viii. la crisi e il sistema internazionale

ECONOMIA E
SICUREZZA
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Originale: inglese
Assemblea parlamentare della NATO
LA CRISI FINANZIARIA E COMMERCIALE
MONDIALE: IMPLICAZIONI PER LA COMUNITÀ
TRANSATLANTICA DELLE NAZIONI
PROGETTO DI RELAZIONE GENERALE
SIMON VAN DRIEL (PAESI BASSI)
RELATORE GENERALE*
Segretariato internazionale
*
14 ottobre 2009
Fino all’approvazione della Commissione economia e sicurezza, il presente documento
esprime unicamente le opinioni del relatore.
I documenti dell’assemblea sono disponibili all’indirizzo, http://www.nato-pa.int
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i
INDICE
I.
INTRODUZIONE: LE ORIGINI DELLA CRISIERROR!
DEFINED.
II.
I PROBLEMI MACROECONOMICI SOTTOSTANTIERROR!
DEFINED.
III.
LA SFIDA FINANZIARIA ............................... ERROR! BOOKMARK NOT DEFINED.
IV.
LA CRISI E LA DISOCCUPAZIONE ............. ERROR! BOOKMARK NOT DEFINED.
V.
L’ATTENUAZIONE DELLA CRISI NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO ........... ERROR!
BOOKMARK NOT DEFINED.
VI.
GLI SCAMBI COMMERCIALI ....................... ERROR! BOOKMARK NOT DEFINED.
VII.
LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO QUADRO REGOLATORIO ................... ERROR!
BOOKMARK NOT DEFINED.
VIII. LA CRISI E IL SISTEMA INTERNAZIONALE ERROR!
DEFINED.
IX.
BOOKMARK
BOOKMARK
BOOKMARK
NOT
NOT
NOT
CONCLUSIONI ............................................. ERROR! BOOKMARK NOT DEFINED.
BIBLIOGRAFIA ....................................................... ERROR! BOOKMARK NOT DEFINED.
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I.
1
INTRODUZIONE: LE ORIGINI DELLA CRISI
1.
Una spiegazione esaustiva della crisi attuale impone di guardare al di là degli effetti
catastrofici provocati nel 2008 dai mutui subprime e di esaminare gli squilibri macroeconomici
mondiali e le lacune sistemiche e regolatorie che hanno reso il sistema vulnerabile agli choc, alla
cattiva gestione della politica e a un diffuso impegno dogmatico per il libero mercato che ha
sostanzialmente paralizzato i responsabili politici mentre i mercati crollavano.
Secondo
l’economista politico britannico Robert Skidelsky, il tracollo del sistema finanziario riflette tre
fallimenti: un fallimento del sistema bancario, finanziario e di regolamentazione; uno spaventoso
fallimento intellettuale che ha origine nella fede cieca nei mercati mondiali e nella loro capacità di
raggiungere un equilibrio stabile nel lungo termine e, infine, un fallimento morale derivato dall’aver
attribuito alla crescita, come fine a se stessa, un maggior valore rispetto ad altri obiettivi possibili,
quali la stabilità sistemica e una distribuzione giusta e politicamente sostenibile della ricchezza.
Secondo Skidelsky, l’ordine finanziario "ha cercato di giustificare le favolose retribuzioni
corrisposte alla plutocrazia finanziaria, a fronte della stagnazione, o addirittura del calo, del reddito
medio. In nome dell’efficienza, ha promesso la delocalizzazione di milioni di posti di lavoro,
l'indebolimento delle comunità nazionali e lo stupro della natura. Per fare proseliti, un tale sistema
dovrà avere un successo straordinario. Un fallimento spettacolare non potrà che screditarlo”.
Skidelsky spiega inoltre che, sostanzialmente, vi è stata un’accettazione acritica della
globalizzazione e dell'innovazione finanziaria secondo le modalità definite da coloro che più
beneficiavano di questi fenomeni, a spese di milioni di altre persone (Skidelsky, novembre 2008).
2.
Come accenna Robert Skidelsky, oggi, la crisi economica globale lancia gravi sfide politiche
e intellettuali che. forse, le società occidentali non hanno mai dovuto affrontare dopo la Seconda
Guerra Mondiale. La pressione per un’azione decisiva è stata molto forte. ma il disaccordo sui
contenuti precisi, rischiava di far dimenticare le regole del galateo nei rapporti nazionali e
internazionali. Nella pentola a pressione della politica della crisi, molti governi sono riusciti a
scongiurare il crollo. Nonostante la loro impopolarità, i salvataggi delle banche hanno comunque
assicurato la sopravvivenza dei mercati del credito, mentre i pacchetti di stimolo hanno contribuito
a sostenere la domanda. Tuttavia, i governi hanno valutato, e a volte hanno adottato, alcune
politiche che aggravavano le condizioni economiche, già di per sé difficili. Il minaccioso spettro del
protezionismo, per esempio, desta il timore che uno degli insegnamenti fondamentali della Grande
Depressione possa essere sacrificato sull'altare dell’opportunismo politico. Comunque, il passato
può fornire unicamente una guida limitata e la crisi attuale presenta aspetti fondamentalmente
diversi da quelli che hanno caratterizzato gli anni Trenta. Oggi, le economie occidentali operano in
un contesto realmente globalizzato e in un sistema molto più interdipendente.Le potenze
economiche nuove ed emergenti come la Cina, non si collocano più ai margini. Questi nuovi attori
sono ormai determinanti. Di conseguenza, anche la gerarchia delle grandi potenze sembra in
costante evoluzione. La grande sfida consiste nel costruire strutture nuove e solide, adatte alla
nuova circostanza dell’integrazione globale. Il compito sarà difficile e, probabilmente, irto di insidie.
3.
L’attuale crisi economica è iniziata con lo scoppio della bolla dei prezzi degli asset sul
mercato dei mutui subprime negli USA. Anche quando si profilava la paralisi dei mercati del
credito, pochi erano disposti ad ammettere che il settore era sufficientemente importante da
mettere a repentaglio il sistema bancario e finanziario mondiale, alimentare il panico sui mercati
azionari e, infine, innescare un brusco declino dei mercati del lavoro. Tuttavia, alcuni avevano
riconosciuto il potenziale di crisi. Da tempo, l’OCSE avvertiva che la bolla immobiliare degli USA
poneva seri rischi finanziari per la crescita mondiale, ma, al tempo stesso, lodava l’incursione
dell’Islanda nel territorio della liberalizzazione finanziaria che, successivamente, si sarebbe rivelata
un disastro. Infatti, allo scoppio della bolla dei subprime è subito seguito un massiccio
deterioramento dei bilanci delle principali banche internazionali. Come si seppe dopo, molte di
queste istituzioni detenevano una serie di asset connessi con i titoli ipotecari o di prodotti derivati,
il cui valore dipendeva dalla direzione presa dagli specifici mercati. Quando la domanda e il
prezzo di questi asset sono calati a picco, le riserve bancarie si sono rivelate inadeguate per
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2
coprire le perdite e si è innescata una gravissima contrazione del credito che ha subito colpito tutta
l’economia mondiale.
4.
In effetti, il deterioramento dell’economia mondiale è andato di pari passo con il
prosciugamento del mercato del credito. A questo punto, le imprese hanno cominciato a
dichiarare fallimento, i lavoratori sono stati licenziati, i consumatori hanno ridotto la spesa in
previsione di tempi difficili, i prezzi delle materie prime sono crollati e il commercio globale ha
subito un brusco rallentamento. La rapida diffusione della crisi ha messo in evidenza il forte grado
di integrazione dei mercati mondiali e il modo in cui la crisi di un settore di un solo paese può
colpire rapidamente altri settori in numerosi paesi. Eppure, della reale natura sistemica del
problema si è preso coscienza soltanto con il fallimento della banca d’ investimento Lehman
Brothers nel settembre 2008. Il crollo di questa istituzione ha seminato il panico in tutto il mondo e,
infine, ha indotto i governi ad adottare provvedimenti d’urgenza per sostenere il sistema bancario
e finanziario in tutta l’area OCSE e in altri Paesi. Ma, a quel punto, la stretta creditizia aveva già
colpito l'economia reale. La fiducia delle imprese era scesa a livelli minimi, la domanda crollava e
le nuove opportunità di investimento svanivano nel nulla. Quindi, la fase iniziale della crisi ha
provocato il crollo dell’economia reale che, a sua volta, ha inferto un altro colpo al settore
finanziario. I governi di tutto il mondo sono intervenuti massicciamente per sostenere le banche
che, all’improvviso, non potevano più far fronte ai propri impegni. Questi tentativi di salvataggio
andavano ben oltre il settore bancario. Washington, per esempio, ha elaborato un certo numero di
piani di salvataggio per il settore automobilistico e immobiliare e per altri settori in pericolo.
Parallelamente, in tutto il mondo venivano adottati provvedimenti macroeconomici straordinari,
spesso coordinati, per scongiurare la recessione. L’alleggerimento della stretta monetaria,
l’aumento della spesa pubblica e, in alcuni casi, i tagli fiscali erano ormai all’ordine del giorno.
5.
In retrospettiva, si può affermare che i segni di una crisi imminente erano evidenti molto
prima dello scoppio della bolla. A partire dal 2000, il capitale, per lo più globale, aveva iniziato la
sua fuga da un settore tecnologico oggetto di massicci sovrainvestimenti al settore immobiliare
degli USA. I prezzi degli immobili salivano alle stelle e gli investitori consideravano il settore
immobiliare una sorta di “scommessa a senso unico” per quanti, in un modo o nell’altro, riuscivano
a mettere insieme i soldi per versare l’anticipo. Anche chi disponeva di mezzi finanziari limitati
otteneva un prestito per corrispondere l’anticipo necessario e, naturalmente, visto l’afflusso di
partecipanti, il mercato volava (Forum parlamentare OCSE 2008). Malauguratamente, tutta una
serie di innovazioni finanziarie, in massima parte non ancora sperimentate, quali i mortgage
backed securities (i titoli emessi a fronte di mutui ipotecari) contribuivano a mascherare la
sopravvalutazione del mercato. Questi strumenti consentivano alle banche e ad altri operatori di
frazionare i mutui ipotecari molto rischiosi in attività sempre più piccole, di combinarli con altri
strumenti - a volte altrettanto rischiosi - di riconfezionarli in titoli a tripla A e di rivenderli. I bonus
accordati dalle banche e da altre istituzioni remuneravano chi realizzava questo tipo di affari.
L’assunzione di un rischio elevato, che veniva subito scaricato su altri, era considerata una pratica
vincente. Chi, in modo sconsiderato, concedeva mutui immobiliari rischiosi cercava di rivenderli
non appena venivano stipulati, dissociandosi così, insieme alla sua istituzione, dai rischi che tali
mutui comportavano. Queste pratiche di cessione del portafoglio crediti secondo il c.d. modello di
origination and distribution erano in realtà poco più di uno schema di Ponzi legale. Su tutta Wall
Street prevaleva una sorta di orizzonte a brevissimo termine e quanti esprimevano
preoccupazione per un sistema strutturalmente e inopportunamente insicuro venivano
semplicemente emarginati dal sistema, che pensava solo ai profitti trimestrali ed era caratterizzato
da un’avidità smisurata. Invariabilmente, i crediti in sofferenza finivano sui libri contabili delle
imprese, anche di quelle che, fin dall’inizio, avevano cercato di disfarsene. Ormai, tutto l’ordine
finanziario era vulnerabile.
6.
In un’epoca caratterizzata dal dogma dell’autoregolamentazione ‘magica’ del mercato, a
volte su questi mercati mancava qualsiasi regolamentazione statale. L’attività frenetica dei
mercati era ulteriormente incoraggiata da un rating del rischio assolutamente fuorviante, elaborato
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da imprese manifestamente sottoregolamentate e in preda a più di un problema di conflitto
d’interessi. Per gettare olio sul fuoco, le mortgage-backed securities erano anche caratterizzate da
un’alta liquidità e, per certi versi, più che un rischio erano considerate moneta liquida. I Bond
insurers, le società specializzate nell’assicurazione di emissioni obbligazionarie che garantivano i
pagamenti su questi asset estendevano ulteriormente il rischio, spesso anche al di là dei confini
americani (Briefing OCSE 2009). Un mix tossico di rischio morale, asimmetria informativa, conflitto
di interessi, integrazione dei mercati, scarsa regolamentazione, irresponsabilità collettiva,
indebitamento eccessivo e fede cieca nell’efficacia virtuosa del "mercato" ha scatenano la
tempesta perfetta, con l’inevitabile conseguenza della peggiore crisi finanziaria che ha colpito il
mondo dopo la Grande Depressione.
7.
Era ormai chiaro che, nel lungo periodo precedente la crisi, i regolatori non avevano tenuto il
passo con la “innovazione” finanziaria. Ciò aveva concesso alle banche e ad altre istituzioni
finanziarie un immenso margine di manovra per la creazione e la diffusione di strumenti di credito
molto rischiosi. La valorizzazione degli asset rischiosi su un mercato finanziario mondiale già
fortemente indebitato ha esposto il sistema a un elevatissimo grado di rischio che le banche, le
autorità di regolamentazione, i mutuatari e i politici non avrebbero mai potuto immaginare. Di
conseguenza, quando, nel 2007, i prezzi degli immobili sono crollati, l’impatto sui bilanci dei grandi
istituti di credito e di assicurazione è stato devastante. Dato che molte delle istituzioni che
detenevano questi asset erano multinazionali, la crisi ha avuto portata mondiale. L’esplosione del
settore immobiliare e del credito in Spagna, Irlanda, Islanda e Regno Unito non ha fatto che
amplificare le ricadute. Una crisi iniziata a Wall Street si è diffusa rapidamente in Europa e al di là
dei confini europei. L’elevato grado di integrazione finanziaria tra i due continenti e la
diversificazione esagerata di alcuni sistemi finanziari europei ha contribuito a diffondere il panico in
tutto il mondo. Neanche i paesi come il Canada, che avevano adottato prassi bancarie fortemente
prudenziali, sono stati risparmiati dai brutali effetti secondari del crollo dei mercati mondiali
(Rapporto della missione dell’AP della NATO, Canada).
8.
Infatti, mentre i crediti in sofferenza estendevano i tentacoli a tutto il sistema finanziario
mondiale, l’economia reale cominciava la sua discesa: le linee di credito venivano revocate, la
domanda si contraeva e gli scambi commerciali subivano una forte erosione. In tutti i Paesi
sviluppati, le imprese cominciavano a licenziare i dipendenti e la disoccupazione aumentava
vertiginosamente. L’aumento della disoccupazione accelerava il rallentamento delle economie
sviluppate. Gli Stati Uniti entravano in recessione, Ben presto, il Giappone fu colpito dalla peggiore
recessione degli ultimi 35 anni con una caduta del PIL di 12.5% (a un tasso annualizzato)
nell’ultimo trimestre del 2008. L’economia britannica registrava il più pesante declino in quasi 30
anni e, alla fine del 2008, il PIL tedesco era diminuito molto più rapidamente che negli ultimi 20
anni (Tse). Il governo islandese è stato costretto a rilevare il suo settore bancario devastato che,
nel periodo precedente la crisi, era cresciuto in modo sproporzionato rispetto alle dimensioni del
paese. Nel terzo trimestre dello stesso anno, le importazioni islandesi erano diminuite del 33% in
seguito al crollo del valore della Corona. Dopo i primi due trimestri del 2009, il PIL islandese era
diminuito a un tasso annuo di 6,5% (Forbes.com, 9 settembre 2009). Secondo alcune stime di
inizio anno, nel 2009 l’economia cinese registrerà una crescita del solo 6,8% e l’India del 5,1% Si
tratta certamente di percentuali impressionanti che, tuttavia, sono quasi la metà rispetto al trend.
9.
Anche l’Europa centrale e orientale è stata colpita duramente, ma in questi paesi i problemi
del credito sono stati ben più gravi che negli Stati Uniti. Negli anni precedenti la crisi, il credito
aveva registrato un’enorme espansione in tutta la regione e, per fatalità, gran parte dei prestiti
erano espressi in Euro. Al contempo, la rapida crescita, il boom dei consumi e degli investimenti,
gli elevati afflussi di capitale e i crescenti deficit commerciali hanno causato un’esplosione del
deficit delle partite correnti Il rapporto credito/PIL era notevolmente aumentato in gran parte della
regione. Nel 2008, il credito bancario della Lettonia ammontava a 102% del PIL mentre in Estonia i
crediti in valuta estera raggiungevano il 120% del PIL. A giugno, la Banca Mondiale ammoniva
che i tre Stati baltici sarebbero stati colpiti dal più grave declino economico nell’Est europeo. Nel
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primo trimestre, le statistiche dell’UE indicavano che la performance economica di Lettonia,
Estonia e Lituania era la peggiore nel blocco dei 27 membri, con cadute annuali di produttività
rispettivamente di 18,6 %, 15,6% e 10,9%, e in tutti e tre i casi i rating del credito sono stati
declassati (Crossing Wall Street).
10. Il deleveraging in atto a livello mondiale, alimentato dall’improvviso fabbisogno di liquidità
causato dalla caduta del valore degli asset, ha costretto le banche occidentali a chiedere il rientro
dei mutui a breve termine concessi nella regione. La conseguente crisi del capitale e il
rallentamento sui principali mercati di esportazione hanno colpito ben presto l’economia reale, con
il risultato di un forte calo dei tassi di crescita in tutta la regione. Quando è scoppiata la crisi
mondiale del credito, gran parte dei paesi della regione si sono trovati in difficoltà a causa dell’alto
livello dei prestiti. Aumentava inoltre la vulnerabilità di alcune banche dell’Europa occidentale
poiché la loro esposizione nella regione era passata da 158 miliardi di dollari nel 2002 a quasi 1
trilione di dollari nel 2008 (Rapporto della Missione dell’AP NATO, Washington, maggio 2009). La
banca centrale svedese ha dovuto sottoscrivere un ulteriore prestito presso la Banca Centrale
Europea per far fronte alle garanzie concesse alle sue banche fortemente esposte. Questi
impegni e le linee di credito speciali erogate dal FMI alla regione hanno contribuito a limitare la
crisi nell’Est europeo, ma non sono riusciti a frenarla (“Stand by Me”). Alcuni studi dell’FMI
indicano attualmente che la crisi nell’Europa centrale e orientale sarà profonda ed estesa.
Tuttavia, la crisi non ha colpito allo stesso modo tutte le aree della regione; è stata particolarmente
grave negli Stati baltici, in Ucraina e in Russia ma ha avuto conseguenze meno pesanti, per
esempio in Polonia, che finora ha superato la tempesta ed è rimasta in condizioni relativamente
buone. La Russia è stata costretta ad attingere al suo fondo di riserva, in passato ingente, che,
nel trimestre del 2009, è sceso a 52 miliardi di dollari, dal massimo storico di 137 miliardi di dollari
nello scorso marzo. Questo fondo potrebbe essere totalmente esaurito alla fine del 2010 (“Here
today, gone by 2010”). Ciò ha sollevato quesiti sulla sostenibilità della politica di finanza pubblica
della Russia.
11. Nonostante queste notizie sconfortanti, oggi l’economia mondiale mostra chiari segni di una
lenta stabilizzazione dopo una crisi profonda, estenuante e protratta. Attualmente, l’FMI prevede
una contrazione della crescita globale limitata a 1,4% nel 2009 e un aumento del 2,5% nel 2010.
Si tratta di un dato significativamente migliore rispetto al previsto. Tuttavia, la ripresa sarà fragile
e lenta e si profilano alcuni rischi legati al pesante debito pubblico. Ben Bernanke, Presidente della
Fed, ritiene che gli Stati Uniti registreranno un secondo trimestre consecutivo di crescita ponendo
ufficialmente fine alla recessione nazionale e, nel 2010, si avvieranno sulla strada della crescita .
Ha però aggiunto che “se l’economia USA deve segnare una ripresa, se le misure di stimolo
finanziario devono essere gradualmente eliminate, e se la domanda privata interna è debole, le
esportazioni nette degli USA dovranno aumentare. In altri termini, l’attuale deficit delle partite
correnti degli USA dovrà diminuire sensibilmente e le esportazioni dovranno alimentare
maggiormente la crescita, quando e se la spesa pubblica diminuirà. Di conseguenza, il resto del
mondo, che registra attualmente un sostanziale surplus, dovrà ridurre l’eccedenza delle partite
correnti” (Blanchard). Ovviamente, tale scenario implica un cambiamento radicale dei modelli
mondiali di crescita e di finanza pubblica e non è affatto chiaro se gli Stati Uniti o il resto del
mondo sono pronti per questo cambiamento. Il monito di Ben Bernanke induce a ritenere che, in
assenza di cambiamenti strutturali, la ripresa potrebbe rivelarsi molto fragile. Ormai, la ripresa in
Asia è più rapida che nelle economie occidentali. Per l’anno in corso, la Banca di Sviluppo
Asiatico prevede una crescita di 3,4% nella regione. Secondo il suo Capo economista, le
percentuali potrebbero essere significativamente inferiori al potenziale di crescita della regione
che, nel 2010, potrebbe sfiorare il 7% ("World Economic Outlook Update” 8 luglio 2009, Brown).
II.
IL PROBLEMA MACROECONOMICO SOTTOSTANTE
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12. Numerosi fattori macroeconomici distinguono la crisi attuale dalle altre crisi finanziarie, come
quella che ha colpito gran parte dell'Asia nel 1997. Innanzitutto, la crisi attuale ha avuto il suo
epicentro nella maggiore potenza economica mondiale. In secondo luogo, la crisi non è stata
semplicemente una crisi del settore bancario, ma è stata anche il prodotto di squilibri
macroeconomici fondamentali. Nel periodo precedente la crisi, l’economia mondiale era già
surriscaldata a causa di una creazione eccessiva del credito. Il credito era stato generato dai
massicci e persistenti deficit delle partite correnti degli USA, finanziati con i prestiti asiatici e
soprattutto cinesi. A partire dal 2006, il deficit delle partite correnti degli USA era aumentato a
livelli insostenibili, superiori al 5% del PIL. Negli Stati Uniti, la spesa per il consumo e gli
investimenti nel settore immobiliare erano aumentati da 67% del PIL nel 1980 a 75% nel 2007,
mentre il tasso di risparmio delle famiglie era sceso dal 10% del reddito disponibile nel 1980 a
quasi zero nel 2007. Di conseguenza, nello stesso periodo, l’indebitamento delle famiglie era salito
da 67% a 132% del reddito disponibile.
13. Già da tempo, i monetaristi avevano lanciato un avvertimento: la mancata riduzione dei
massicci deficit delle partite correnti e di bilancio avrebbe provocato contrazioni improvvise e
pesanti. Tali avvertimenti non trovarono ascolto negli ambienti politici americani ai quali il
privilegio di gestire la riserva valutaria mondiale dava la possibilità di ignorare le normali regole
della contabilità monetaria internazionale. La massiccia contrazione intervenuta nel 2008 indica,
tuttavia, che l’America potrebbe perdere questo particolare privilegio (Grant). Il cambiamento è
stato molto più rapido, profondo e diffuso del previsto. E’ tuttavia preoccupante che gli Stati Uniti
continuino a registrare deficit delle partite correnti e di bilancio e che la Cina e altri risparmiatori
netti continuino a erogare prestiti al Tesoro statunitense. Ciò facilita la continuazione della spesa
pubblica americana e sostiene la liquidità globale nel Paese, ma indica anche che nuovi
aggiustamenti macroeconomici dolorosi si profilano all’orizzonte. Questa situazione ha anche
avuto un certo numero di effetti perversi. In primo luogo, ha sottratto capitale ai paesi più poveri
convogliandolo verso un paese industrializzato maturo. In secondo luogo, il capitale affluito agli
Stati Uniti dopo il 2000 è stato utilizzato per sostenere i consumi e finanziare il boom immobiliare e
non per sostenere la produttività americana. Infine, questi afflussi di capitale hanno spinto verso
l’alto il valore del dollaro, hanno ridotto le opportunità di esportazione delle imprese americane,
hanno generato un boom dei beni non commerciabili (in particolare del settore immobiliare) e
hanno incoraggiato la delocalizzazione delle imprese americane nell’intento di sfruttare una
manodopera a basso costo all’estero. Quindi, i detentori del capitale hanno beneficiato anche delle
opportunità di una produzione a basso costo in Cina e hanno goduto dei profitti del boom, mentre i
lavoratori americani hanno sofferto per le conseguenze della delocalizzazione della produzione
industriale e della stagnazione dei salari del settore (Skidelsky, luglio 2009).
14. Tra tutti i paesi del mondo, gli Stati Uniti sono divenuti il paese con il più pesante ricorso al
prestito e, al tempo stesso, con la spesa più elevata, ma hanno avuto la possibilità di andare
avanti su questa strada fin tanto che il mondo ha ritenuto sostenibile una tale situazione. Nel
primo trimestre del 2008, il debito estero degli USA si è avvicinato a 6,5 trilioni di dollari (Moirici). I
cinesi e le alte Tigri asiatiche, più parsimoniosi, hanno finanziato la corsa alla spesa negli Stati
Uniti, beneficiando, in cambio, dell’enorme appetito americano di prodotti di consumo asiatici
disponibili a basso costo per effetto di un fondamentale disallineamento della valuta. Poiché
l’afflusso di capitali ha spinto verso il basso i tassi d’interesse USA e le importazioni a basso costo
hanno abbassato i prezzi dei prodotti, la Federal Reserve ha usufruito di un ampio spazio di
manovra per perseguire una politica monetaria “morbida” che, associata a una politica di bilancio
poco rigorosa, alimentava la domanda. La crescita della produttività statunitense ha subito una
battuta d’arresto, come conseguenza di una allocazione profondamente erronea del capitale a
buon mercato. Il capitale straniero ha facilitato l’orgia di consumi degli americani e ha fornito
all’Asia e ad altre economie dipendenti dalle esportazioni un mezzo per sostenere la crescita.
Questo scambio simbiotico si è trasformato sostanzialmente in un circolo vizioso e insostenibile.
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15. In ultima analisi, per correggere efficacemente la situazione macroeconomica, i paesi come
gli Stati Uniti, che per anni hanno speso troppo, dovranno risparmiare di più. Invece, i paesi come
la Cina, che oggi hanno bisogno di investimenti interni in settori come la sanità pubblica e le
infrastrutture ambientali, dovranno aumentare la spesa. Questa transizione è già iniziata,
considerato che oggi le famiglie americane risparmiano il 5% del reddito, a fronte di un tasso di
risparmio vicino allo zero nello scorso anno. Comunque, attualmente il risparmio negativo del
governo statunitense registra ancora livelli record, mentre aumenta la spesa pubblica per il settore
sociale, per la difesa, per varie iniziative di salvataggio dell’economia, per i tagli fiscali e per i
pacchetti di stimolo (“After the Fall”). Il deficit strutturale, l’ampio pacchetto di stimolo e la riduzione
delle entrate fiscali hanno triplicato il disavanzo di bilancio degli USA che, a settembre, ha
raggiunto 1,4 trilioni di dollari (BBC, 8 ottobre 2009). In ultima analisi, per risanare l’economia, il
governo statunitense dovrà ridurre il suo disavanzo, consentire il deprezzamento del dollaro e
rilanciare le esportazioni. I cinesi sono preoccupati, a ragione, per la massiccia caduta del valore
del dollaro, soprattutto alla luce dell’ingente quantità di dollari che hanno accumulato. Vorrebbero
sicuramente ridurre la loro esposizione al dollaro ma difficilmente potranno farlo senza un forte
deprezzamento della valuta. E’ uno dei motivi per cui i cinesi chiedono il rilancio dei Diritti Speciali
di Prelievo dell’FMI che consistono in un paniere di valute e potrebbero essere detenuti dalle
banche centrali in sostituzione dei dollari (“Promises, Promises”). Le strategie monetarie e
commerciali della Cina hanno indotto il paese a sovrainvestire nel settore delle esportazioni,
penalizzando il settore dei beni non commerciabili. Anche il crescente problema di inquinamento
che il Paese deve affrontare può essere considerato, almeno in parte, come conseguenza di
questo modello, anche se è, ovviamente, un effetto della crescita. In ogni caso, la Cina si trova
appena all’inizio del cammino che deve portare all’adozione della regolamentazione in materia di
ambiente e di spesa di cui il Paese ha bisogno per impedire che la sua popolazione resti
letteralmente soffocata dallo sviluppo del paese. Ai leader cinesi va comunque riconosciuto il
merito di essere perfettamente consapevoli della gravità della sfida che ha anche implicazioni per
la sicurezza nazionale e di lavorare con maggiore determinazione per affrontarla. Ciò ha anche
implicazioni finanziarie, in quanto la Cina potrebbe cominciare a investire una parte maggiore delle
sue riserve sul territorio nazionale, invece di acquistare buoni del Tesoro americani.
Concretamente, ciò significa che la Cina dovrà consentire un apprezzamento del renminbi e
cominciare a destinare parte della ricchezza che sta accumulando agli investimenti interni , invece
di utilizzarla per l’acquisto dei buoni del Tesoro americani. Tuttavia, quando e se ciò avverrà, gli
Stati Uniti si troveranno di fronte a scelte difficili che hanno a lungo evitato.
III.
LA SFIDA FINANZIARIA
16. All’inizio della crisi, gli analisti dell’OCSE hanno segnalato l’esigenza di varare, fin dall’inizio,
ampi pacchetti di stimolo per generare un impatto per quanto possibile rapido. Gli esborsi
immediati del governo avrebbero potuto stimolare meglio dei tagli fiscali –soprattutto se
interessavano i settori più ricchi della società –la domanda nelle economie colpite dalla
recessione. Ove possibile, tali progetti avrebbero dovuto tenere conto dell’equità sociale e delle
esigenze ambientali. Erano inoltre necessari gli sforzi per ridurre al minimo il rischio morale e non
dare l’impressione di premiare la spregiudicatezza finanziaria – cosa che, peraltro, si è rivelata
particolarmente difficile. Infine, era essenziale garantire la sostenibilità finanziaria e prevedere
strategie di uscita in modo da non compromettere la sostenibilità nel lungo termine. Questo tipo di
strategie sarebbe stato importante soprattutto in paesi come gli Stati Uniti che, già prima della
recessione, avevano registrato deficit di bilancio e di partita corrente molto elevati e insostenibili.
Nonostante i significativi segni di ripresa, ci si chiede con crescente preoccupazione se gli sforzi
dei paesi occidentali per adottare strategie di spesa keynesiane nel breve termine non potrebbero
creare seri problemi qualora, a più lungo termine, fosse compromesso il rigore di bilancio. La
recessione non ha soltanto eroso le entrate fiscali, ma ha anche causato un aumento della spesa
pubblica dovuto all’intervento degli stabilizzatori automatici e all’adozione dei nuovi programmi a
sostegno della domanda. A lungo andare, con l’aumento del debito di bilancio, i governi
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potrebbero cedere alla tentazione di adottare politiche inflazionistiche per alleggerire i vincoli. Ciò
scoraggerebbe gli investimenti del settore privato, comprometterebbe la produttività nel più lungo
termine e causerebbe una fuga di capitali.
17. Paesi come la Germania, il Regno Unito e la Finlandia hanno quindi annunciato che, in
futuro, intendono adottare misure per il risanamento dei bilanci eccessivamente espansivi. I
governi devono trovare il modo di premere sull’acceleratore senza distruggere i germogli della
ripresa economica. Non è un compito semplice. E’ sicuramente più facile lanciare un programma
di spesa pubblica che sospenderlo poiché ciò richiede coraggio politico, sensibilità per la
situazione economica e un perfetto tempismo. Con una spesa di 787 miliardi di dollari per il
pacchetto di stimolo e di 700 miliardi per il salvataggio delle banche, gli Stati Uniti hanno speso più
di qualsiasi altro paese per tenere a galla la loro economia. Negli Stati Uniti, gli stabilizzatori
automatici, quali le prestazioni previdenziali e le indennità di disoccupazione, sono di gran lunga
inferiori a quelli europei. Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno cercato di compensare la situazione
con il loro piano di rilancio. E’ uno dei motivi per cui gli stanziamenti per le misure di stimolo
rispetto al PIL sono stati maggiori negli Stati Uniti che in Europa (Briefing OCSE 2009). Secondo
la Casa Bianca, nell’esercizio finanziario 2009, il deficit totale dovrebbe raggiungere 1,75 trilioni di
dollari, con un aumento di 1,29 trilioni rispetto al deficit del 2008. Le previsioni indicano una
riduzione del deficit a 1,17 trilioni di dollari nel 2010 e a 533 miliardi nel 2013 (OMB).
18. Come ha rilevato il direttore del Consiglio economico nazionale degli USA Larry Summers
all’inizio della crisi, in una situazione ideale la spesa pubblica per i piani di stimolo dovrebbe
essere tempestiva, finalizzata e temporanea. Purtroppo, raramente i programmi di spesa pubblica
sono così ben calibrati, in particolare se vengono elaborati in tutta fretta, come è avvenuto sempre
nel caso in esame. L’opportunismo politico può insinuarsi nei migliori piani di spesa, soprattutto
all’interno dei sistemi democratici aperti nei quali la spesa pubblica costituisce la moneta di
scambio politico. La sfida del risanamento di bilancio è ancora più complessa nei paesi nei quali
l’intervento non si è limitato a semplici iniziative monetarie e finanziarie. Laddove lo Stato è
intervenuto per consolidare i bilanci delle banche, delle società private e degli istituti di mutuo
ipotecario, gli oneri sono stati ancora più pesanti e, sul piano politico, la riduzione del ruolo dello
Stato appare ancor più rischiosa e problematica. Per esempio, il governo statunitense si è
trasformato nel principale finanziatore, assicuratore, produttore automobilistico e garante contro il
rischio assunto dagli investitori. Se teniamo conto delle misure di salvataggio finanziario e del
pacchetto di stimolo economico, oggi, negli Stati Uniti la spesa pubblica rappresenta circa il 26%
dell’economia nazionale - una percentuale mai raggiunta dalla Seconda Guerra Mondiale.
Attualmente, lo Stato finanzia nove mutui ipotecari su dieci e detiene l’80% di AIG, la più grande
impresa di assicurazione del mondo (Andrews, 14 settembre 2009). L’eliminazione di questi asset
dalla contabilità dello Stato potrebbe rivelarsi una fatica di Ercole.
19. Il governo statunitense ha già avviato un delicato processo di uscita da un programma di 700
miliardi di dollari che ha iniettato fondi pubblici nelle banche, nelle compagnie d’assicurazione e in
due delle Tre Grandi case automobilistiche, oltre che in altre istituzioni. In generale,
l’amministrazione Obama ha adottato l’approccio di non interferire nella gestione degli asset di
recente acquisizione e definisce temporaneo il suo intervento sul mercato. Inizialmente, l’obiettivo
era di salvare le istituzioni dal fallimento, oggi è di uscire rapidamente, appena lo consente la
situazione economica. Tuttavia, l’amministrazione Obama riconosce che alcuni degli asset
acquisiti nell’ambito del Troubled Asset Relief Program (TARP) - il piano di salvataggio degli asset
a rischio, noto anche come Piano Paulson - potrebbero risultare irrecuperabili ed altri potrebbero
essere difficili da cedere. Tuttavia, più di trenta istituti finanziari hanno già rimborsato al Tesoro
americano prestiti per 70 miliardi di dollari. Secondo le stime, altri 50 miliardi saranno rimborsati
nei prossimi diciotto mesi e, in molti casi, il governo potrebbe realizzare un utile significativo
(Andrews 14 settembre). Un altro programma, il Temporary Liquidity Guarantee Program
(Programma temporaneo di garanzia della liquidità) della Federal Deposit Insurance Corporation,
ha garantito circa 300 miliardi di dollari di obbligazioni emesse dalle banche. All’inizio dell’anno, il
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programma ha esteso le garanzie al ritmo di 90 miliardi di dollari al mese, ma attualmente l’importo
è sceso a circa 5 miliardi – un altro indicatore dell’attenuazione significativa della crisi (Andrews,
14 settembre 2009). Allo stesso modo, lo scorso anno, il programma di anticipazioni a termine
tramite asta (c.d. term auction facility), varato dal governo per sostenere le imprese in crisi, si è
ridotto della metà e, secondo le previsioni, si concluderà presto.
20. Il Tesoro americano ha iniettato 95 miliardi di dollari in Fannie Mae e Freddie Mac, due
società semipubbliche di erogazione di mutui immobiliari, per ripianare le perdite causate dai tassi
di insolvenza eccezionalmente elevati e le perdite derivanti dal crollo del valore degli immobili.
Alcuni osservatori del mercato ritengono che, nei prossimi anni, queste gigantesche istituzioni
avranno bisogno di fondi aggiuntivi per coprire le loro perdite. Pertanto, ancora per qualche tempo,
il mercato immobiliare statunitense vedrà una forte presenza del governo. La Federal Reserve ha
acquistato titoli obbligazionari legati ad ipoteche per 700 miliardi di dollari e , secondo alcune
stime, la cifra potrebbe aumentare a 1,25 trilioni, Ha inoltre acquistato 200 miliardi di obbligazioni
di Fannie Mae e Freddie Mac. Attualmente, la Federal Bank acquista praticamente la quasi totalità
dei titoli ipotecari emessi da Fannie Mae, da Freddie Mac e dalla Federal Housing Administration
(FHA) per impedire un crollo catastrofico del valore degli immobili.
21. Gli Stati Uniti non sono affatto i soli a dover gestire le gravi sfide finanziarie. In tutti i paesi
dell’OCSE, l’aumento della spesa pubblica, i tagli fiscali e la riduzione delle entrate pubbliche
hanno alimentato disavanzi crescenti e a volte insostenibili. I deficit di bilancio sono saliti alle stelle
– ad una media di quasi 10% del PIL nei paesi più ricchi – mentre i governi hanno ricapitalizzato le
banche, hanno varato pacchetti di stimolo a sostegno della domanda, e si sono accollati nuovi
oneri – sempre a fronte di una costante riduzione delle entrate pubbliche. Il mancato aumento
della spesa pubblica avrebbe compromesso ulteriormente le economie già fragili e paralizzate
dalla stretta creditizia. Non sorprende, quindi, che al vertice del G20 svoltosi a Pittsburgh in
settembre, i capi di governo si siano dichiarati favorevoli alla continuazione dei programmi di
stimolo per costituire una solida base di crescita ("The Other Exit Strategy"). L’economia mondiale
non è ancora fuori dai guai.
22. Prevedibilmente, l’equilibrio dei bilanci pubblici continuerà gradualmente a migliorare con la
ripresa dell’economia mondiale, ma il livello di indebitamento di alcuni governi è preoccupante.
Sono ancora previsti disavanzi nettamente superiori ai livelli del 2007. Nei paesi del G20, i
disavanzi di bilancio potrebbero raggiungere una media del 5,5 % del PIL sia nel 2009 che nel
2010, con livelli significativamente più elevati rispetto al periodo precedente la crisi (Horton et al.).
Secondo l’FMI, entro il 2014, il debito pubblico lordo delle economie dei principali paesi ricchi del
mondo arriverà in media a 115% del PIL e, successivamente, continuerà ad aumentare in alcuni
paesi, soprattutto in America. Si prevede che, tra il 2010 e il 2014, nell’insieme dei paesi del G20 i
rapporti di indebitamento si attesteranno a circa 85% del PIL – una percentuale che supera di
circa il 23% i livelli pre-crisi. A fronte di questo indebitamento, i tassi d’interessi saranno spinti
verso l’alto, gli investimenti privati saranno parzialmente spiazzati e la crescita sarà limitata (“The
Other Exit Strategy"). Solo pochi paesi del G20 hanno messo a punto strategie di aggiustamento
di bilancio a medio termine pienamente credibili, mentre altri hanno annunciato gli obiettivi o hanno
rivisto le proiezioni finanziarie. A giugno, la Germania ha adottato una nuova norma di bilancio,
applicabile al governo federale e ai Länder, che prevede lo spostamento progressivo in direzione
di un equilibrio strutturale a partire dal 2011. Ciò significa che il disavanzo strutturale del governo
federale non potrà superare lo 0,35% del PIL a partire dal 2016 (Horton et al.). Secondo le stime,
il deficit di bilancio del Regno Unito, aumenterà a 175 miliardi di Sterline (Parker). Il governo
prevede un consolidamento annuale del bilancio pari, in media, a 1,3% del PIL entro il 2010 e il
2014, per consentire una riduzione del debito a partire 2015-2016 (Horton et al.). Anche i deficit di
bilancio dei paesi emergenti e in via di sviluppo dovrebbero aumentare in media del 4,6% del PIL
nel 2009 rispetto ai livelli pre-crisi del 2007, con un risanamento graduale a partire dal 2010
(Horton et al.).
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23. Il rilancio della crescita è il fattore-chiave per la riduzione del rapporto debito/PIL. Alcuni
analisti, tra cui Paul Krugman, insistono sul fatto che, nel clima attuale i deficit non dovrebbero
essere considerati un problema (Reich, 31 agosto, 2009). Paul Krugman ha posto ripetutamente il
quesito se il pacchetto di stimolo di Obama sia stato sufficientemente ampio per far uscire
l’economia dalla recessione. Pur ritenendo che sia stato evitato lo scenario peggiore, Krugman
ritiene che se oggi non viene iniettata maggiore liquidità nel sistema, si rischiano di anni di crescita
lenta e disoccupazione elevata. Secondo Krugman, il rischio di inflazione sarebbe minimo,
considerato l’eccesso di capacità degli Stati Uniti e di altri Paesi (Intervista a Krugman). Su questo
punto, altri economisti sono molto più scettici e sostengono che i crescenti deficit di bilancio negli
Stati Uniti e di altri Paesi indurranno inevitabilmente le banche centrali a stampare denaro per
alleggerire il peso del debito nazionale (Ohanian). L’OCSE, insieme ad altri think tank, sostiene
inoltre che è prematuro eliminare i pacchetti di stimolo, ma i governi dovrebbero pianificare fin da
ora le strategie di ritiro.
IV.
LA CRISI E LA DISOCCUPAZIONE
24. La disoccupazione di massa potrebbe essere l’ultimo indicatore economico a mostrare il suo
volto orrendo nel mezzo di una crisi finanziaria globale. Per ovvi motivi, è anche l’indicatore più
sensibile sul piano politico. E’ noto che, rispetto a tutti gli altri indicatori, il tasso di disoccupazione
è perennemente in ritardo, non soltanto perché continua a essere indietro di mesi quando una crisi
economica e finanziaria ha toccato il fondo, ma anche perché è uno degli ultimi indicatori a tornare
alla “normalità” quando l’economia migliora. Nella crisi attuale, la perdita di posti di lavoro è
aumentata soltanto dopo il crollo dei livelli della domanda nell’economia reale e probabilmente
continuerà ad aumentare ancora per molto tempo dopo la ripresa. Nonostante esistano segni di
una nuova crescita globale e di un rallentamento della perdita dei posti di lavoro, la tendenza non
si è ancora invertita e, con ogni probabilità, la disoccupazione aumenterà, almeno nei primi sei
mesi del 2010. Attualmente, negli USA il tasso disoccupazione è al livello più alto degli ultimi 26
anni e potrebbe superare il 10% alla fine di quest’anno. In Spagna e nel Regno Unito, il tasso di
disoccupazione ha raggiunto rispettivamente 18,9% e 7,9% (Groom). Nell’area dell’Euro, la
disoccupazione ha toccato il 9,5% nel luglio 2009, superando del 2% il tasso di disoccupazione del
luglio 2008. In tutti i paesi dell’OCSE, la perdita di posti di lavoro ha penalizzato soprattutto i
giovani, le donne, i precari e i lavoratori del settore edilizio e manifatturiero. Secondo l’OCSE, è
probabile che la perdita di posti di lavoro in tutta l’area OCSE aumenterà fino alla fine del 2010
quando, negli Stati membri, la disoccupazione sarà del 10%, pari a 57 milioni di disoccupati.
Saranno necessari anni per recuperare i posti di lavoro perduti (OECD Employment Outlook).
Una recente indagine multinazionale condotta tra 72.000 imprese in Europa, in Medio Oriente e in
Africa ha concluso che i datori di lavoro di 17 paesi su 35 prevedono assunzioni nette nei prossimi
tre mesi, ma il numero di assunzione dovrebbe rimanere basso. Soltanto i datori di lavoro di
Norvegia, Polonia, Svezia e Sud Africa hanno riferito un andamento delle assunzioni positivo,
anche se modesto, nel quarto trimestre. I datori di lavoro di Romania, Irlanda e Spagna sono i
meno ottimisti sull’aumento delle assunzioni nel prossimo trimestre e, in questi paesi, sono
sicuramente prevedibili ulteriori riduzioni dell’occupazione. Le prospettive occupazionali sono più
favorevoli in India, Brasile, Colombia, Perù, Cina, Australia, Singapore, Costa Rica, Canada,
Taiwan e Polonia ("Manpower Employment Outlook Survey: Global").
25. Ovviamente, la disoccupazione elevata e crescente comporta seri rischi economici e politici.
Come indicato sopra, dopo un crollo drammatico dei livelli occupazionali potrebbero essere
necessari alcuni anni per tornare ai precedenti livelli. Le professionalità dei lavoratori vengono
erose, i posti di lavoro vengono delocalizzati e, alla fine, alcuni lavoratori escono dal mercato del
lavoro. La mancanza di lavoro è inoltre causa di povertà e ciò pone problemi sociali ed economici
ancor più gravi. Angel Gurría, Segretario Generale dell’OCSE, ha dichiarato che “il lavoro è la
punta dell’iceberg della crisi attuale ed è venuto il momento che i governi si concentrino sull’aiuto
da fornire alle persone in cerca di lavoro nei prossimi mesi” (OCSE, 16 settembre 2009). I rischi
politici sono reali. Una frustrazione generalizzata può avere ripercussioni politiche o dettare alcune
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politiche intese a mitigare il disagio di chi ha perso il lavoro che, tuttavia, si riveleranno deleterie e
comprometteranno la crescita nel lungo termine. La tentazione di impedire che le imprese
dichiarino fallimento può essere forte, ma c’è il rischio che lo Stato e i contribuenti si trovino con
degli asset che, nel lungo termine, potrebbero rivelarsi di scarso valore. Molti Stati sono stati
costretti a valutare se una determinata impresa si trovava di fronte a problemi temporanei o era
incapace di sopravvivere a lungo termine. Esiste infine un rischio morale. Infatti, quando si ritiene
che uno Stato ha l’abitudine di salvare le imprese decotte, si incoraggia un comportamento
sconsiderato che tende a privatizzare i profitti e a nazionalizzare le perdite. Ciò vale sia per le
banche sia per le case automobilistiche. Oggi, gli economisti sono molto preoccupati per il
problema del rischio morale, ma la perdita di posti di lavoro resta l’elemento motore della politica.
Per mantenere i posti di lavoro potrebbero risultare necessarie altre strategie. Il sussidio ai salari
e l’incoraggiamento di una riduzione dell’orario di lavoro settimanale sono due possibilità.
V.
L’ATTENUAZIONE DELLA CRISI NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
26. La crisi finanziaria originale non si è certo fermata ai confini dell’Europa, ma ha colpito anche
i paesi in via di sviluppo in vari modi: con il crollo della domanda mondiale, con la caduta dei prezzi
delle materie prime e, indirettamente, con la riduzione degli investimenti esteri nell’assistenza allo
sviluppo e con il calo delle rimesse (OCSE, 1 ottobre 2009). La crisi ha prosciugato i mercati
finanziari e ha eroso la disponibilità delle istituzioni finanziarie a concedere il credito ai clienti che
potrebbero essere considerati a rischio. In realtà, questa crisi ha scatenato quella che viene
definita “fuga verso la qualità", provocando una massiccia uscita di capitali da una miriade di paesi
in via di sviluppo. La conseguente recessione commerciale nei Paesi sviluppati si è rapidamente
diffusa ai Paesi in via di sviluppo e ha fatto crollare sia la domanda di importazioni sia i prezzi delle
materie prime. Il contraccolpo è stato particolarmente duro nei paesi in via di sviluppo che
dipendono dalle esportazioni. Oggi, il massiccio indebitamento dei governi occidentali rende ancor
più difficile l’accesso al capitale per i paesi in via di sviluppo che, in gran parte, sono privi dei fondi
necessari per finanziare i programmi di rilancio. Nel frattempo, nello scenario attuale, i fondi di
bilancio per l’assistenza allo sviluppo sono più esposti ai tagli. Tutti questi fattori rischiano di
allargare ulteriormente il divario tra il reddito dei paesi ricchi e il reddito dei paesi poveri.
27. A causa dello spettacolare declino dell’afflusso di capitale nei Paesi in via di sviluppo, i paesi
più poveri hanno grande difficoltà a finanziarie i deficit delle partite correnti. Secondo le stime
della Banca Mondiale, il deficit di risorse finanziarie è compreso tra 270 e 700 miliardi di dollari.
Non è ancora chiaro come saranno finanziati questi disavanzi e molto dipende dall’andamento
della crisi attuale. Se le condizioni si stabilizzeranno, la carenza di risorse finanziarie potrebbe
sfiorare i 270 miliardi di dollari. Se, invece, la situazione peggiorerà, si prevedono deficit ancora
più ingenti. Ovviamente, la rovinosa caduta del commercio internazionale peggiora gli equilibri in
molti paesi in via di sviluppo (AP NATO, Washington DC, 4-6 maggior 2009).
28. Nel mondo in via di sviluppo, la crisi ha anche avuto gravi implicazioni umanitarie e di
sicurezza. Si stima che, lo scorso anno, circa 150 milioni di individui siano scesi al di sotto della
soglia di povertà che la Banca Mondiale ha fissato a 1,52 dollari al giorno e che, a maggio di
quest’anno, la povertà ha colpito altri 50 milioni di persone. Ovviamente, i poveri hanno
pochissime riserve per far fronte al deterioramento della situazione economica. Le famiglie che si
impoveriscono improvvisamente sono costrette a vendere la loro proprietà per esempio il bestiame
da allevamento, che è fondamentale per il loro sostentamento e per la loro produttività a lungo
termine. I bambini sono costretti a lasciare la scuola, il numero delle visite mediche viene ridotto
al minimo e la qualità dell’alimentazione peggiora. Tutti questi fattori possono avere effetti duraturi
sullo sviluppo e sulla sicurezza. Spesso, i bambini sottonutriti sono affetti da una disabilità
permanente e devono gravare per decenni sull’economia e sulla società. Ai paesi in via di
sviluppo mancano generalmente gli strumenti finanziari per affrontare crisi multiple. Oggi, molti
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esperti di sviluppo ritengono che, a causa dell’attuale crisi, la realizzazione degli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio sarà ancora più difficile. In realtà, è il secondo grande choc che ha colpito i
paesi in via di sviluppo negli ultimi due anni: il vertiginoso aumento dei prezzi dei generi alimentare
e dell’energia nel periodo precedente la crisi finanziaria aveva già relegato milioni di persone nella
povertà assoluta (Austrevicius).
29. Non tutti i Paesi in via di sviluppo hanno gli stessi problemi e gli stessi bisogni e, di
conseguenza, sono necessarie tipologie diverse di sostegno. Alcuni paesi, per esempio, devono
affrontare una brusca riduzione delle rimesse, altri soffrono per la caduta dei prezzi delle materie
prima e altri ancora sono penalizzati dalla riduzione degli scambi commerciale o dell’afflusso dei
capitali. La Banca Mondiale ha chiesto ai Paesi sviluppati di stanziare risorse per aiutare i paesi in
via di sviluppo a superare la tempesta in atto. Il sostegno è necessario per il mantenimento delle
reti di sicurezza sociale nei paesi più poveri dove molti individui vivono in condizioni di grande
precarietà. Il sostegno alla produzione agricola e alle piccole e medie imprese resta una priorità
fondamentale. La Banca Mondiale ha triplicato il prestito ai paesi più poveri, mentre la Banca
Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) spenderà 35 miliardi di dollari quest’anno
e in ciascun anno del prossimo biennio. La Banca ha adottato misure per il rapido trasferimento di
questi fondi, per assicurare un effetto di stimolo immediato nei paesi privi delle risorse finanziarie
necessarie per adottare politiche di bilancio espansive (Rapporto della Missione dell’AP della
NATO, Washington DC, maggio 2009). La Banca Mondiale sostiene gli sforzi volti ad aiutare i più
vulnerabili e a mitigare il costo sociale della crisi. Per esempio, il Global Food Crisis Response
Program (GFRP), il programma d’intervento in risposta alla crisi alimentare mondiale, aiuta i
piccoli agricoltori nel difficilissimo clima di oggi. Un altro programma offre sostegno alle reti di
sicurezza sociale per i poveri delle aree urbane. In questa crisi, la Banca ha due priorità assolute:
consentire ai bambini di frequentare la scuola e assicurare il loro accesso alle strutture sanitarie.
30. Nel più lungo termine, l’avanzamento del processo di sviluppo potrebbe essere
fondamentale per correggere alcuni dei problemi strutturali alla base dell’attuale crisi. Alla vigilia
del vertice del G20 di Pittsburgh, Robert Zoellick, Presidente della Banca Mondiale, ha osservato
che i consumatori americani non possono più essere il motore della crescita globale e che, almeno
nel più lungo termine, i Paesi in via di sviluppo, inclusi i paesi africani, dovrebbero essere
considerati come una fonte potenziale di crescita trainata dai consumi e, in una certa misura, è già
così. I grandi mercati emergenti registrano una ripresa più rapida dei paesi sviluppati (“Not just
straw men”) e sono diventati i protagonisti-chiave dello sviluppo dei rapporti economici Sud-Sud.
Ciò apre nuove possibilità per il lancio della crescita e dello sviluppo nei paesi più poveri. Spesso,
nei paesi sviluppati, i temi dello sviluppo sono relegati al margine dei dibattiti economici, mentre
dovrebbero essere al centro delle considerazioni economiche nazionali, per gli esatti motivi esposti
da Robert Zoellick. In tal senso, è molto significativo che il G20 abbia riconosciuto l’esigenza di
riformare gli organi di governo dell’ FMI e della Banca Mondiale, per dare un maggiore peso ai
paesi in via di sviluppo nelle decisioni che influiscono sulla politica economica mondiale.
VI.
GLI SCAMBI COMMERCIALI
31. La possibilità che l’ordine commerciale internazionale sia esposto a un nuovo tipo di rischi
desta qualche preoccupazione, soprattutto in considerazione di alcune risposte protezionistiche
dei governi alla crisi finanziaria mondiale. Secondo le stime dell’OMC, quest’anno, i volumi degli
scambi commerciali si contrarranno di un terzo. Nel corso del 2008, il commercio mondiale ha
registrato una caduta spettacolare del 32,6% nei paesi che rappresentano il 97% degli scambi
mondiali (“After the fall”). Lo storico dell’economia Barry Eichengreen stima che, durante la crisi
attuale, la contrazione del commercio ha superato di gran lunga la contrazione registrata in una
fase paragonabile della Grande Depressione (“Unpredictable Tides”). Ovviamente, questo declino
è attribuibile in gran parte al crollo della domanda. Tuttavia, l’aumento delle barriere commerciali,
pur non essendo ancora un elemento catalizzatore nella caduta degli scambi commerciali, resta
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un fenomeno preoccupante. Sono state adottate alcune misure restrittive del commercio, quali le
misure di salvaguardia, le misure antidumping e i dazi compensativi. L’introduzione di altre misure
di questo tipo potrebbe spingere il commercio mondiale nella direzione sbagliata (Chad Brown).
Gli insegnamenti della Grande Depressione sono ancora validi. In seguito alla grave recessione
causata dal crac dei mercati nel 1929, molti governi non soltanto apportarono tagli alla spesa
pubblica, con conseguenze disastrose, ma imposero spaventose barriere commerciali il cui
esempio più significativo è forse il forte protezionismo introdotto dallo Smoot Hawley Trade Bill.
negli Stati Uniti. Tali misure non fecero che aggravare ed estendere la crisi, con tremende
implicazioni geopolitiche. Oggi, i governi tengono conto di quello spaventoso decennio, almeno a
livello retorico, ma devono restare vigili.
32. Lo scorso novembre, i capi di governo dei paesi del G20 hanno concordato di astenersi dalle
misure protezionistiche come strumento di gestione della crisi. Tuttavia, un recente studio
condotto da Global Trade Alert suggerisce che, in realtà, quasi tutti i Paesi hanno adottato una
qualche forma di politica protezionistica in violazione degli impegni assunti lo scorso novembre.
Secondo lo studio: “In base a una stima prudenziale, dallo scorso novembre i governi dei Paesi del
G20 hanno adottato 121 politiche beggar-thy-neighbor e un giorno su tre uno di questi governi
viola la sua promessa antiprotezionista” (“Broken Promises”). Inoltre, molti paesi hanno aumentato
i dazi doganali nei limiti degli impegni assunti in seno all’OMC. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e
la Svizzera hanno introdotto nuove sovvenzioni agricole, mentre il numero di procedimenti
antidumping aperto presso l’OMC è aumentato in modo esponenziale (“Unpredictable Tides”).
33. Oggi, individuare le misure protezionistiche è più insidioso e difficile che negli anni Trenta,
quando i dazi doganali e le quote erano l’arma preferita. Oggi, il protezionismo può nascondersi in
ogni tipo di politica di governo e avere nondimeno un effetto distorsivo e addirittura di dissuasione
sugli scambi commerciali. Purtroppo, a volte, i giganteschi pacchetti di stimolo e di salvataggio
introdotti nella maggiore parte dei paesi sviluppati sono utilizzati anche per creare condizioni
operative disomogenee negli scambi commerciali, conferendo netti vantaggi alle imprese
nazionali. Per esempio, disporre che la spesa pubblica sia diretta unicamente alle imprese
nazionali costituisce una forma sottile, ma non meno deleteria, di protezionismo. Quello che, in un
paese, potrebbe essere considerato un salvataggio, in un altro potrebbe essere visto come
sovvenzione.
34. Lo scorso anno, le tensioni commerciali su tali questioni si sono acuite. Inizialmente, il
pacchetto di stimolo del Presidente Obama prevedeva una clausola molto controversa che
imponeva una politica buy American per l’acciaio e per altri prodotti americani. I leader politici e i
fabbricanti automobilistici europei hanno anche espresso scetticismo per i trasferimenti del
governo americano a favore di GM e Chrysler e per altre misure come quelle di un disegno di
legge presentato al Congresso che vieta alle agenzie federali di acquistare vetture non americane
(Mitchell, 27 agosto 2009). Inoltre, di recente gli Stati Uniti hanno annunciato l’intenzione di
applicare dazi fino al 30% sugli pneumatici di produzione cinese. I cinesi hanno risposto
annunciando l’inizio di una rappresaglia con misure antidumping contro gli esportatori americani di
polli e di parti di ricambio per automobili. Gli Stati Uniti non sono i soli a praticare tali politiche. Il
Presidente francese Nicholas Sarkozy ha chiesto una carbon tax sulle importazioni provenienti da
paesi che non rispettano il regolamento per lo scambio delle emissioni secondo il sistema cap and
trade. Molti governi si sono adoperati per assicurare che, in caso di ristrutturazione delle loro
imprese, la ristrutturazione avvenga in modo da scaricare la maggior parte del peso delle misure
adottate sui loro stabilimenti all’estero. Il Belgio, per esempio, ha reagito vivacemente a una
decisione di chiudere uno stabilimento Opel ad Anversa dopo la vendita del marchio Opel di GM a
Magna, il produttore canadese di ricambi per auto che ha acquistato Opel con il sostegno tedesco.
Il governo belga ha chiesto un’indagine della UE su tale decisione, sostenendo che Magna ha
agito nell’interesse dei tedeschi (BBC, 11 settembre 2009). Una controversia analoga è insorta tra
la Francia e la Slovacchia e il premier slovacco Robert Fico ha lasciato intendere che, se la
Francia porrà in atto le sue minacce di chiudere gli stabilimenti slovacchi, gli slovacchi
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chiederanno a Gaz de France di lasciare il paese. E’ il tipo di reazione “occhio per occhio” che,
apparentemente, è sempre scatenata dagli atteggiamenti protezionistici (Munchau). Finora, è
stato per lo più possibile contenere tali controversie.
35. Sul fronte delle buone notizie, si segnala che i negoziatori cercano di rilanciare i colloqui sul
commercio globale, arrivati a un punto morto dopo il Vertice di Ginevra del luglio 2008. I
negoziatori si sono riuniti a Nuova Delhi all’inizio di settembre per riavviare i negoziati del Doha
Round che sono in corso da 8 anni e si sono arenati essenzialmente perché i principali paesi in via
di sviluppo sono restii ad aprire i mercati ai beni industriali, mentre gli USA e l’Europa sono restii
ad aprire i mercati agricoli. Tuttavia, lo scorso anno, gli scambi commerciali non sono stati una
priorità né per l’amministrazione Obama, né per i governi europei. Negli Stati Uniti, la gestione
della crisi finanziaria e il dibattito sull’assistenza sanitaria hanno fatto la parte del leone. Il
Presidente Obama è stato eletto anche con il sostegno di alcuni ambienti che guardano con
sospetto alla liberalizzazione del commercio. Oggi, a Washington sulle questioni commerciali si
respira un’aria di cautela. Infatti, non vi sono stati sviluppi negli accordi di libero scambio con la
Corea del sud, con Panama e con la Colombia, mentre la risposta alle rimostranze del Canada e
del Messico per il crescente protezionismo statunitense è stata piuttosto tiepida. In Europa, nulla
fa prevedere un cambiamento degli elementi di protezionismo agricolo che sono all’origine della
distorsione degli scambi commerciali. I Paesi in via di sviluppo sono altrettanto intransigenti sulle
questioni concernenti l’accesso ai loro mercati. Pertanto, in ultima analisi, la chiave per il
successo del Doha Round saranno una leadership forte, una volontà di compromesso e,
eventualmente, un ridimensionamento delle ambizioni degli stessi negoziati (Miller and Fritsch). In
ogni caso, le attuali tendenze protezionistiche costituiscono un problema, in particolare perché una
maggiore apertura degli scambi commerciali offre una via d’uscita dal malessere attuale. I politici
non dovrebbero spingere i governi nella direzione opposta.
VII. LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO QUADRO REGOLATORIO
36. La deregolamentazione finanziaria è stata un leitmotiv del capitalismo occidentale negli
ultimi venti anni, in particolare, ma non esclusivamente, nel mondo anglosassone. La fine della
parità fisse nei primi anni Settanta ha segnato approssimativamente l'inizio di un'epoca di
liberalizzazione dei mercati dei capitali, di innovazione finanziarie e di globalizzazione monetaria e
commerciale. Fino a tempi piuttosto recenti, la tendenza prevalente era di abbattere le vecchie
barriere tra le banche e altre istituzioni finanziarie. di dare alle forze del mercato un ampio margine
di manovra “per trovare un equilibrio” sui mercati finanziari e dei beni nazionali e internazionali.
L’ottimismo ampiamente condiviso sull'efficienza dei grandi mercati finanziari aperti è stata
espressa perfettamente dal filosofo canadese John Ralston Saul, che, alcuni anni fa, scriveva, "In
futuro, non saranno la politica o le armi a determinare il corso degli eventi umani, ma sarà
l'economia”. I mercati liberati non tarderanno a creare equilibri internazionali naturali e immuni dai
vecchi cicli di prosperità e recessione. La crescita del commercio internazionale, derivante
dall'eliminazione delle barriere, provocherà una forte ondata economico-sociale che solleverà tutte
le navi, sia nei paesi poveri dell’Occidente che in tutto il mondo in via di sviluppo. I mercati prosperi
trasformeranno le dittature in democrazie” (Skidelsky, gennaio 2009). Ma è proprio questo genere
di ottimismo storico che ha trascinato il mondo in una nuova crisi epica.
37. Dalla prospettiva attuale, è inopportuno mettere in discussione la fiducia assoluta
nell’efficacia benefica della globalizzazione e nella deregolamentazione, come ha fatto, per
esempio, Tom Friedman nel suo libro “Il mondo è piatto”. Il fatto che i mercati prosperi non
trasformino necessariamente le dittature in democrazie è perfettamente evidente nel caso della
Cina. Ormai, alla luce di quello che avviene realmente in questa epoca di globalizzazione,
promettere una fine dei cicli di “espansione e contrazione” attraverso la deregolamentazione
rasenta l’arroganza pura. In effetti, si potrebbe affermare che, con il crollo del sistema di Bretton
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Woods e con la deregolamentazione generalizzata del mercato, il sistema monetario
internazionale è soltanto divenuto più instabile. Considerata la miriade di esempi di grottesca
manipolazione del mercato guidata dai principali attori della finanza, oggi, molti governi occidentali
sono costretti a chiedersi quale debba essere la corretta linea di demarcazione tra il mercato e lo
Stato nelle questioni finanziarie.
38. Una possibile spiegazione per l’aumento dell’instabilità degli ultimi trenta anni potrebbe
essere ricercata nell’assenza, all’interno del sistema, di un “egemone” liberale credibile che
impone le regole, adottate deliberatamente da altri attori-chiave dell’economia globale
(Kindleberger). L’emergere di nuovi centri di potere economici ha reso molto più complesso il
processo decisionale nelle questioni monetarie e ha indebolito la capacità del sistema di
autodisciplinarsi e di sfuggire alla crisi finanziaria. Durante questo periodo, i mercati globali sono
stati sconvolti da numerose crisi, provenienti spesso dai paesi in via di sviluppo – Messico,
Argentina, Asia orientale e Russia – per citarne soltanto alcuni. Ma le crisi sono state generate
anche dall’Occidente –Silicon Valley nel 2000 e Wall Street nel 2008. Tutte queste crisi hanno
avuto profonde ripercussioni sull’economia reale globale. Tuttavia, la crisi più recente è nata al
cuore stesso del capitalismo mondiale e non sorprende che i danni arrecati all’economia globale e
ai suoi fondamenti intellettuali siano stati di gran lunga superiori a quelli causati dalle precedenti
crisi nate nei paesi in via di sviluppo.
39. Si potrebbe anche ribattere che le innovazioni sui mercati finanziari hanno contribuito a
diffondere l’instabilità, invece che a frenarla. Nel 1999, il governo americano abrogò la Legge
Glass-Steagall che, per molto tempo, aveva impedito alle banche commerciali di operare come
banche d’investimento. Nel 2002 il governo decise di non regolamentare i mercati dei derivati,
compresi i Credit Default Swap (CDS). In realtà, queste “innovazioni” hanno reso i mercati ancor
meno trasparenti e più indebitati di quanto sarebbero stati in assenza di tali innovazioni. Nel 2002,
negli Stati Uniti, i CDS erano valutati a 1 trilione di dollari, ma nel 2008 il loro valore era salito a 33
trilioni. E indubbio che la liquidazione di questi asset abbia contribuito ad accelerare ed aggravare
la crisi finanziaria. Ormai le mortgage-backed securities venivano presentate come strumento di
gestione del rischio, anche se, in realtà, spesso acceleravano il rischio e mascheravano i pericoli
dei mutui ipotecari subprime. Ciò ha contribuito a diffondere il rischio di insolvenza in tutto il
sistema finanziario mondiale. Inoltre, gli Stati Uniti hanno allentato gli standard di adeguatezza
patrimoniale per una serie di istituzioni finanziarie. Nel 2004, per esempio, il governo autorizzò le
banche a passare da un indice di indebitamento di 10-1 a un indice di 30-1 (Bradley et al.). Ancor
peggio, le politiche di bonus di queste istituzioni remuneravano la speculazione ad alto rischio e,
spesso, penalizzavano quanti, nel settore, adottavano atteggiamenti più prudenti e ammonivano
che i rischi assunti abitualmente dalle banche stavano diventando giganteschi e, al tempo stesso,
ingestibili. Ovviamente, ciò non vale per tutti i sistemi bancari, anche se modelli analoghi
emergevano in paesi come Irlanda e Islanda. Invece, per esempio, il Canada non ha adottato
queste manovre rischiose e, di conseguenza, oggi è ancora più forte.
40. Tutto ciò mette in evidenza i pericoli della regolamentazione inadeguata e delle pratiche
negligenti in materia di gestione del rischio. In effetti, molti operatori finanziari percepivano le loro
manovre rischiose sul mercato come una sorta di scommessa a senso unico. Il gigante
assicurativo AIG, per esempio, aveva abbandonato il tradizionale settore assicurativo per dedicarsi
a investimenti altamente speculativi su mercati rischiosi. Quando, lo scorso anno, i mercati sono
crollati, queste posizioni finanziarie hanno paralizzato l’istituzione, costringendo il governo
statunitense ad intervenire massicciamente per salvare un’impresa cruciale che, agli occhi di molti,
era diventata “troppo grande per fallire”. AIG non è stata l’unica; numerose istituzioni finanziarie di
in tutto il mondo sono state “salvate” da governi che avevano compreso quanto sarebbero state
devastanti le conseguenze, se avessero permesso il fallimento di istituzioni strategiche.
41. Purtroppo, molti finanzieri avevano valutato perfettamente il rischio, almeno per il loro
patrimonio. Infatti, grazie alle loro cattive decisioni, molti sono usciti da questo pasticcio
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estremamente più ricchi – a volte perché erano riusciti a “scaricare il rischio” prima del crollo dei
mercati e altre volte perché erano stati salvati quando i loro titoli si erano rivelati carta straccia.
Ovviamente, c’è il rischio che un tale comportamento possa riproporsi anche in futuro, visto che
questa volta i governi sono stati così ben disposti a correre in aiuto. I governi erano di fronte a un
dilemma evidente: se non avessero salvato alcune istituzioni, i costi sarebbero stati ingenti e il
cataclisma devastante. Non hanno avuto scelta e sono stati costretti ad accollarsi il problema del
“rischio morale”.
42. Pertanto, oltre ai problemi specifici per il mercato immobiliare - la dimensione
macroeconomica - l’attuale crisi è stata anche interpretata come la conseguenza del progressivo
disinteresse dello Stato per la valutazione della rischiosità delle prassi finanziarie dominanti e per
la fissazione delle regole del gioco. Alan Greenspan, ex Presidente della Fed, un'icona tra quanti
ritengono che sia meglio non regolamentare i mercati finanziari, ha a lungo respinto le richieste di
una maggiore regolamentazione dei mercati e di un obbligo di trasparenza, sostenendo che, in
realtà, anche i prodotti ad elevata leva finanziaria, straordinariamente complessi e poco trasparenti
hanno l’effetto di ridurre il rischio e non di aumentarlo. Non sorprende affatto che l’attuale crisi
abbia impartito una lezione, assolutamente necessaria, a molti dei principali protagonisti di una
leadership finanziaria americana caratterizzata da una regolamentazione limitata e da un tasso
d’indebitamento elevato. Nel mezzo della crisi, Greenspan ha dichiarato, di fronte a una
Commissione del Congresso, di aver semplicemente fatto eccessivo affidamento sulle capacità di
autocorrezione dei mercati liberi e di non aver previsto il potere devastante dei mutui ipotecari
incontrollati e il modo in cui quel problema avrebbe reso ancora più debole una società
superindebitata. “Quanti di noi – me compreso - hanno guardato all’egocentrismo degli istituti di
credito per proteggere il patrimonio degli azionisti, sono in uno stato di choc e di incredulità”
(Andrews). E’ stato, a dir poco, un errore di calcolo devastante e costoso.
43. La crisi ha inoltre dimostrato in che misura le prassi bancarie internazionali e i rapidi e
massicci movimenti di capitale hanno annullato qualsiasi distinzione tra i mercati finanziari
nazionali e i mercati finanziari mondiali. Sappiamo ormai che il crollo dei valori immobiliari in
Arizona può compromettere direttamente la solvibilità finanziaria di un'amministrazione municipale
europea che ha acquistato determinate obbligazioni. Al contempo, sappiamo che il crollo del
sistema bancario islandese può colpire direttamente, tra gli altri, i piccoli risparmiatori del Regno
Unito e dei Paesi Bassi, mentre i problemi dei mutui ipotecari in Lettonia minacciano la salute delle
banche svedesi. Il livello d’integrazione è tale da richiedere un certo grado di coordinamento
globale che, quanto meno, offrirebbe agli investitori un livello di trasparenza nettamente superiore
rispetto agli ultimi anni. Nondimeno, per motivi di sovranità, per le ampie divergenze tra le culture
commerciali e finanziarie e per altri problemi, i governi sono restii a riconoscere la priorità delle
norme regolamentari adottate a livello internazionale sulle loro norme nazionali. Eppure le ovvie
carenze delle regole nazionali e l’assenza di sistemi di governance globale sono stati tra i fattori
che hanno provocato il crollo dei mercati e lo saranno di nuovo se il problema non verrà affrontato.
44. Per funzionare correttamente, i mercati hanno bisogno di trasparenza e di simmetria
informativa ma, sfortunatamente, nessun regime internazionale è riuscito a garantire appieno tali
obiettivi. Le regole di Basilea sull'adeguatezza patrimoniale e sugli oneri finanziari, negoziate per
la prima volta negli anni Ottanta, sono considerate da tempo un quadro regolamentare
insufficiente per il settore bancario internazionale. Oggi, appare evidente che Basilea 2, al pari di
molti quadri regolatori nazionali, è superata. Per esempio, il sistema ha fatto affidamento sulle
agenzie di rating e sui modelli di rischio interni delle banche, nonostante gli evidenti conflitti
d’interesse. Inoltre, gli istituti di credito di ogni tipo hanno sfruttato le innumerevoli scappatoie
offerte dall'accordo di Basilea per eliminare dai propri bilanci regolamentati le attività in sofferenza
o rischiose e scaricarle su un universo non regolamentato. Ciò ha reso il mercato dei titoli ipotecari
molto più rischioso e ha reso le banche, degli Stati Uniti e di altri paesi, particolarmente vulnerabili
al tracollo del mercato ipotecario.
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45. La finanza è la più globalizzata delle attività economiche; per le loro dimensioni e per il loro
campo di attività, i protagonisti della finanza sono sostanzialmente più mondiali che nazionali,. Sul
piano regolatorio, ciò costituisce un autentico enigma, soprattutto considerata la natura fungibile
del denaro. Il denaro fluisce naturalmente laddove il rendimento potenziale è più elevato e se la
regolamentazione riduce, anche marginalmente, i rendimenti su un particolare mercato, il denaro
si sposta rapidamente altrove. Questa situazione ha reso il sistema finanziario mondiale ancor più
vulnerabile a una corsa alla riduzione della regolamentazione che sottopone a continue pressioni i
governi affinché attuino la deregolamentazione allo scopo di attirare capitali e attività bancarie. La
crisi ha messo in evidenza gli effetti negativi che ne sono derivati per la governance globale e
nazionale. Anche sulla scia della crisi, i paesi dotati di un settore bancario importante sembrano
restii ad adottare misure regolatorie, se non hanno la garanzia che anche altri paesi adottano
misure analoghe. Ciò ha provocato una certa tensione, per esempio tra la Francia, che desiderava
introdurre un tetto ai bonus, e il Regno Unito e gli Stati Uniti che erano meno disponibili ad
adottare tale soluzione. Non si tratta di un semplice scontro tra culture, ma piuttosto di una
questione di concorrenza nel settore bancario (Daneschku).
46. Chiaramente, è necessaria una serie di regole per introdurre l’adeguatezza patrimoniale
nella contabilità delle banche e, in questo caso, un certo grado di coordinamento internazionale
sarebbe utile. In pratica, la realizzazione di questo obiettivo è difficile poiché il gusto del rischio
varia da paese a paese e, inoltre, quello che è adeguato in una fase del ciclo economico potrebbe
risultare inadeguato in un’altra fase. Si potrebbe sostenere, per esempio, che i coefficienti di
adeguatezza patrimoniale dovrebbero poter cambiare nel tempo, al fine di incoraggiare un certo
livello di risparmio del capitale nei periodi di boom – e aumentare la base patrimoniale disponibile
nei periodi di crisi. Invece, molti paesi hanno adottato norme pro-cicliche che tendono ad
esacerbare le fluttuazione del mercato invece di mitigarle. I regolatori devono anche gestire meglio
i problemi dei conflitti d’interesse che sono stati un fattore importante nella crisi attuale.
47. Inoltre, le banche centrali potrebbero dover contrastare con maggiore determinazione
l'insorgenza di bolle speculative potenzialmente devastanti, i boom del credito e il disallineamento
dei prezzi. Ciò non aumenterà il “credito politico” dei responsabili delle banche centrali, ma
l’obiettivo di queste istituzioni non è certo quello di accumulare meriti politici. Non è ancora chiaro
quali paesi siano disposti a rivedere le regole che disciplinano le procedure bancarie, gli standard
di informativa e trasparenza e le politiche di bilancio. È ancor meno chiaro stabilire se essi siano
disposti ad affrontare tali questioni in modo coordinato a livello internazionale. Alcune regole
internazionali potrebbero aiutare a domare gli elementi più selvaggi e destabilizzanti dell'economia
globale. Tuttavia, per identificare tali elementi, la comunità internazionale dovrà avviare un ampio
dialogo politico concernente la globalizzazione, i suoi rischi, le sue opportunità e le sue ricadute
sulla distribuzione della ricchezza a livello globale e nazionale. E’necessario comprendere meglio
ciò che le nazioni sperano di ottenere dalla globalizzazione e quali sono gli strumenti migliori per
realizzare tali aspirazioni.
48. I leader politici devono inoltre evitare, per quanto possibile, di gettare via il bambino insieme
all'acqua sporca. La globalizzazione di per sé non è il problema. La vera sfida è la costruzione di
sistemi di regolamentazione e di governance adeguati, a livello sia nazionale che internazionale, al
fine di garantire una maggiore stabilità senza annullare i vantaggi che possono derivare dai flussi
finanziari e commerciali internazionali. L'autarchia non offrirà alcuna soluzione. Invece, potrebbe
essere necessario raggiungere un qualche compromesso tra la costruzione di un’economia
mondiale priva di tensioni, ma del tutto illusoria, come quella che dei sogni di Thomas Friedman e
la creazione di una serie di piccoli e lugubri regni isolati che vivono, come eremiti, nell’autarchia
49. Secondo alcuni, la costruzione di un’architettura finanziaria più stabile richiede un nuovo
sistema di Bretton Woods. Potrebbe essere un’affermazione iperbolica, dato che Bretton Woods
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si prefiggeva di costruire un ordine internazionale finanziario e commerciale dopo anni di autarchia
e di guerra. Furono necessari due anni di pianificazione e un’impegnativa conferenza di tre
settimane a Bretton Woods, nel New Hampshire, per elaborare i piani di un sistema di parità
monetarie fisse e definire il ruolo centrale dell’FMI e della Banca mondiale per la coesione del
sistema. L'attuale crisi finanziaria costituisce una delle sfide economiche politicamente più difficili
che i governi occidentali hanno dovuto affrontare negli ultimi decenni, ma è improbabile che
vedremo innovazioni radicali come quelle introdotte a Bretton Woods. Un cambiamento è
comunque nell’aria.
50. I primi segni del cambiamento sono apparsi durante la riunione dei ministri delle finanze e
dei capi di governo dei paesi del G20 dell’aprile 2009. Nel corso della riunione dei ministri delle
finanze, i partecipanti hanno concordato una serie di misure coordinate per stimolare la domanda
e l’occupazione. Si sono impegnati a resistere alle pressioni protezionistiche (anche se,
successivamente, molti paesi hanno infranto la promessa) e hanno concordato di mantenere la
liquidità, ricapitalizzare il sistema bancario, attuare piani di stimolo, aiutare i paesi emergenti e in
via di sviluppo attraverso il potenziamento delle istituzioni multilaterali di credito, emanare una
regolamentazione appropriata degli istituti finanziari, compresa una registrazione completa degli
hedge fund, controllare più rigorosamente le agenzie di rating del credito, esigere una maggiore
ottemperanza al Codice di Condotta dell'Organizzazione internazionale delle commissioni dei
valori mobiliari (IOSC), intensificare i controlli sulle operazioni fuori bilancio e aumentare la
pressione sui territori, non disposti a cooperare, che autorizzano prassi bancarie e finanziarie poco
trasparenti.
51. Il Vertice del G20 che si è tenuto a Pittsburgh, Pennsylvania, il 24 settembre 2009 ha
incentrato l’attenzione soprattutto sulle riforme a lungo termine per prevenire una crisi futura,
soprattutto nel settore bancario. I partecipanti hanno cercato di aggiungere ulteriori dettagli
all’agenda della riforma, anche se i capi di governo hanno tacitamente riconosciuto che le riforme
resteranno in gran parte di competenza dei governi nazionali. I capi di governo hanno concordato
che, entro il 2012, le banche dovranno costituire riserve di capitale molto più ampie per ridurre al
minimo l’esigenza di salvataggi futuri. Tuttavia, in ultima analisi, la fissazione dei requisiti
patrimoniali specifici spetta ai regolatori nazionali. Saranno inoltre emanate norme nazionali in
materia di remunerazioni dei bancari, al fine di scoraggiare un’eccessiva assunzione del rischio.
Ma, le proposte di Francia e Germania che chiedevano un tetto ai bonus sono state respinte. Con
il forte sostegno del Financial Stability Board, le banche dovranno accantonare una quota più
consistente dei loro profitti, collegare più chiaramente la retribuzione alla performance di lungo
termine, condurre, ogni anno, analisi indipendenti delle remunerazioni e assicurare una maggiore
trasparenza (Galloni). La dichiarazione finale ha anche chiesto l’adozione di disposizioni che
autorizzano il recupero dei bonus corrisposti quando, in ultima analisi, la performance si rivela
insufficiente. Chiede inoltre che alcuni bonus siano corrisposti sotto forma di azioni per fornire
incentivi più a lungo termine, limitando al tempo stesso i bonus a una percentuale prestabilita del
prodotto netto quando le banche operano con bassi livelli di capitale. I partecipanti hanno inoltre
concordato l’esigenza di una regolamentazione più rigida dei mercati dei prodotti over the counter
e dei derivati e di aumentare la trasparenza e la responsabilità delle istituzioni per le operazioni a
rischio. La dichiarazione è favorevole all’idea di un “testamento”. Nel caso delle “istituzioni
finanziarie” si tratta di un piano che stabilisce le modalità secondo cui, in caso di necessità, le
istituzioni liquideranno le proprie operazioni. Lo scopo è di rendere meno complessi i procedimenti
per insolvenza (Brunsden). Questi ‘testamenti’ obbligheranno le banche a pianificare il proprio
fallimento, faciliteranno la tutela dei risparmiatori e attribuiranno l’onere del fallimento di una banca
ai creditori invece che ai contribuenti.
52. In un certo senso, Pittsburgh è stato uno spartiacque poiché ha riconosciuto i cambiamenti
fondamentali intervenuti nella struttura dell’economia mondiale negli ultimi 20 anni, in particolare
l’emergenza di nuovi protagonisti dell’economia, come la Cina, l’India e il Brasile.
Di
conseguenza, si è deciso di trasformare il G20 in un forum permanente della cooperazione
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economica internazionale, mentre in futuro il G8 affronterà questioni come la sicurezza e altre
tematiche direttamente rilevanti per una cerchia più ristretta di membri. I capi di governo riuniti a
Pittsburgh hanno inoltre concordato, in linea di principio, un aumento delle quote di
rappresentanza della Cina e dei paesi in via di sviluppo nell’organo di governo dell’ FMI,
trasferendo a questi paesi sottorappresentati almeno il 5% delle quote. Tuttavia, i dettagli devono
essere ancora definiti. Il Vertice ha inoltre concordato di concedere all’FMI 500 miliardi di dollari
(313 miliardi di Sterline) per finanziare un programma, rinnovato e ampliato, di concessione dei
crediti ai paesi in difficoltà (Frean). Sono tutte iniziative importanti, almeno sulla carta, che
prendono atto dei profondi cambiamenti provocati dallo choc economico nel sistema finanziario
globale. Tuttavia, per molti, è soltanto un inizio e molto dipenderà dal modo in cui i governi
definiranno i dettagli. E’ prevedibile una violenta reazione della comunità finanziaria su vari fronti,
ivi compresa la questione dei bonus.
53. Si fa strada una nuova consapevolezza: se il settore bancario nazionale cresce a dismisura,
anche la società corre maggiori rischi. In merito, sono in corso seri dibattiti nel Regno Unito, negli
Stati Uniti e in Islanda e in altri Paesi. Detto questo, numerose banche statunitensi hanno ripreso
le loro attività di investimento e i principali motori del profitto restano le trading division che aprono
posizioni a breve termine su azioni, obbligazioni, materie prime, valute e altri strumenti finanziari.
Lo scorso luglio, le cinque principali istituzioni di Wall Street avevano generato redditi per 56
miliardi di dollari, contro 22 miliardi nel primo semestre del 2008 Nello stesso periodo, le top five di
Wall Street hanno accantonato 61 miliardi di dollari per coprire le retribuzioni e i benefit dei loro
dipendenti, a fronte di 65 miliardi nello stesso periodo dell’anno precedente; tuttavia, l’utile per
dipendente risulterà molto più elevato, considerato il numero di licenziamenti nel settore (Enrich
and Paletta). Alcuni pensano che tale situazione sia un ritorno al business as usual e sono
preoccupati perché alcune delle lezioni del 2008 sembrano già dimenticate.
54. L’FMI ha avvertito che, nonostante l’economia mondiale si sia lasciata alle spalle il peggio
della crisi, è necessaria una riforma più profonda del sistema bancario per evitare che la crisi si
ripeta. Secondo le sue stime, in seguito alla stabilizzazione del valore di alcuni titoli complessi che
sono stati al centro della crisi, i writedown presso le banche e altri istituti finanziari sono passati da
4 a 3,4 trilioni di dollari, con una riduzione di 600 miliardi, L’FMI esprime il proprio apprezzamento
per i salvataggi bancari e per i pacchetti di stimolo che hanno frenato la caduta libera del sistema
finanziario mondiale, ma ritiene che le banche e le famiglie siano ancora troppo indebitate. L’FMI
invita i governi a rafforzare ulteriormente la regolamentazione bancaria, a mettere a punto politiche
per eliminare i crediti in sofferenza dai bilanci delle banche e a procedere con prudenza
nell’eliminare gli attuali pacchetti di stimolo che, come sostiene l’OCSE, devono continuare nel
breve termine (Global Financial Stability Report, IMF, ottobre 2009). In realtà, l’economia
mondiale è ancora afflitta da una carenza di credito. L’FMI valuta a 1,3 trilioni il deprezzamento
degli asset e, entro la fine del prossimo anno, potrebbero essere deprezzati asset per altri 1,5
trilioni di dollari. Su questo fronte, le banche statunitensi sembrano essere molto avanti rispetto
alle loro controparti europee e hanno eliminato il 60% circa degli asset tossici, a fronte del 40% in
Europa. Secondo le stime, le banche della zona dell’Euro dovranno raccogliere altri 380 miliardi
di dollari per arrivare a un Tier 1 capital ratio, un indice delle riserve di una banca, pari al 10%
della loro capacità totale. In confronto, le banche americane hanno bisogno soltanto di 80 miliardi
di dollari, anche se, oggi, la rapida caduta del valore degli immobili commerciali potrebbe creare
loro un ulteriore problema (Dougherty). L’economia tedesca mostra segni di ripresa, ma le sue
principali banche restano fortemente esposte agli strumenti finanziari originati negli USA, il cui
valore è colato a picco. Secondo le stime dell’autorità di vigilanza finanziaria tedesca, le banche
tedesche hanno asset illiquidi per circa 800 miliardi di Euro. Se non saranno gestiti correttamente,
questi crediti in sofferenza nei bilanci delle banche occidentali potrebbero innescare un altro
periodo di crisi e di recessione (“The risk of another downturn”).
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VIII. LA CRISI E IL SISTEMA INTERNAZIONALE
55. La crisi ha anche avuto importanti implicazioni per tutto il sistema internazionale. Secondo
alcuni dei più severi critici dell’America, il problema trae origine, in parte, da quella che essi
considerano una gestione irresponsabile del sistema finanziario nazionale americano, un
approccio unilaterale al sistema internazionale e una spregiudicatezza finanziaria. La capacità di
leadership e di leverage dell’America sono state erose e, per alcuni, la crisi ha accelerato il
declino. Il fatto che il boom dei consumi americani dell’ultimo decennio sia stato finanziato dalla
Cina evidenzia un cambiamento dell’ordine mondiale che potrebbe richiedere strutture istituzionali
nuove in grado di riflettere la nuova realtà.
56. Non è necessariamente una buona notizia, soprattutto per quanti restano fedeli al
mantenimento di un ordine internazionale liberista. Per gli economisti politici è pressoché ovvio: la
costruzione di un ordine commerciale e finanziario internazionale stabile richiede la presenza di
una potenza egemonica liberista in grado di costruire e governare efficacemente tale sistema. Nel
XIX secolo questo ruolo è stato svolto dal Regno Unito e, a partire dal 1945, dagli Stati Uniti.
Entrambi i paesi hanno costruito sistemi mondiali basati sul principio del libero mercato,
dell’apertura e della non discriminazione. Tali strutture e prassi comportano benefici sia per la
potenza egemone sia per i paesi disposti ad accettare l’ordine che essa impone. Invece, l'esercizio
dell’egemonia senza un impegno per il liberismo dell'economia di mercato ha maggiore probabilità
di produrre regimi imperialistici e vincoli politici ed economici ben più onerosi per le potenze minori.
Teoricamente, l’assenza di una potenza egemone porta all’instabilità. Per esempio, il caos
economico, finanziario e politico del periodo tra le due guerre mondiali è in parte riconducibile
all’assenza di una potenza egemone liberale e disposta a indossare il mantello della leadership
mondiale nel campo della finanza e della sicurezza. La forma di egemonia americana del periodo
post-bellico poggiava su un’ideologia liberale e su un insieme di interessi politici, economici e di
sicurezza condivisi dagli altri attori-chiave del sistema, specialmente con l'Europa. La
sopravvivenza di tale sistema richiedeva non soltanto la volontà e la visione dell’America, ma
anche la legittimità sistemica e la cooperazione europea. La potenza dominante acquistava tale
legittimità con la sua disponibilità all’autolimitazione e, a volte, all'abnegazione, per servire gli
interessi del sistema. Ovviamente, chiedere a una grande potenza di assolvere questo ruolo a
lungo è pretendere troppo. In parte per questo motivo, i periodi di egemonia liberista tendono a
durare poco e il declino comincia quando la potenza egemone perde influenza o comincia a
utilizzare il sistema per i propri interessi nazionali.
57. Poiché la capacità dell'America di svolgere questo ruolo è diminuita nel corso degli ultimi
trenta anni, e tale tendenza si è probabilmente accelerata per effetto della crisi finanziaria e della
recessione attuale, è logico chiedersi se non sia imminente un cambiamento sistemico.
Indubbiamente stiamo entrando in una fase, certamente incompleta, di parità tra diversi paesi o
blocchi di paesi. Non si tratta di parità sul piano militare; infatti, gli Stati Uniti continuano ad essere
di gran lunga la più grande potenza militare del mondo. Tuttavia, questa potenza militare non ha
frenato la tendenza generalizzata a una parità economica mondiale, ma, in una certa misura,
potrebbe averla accelerata, poiché il colossale bilancio della difesa impone agli Stati Uniti pesanti
oneri finanziari. Inoltre, gli Stati Uniti si sono trovati impantanati in guerre lontane, controverse e
micidiali e, secondo alcuni, potrebbero aver eroso la potenza e il prestigio internazionale del
Paese. Queste tendenze contribuiscono anche alla riconfigurazione del sistema internazionale.
Oggi, è sempre più forte l’idea che la leadership internazionale basata sulla cooperazione, per
quanto difficile da gestire, potrebbe essere l'unico mezzo per guidare in modo efficace l'ordine
mondiale (Keohane). Questa logica giustificherebbe inoltre un dialogo sempre più stretto e un
livello ancor più profondo di cooperazione transatlantica economica e politica.
58. Tutto ciò è apparentemente cominciato all’inizio degli anni Settanta, con il crollo del vecchio
sistema di Bretton Woods che non era più in grado di contenere l’ondata inflazionistica di quel
decennio. All’epoca, gli Stati Uniti, custodi della valuta di riferimento, hanno cominciato a stampare
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moneta per finanziare la guerra del Vietnam e la Great society. Così facendo, esportavano
l'inflazione e minavano non soltanto la credibilità il sistema, ma anche la loro stessa credibilità. In
Europa e negli Stati Uniti, le vecchie ortodossie della gestione della domanda degeneravano in
politiche finanziarie e monetarie sconsiderate, provocando una crisi di governabilità negli anni
Settanta (Skidelsky, "Where do we go from here?"). Il ritorno al rigore monetario degli anni Ottanta
ha contribuito a riportare l'inflazione sotto controllo, ma l’indisciplina finanziaria degli USA ha
creato un grave problema, a cominciare dai deficit dell’era Reagan. Era evidente lo squilibrio tra gli
impegni assunti dal governo americano e la sua volontà di tassare i propri cittadini per finanziare
tali impegni. Lo squilibrio è durato molti anni, in gran parte perché il resto del mondo era disposto
a prestare agli Stati Uniti i fondi necessari per coprire il suo deficit. Ad eccezione di un breve
avanzo di bilancio durante la presidenza di Clinton, gli Stati Uniti hanno registrato enormi disavanzi
di bilancio e deficit delle partite correnti alle stelle.
59. È indubbiamente molto interessante, e non privo di conseguenze, il fatto che nel novembre
2008 il G20 sia stato convocato prima del G7,al fine di consentire ai più importanti governi di
elaborare le strategie per affrontare la crisi attuale. Ciò riflette il cambiamento del mondo e il fatto
che le tradizionali potenze finanziarie mondiali ammettono di non avere il peso necessario per
risolvere il problema da sole ("After the Fall", The Economist, 15 novembre 2008). Un tale
cambiamento è stato riconosciuto formalmente a Pittsburgh lo scorso settembre (“After the Fall”,
The Economist, 15 novembre 2008). Oggi, siamo molto lontani dal ruolo svolto in passato
dall'Europa e dagli Stati Uniti nella costruzione dell’ordine finanziario mondiale e nella messa a
punto dei meccanismi necessari per assicurare il rispetto delle regole del gioco. Il quesito
economico più urgente della nostra epoca è se un ordine finanziario e commerciale stabile e
coerente può essere costruito e gestito da un gruppo di paesi, piuttosto che da un solo Paese che
fissa le regole. Su questa possibilità c'è molto pessimismo.
60. Vi è anche un rischio reale che la crisi finanziaria possa ostacolare la risposta al cambiamento
climatico globale e alle sfide ambientali. Nel breve periodo, il calo dei prezzi energetici annulla
temporaneamente gli incentivi ad adottare tecnologie più pulite ed efficienti e, inoltre, scoraggia il
tipo di investimento necessario per far fronte al fabbisogno energetico futuro. Secondo l'Agenzia
internazionale per l'energia, i prezzi non resteranno a lungo sui bassi livelli attuali e, per il futuro, si
profila all’orizzonte una grave crisi energetica (OCSE 2009). Le attuali condizioni di mercato molto
sfavorevoli potrebbero anche scoraggiare le imprese a passare a tecnologie più pulite ed efficienti.
Se questo problema non viene affrontato, in futuro, l'Occidente sarà estremamente vulnerabile agli
choc energetici e ambientali. Infine, se la soluzione di queste sfide non resterà al centro
dell’agenda nazionale e internazionale, i fondi per la ricerca e sviluppo e per le misure di
protezione ambientale potrebbero subire pesanti tagli. L’amministrazione Obama ha già indicato
che, nel corso della conferenza di Copenhagen sul cambiamento climatico del prossimo dicembre,
valuterà un quadro normativo più flessibile e requisiti meno rigorosi in materia di ottemperanza
alle norme. E’ chiaro che la crisi economica ha avuto il suo peso.
61. Infine, occorre considerare i rischi che l’instabilità derivante dal peggioramento delle
prospettive economiche potrebbe comportare per la sicurezza dei paesi in via di sviluppo. Negli
ultimi anni, gli Stati fragili sono stati causa di forte preoccupazione per i paesi membri della NATO.
La mancanza della capacità di governo e delle risorse necessarie rende tali paesi vulnerabili, non
soltanto all’aggravamento della povertà, ma anche a tutta una serie di sfide per la sicurezza quali i
conflitti per le risorse. I vincoli di bilancio dei paesi occidentali potrebbero indebolire la loro
capacità finanziaria e politica di fornire assistenza a questi Stati. La sicurezza nazionale e
l’assistenza allo sviluppo potrebbero passare in secondo piano nei Paesi occidentali colpiti dalla
disoccupazione di massa e dalla crescita negativa. Tuttavia, le sfide alla sicurezza nazionale non
scompariranno e, nel caso in esame, alcune minacce potrebbero anche acuirsi. Nell’analisi
annuale sulle minacce per la sicurezza presentata al Select Committee on Intelligence del Senato,
l’Ammiraglio Dennis Blair, Direttore dell’Intelligence Nazionale statunitense, ha lanciato un
avvertimento: se, nell’attuale crisi economica, l’Occidente non rispetterà gli impegni assunti per la
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difesa, per lo sviluppo e per gli aiuti umanitari, il sistema internazionale potrebbe diventare ancor
più vulnerabile.
62. Recentemente, George Roberson e Paddy Ashdown hanno valutato i rischi per la sicurezza
in una serie di Stati fragili e hanno riscontrato che, nei prossimi anni, 27 di questi paesi saranno
esposti a un grave rischio di fallimento dello Stato o di conflitti. Nel loro rapporto, gli Aa.
considerano gli elevati livelli di disoccupazione e l’improvviso aggravamento delle condizioni
economiche le principali cause dei conflitto e del fallimento dello Stato. In alcuni paesi di questo
elenco, tra cui Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Nigeria e Costa d’Avorio, la situazione si sta
deteriorando. Secondo Ian Kearns: "Dobbiamo aspettarci conflitti più violenti ed effetti di ricaduta
politicamente destabilizzanti anche nei paesi confinanti con i paesi in maggiore difficoltà.
Probabilmente, assisteremo a spostamenti di popolazioni e a ulteriori sofferenze umanitarie su
vasta scala, oltre che alla riduzione dell'attività economica complessiva e alla perdita di opportunità
di scambi a livello mondiale. Dobbiamo inoltre aspettarci una moltiplicazione degli spazi “non
governati” che potranno essere sfruttati dai terroristi e un aumento del numero delle persone che,
per garantirsi la sopravvivenza economica, saranno disposte a ingrossare le fila della criminalità
transnazionale, soprattutto con il commercio di droga e di armi. Quando alcune di queste
situazioni diventeranno critiche, la comunità internazionale sarà, giustamente, sottoposta a
pressioni perché intervenga in difesa degli indifesi e cerchi di contenere le conseguenze del
fallimento" (Kearns).
IX.
CONCLUSIONI
63. La comunità internazionale deve affrontare sfide finanziarie, economiche e politiche su più
fronti. Sono necessarie strategie e risorse per affrontare la crisi finanziaria globale, una crisi
alimentare globale, una crisi energetica quasi permanente, una crisi del riscaldamento globale e
una serie di crisi della sicurezza. Nello scenario attuale, fissare una scala di priorità non è facile e
trovare le risorse, l’immaginazione e la volontà di affrontare tutte queste sfide potrebbe rivelarsi
semplicemente impossibile.
64. In generale, i governi devono affrontare la crisi finanziaria oggi, ma devono farlo tenendo
conto dei rischi futuri per la salute economica, la sicurezza ambientale ed energetica, e il
benessere sociale. Devono inoltre affrontare le cause di diversi fenomeni interdipendenti, quali la
crisi finanziaria/bancaria, la profonda recessione che ne è derivata, le gravi carenze
dell’architettura finanziaria mondiale e della regolamentazione e i rischi che il collasso di alcune
economie comporta per la sicurezza dei Paesi in via di sviluppo. Apparentemente, il massiccio
intervento nell’economia ha impedito all’economia mondiale di cadere in una depressione
catastrofica, ma all’orizzonte appaiono già nubi minacciose. Una di queste è costituita dagli
squilibri di bilancio e i governi avranno bisogno di strategie credibili per affrontare i deficit.
65. La riforma regolatoria, definita a grandi linee a Pittsburgh, deve essere elaborata e attuata.
Devono essere affrontati sia il problema del rischio morale sia i conflitti di interessi, come quelli
che hanno reso inefficaci le agenzie di rating. Oggi, molte banche sembrano troppo grandi per
fallire e sarà necessario controbilanciare, in qualche modo, l’eredità dei salvataggi bancari
(Briefing OCSE 2009). Analogamente, deve essere modificato il sistema di retribuzioni di molte
istituzioni finanziarie, al fine di scoraggiare un’eccessiva assunzione del rischio e assicurare che il
fallimento non sia remunerato con bonus milionari – soprattutto quando questa munificenza è a
carico del contribuente. Anche durante la terribile crisi del 2008, i banchieri di Wall Street hanno
incassato bonus che erano al sesto posto della classifica generale dei bonus, a indicazione del
fatto che molte di queste istituzioni sono ormai qualcosa di simile a una società di mutuo
arricchimento degli insider, invece di essere efficienti investitori di capitali. Tali istituzioni devono
essere indirizzate nella seconda direzione.
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66. Quella che è iniziata come crisi finanziaria e si è trasformata in crisi economica
generalizzata, oggi è anche una crisi dell’occupazione e sociale. I governi hanno compiuto sforzi
enormi per mitigare gli effetti sui mercati del lavoro, ma il tasso di disoccupazione è in aumento.
L’esperienza del passato insegna che potrebbero necessari anni per reinserire i disoccupati sul
mercato del lavoro. I governi possono intervenire mettendo a punto programmi per mantenere i
posti di lavoro, assicurare che i disoccupati non cadano nel baratro della povertà e riqualificare i
disoccupati preparandoli meglio al rientro nel mondo del lavoro quando le condizioni
miglioreranno. I giovani e gli immigrati sono particolarmente vulnerabili e, se i disoccupati non
sono coinvolti attivamente nelle strategie finalizzate a un reinserimento nell’attività economica,
molti paesi rischiano di perdere una generazione di lavoratori (OCSE1 ottobre).
67. Sul fronte macroeconomico, gli Stati Uniti dovranno risolvere lo spaventoso problema dei
deficit cronici di bilancio e delle partite correnti e il resto del mondo dovrà ridurre la sua
dipendenza dai consumatori american, mentre la Cina dovrà cominciare a investire parte dei suoi
risparmi sul mercato interno. Chiaramente, anche in periodi di boom, la persistenza dei deficit
rende i paesi finanziariamente più vulnerabili quando la congiuntura economica peggiora e tende
ad amplificare le fluttuazioni del ciclo economico. La transizione sarà difficile e potrebbe anche
condizionare la loro posizione globale sul piano della sicurezza.
68. I governi hanno bisogno di strategie finanziarie a medio termine e di una capacità di giudizio
che consente loro di stabilire in quale momento le politiche monetarie e di bilancio - e il debito che
esse generano - si trasformano in pesanti minacce invece di offrire soluzioni per la crescita
economica a lungo termine. Non è un compito facile, poiché oggi i leader mondiali si muovono su
un territorio sconosciuto e devono far fronte a una miriade di vincoli che gravano sui bilanci
nazionali e derivano non soltanto dai programmi di spesa di emergenza ma anche dall’aumento
della spesa per la previdenza sociale, l’assistenza sanitaria, il settore militare, la sicurezza, ecc.
Tuttavia, gran parte degli esperti concorda sul fatto che non è ancora il momento di ridurre la
spesa pubblica. In effetti, anche se si profila una ripresa economica, si tratta di una ripresa molto
fragile. Nel lungo termine, le politiche finanziarie contro-cicliche dovrebbero incoraggiare il
risparmio nei periodi di prosperità, al fine di disporre di risorse da utilizzare per la spesa sociale e
le misure di rilancio durante una fase di recessione. Il lato positivo di questi approcci è che essi
possono anche contribuire ad attenuare, anziché esacerbare, il ciclo economico creando così un
clima più stabile per gli investimenti.
69. I governi dovranno elaborare strategie coerenti per i paesi in via di sviluppo sempre più
colpiti dalla crisi. Sia l’FMI che la Banca mondiale hanno bisogno di maggiori risorse per aiutare
questi paesi a superare la devastante battuta d’arresto nelle loro prospettive di sviluppo. Gli Stati
fragili pongono una serie di problemi ancor più preoccupanti ed è fondamentale che essi
continuino a ricevere l’aiuto e il sostegno dell’Occidente. La mancanza di tale aiuto non soltanto
provocherebbe una catastrofe morale, ma potrebbe mettere in serio pericolo la sicurezza. Nel
frattempo, la reale riorganizzazione dell’architettura internazionale finanziaria e di sviluppo
costringerà i governi ad avviare un profondo dibattito intellettuale e realmente morale sugli obiettivi
o sulle finalità della globalizzazione e sul corretto rapporto dello Stato e dei cittadini con la
globalizzazione stessa.
70. Il commercio resterà un catalizzatore essenziale della crescita e costituirà un mezzo efficace
per una rapida ripresa. Paradossalmente, gli istinti protezionistici sono sempre più forti quando la
situazione economica è più difficile. In effetti, sul piano politico, è facile imputare i mali nazionali ai
concorrenti stranieri, quando invece l’aumento della disoccupazione riconosce una grande valenza
politica alle norme che mantengono i posti di lavoro con tutti i mezzi – anche con quelli che, nel
lungo termine, potrebbero costare posti di lavoro. A volte, le politiche democratiche, come le prassi
retributive delle banche, possono remunerare chi si concentra sul breve termine e ignora il lungo
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termine. Le politiche protezionistiche sono un esempio paradigmatico. Apparentemente; esse
racchiudono in sé la promessa di conservare i posti di lavoro a livello nazionale e spesso i
beneficiari sono gruppi ben organizzati e politicamente potenti. In generale, i perdenti sono molto
più numerosi, e inevitabilmente sono anche più isolati e politicamente meno organizzati. Ciò invia
alla classe politica un segnale perverso al quale, per considerazioni di ordine politico, potrebbe
essere difficile resistere. I leader politici che riconoscono il valore degli scambi commerciali
devono vigilare sulla difesa di questo principio-chiave dell’ordinamento liberale.
71. In tal senso, i Paesi occidentali devono essere preparati a fare concessioni per portare
avanti il Doha Round. Esistono validi motivi economici e strategici per l’ulteriore apertura degli
scambi agricoli che è nell’interesse sia dell’Europa sia degli Stati Uniti. Se ciò contribuirà a far
progredire il Doha Round, i benefici sarebbero diffusi. Ciò appare ancor più ragionevole, se si
considera la crisi alimentare in atto. Il Nord America e l’Europa devono dare l’esempio e
assicurare che l’attuale crisi non sia aggravata da un’ondata di protezionismo. L’introduzione delle
politiche protezionistiche beggar thy neighbour degli anni Trenta ha contribuito a trasformare la
crisi finanziaria in una lunga depressione mondiale con terribili ramificazioni politiche. Ciò deve
essere evitato a tutti i costi. L’apertura del commercio aiuterà il mondo a superare la crisi. Il
protezionismo la aggraverà. Sfortunatamente, i governi vanno nella direzione sbagliata e la crisi
sembra aver relegato l’agenda del commercio in fondo all’elenco delle priorità, mentre dovrebbe
costituire l’asse centrale della strategia di ripresa.
72. Infine, i governi devono adottare tutte queste misure in modo da promuovere, e non erodere,
la fiducia nell’economia. Quindi, la crisi non comporta soltanto rischi, ma offre anche opportunità. I
leader visionari potrebbero cogliere questo momento per consolidare le organizzazioni
internazionali vitali, affrontare i problemi della sicurezza energetica e i problemi ambientali/climatici
e conferire alla globalizzazione una dimensione più equa. Pertanto, i governi dovranno assicurarsi
che le basi della prosperità future siano potenziate, non indebolite, ed agire sul piano multilaterale
e in modo, per quanto possibile, coordinato. Il loro fallimento potrebbe innescare una crisi di
governabilità, come è avvenuto negli anni Settanta.
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