod dividi
posset, sine offensa etiam plebis, qu<oni>am eos ad cupiditatem amplum modum sperandi
incitaverat, legem se promulgaturum ostendit, ut his, qui Sempronia lege agrum accipere deberent,
pecunia, quae regis Attali fuisset, divideretur.
Il tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco propose una legge contro il volere del senato e
dell’ordine equestre, secondo la quale nessuno era autorizzato a possedere più di mille iugeri di agro
pubblico. La sua follia si spinse talmente oltre che fece togliere per legge le prerogative tribunizie al
suo collega Marco Ottavio, il quale sosteneva le ragioni del gruppo politico avversario. Fece
eleggere tre uomini preposti all’assegnazione delle terre: se stesso, suo fratello Gaio e suo suocero
Appio Claudio [Pulcro]. Per avere più terra da distribuire, fece approvare una seconda legge che
conferiva ai triumviri agrari il potere di giudicare quale terreno fosse pubblico e quale privato. In
seguito, poiché c’era una quantità di terreno assegnabile inferiore alle aspettative che lui stesso
aveva creato nella plebe, affermò l’intenzione di far approvare una legge che distribuisse tra i
beneficiari della lex Sempronia il denaro che era appartenuto al re Attalo [di Pergamo].
(28) Plutarco, Tiberius Gracchus, 15
[Tiberio] disse che il tribuno della plebe è sacro e inviolabile perché è consacrato alla plebe e tutela
la plebe. Se dunque agisce in maniera diversa e danneggia la plebe, ne limita il potere, le impedisce
di votare, allora si toglie da solo la sua carica, poiché non fa quello per cui l’ha ricevuta. Se un
tribuno distrugge il Campidoglio e incendia l’arsenale, bisognerà lasciarglielo fare: agendo in
questa maniera è un cattivo tribuno; ma se distrugge l’autorità della plebe, allora non è un tribuno!
Ma non è illogico che un tribuno possa arrestare un console e la plebe non possa revocare il potere
di un tribuno se usato contro chi glielo ha conferito? La figura del re riuniva in sé tutti i poteri ed
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era sacra agli dèi per via delle massime funzioni religiose che le competevano; eppure la città
espulse Tarquinio perché agiva ingiustamente: a causa della tracotanza di uno solo fu eliminata
l’istituzione che aveva fondato Roma. E cosa c’è a Roma di così sacro e venerabile quanto le
vergini vestali che custodiscono il fuoco eterno? Eppure se una di loro sbaglia viene sepolta viva:
quando queste commettono un sacrilegio nei confronti degli dèi, perdono l’inviolabilità che hanno
ricevuto dagli dèi. E allora non è neanche giusto che un tribuno della plebe che danneggi la plebe
mantenga l’inviolabilità che ha ricevuto per tutelare la plebe: così facendo annulla quel potere su
cui si fonda la sua inviolabilità! […] Che la carica di tribuno della plebe non sia inviolabile né
irrevocabile lo dimostra il fatto che, in diversi casi, alcuni che l’avevano vi abbiano rinunciato e si
siano dimessi spontaneamente.
(29) S.C. de Bacchanalibus (CIL, I2 581)
ll. 1-9: [Q(uintus)] Marcius L(uci) f(ilius), S(purius) Postumius L(uci) f(ilius) co(n)s(ules) senatum
consoluerunt n(onis) Octob(ribus), apud aedem Duelonai. Sc(ribundo) arf(uerunt) M(arcus)
Claudi(us) M(arci) f(ilius), L(ucius) Valeri(us) P(ubli) f(ilius), Q(uintus) Minuci(us) C(ai) f(ilius).
De Bacanalibus quei foideratei esent, ita exdeicendum censuere: Neiquis eorum [B]acanal
habuise velet. seiques esent, quei sibei deicerent necesus ese Bacanal habere, eeis utei ad
pr(aitorem) urbanum Romam venirent, deque eeis rebus, ubei eorum v[e]r[b]a audita esent, utei
senatus noster decerneret, dum ne minus senator[i]bus C adesent, [quom e]a res cosoleretur. Bacas
vir nequis adiese velet ceivis Romanus neve nominus Latini neve socium quisquam, nisei
pr(aitorem) urbanum adiesent, isque [d]e senatuos sententiad, dum ne minus senatoribus C adesent,
quom ea res cosoleretur, iousisent.
I consoli Quinto Marcio, figlio di Lucio, e Spurio Postumuio, figlio di Lucio, consultarono il senato
il sette di ottobre presso il tempio di Bellona. Erano presenti per la verbalizzazione Marco Claudio,
figlio di Marco, Lucio Valerio, figlio di Publio, Quinto Minucio, figlio di Gaio. Si è stabilito che
popoli federati dovranno emettere norme del seguente tenore circa i baccanali: Nessuno di loro
celebri i baccanali, se ci fossero persone che affermino di avere necessità di celebrare baccanali,
vengano a Roma al cospetto del pretore urbano e, quando saranno state raccolte le loro dichiarazioni
al riguardo, sia il nostro senato a decidere, purché siano presenti almeno 100 senatori quando si
discute di questo argomento. Nessun cittadino romano, né latino né alleato frequenti le
baccanti, a meno che non si sia rivolto al pretore urbano e questi abbia dato il permesso, su
mandato del senato, con decisione approvata in presenza di almeno 100 senatori (cfr. Antologia
delle fonti, I.2 T39).
ll. 15-30: Sacra in [o]quoltod ne quisquam fecise velet. Neve in poplicod neve in preivatod neve
exstrad urbem sacra quisquam fecise velet, nisei pr(aitorem) urbanum adieset, isque de senatuos
sententiad, dum ne minus senatoribus C adesent, quom ea res cosoleretur, iousisent. Censuere.
Homines plous V oinvorsei virei atque mulieres sacra ne quisquam fecise velet, neve inter ibei virei
plous duobus, mulieribus plous tribus arfuise velent, nisei de pr(aitoris) urbani senatuosque
sententiad, utei suprad criptum est. Haice utei in coventionid exdeicatis ne minus trinum
noundinum, senatuosque sententiam utei scientes esetis, eorum sententia ita fuit: Sei ques esent,
quei arvorsum ead fecisent, quam suprad scriptum est, eeis rem caputalem faciendam censuere.
atque utei hoce in tabolam ahenam inceideretis, ita senatus aiquom censuit, uteique eam figier
ioubeatis, ubei facilumed gnoscier potisit. Atque utei ea Bacanalia, sei qua sunt, exstrad quam sei
quid ibei sacri est, ita utei suprad scriptum est, in diebus X, quibus vobeis tabelai datai erunt,
faciatis utei dismota sient.
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Storia romana I 2014-2015
Nessuno celebri in segreto gli atti di tale culto, né in pubblico né in privato; nessuno li celebri fuori
Roma, a meno che non si sia rivolto al pretore urbano e questi abbia dato il permesso, su mandato
del senato, con decisione approvata in presenza di almeno 100 senatori. Gli atti di tale culto non
siano celebrati da più di 5 persone, uomini e donne, e non vi assistano più di due uomini e tre
donne, se non con il permesso del pretore urbano e del senato, come sopra descritto. Questi decreti
vanno esposti in luogo pubblico per non meno di tre giorni di mercato, in modo che si conosca la
decisione del senato. Stabiliscono inoltre: se vi sono persone che contravvengono a quanto sopra
prescritto, i senatori reputano che siano passibili di pena di morte; e il sento ha ritenuto giusto che
queste decisioni siano incise su di una tavola bronzea e che si ordini che tale tavola sia affissa ove
sia più facile prenderne conoscenza; e che facciate in modo siano banditi i baccanali se vengono
celebrati al di fuori dei luoghi consacrati, secondo quanto è sopra prescritto, entro 10 giorni dal
momento in cui vi sono state consegnate le tavolette. (cfr. Antologia delle fonti, I.5 T38)
(30) Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, XXXVII, 11
Ὄμνυμι τὸν Δία τὸν Καπετώλιον καὶ τὴν Ἑστίαν τῆς Ῥώμης καὶ τὸν πατρῷον αὐτῆς Ἄρην καὶ τὸν
γενάρχην Ἥλιον καὶ τὴν εὐεργέτιν ζῴων τε καὶ φυτῶν Γῆν, ἔτι δὲ τοὺς κτίστας γεγενημένους τῆς
Ῥώμης ἡμιθέους καὶ τοὺς συναυξήσαντας τὴν ἡγεμονίαν αὐτῆς ἥρωας, τὸν αὐτὸν φίλον καὶ
πολέμιον ἡγήσεσθαι Δρούσῳ, καὶ μήτε βίου μήτε τέκνων καὶ γονέων μηδεμιᾶς φείσεσθαι ψυχῆς,
ἐὰν μὴ συμφέρῃ Δρούσῳ τε καὶ τοῖς τὸν αὐτὸν ὅρκον ὀμόσασιν. ἐὰν δὲ γένωμαι πολίτης τῷ
Δρούσου νόμῳ, πατρίδα ἡγήσομαι τὴν Ῥώμην καὶ μέγιστον εὐεργέτην Δροῦσον. καὶ τὸν ὅρκον
τόνδε παραδώσω ὡς ἂν μάλιστα πλείστοις δύνωμαι τῶν πολιτῶν. καὶ εὐορκοῦντι μέν μοι ἐπίκτησις
εἴη τῶν ἀγαθῶν, ἐπιορκοῦντι δὲ τἀναντία.
Giuro su Giove Capitolino, su Vesta di Roma, su Marte patrono della città, sul Sole generatore degli
uomini, sulla Terra benefattrice di animali e piante, sui semidei fondatori di Roma, sugli eroi che
insieme l’hanno resa grande e potente, giuro che l’amico o il nemico di Druso sarà anche il mio,
giuro che non risparmierò né la mia vita, né i miei figli né i miei genitori, se lo richiederanno Druso
e coloro che sono vincolati da questo stesso giuramento. Se diverrò cittadino grazie alla legge di
Druso, considererò Roma la mia patria e Druso il mio più grande benefattore. Diffonderò questo
giuramento presso il più alto numero di miei concittadini. Se manterrò il giuramento, mi possa
arrivare ogni bene, se invece lo violerò, avvenga l’opposto!
(31) Denarius AG, giuramento (Sydenham 621)
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Storia romana I 2014-2015
Denarius AG, toro e lupa (Sydenham 641)
(32) Cicerone, Pro Balbo, 21
Tulit apud maiores nostros legem C. Furius de testamentis, tulit Q. Voconius de mulierum
hereditatibus; innumerabiles aliae leges de civili iure sunt latae; quas Latini voluerunt,
adsciverunt; ipsa denique Iulia, qua lege civitas est sociis et Latinis data, qui fundi populi facti non
essent civitatem non haberent. In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum
magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret. Postremo haec vis est istius
et iuris et verbi, ut fundi populi beneficio nostro, non suo iure fiant.
Tra i nostri antenati, Gaio Furio propose una legge sui testamenti, Quinto Voconio una sull’eredità
delle donne; furono approvate innumerevoli altre leggi sul diritto civile: i Latini accolsero quelle
che volevano. Infine la stessa legge Giulia che conferisce la cittadinanza agli alleati e ai Latini
stabilisce che quei popoli che non vi aderiscono (fundus fieri) non ottengono la cittadinanza. Tale
clausola suscitò ampia contesa tra gli abitanti di Eraclea e di Neapoli, poiché gran parte di loro
preferiva alla cittadinanza la libertà garantita dal trattato con noi. Da ultimo, è questo il significato
letterale e giuridico di quella legge, cioè che i popoli vi aderisco per nostra concessione e non per
un loro diritto.
(33) Asconio, In Pisonianam, p. 3 Clark
Magnopere me haesitare confiteor quid sit qua re Cicero Placentiam municipium esse dicat. Video
enim in annalibus eorum qui Punicum bellum secundum scripserunt tradi Placentiam coloniam
deductam pridie Kal. Iun. primo anno eius belli, P. Cornelio Scipione, patre Africani prioris,
Ti.Sempronio Longo coss. Neque illud dici potest, sic eam coloniam esse deductam quemadmodum
post plures aetates Cn. Pompeius Strabo, pater Cn. Pompei Magni, Transpadanas colonias
deduxerit. Pompeius enim non novis colonis eas constituit sed veteribus incolis manentibus ius
dedit Latii, ut possent habere ius quod ceterae Latinae coloniae, id est ut petendo magistratus
civitatem Romanam adipiscerentur. Placentiam autem sex milia hominum novi coloni deducti sunt,
in quibus equites ducenti. Deducendi fuit causa ut opponerentur Gallis qui eam partem Italiae
tenebant. Deduxerunt IIIviri P. Cornelius Asina, P. Papirius Maso, Cn. Cornelius Scipio. Eamque
coloniam LIII [lac.] deductam esse invenimus: deducta est autem Latina. Duo porro genera earum
coloniarum quae a populo Romano deductae sunt fuerunt, ut Quiritium aliae, aliae Latinorum
essent. De se autem optime meritos Placentinos ait, quod illi quoque honoratissima decreta erga
Ciceronem fecerunt certaveruntque in ea re cum tota Italia, cum de reditu eius actum est.
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Storia romana I 2014-2015
Confesso che non mi è chiara la ragione per la quale Cicerone definisce Piacenza un municipio.
Negli annali di coloro che narrarono la seconda guerra punica leggo che Piacenza è definita una
colonia, dedotta il giorno precedente le calende di giugno del primo anno di guerra [= 31 maggio
218 a.C.], sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione, padre dell’Africano maggiore, e di Tiberio
Sempronio Longo. E non si può neanche affermare che la colonia fu dedotta con la stessa procedura
adottata in Transpadana molto più tardi da Gneo Pompeo Strabone, padre del grande Pompeo.
Pompeo infatti non le fondò con l’invio di nuovi coloni, ma concesse il diritto latino agli abitanti
precedenti, in modo che costoro potessero avere lo stesso diritto delle altre colonie latine, cioè
quello di ottenere la cittadinanza romana assumendo le cariche locali. Tuttavia Piacenza ottenne
l’invio di seimila nuovi coloni, trai quali c’erano duecento cavalieri. Causa della deduzione fu la
necessità di contrastare i Galli che occupavano quella parte d’Italia. La dedussero tre incaricati:
Publio Cornelio Asina, Publio Papirio Masone, Gneo Cornelio Scipione. E leggiamo che quella
colonia fu dedotta 53 [lacuna]: ma era una colonia latina. Inoltre, esistevano due tipi di colonie
dedotte dal popolo romano: quelle di diritto romano e quelle di diritto latino. Cicerone dice che i
Piacentini gli fecero un gran servigio, dal momento che, al suo ritorno dall’esilio, approvarono un
bellissimo decreto nei suoi riguardi, e in questo fecero a gara con l’Italia intera. (cfr. Antologia delle
fonti, I.3 T.29)
(34) Cassio Dione, Historia Romana, XLI 38, 1-2
ἐπειδή τε συχνοὶ πολλά τε χρήματα ἔχειν καὶ πάντα αὐτὰ ἀποκρύπτειν ἐλέγοντο, ἀπηγόρευσε
μηδένα πλεῖον πεντακισχιλίων καὶ μυρίων δραχμῶν ἐν ἀργυρίῳ ἢ καὶ χρυσίῳ κεκτῆσθαι, οὐχ ὡς
καὶ αὐτὸς τὸν νόμον τοῦτον τιθείς, ἀλλ' ὡς καὶ πρότερόν ποτε ἐσενεχθέντα ἀνανεούμενος, εἴτ' οὖν
ἵνα τοῖς τε δανεισταῖς οἱ ὀφείλοντές τι ἐκτίνωσι καὶ τοῖς δεομένοις οἱ ἄλλοι δανείζωσιν, εἴτε καὶ
ὅπως οἵ τε εὐποροῦντες ἔκδηλοι γένωνται καὶ χρήματα μηδεὶς αὐτῶν ἀθρόα ἔχῃ, μὴ καὶ ἀπόντος τι
νεωτερισθῇ.
Poiché correva voce che molte persone possedevano molto denaro e lo tenevano nascosto, ordinò
che nessuno potesse possedere più di 60.000 sesterzi in argento o in oro. Diceva di non introdurre
questa legge, ma solo di ripristinare una legge che già prima esisteva, affinché da una parte i
debitori pagassero i debiti ai creditori e i creditori facessero i prestiti a chi ne avesse bisogno, e
dall’altra i ricchi venissero allo scoperto e nessuno si tenesse il denaro nascosto (e ciò per evitare
che durante la sua assenza a Roma scoppiassero dei tumulti).
(35) Suetonio, Caesar, 41, 3 – 42, 2
Recensum populi nec more nec loco solito, sed uicatim per dominos insularum egit atque ex uiginti
trecentisque milibus accipientium frumentum e publico ad centum quinquaginta retraxit; ac ne qui
noui coetus recensionis causa moueri quandoque possent, instituit, quotannis in demortuorum
locum ex iis, qui recensi non essent, subsortitio a praetore fieret. octoginta autem ciuium milibus in
transmarinas colonias distributis, ut exhaustae quoque urbis frequentia suppeteret, sanxit, ne quis
ciuis maior annis uiginti minorue †decem, qui sacramento non teneretur, plus triennio continuo
Italia abesset, neu qui senatoris filius nisi contubernalis aut comes magistratus peregre
proficisceretur; neue ii, qui pecuariam facerent, minus tertia parte puberum ingenuorum inter
pastores haberent. omnisque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores, quo
libentius et ipsi urbem in colerent et ceteri adpeterent, ciuitate donauit. de pecuniis mutuis disiecta
nouarum tabularum expectatione, quae crebro mouebatur, decreuit tandem, ut debitores
creditoribus satis facerent per aestimationem possessionum, quanti quasque ante ciuile bellum
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Storia romana I 2014-2015
comparassent, deducto summae aeris alieni, si quid usurae nomine numeratum aut perscriptum
fuisset; qua condicione quarta pars fere crediti deperibat.
Registrò il popolo non alla solita maniera né al posto solito, ma per quartieri e per tramite dei
proprietari di case; così il numero dei beneficiari delle distribuzioni pubbliche di grano fu ridotto da
trecentoventimila a centocinquantamila; e per evitare che in futuro la compilazione di queste liste
divenisse motivo di nuovi disordini, stabilì che ogni anno il pretore rimpiazzasse i beneficiari morti
nel frattempo, sorteggiando tra coloro che non erano registrarti. Inviò ottantamila cittadini nelle
colonie oltremare e, per rimediare al conseguente calo di popolazione nell’Urbe, stabilì che nessun
cittadino tra i venti e i <sessanta> anni stesse fuori dall’Italia per più di tre anni di seguito, ad
eccezione di chi serviva nell’esercito, che nessun figlio di senatore intraprendesse viaggi all’estero,
se non al seguito di un magistrato (come suo ufficiale o funzionario), che gli allevatori di bestiame
impiegassero tra i propri pastori almeno un terzo di adulti di condizione libera. Diede la cittadinanza
a tutti coloro che esercitavano la medicina e insegnavano le arti liberali a Roma, in modo che un
tale favore rendesse loro più gradito il soggiorno nell’Urbe e ne attirasse altri. Quanto ai debiti,
invece di abolirli come si continuava a richiedere, stabilì che i debitori soddisfacessero i creditori in
base alla stima dei propri beni e al valore che questi beni avevano prima della guerra civile; e che
dal totale dovuto si deducessero tutti gli eventuali interessi già versati o in contanti o con documenti
scritti: questo provvedimento ridusse i debiti di circa un quarto.
(36) Tabula Heracleensis (= RS I, nr. 24), ll. 142-151
quae municipia coloniae praefecturae c(iuium) R(omanorum) in Italia sunt erunt, quei in eis
municipieis colon<i>eis praefectureis maximum mag(istratum) maxim<a>mue potestatem ibei
habebit tum, cum censor aliusue quis mag(istratus) Romae populi censum aget, is diebus
(sexaginta) proxumeis, quibus sciet Romae c<e>nsum populi agi, omnium municip{i}um
colonorum suorum queique eius praefecturae erunt, q(uei) c(iues) R(omanei) erunt, censum
ag<i>to; eorumque nomina praenomina patres aut patronos tribus cognomina et quot annos
quisque eorum habe<bi>t et rationem pecuniae ex formula census, quae Romae ab eo, qui tum
censum populi acturus erit, proposita erit, a<b> ieis iurateis accipito; eaque omnia in tabulas
publicas sui municipi referunda curato; eosque libros per legatos, quos maior pars decurionum
conscriptorum ad eam rem legarei mittei censuerint tum cum ea{s} res consul{er}etur, ad eos quei
Romae c<e>nsum agent mittito.
Colui che ha la carica suprema o la massima autorità nei municipi nelle colonie e nelle prefetture di
cittadini romani esistenti in Italia nel momento in cui a Roma il censore o un altro magistrato svolge
il censimento del popolo, costui deve svolgere il censimento dei cittadini romani presenti in tutti
quei suddetti municipi, colonie o prefetture, entro sessanta giorni dacché sa che a Roma si svolge il
censimento. Deve raccogliere da loro la dichirazione giurata di prenome, gentilizio, genitori o
patroni, tribù, cognome, età e patrimonio secondo la formula del censimento indetta da colui che
svolge il censimento a Roma. Deve far registrare tutti questi dati nell’archivio della propria
comunità. Deve inviare i registri a coloro che svolgono il censimento a Roma per mezzo di
funzionari appositamente scelti dalla maggioranza dei decurioni locali con una delibera
specifica.
(37) Tacito, Historiae, I 1
Initium mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt. post conditam urbem
octingentos et viginti prioris aevi annos multi auctores rettulerunt, dum res populi Romani
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Storia romana I 2014-2015
memorabantur pari eloquentia ac libertate: postquam bellatum apud Actium atque omnem
potentiam ad unum conferri pacis interfuit, magna illa ingenia cessere.
Inizierò la mia opera dall’anno in cui erano consoli Servio Galba, per la seconda volta, e Tito Vinio.
Molti autori hanno narrato i precedenti ottocentoventi anni intercorsi dalla fondazione della città,
quando le vicende del popolo romano venivano ricordate con eloquenza pari alla libertà: dopo la
battaglia di Azio, fu invece necessario, per il bene della pace, attribuire tutto il potere a un uomo
solo, allora vennero meno anche i grandi talenti letterari (cfr. Antologia delle fonti, II.2 T4).
(38) Augusto, Res gestae, 34
In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram, per consensum universorum
potens rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium
transtuli. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium
mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia
Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque et iustitiae et
pietatis caussa testatum est per eius clupei inscriptionem. Post id tempus auctoritate omnibus
praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae
fuerunt.
Durante il mio sesto e settimo consolato [= 28-27 a.C.], dopo aver posto termine alle guerre civili,
avendo tutto il potere nelle mie mani per consenso universale, rimisi la repubblica dalla mia potestà
al controllo del senato e del popolo romano. Per questo mio merito, fui chiamato Augusto dietro
parere del senato e, per pubblica decisione, lo stipite della mia casa fu ornato di alloro e sopra la
mia porta fu appesa una corona civica; nella curia Giulia fu posto uno scudo d’oro, la cui iscrizione
attestava che il senato e il popolo di Roma me lo concedevano in riconoscimento del mio valore,
della mia clemenza, della mia giustizia e della mia devozione. Da quel momento fui superiore a tutti
per autorevolezza, ma non ebbi maggior potere degli altri che mi furono colleghi in ogni
magistratura (cfr. Antologia delle fonti, II.1 T4).
(39) Strabone, Geographia, XVII 3, 25
Le province [ἐπαρχίαι] sono state divise in epoche diverse e in modo diverso, ma ora sono come le
ha organizzate Cesare Augusto. Infatti, quando la patria gli affidò il governo dell’impero ed egli
ebbe a vita il potere in guerra e in pace, divise tutto il territorio in due parti e assegnò una parte a se
stesso, l’altra al popolo: a se stesso quella parte che ha bisogno di un presidio militare, cioè la parte
barbara e vicina a popolazioni non ancora domate oppure quella povera e difficile da coltivare, che
oppone resistenza e non obbedisce a causa della penuria di tutto il resto tranne che di luoghi
fortificati; al popolo l’altra parte, cioè quella pacificata e facile da governare senza armi. Divise poi
l’una e l’altra in numerose province, delle quali le une sono dette di Cesare, le altre del popolo [αἱ
μὲν καλοῦνται Καίσαρος αἱ δὲ τοῦ δήμου]. Alle province di Cesare, Cesare invia comandanti e
amministratori, dividendo le zone ora in un modo ora in un altro, a quelle del popolo il popolo invia
pretori o consoli [καὶ εἰς μὲν τὰς Καίσαρος ἡγεμόνας καὶ διοικητὰς Καῖσαρ πέμπει, διαιρῶν ἄλλοτε
ἄλλως τὰς χώρας καὶ πρὸς τοὺς καιροὺς πολιτευόμενος, εἰς δὲ τὰς δημοσίας ὁ δῆμος στρατηγοὺς ἢ
ὑπάτους]. (cfr. Antologia delle fonti, II.1 T18).
(40) Cassio Dione, Historia Romana, LIII 12-13
[Augusto] restituì al senato le [province] più deboli, in quanto pacificate e prive di guerre, tenne
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Storia romana I 2014-2015
invece le più forti poiché erano insicure, pericolose e minacciate da nemici ai confini oppure a
rischio di rivolte. A parole sosteneva che così facendo il senato avrebbe tratto con facilità profitto
dalla parte migliore dell’impero, mentre a lui sarebbero toccate le fatiche e i pericoli, in realtà, con
questa scusa, i senatori erano disarmati e impossibilitati a combattere, mentre egli era l’unico ad
avere armi e soldati. [...] In un primo tempo introdusse la prassi che gli stessi senatori governassero
entrambi i tipi di province, tranne quella d’Egitto (lì, per le ragioni che ho detto, mandò l’equestre
sopra citato); poi ordinò che gli uni fossero annuali e scelti a sorte […]: questi erano inviati su
decisione comune del senato, senza portare la spada né indossare l’armatura ed erano chiamati
proconsoli [ἀνθύπατοι] (non solo i due che avevano ricoperto il consolato, ma anche gli altri che
erano stati pretori o che erano stati immessi in senato in qualità di ex pretori). […] Stabilì che gli
altri fossero scelti da lui stesso e fossero chiamati legati Augusti pro praetore [πρεσβευταὶ αὐτοῦ
ἀντιστράτηγοι], anche qualora fossero ex consoli. Di questi due titoli che erano a lungo esistiti
durante la repubblica, egli diede il titolo di pretore (nella forma di propretore) agli inviati scelti da
lui, in ragione del fatto che questa carica nei tempi più antichi era associata alla guerra; diede il
titolo di console (nella forma di proconsole) agli altri, poiché i loro compiti erano pacifici (cfr.
Antologia delle fonti, II.1 T19 e T20).
(41) Cassio Dione, Historia Romana, LIII 16, 1
In linea di massima, furono queste le misure adottate a quel tempo. Di fatto, Cesare [Augusto] si
accingeva ad assumere il controllo di tutto lo stato senza limiti temporali, poiché non solo gestiva
tutto il denaro (formalmente aveva separato l’erario del popolo dal suo patrimonio personale, ma in
realtà attingeva da entrambe le casse a sua discrezione [λόγῳ μὲν γὰρ τὰ δημόσια ἀπὸ τῶν ἐκείνου
ἀπεκέκριτο, ἔργῳ δὲ καὶ ταῦτα πρὸς τὴν γνώμην αὐτοῦ ἀνηλίσκετο]), ma comandava anche
l’esercito.
(42) Tacito, Annales, I 11
Versae inde ad Tiberium preces. et ille varie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. solam
divi Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo vocatum experiendo
didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. proinde in civitate tot
inlustribus viris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis
laboribus exsecuturos. plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus
quas non occuleret, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: tunc vero
nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. at patres,
quibus unus metus si intellegere viderentur, in questus lacrimas vota effundi; ad deos, ad effigiem
Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit. opes publicae
continebantur, quantum civium sociorumque in armis, quot classes, regna, provinciae, tributa aut
vectigalia, et necessitates ac largitiones. quae cuncta sua manu perscripserat Augustus
addideratque consilium coercendi intra terminos imperii, incertum metu an per invidiam.
Allora tutte le preghiere furono rivolte a Tiberio; ed egli discettava sulla grandezza dell’impero in
confronto alla sua modestia. Solo la mente del divino Augusto era adeguata a una simile
dimensione. Lui, Tiberio, quando era stato chiamato da questi a condividere i sui impegni, aveva
imparato quanto fosse difficile e quanto dipendente dalla sorte il compito di governare il mondo.
Riteneva che, in uno stato che godeva del sostegno di così tanti uomini illustri, non servisse dare
tutto il potere a uno solo, ma che la fatica del governo potesse essere retta più facilmente dal lavoro
di più persone insieme. Un simile discorso era più dignitoso che affidabile. Le parole di Tiberio,
vuoi per indole vuoi per abitudine, erano sempre indirette e oscure, anche quando non voleva
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nascondere le sue intenzioni: allora che si sforzava di nascondere ogni traccia del sue reale pensiero,
diveniva più intricato, ambiguo e incerto che mai. Ma i senatori, che avevano un solo timore, che
fosse evidente che avevano compreso bene, scoppiarono in lamenti, lacrime e preghiere; tendevano
le mani agli dei, all’immagine del divino Augusto, alle sue ginocchia, quando ordinò di produrre e
pubblicare un documento: conteneva l’elenco delle risorse pubbliche, di quanti cittadini e alleati
erano arruolati, di quante flotte, regni, province, tributi e tasse, spese e donativi che Augusto aveva
registrato di propria mano; e vi aveva aggiunto il consiglio di non espandere ulteriormente l’impero,
non si sa se per timore o invidia (cfr. Antologia delle fonti, p. 170 T. 36).
(43) S.C. de Pisone Patre, ll. 34-36
lex ad populum lata esset, ut in quamcumq(ue) provinciam venisset, maius ei imperium quam ei qui
eam provinciam proco(n)s(ule) optineret, esset, dum in omni re maius imperium Ti.Caesari
Aug(usto) quam Germanico Caesari esset.
Una legge votata dal popolo stabiliva che in qualunque provincia andasse, egli avesse un imperium
maggiore del proconsole che aveva ottenuto la provincia, con la clausola però che comunque, in
ogni caso, Tiberio Cesare avesse un imperium maggiore di Germanico Cesare (cfr. Antologia delle
fonti, p. 174 T. 43).
(44) Tacito, Annales, XI 23
A. Vitellio L. Vipstano consulibus cum de supplendo senatu agitaretur primoresque Galliae, quae
Comata appellatur, foedera et civitatem Romanam pridem adsecuti, ius adipiscendorum in urbe
honorum expeterent, multus ea super re variusque rumor. et studiis diversis apud principem
certabatur adseverantium non adeo aegram Italiam ut senatum suppeditare urbi suae nequiret [...]
Nell’anno del consolato di Aulo Vitellio e Lucio Vipstano si discuteva dell’opportunità di aumentare
il numero dei senatori e i notabili della Gallia Comata, che in precedenza avevano ottenuto trattati e
la cittadinanza romana, rivendicavano il diritto di ottenere cariche a Roma. Vi erano parecchie e
varie opinioni al riguardo e nel consiglio del princeps il dibattito era animato in entrambi i sensi:
l’Italia – si diceva – non era così moribonda da non essere in grado di fornire nuovi senatori alla
propria capitale [...] (cfr. Antologia delle fonti, p. 175 T. 47)
(45) Tacito, Annales, XI 24
His atque talibus haud permotus princeps et statim contra disseruit et vocato senatu ita exorsus est:
'maiores mei, quorum antiquissimus Clausus origine Sabina simul in civitatem Romanam et in
familias patriciorum adscitus est, hortantur uti paribus consiliis in re publica capessenda,
transferendo huc quod usquam egregium fuerit. neque enim ignoro Iulios Alba, Coruncanios
Camerio, Porcios Tusculo, et ne vetera scrutemur, Etruria Lucaniaque et omni Italia in senatum
accitos, postremo ipsam ad Alpis promotam ut non modo singuli viritim, sed terrae, gentes in
nomen nostrum coalescerent. tunc solida domi quies et adversos externa floruimus, cum
Transpadani in civitatem recepti, cum specie deductarum per orbem terrae legionum additis
provincialium validissimis fesso imperio subventum est. num paenitet Balbos ex Hispania nec minus
insignis viros e Gallia Narbonensi transivisse? manent posteri eorum nec amore in hanc patriam
nobis concedunt. quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent,
nisi quod victos pro alienigenis arcebant? at conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut
plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit. advenae in nos regnaverunt: libertinorum
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filiis magistratus mandare non, ut plerique falluntur, repens, sed priori populo factitatum est. at
cum Senonibus pugnavimus: scilicet Vulcsi et Aequi numquam adversam nobis aciem instruxere.
capti a Gallis sumus: sed et Tuscis obsides dedimus et Samnitium iugum subiimus. ac tamen, si
cuncta bella recenseas nullum breviore spatio quam adversus Gallos confectum: continua inde ac
fida pax. iam moribus artibus adfinitatibus nostris mixti aurum et opes suas inferant potius quam
separati habeant. omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere: plebeii
magistratus post patricios, Latini post plebeios, ceterarum Italiae gentium post Latinos.
inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit.
Claudio non si lasciò convincere da questi e da altri argomenti simili, ma subito li confutò e,
convocato il senato, così parlò: «I miei antenati, il più antico dei quali Clauso di origine sabina fu
accolto tanto nella cittadinanza romana quanto nel patriziato, mi esortano ad agire allo stesso modo
nel governo dello stato, portando qui quanto di meglio vi sia altrove. So bene che i Giulii sono stati
chiamati in senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porci da Tuscolo e, lasciando da parte
l’antichità, altri ne vennero dall’Etruria, dalla Lucania e dall’Italia intera. L’Italia stessa ha di
recente esteso i suoi confini fino alle Alpi, cosicché non solo individui, ma regioni e popoli interi si
sono fusi con noi. Abbiamo goduto di una solida pace interna e della vittoria esterna quando i
Transpadani sono stati accolti nella cittadinanza e noi con la scusa che le nostre legioni erano sparse
per il mondo abbiamo aggiunto provinciali validissimi, risollevando le sorti di un impero in
difficoltà. Dobbiamo forse pentirci del fatto che i Balbi siano giunti dalla Spagna e uomini non
meno illustri dalla Gallia Narbonense? I loro discendenti sono qui e amano questa patria non meno
di noi! Cos’altro causò la rovina di Ateniesi e Spartani, se non il fatto che, pur forti in guerra,
trattavano i vinti come stranieri? Invece il nostro fondatore Romolo fu così saggio che, in più
occasioni, vinse popoli ostili e li trasformò in cittadini nell’arco della stessa giornata. Alcuni nostri
re erano stranieri, anche l’elezione alle magistrature di figli di liberti non è una pratica recente,
come molti erroneamente credono, bensì comune nei tempi antichi. ‘Ma contro i Senoni abbiamo
combattuto’, dite; e Volsci ed Equi non si sono mai schierati in battaglia contro di noi? ‘Siamo stati
invasi dai Galli’; se è per questo, agli Etruschi abbiamo dato ostaggi e siamo passati sotto il giogo
dei Sanniti. Tuttavia, se consideriamo tutte le nostre guerre, nessuna si è conclusa da meno tempo di
quella contro i Galli: da allora la pace è stata continua e sicura. Si sono già assimilati a noi per
usanze, cultura e parentele: lasciamo che ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, invece di
tenerle separate! O padri coscritti, tutto quello che adesso ci sembra antichissimo una volta era
nuovo: i magistrati plebei vennero dopo i patrizi, i Latini dopo i plebei, tutti gli altri popoli d’Italia
dopo i Latini. Anche la presente innovazione invecchierà e ciò che ora giustifichiamo ricorrendo ai
precedenti, diverrà un precedente» (cfr. Antologia delle fonti, p. 175 T. 47).
(46) Tabula Clesiana (CIL, V 5050)
M(arco) Iunio Silano, Q(uinto) Sulpicio Camerino co(n)s(ulibus) / idibus Martis, Bais in praetorio,
edictum / Ti(beri) Claudi Caesaris Augusti Germanici propositum fuit id / quod infra scriptum est. /
Ti(berius) Claudius Caesar Augustus Germanicus pont(ifex) / maxim(us), trib(unicia) potest(ate)
VI, imp(erator) XI, p(ater) p(atriae), co(n)s(ul) designatus IIII, dicit: / Cum ex veteribus
controversis petentibus aliquamdiu etiam / temporibus Ti(beri) Caesaris patrui mei, ad quas
ordinandas / Pinarium Apollinarem miserat, quae tantum modo / inter Comenses essent, quantum
memoria refero et / Bergaleos, isque primum apsentia pertinaci patrui mei, / deinde etiam Gai
principatu, quod ab eo non exigebatur / referre, non stulte quidem, neglexserit; et posteac / detulerit
Camurius Statutus ad me agros plerosque / et saltus mei iuris esse: in rem praesentem misi /
Plantam Iulium amicum et comitem meum, qui / cum, adhibitis procuratoribus meis quisque in alia
/ regione quique in vicinia erant, summa cura inqui/sierit et cognoverit; cetera quidem, ut mihi
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demons/trata commentario facto ab ipso sunt, statuat pronun/tietque ipsi permitto. / Quod ad
condicionem Anaunorum et Tulliassium et Sinduno/rum pertinet, quorum partem delator adtributam
Triden/tinis, partem ne adtributam quidem arguisse dicitur, / tam et si animadverto non nimium
firmam id genus homi/num habere civitatis Romanae originem: tamen, cum longa / usurpatione in
possessionem eius fuisse dicatur et permix/tum cum Tridentinis, ut diduci ab is sine gravi
splendi[di] municipi / iniuria non possit, patior eos in eo iure, in quo esse se existima/verunt,
permanere beneficio meo, eo quidem libentius, quod / plerisque ex eo genere hominum etiam
militare in praetorio / meo dicuntur, quidam vero ordines quoque duxisse, / nonnulli collecti in
decurias Romae res iudicare./ Quod beneficium is ita tribuo, ut quaecumque tanquam / cives
Romani gesserunt egeruntque, aut inter se aut cum / Tridentinis alisve, ratam esse iubeat,
nominaque ea, / quae habuerunt antea tanquam cives Romani, ita habere is permittam.
Durante il consolato di Marco Giunio Silano e Quinto Sulpicio Camerino, alle idi di marzo, a Baia,
nel pretorio, fu affisso l'editto di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico che è trascritto qui
sotto. Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, durante la sua sesta potestà
tribunizia, dopo la sua undicesima acclamazione a imperatore, padre della patria, console designato
per la quarta volta, dice: poiché, fra le antiche controversie in corso già dai tempi di mio zio Tiberio
Cesare, per dirimere le quali - a mia memoria, solo quelle che esistevano fra i Comensi e i Bergalei
- egli aveva inviato Pinario Apollinare, e poiché costui, in un primo tempo per l'ostinata assenza di
mio zio, in seguito anche sotto il principato di Gaio, trascurò - non certo da sciocco - di produrre
una relazione su quanto non gli veniva richiesto; e poiché successivamente Camurio Statuto notificò
a me che i terreni e le foreste sono per la maggior parte di mia personale proprietà: ho inviato sul
posto Giulio Planta, mio amico e compagno, il quale, convocati i miei procuratori - sia quelli che
stavano in altra regione, sia quelli in zona - con la massima precisione condusse l'indagine e istruì la
questione; per tutte le altre questioni, delego a lui di dirimere e di decidere, secondo le soluzioni a
me prospettate nella relazione da lui prodotta. Per quanto riguarda la condizione degli Anauni, dei
Sinduni e dei Tulliassi, una parte dei quali si dice che il denunciante abbia scoperto essere attribuita
ai Tridentini, una parte nemmeno attribuita, anche se mi rendo conto che questa categoria di persone
non fonda la cittadinanza romana su un'origine sufficientemente assodata, tuttavia, poiché si dice
che ne siano stati in possesso per lungo periodo d'uso, e che si siano talmente fusi con i Tridentini
da non poterne essere separati senza grave danno per lo splendido municipio, permetto che per mia
concessione essi continuino a stare nella condizione giuridica che ritenevano di avere, e tanto più
perchè parecchi della loro condizione si dice prestino servizio perfino nel mio pretorio, e che alcuni
addirittura siano stati ufficiali della truppa, e che certuni inseriti nelle decurie a Roma vi facciano i
giudici. Accordo loro tale beneficio, con la conseguenza che qualunque negozio abbiano concluso o
qualunque azione giudiziaria abbiano intrapreso come se fossero stati cittadini romani, o fra di loro
o con i Tridentini o con altri, ordino che sia ratificato; e i nomi da cittadini romani che avevano
preso in precedenza, concedo loro di mantenerli (trad. E. MIGLIARIO).
(47) Tacito, Historiae, I 16
‘Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a quo res publica
inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est ut nec mea senectus conferre plus populo
Romano possit quam bonum successorem, nec tua plus iuventa quam bonum principem. sub Tiberio
et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fuimus: loco libertatis erit quod eligi coepimus; et
finita Iuliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet. nam generari et nasci a
principibus fortuitum, nec ultra aestimatur: adoptandi iudicium integrum et, si velis eligere,
consensu monstratur. sit ante oculos Nero quem longa Caesarum serie tumentem non Vindex cum
inermi provincia aut ego cum una legione, sed sua immanitas, sua luxuria cervicibus publicis
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depulerunt; neque erat adhuc damnati principis exemplum. nos bello et ab aestimantibus adsciti
cum invidia quamvis egregii erimus. ne tamen territus fueris si duae legiones in hoc concussi orbis
motu nondum quiescunt: ne ipse quidem ad securas res accessi, et audita adoptione desinam videri
senex, quod nunc mihi unum obicitur. Nero a pessimo quoque semper desiderabitur: mihi ac tibi
providendum est ne etiam a bonis desideretur. monere diutius neque temporis huius, et impletum est
omne consilium si te bene elegi. utilissimus idem ac brevissimus bonarum malarumque rerum
dilectus est, cogitare quid aut volueris sub alio principe aut nolueris; neque enim hic, ut gentibus
quae regnantur, certa dominorum domus et ceteri servi, sed imperaturus es hominibus qui, nec
totam servitutem pati possunt nec totam libertatem’. Et Galba quidem haec ac talia, tamquam
principem faceret, ceteri tamquam cum facto loquebantur.
«Se l’immenso corpo dell’impero potesse reggersi e stare in equilibrio senza un reggente, sarebbe
allora meglio che con me iniziasse una repubblica. Ma per come stanno le cose, abbiamo da tempo
raggiunto la condizione che, adesso, la mia vecchiaia non può dare al popolo romano niente di
meglio di un buon successore – e la tua giovinezza un buon princeps. Siamo passati da Tiberio, a
Gaio e a Claudio quasi come l’eredità di un’unica famiglia; al posto della libertà avremo la
possibilità di sceglierci ora il princeps. Esaurita la casata dei Giulio-Claudi, l’adozione sceglierà il
migliore. Infatti, essere generato e nascere da un princeps è casuale e non c’è altro da dire, invece la
facoltà di adottare è libera e, se vuoi scegliere, il consenso di tutti individua la persona. Teniamo
ben presente Nerone, che orgoglioso di discendere da una lunga serie di Cesari, fu tirato giù dalle
spalle del popolo non da Vindice con una provincia disarmata, non da me con una sola legione, ma
dalla sua indole mostruosa, dalla sua stravaganza! Prima d’ora non esistevano precedenti di
principes condannati. Noi, chiamati al potere dalla guerra e dal giudizio sul nostro valore, saremo
oggetto d’invidia a prescindere dalle azioni onorevoli che faremo. Non temere se ci sono ancora due
legioni in rivolta in un mondo scosso fin nelle sue fondamenta. Io stesso non sono arrivato al potere
con sicurezza e quando si saprà della tua adozione smetterò di sembrare un uomo anziano, che è il
mio unico ostacolo. I peggiori rimpiangeranno sempre Nerone: il mio e il tuo compito è evitare che
i migliori facciano lo stesso. Ma non è più tempo di parlare ancora, avrò fatto il mio dovere se tu
sarai una buona scelta. Il mezzo più utile e più rapido per distinguere il bene dal male è pensare a
ciò che avresti o non avresti desiderato sotto un altro princeps. Infatti qui non c’è, come tra i popoli
soggetti a un re, una casata di regnanti definita e un popolo intero di schiavi; tu sei chiamato a
comandare su uomini che non tollerano una schiavitù completa ma non sanno essere del tutto
liberi». Galba parlò a Pisone più o meno così, come se stesse per creare un princeps, mentre gli altri
si rivolgevano a lui come se lo fosse già (cfr. Antologia delle fonti, p. 172 T. 42)
(48) Lex de imperio Vespasiani (CIL, VI 930)
...foedusve cum quibus volet facere liceat ita, uti licuit divo Augusto, Ti. Iulio Caesari Augusto,
Tiberioque Claudio Caesari Augusto Germanico. Utique ei senatum habere, relationem facere,
remittere, senatus consulta per relationem discessionemque facere liceat ita, uti licuit divo Augusto,
Ti. Iulio Caesari Augusto Ti. Claudio Caesari Augusto Germanico. Utique cum ex voluntate
auctoritateve iussu mandatuve eius praesenteve eo senatus habebitur, omnium rerum ius perinde
habeatur servetur, ac si e lege senatus edictus esset habereturque. Utique quos magistratum
potestatem imperium curationemve cuius rei petentes senatui populoque Romano commendaverit
quibusque suffragationem suam dederit promiserit, eorum comitis quibusque extra ordinem ratio
habeatur. Utique ei fines pomerii proferre promovere, cum ex re publica censebit esse, liceat ita, uti
licuit Ti. Claudio Caesari Augusto Germanico. Utique quaecumque ex usu reipublicae maiestate
divinarum humanarum publicarum privatarum rerum esse censebit, ei agere facere ius potestasque
sit, uti divo Augusto Tiberioque Iulio Caesari Augusto Tiberioque Claudio Caesari Augusto
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Germanico fuit. Utique quibus legibus plebeive scitis scriptum fuit, ne divus Augustus Tiberiusve
Iulius Caesar Augustus Tiberiusque Claudius Caesar Augustus Germanicus tenerentur, iis legibus
plebisque scitis imperator Caesar Vespasianus solutus sit. Quaeque ex quaque lege rogatione divum
Augustum Tiberiumve Iulium Caesarem Augustum Tiberiumve Claudium Caesarem Augustum
Germanicum facere oportuit, ea omnia imperatori Caesari Vespasiano Augusto facere liceat.
Utique quae ante hanc legem rogatam acta gesta decreta imperata ab imperatore Caesare
Vespasiano Augusto iussu mandatuve eius a quoque sunt, ea perinde iusta rataque sint, ac si populi
plebisve iussu acta essent. SANCTIO: Si quis huiusce legis ergo adversus leges rogationes plebisve
scita senatusve consulta fecit fecerit, sive quod eum ex lege rogatione plebisve scito senatusve
consulto facere oportebit, non fecerit huius legis ergo, id ei ne fraudi esto, neve quit ob eam rem
populo dare debeto, neve cui de ea re actio neve iudicatio esto, neve quis de ea re apud se agi
sinito.
...o gli sia consentito stipulare trattati con chi vuole, così come fu consentito al divino Augusto, a
Tiberio Giulio Cesare Augusto, a Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico. Gli sia consentito
convocare il senato, proporre mozioni, riferire, proporre senatoconsulti per relationem e per
discessionem, così come fu consentito al divino Augusto, a Tiberio Giulio Cesare Augusto, a Tiberio
Claudio Cesare Augusto Germanico. Quando una seduta del senato è indetta per sua volontà,
autorità, ordine, mandato o in sua presenza, tutto quello che lì si decide abbia e mantenga valore
legale (ius), come se la seduta del senato fosse stata indetta e svolta in ottemperanza a una legge (e
lege). Qualunque candidato a una magistratura, potere, imperium, incarico che lui raccomanda al
senato o al popolo romano, o al quale egli dà o promette il suo appoggio elettorale, ottenga una
considerazione speciale (extra ordinem) nei comizi. Gli sia consentito spostare e allargare i confini
del pomerium quando lo ritiene utile per lo stato, così come fu consentito a Tiberio Claudio Cesare
Augusto Germanico. Egli abbia il diritto e il potere di fare tutto quello che riterrà utile per lo stato e
degno degli interessi divini, umani, pubblici e privati, così come era stato concesso al divino
Augusto, a Tiberio Giulio Cesare Augusto e a Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico.
L’imperator Cesare Vespasiano sia sciolto dall’osservanza delle leggi e dei plebisciti dai quali erano
formalmente dispensati il divino Augusto, Tiberio Giulio Cesare Augusto e Tiberio Claudio Cesare
Augusto Germanico. All’imperator Cesare Vespasiano Augusto sia permesso fare tutto quello che il
divino Augusto, Tiberio Giulio Cesare Augusto e Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico
ebbero l’opportunità di fare con leggi o plebisciti. Tutto quello che è stato fatto, compiuto, decretato
e ordinato, prima di questa legge, dall’imperator Cesare Vespasiano Augusto o da chiunque su sua
delega, sia ritenuto conforme al diritto come se fosse stato fatto su ordine del popolo o della plebe.
SANZIONE: Se in conseguenza di questa legge qualcuno ha fatto o fa qualcosa di contrario a leggi,
rogazioni, plebisciti, senatoconsulti, oppure se, in conseguenza di questa legge, non ottempera a una
legge, rogazione, plebiscito, senatoconsulto, ciò non gli vada a detrimento, non debba per questo
pagare alcunché al popolo, non vi siano processi o giudizi su questo, nessuno proceda contro di lui
per questo (cfr. Antologia delle fonti, p. 176 T. 50).
(49) Elio Aristide, Elogio a Roma, 60-61
καὶ οὔτε θάλαττα διείργει τὸ μὴ εἶναι πολίτην οὔτε πλῆθος τὰς ἐν μέσῳ χώρας, οὐδ' Ἀσία καὶ
Εὐρώπη διῄρηται ἐνταῦθα· πρόκειται δ' ἐν μέσῳ πᾶσι πάντα· ξένος δ' οὐδεὶς ὅστις ἀρχῆς ἢ πίστεως
ἄξιος, ἀλλὰ καθέστηκε κοινὴ τῆς γῆς δημοκρατία ὑφ' ἑνὶ τῷ ἀρίστῳ ἄρχοντι καὶ κοσμητῇ, καὶ
πάντες ὥσπερ εἰς κοινὴν ἀγορὰν συνίασι τευξόμενοι τῆς ἀξίας ἕκαστοι. ὅπερ δὲ πόλις τοῖς αὑτῆς
ὁρίοις καὶ χώραις ἐστὶ, τοῦθ' ἥδε ἡ πόλις τῆς ἁπάσης οἰκουμένης, ὥσπερ αὖ τῆς χώρας ἄστυ κοινὸν
ἀποδεδειγμένη. φαίης ἂν περιοίκους ἅπαντας ἢ κατὰ δῆμον οἰκοῦντας ἄλλον χῶρον εἰς μίαν ταύτην
ἀκρόπολιν συνέρχεσθαι.
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Né il mare né l’ampia distesa di terra sono barriere per la cittadinanza, in questo Asia ed Europa non
sono divise: tutte le possibilità sono aperte per tutti, nessuno che sia degno di governo o di fiducia è
escluso, ma si è realizzata una repubblica universale sotto un unico e ottimo governante e ordinatore
del mondo; e tutti giungono assieme, come verso un’agorà comune, per ricevere ciascuno il suo.
Ciò che un'altra città è per i propri confini e il proprio territorio, questa città lo è per l'intero mondo
abitato, come se quest'ultimo fosse il suo territorio e lei ne fosse il capoluogo. Si direbbe che tutti
quanti i perieci e gli abitanti dei distretti rurali convergano verso quest’unica acropoli (cfr.
Antologia delle fonti, p. 236 T. 47).
(50) Elio Aristide, Elogio a Roma, 63
[...] ὅπερ δὲ ἐλέγομεν, μεγάλοι μεγάλως ἐμετρήσατε τὴν πόλιν, καὶ οὐκ ἀποσεμνυνάμενοι τούτῳ
θαυμαστὴν ἐποιήσατε, τῷ μηδενὶ τῶν ἄλλων αὐτῆς μεταδιδόναι, ἀλλὰ τὸ πλήρωμα αὐτῆς ἄξιον
ἐζητήσατε, καὶ τὸ Ῥωμαῖον εἶναι ἐποιήσατε οὐ πόλεως, ἀλλὰ γένους ὄνομα κοινοῦ τινος, καὶ
τούτου οὐχ ἑνὸς τῶν πάντων, ἀλλ' ἀντιρρόπου πᾶσι τοῖς λοιποῖς. οὐ γὰρ εἰς Ἕλληνας καὶ
βαρβάρους διαιρεῖτε νῦν τὰ γένη, οὐδὲ γελοίαν τὴν διαίρεσιν ἀπεφήνατε αὐτοῖς πολυανθρωποτέραν
τὴν πόλιν παρεχόμενοι ἢ κατὰ πᾶν, ὡς εἰπεῖν, τὸ Ἑλληνικὸν φῦλον, ἀλλ' εἰς Ῥωμαίους τε καὶ οὐ
Ῥωμαίους ἀντιδιείλετε, ἐπὶ τοσοῦτον ἐξηγάγετε τὸ τῆς πόλεως ὄνομα.
[...] Come dicevamo, voi che siete grandemente grandi avete distribuito la vostra cittadinanza, non
l’avete resa oggetto di stupore richiudendola in uno scrigno e rifiutandovi di condividerla con gli
altri. Al contrario, avete reso la sua diffusione un premio desiderabile e avete trasformato la parola
‘romano’ nel segno distintivo di appartenenza non ad a una città, ma ad una stirpe comune: e questa
non è una fra tante, ma quella che controbilancia tutte le altre. Ora non dividete il mondo tra greci e
barbari (né vi siete limitati a dimostrare che una simile divisione sarebbe assurda, poiché la vostra
città ha più abitanti, per dire, di tutta la stirpe ellenica), ma tra romani e non romani: fino a questo
livello avete espanso il nome della vostra città! (cfr. Antologia delle fonti, p. 236 T. 47).
(51) Elio Aristide, Elogio a Roma, 91
καὶ ταῦτ' οὐδὲν ἀπεικὸς οὕτω διελέσθαι καὶ κατιδεῖν μόνους ὑμᾶς καὶ περὶ τῶν ἔξω καὶ περὶ τῶν ἐν
αὐτῇ τῇ πόλει· μόνοι γὰρ ἐστὲ ὑμεῖς ἄρχοντες ὡς εἰπεῖν κατὰ φύσιν. οἱ μὲν γὰρ ἄλλοι οἱ πρὸ ὑμῶν
δυναστεύσαντες δεσπόται καὶ δοῦλοι ἀλλήλων ἐν τῷ μέρει γιγνόμενοι καὶ νόθοι τῆς ἀρχῆς ὄντες
οὕτω διεξῆλθον, ὥσπερ ἐν φαίρᾳ τὴν τάξιν μεταλαμβάνοντες· καὶ ἐδούλευσαν Μακεδόνες Πέρσαις,
Πέρσαι Μήδοις, Μῆδοι Σύροις. ὑμᾶς δὲ ἐκ τοσούτου πάντες ἴσασιν, ἐξ ὅτου περ ἴσασιν, ἄρχοντας.
ἅτ' οὖν ἐξ ἀρχῆς ὄντες ἐλεύθεροι καὶ οἷον ἐπὶ τὸ ἄρχειν εὐθὺς γενόμενοι, πάντα τὰ πρὸς τοῦτο
φέροντα καλῶς ἐξηρτύσασθε, καὶ πολιτείαν γε εὕρετε ἣν οὔπω πρόσθεν οὐδεὶς καὶ θεσμοὺς καὶ
τάξεις ἀφύκτους ἅπασιν ἐπεστήσατε.
Non è strano che voi soli abbiate fatto queste distinzioni e queste scoperte su come si governa sia
sul mondo sia in una città. Si può infatti dire che siete gli unici governanti secondo natura. Gli altri
che vi hanno preceduto imposero un governo arbitrario e tirannico: a turno divennero padroni e
sudditi gli uni degli altri; erano governanti illegittimi e si sono succeduti come i giocatori di palla
che cambiano posizione. I Macedoni furono per un po’ sudditi dei Persiani, i Persiani dei Medi, i
Medi degli Assiri; voi, invece, dacché vi si conosce, vi si conosce solo in qualità di governanti.
Poiché siete liberi fin dalle vostre origini e ben presto vi siete trovati a comandare, vi siete
equipaggiati con tutto ciò che serve per comandare e avete creato una costituzione che nessuno
aveva mai avuto prima e avete previsto per ogni cosa norme e ordinamenti stabili (cfr. Antologia
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delle fonti, p. 211 T. 45).
(52) Tacito, Germania, 2, 5: Ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum, quoniam qui
primi Rhenum transgressi Gallos expulerint ac nunc Tungri, tunc Germani vocati sint: ita nationis
nomen, non gentis, evaluisse paulatim, ut omnes primum a victore ob metum, mox et a se ipsis
invento nomine Germani vocarentur.
Peraltro il termine ‘Germania’ è recente ed e stato introdotto da poco, poiché i primi che varcarono
il Reno e scacciarono i Galli ora sono chiamati Tungri, ma allora erano chiamati Germani: così il
nome di una tribù, non di un popolo, ha prevalso poco per volta e adesso sono tutti chiamati
Germani, essendosi attribuiti il nome con cui prima i vincitori incutevano timore. [cfr. Antologia
III.4 T6]
(53) Strabone, Geographia, VII 1, 3 [Germani]: Tratto comune di tutti i popoli (ἔθνη) che abitano
in quest’area è la facilità con cui si spostano da un posto all’altro. Sia a causa della loro vita
modesta sia perché non coltivano la terra e non immagazzinano i prodotti, ma vivono in piccole
capanne e hanno poco da portarsi dietro. La maggior parte delle loro risorse alimentari proviene
dall’allevamento, come nel caso dei popoli nomadi (νομάδες): cosicché, imitandoli, caricate le
proprie cose sui carri, si muovono dove credono insieme ai loro animali. [cfr. Antologia III.4 T2]
(54) Polibio, Historiae, II 17, 8-12: [Celti]: Queste sono le popolazioni più famose che abitavano
la regione. Vivevano sparsi in villaggi non fortificati, estranei a ogni forma di civilizzazione (ᾤκουν
δὲ κατὰ κώμας ἀτειχίστους, τῆς λοιπῆς κατασκευῆς ἄμοιροι καθεστῶτες). Dormivano su giacigli di
paglia, mangiavano carne e non praticavano alcuna attività oltre alla guerra e all’agricoltura: era una
vita semplice e non contemplava la conoscenza di altre scienze o di arti. I beni di ciascuno erano
costituiti da bestiame e oro, poiché erano le uniche cose che potevano portarsi facilmente dietro,
ovunque secondo le necessità, e quanto lontano volessero. Avevano molta propensione ad
associarsi, perché, presso di loro, temutissimo e potentissimo è chi dimostra di avere un gran
numero di sottoposti e di seguaci.
(55) Orosio, Historiae adversus paganos, VII 33, 19: Gothi antea per legatos supplices
poposcerunt, ut illis episcopi, a quibus regulam Christianae fidei discerent, mitterentur. Valens
imperator exitiabili pravitate doctores Arriani dogmatis misit. Gothi primae fidei rudimento quod
accepere tenuerunt. itaque iusto iudicio Dei ipsi eum vivum incenderunt, qui propter eum etiam
mortui vitio erroris arsuri sunt.
I Goti in precedenza avevano inviato ambasciatori supplici per chiedere che si mandasse loro dei
vescovi per insegnare la fede cristiana. L’imperatore Valente, con esecrabile crudeltà, mandò loro
maestri di dottrina ariana: i Goti si tennero i fondamenti ricevuti della prima fede e così, per giusta
volontà di Dio, bruciarono vivo colui per colpa del quale da morti sono destinati ad ardere
nell’errore. [cfr. Antologia III.4 T26]
(56) Ambrogio, De fide, II 16, 140: Nonne de Thraciae partibus per Ripensem Daciam et Mysiam,
omnemque Valeriam Pannoniorum, totum illum limitem sacrilegis pariter vocibus et Barbaricis
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motibus audivimus inhorrentem?
Non abbiamo forse sentito che dalle parti della Tracia, attraverso la Dacia Ripense e la Misia, e in
tutta la Valeria di Pannonia, lungo tutto quel confine si agitavano le voci dei sacrileghi e l’attività
dei barbari?
(57) Procopio di Cesarea, Bellum Gothicum, I 1, 27-29: [Teodorico] ebbe grandissima cura della
giustizia, mantenne ferma l’osservanza delle leggi e difese bene il territorio dai barbari confinanti
[…] non fece quasi mai torto ad alcuno dei suoi governati e non permise agli altri di osare più di
tanto, tranne per il fatto che i Goti si spartirono tra loro quella parte di terre che Odoacre aveva
concesso ai suoi complici di ribellione. Teodorico era formalmente un usurpatore (τύραννος), ma di
fatto era un vero e proprio imperatore (βασιλεύς), per nulla inferiore a quelli che si erano distinti in
tale carica quando fu introdotta: tanto i Goti quanto gli Italici provarono per lui un grande affetto.
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