LAURA FARANDA Introduzione a Nicole Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Bari, Laterza, 1991, pp.380 Il Femminile e l’uomo greco – edito di recente in una impeccabile traduzione italiana, a cura di Paola Guidobaldi e di Paula Botteri – è uno degli ultimi lavori di Nicole Loraux e si inquadra in una produzione scientifica già vasta e corposa, tradotta peraltro in Italia quasi nella sua integralità; aspetto questo alquanto insolito nella nostra tradizione editoriale, che testimonia di una sensibilità ancora viva e attenta nei confronti di un ambito di studi connesso con la cultura classica, rispetto al quale le suggestioni francesi continuano ad essere accolte con entusiasmo. Di Nicole Loraux la casa editrice Laterza, oltre al volume in questione, ha pubblicato infatti, negli ultimi due anni, Le madri in lutto, Come uccidere tragicamente una donna e il saggio «Che cos’è una dea?», che apre il I volume dedicato alla Storia delle donne, a cura di G. Duby e M. Perrot; presso Il Saggiatore, infine, sta per essere dato alle stampe il volume edito nel 1981, Les enfants d’Athena (Maspero, Paris). Sorprende, tuttavia, che nei tratti biografici, nei brevi profili editoriali che la riguardano, si insista sulla vocazione scientifica di questa studiosa ad occuparsi della nozione greca di divisione (divisione dei sessi, nella città e nella guerra), e quindi sulla sua attenzione privilegiata nei confronti dell’universo femminile, senza però fare esplicito riferimento alla dicitura del suo insegnamento presso l’Ecole des Haute Etudes en Sciences Sociales di Parigi, di per sé molto più eloquente: «Storia e antropologia della città greca». Tale omissione ci sollecita a una precisazione integrativa, nell’introdurre Il femminile e l’uomo greco: anche in questo caso, in sintonia e coerentemente con la sua vocazione accademica, Nicole Loraux si è occupata del ‘femminile’ e ‘della città’, del femminile nella città , una città nella quale serpeggia un’anima femminile, contro ogni apparenza di marginalizzazione dalle pratiche sociali della vita quotidiana e contro ogni generica assunzione ‘binaria’ del pensiero greco. Un femminile, quindi, quello esplorato da Nicole Loraux, apparentemente relegato nel silenzio della sfera domestica; oppure consegnato alla parola poetica, che ne restituisce le pieghe più inquietanti; un femminile frequentemente ignorato dalla prosa storica; un femminile, infine, formalmente estromesso dall’ edificazione di un modello filosofico. Ce n’è abbastanza per chiedersi dove ricada la prepotenza storica di questo universo femminile, a quali territori e a quali linee di pensiero sia possibile ancorarlo per tentare di restituirne la presenza. Si potrebbe a questo propostito ricordare che l’intera produzione di Nicole Loraux è protesa verso lo sforzo di affidare a un linguaggio privilegiato – il linguaggio del corpo – la presenza femminile nella comunità civica, ovvero di restituirci, insinuandosi tra le pieghe di un corpo ‘giocato’ tra enfasi ed omissione, il corpo storico di una cultura impegnata a riscattare dalla fisicità un corpo simbolico e parlante. Non a caso, in un’intervista rilasciata recentemente a Nathalie Ernoult – edita nella rivista di studi storici Sources (n° 25 -1991) – la studiosa dichiara di condividere con l’antropologia la suggestione di comuni ambiti tematici; primo fra tutti l’interesse per il corpo, presente nella riflessione antropologica come ‘trasmettitore di contenuti sociali’, e nello studio del quale non esita a misurarsi con la natura riflessiva di un approccio antropologico. Varrà la pena, allora, di ripercorrere Il femminile e l’uomo greco non tanto affidandosi alla sequenza tematica interna, quanto piuttosto assumendolo come progetto di continuità di un percorso attraverso il linguaggio del corpo: percorso del quale Nicole Loraux ci lascia intuire fin dalle pagine introduttive l’originalità e la suggestione. «Questo non è un libro sulle donne […] È un libro sull’uomo o sul femminile. E già devo spiegare il significato di questo o. Ci arriverò, ci arrivo – il tempo di qualche precisazione» (p.VII). Sarà attraverso la progressiva scomposizione storica del modello di anèr forgiato dalla pòlis democratica che la studiosa ci consentirà di intuire le prime valenze critiche di questa congiunzione disgiuntiva. Cosa tradisce, infatti, la coerenza pura di un simile modello virile, che sembra edificarsi sulla rimozione della discriminante femminile? Forse la paura di una ‘confusione tra i sessi’ che attenterebbe l’unità psichica dell’uomo-cittadino? Eppure la tradizione omerica «postula che un uomo degno di questo nome è più virile proprio quando accoglie in sé il femminile». E in fondo la stessa tradizione filosofica procede alla costituzione di un’identità civica formulando un modello di Identico che partecipa dell’altro, ovvero pensando la stessa identità «come virtualmente tormentata dall’alterità» (p.VIII). Si tratterà allora di recuperare ancora una volta attraverso l’èpos e la tragedia – ma anche attraverso il pensiero filosofico greco – le radici di quell’ambivalenza fondante che consente all’uomo greco di ‘coabitare’ con l’alterità, di organizzare la propria parte femminile in un progetto di sofferta esperienza conoscitiva. Si tratterà, in altri termini, di tornare ad esplorare l’eloquenza di un corpo nel quale si annida la prepotenza di un diverso registro conoscitivo; un corpo ‘virtualmente femminile’, se in esso coesistono e concorrono alla conoscenza i due registri del piacere e del dolore. E in questa prospettiva occorrerà riappropriarsi storicamente dell’esperienza di Tiresia – reso saggio e veggente dal proprio destino mitico – e che Nicole Loraux significativamente propone come eponimo nel titolo francese del suo libro. «Com’è noto, prima di diventare l’indovino la cui storia si intreccia con quella di Edipo, Tiresia – secondo una delle versioni del mito – è stato una donna. O perlomeno, per qualche tempo egli è vissuto in un corpo femminile […] Di questo passaggio attraverso la femminilità gli resta l’esperienza dei due sessi (dei due ‘caratteri’, delle due ‘nature’, dei due ‘piaceri’ o delle due ‘forme’) […] Ritengo importante anche il Tiresia che, in un’altra versione, quella del poeta ellenistico Callimaco, fu reso cieco e nel contempo promosso indovino da Atena, in quanto colpevole di essere andato al di là di qualsiasi divieto guardando il corpo nudo della dea. I segreti del femminile sono decisamente ben custoditi e devono esserlo: in entrambi i casi, gli occhi spenti di Tiresia sono una testimonianza di ciò che egli ormai non ha più bisogno di vedere, perché lo conosce» (pp.XVI-XVII). Sarà del tutto inutile avviarsi alla lettura di questo volume sostenuti dalla speranza di riuscire a conoscere, infine, ciò che ‘realmente’ Tiresia vide… Fedele ai suggerimenti ricavabili da un testo classico, la studiosa non ci rivelerà niente di più di ciò che il testo stesso propone. Neppure il ricorso metodologico a una psicoanalisi intesa «come supplemento di libertà» (ma anche come invito a riconoscere l’ambivalenza di un linguaggio ‘polifonico’) potrà integrare i silenzi di un testo, giacché «dell’inconscio di Tiresia non c’è nulla da sapere, molto invece delle costruzioni greche intorno al suo accecamento» (p.XXV). A un polo dell’orizzonte riflessivo di questo libro, Tiresia e il corpo nudo di Atena, fonte mitica di cecità e di chiaroveggenza. Al polo opposto Platone, e le sue ‘sistematiche’ costruzioni filosofiche attorno alla metafora del corpo femminile: laddove andrà notato «che Platone non è né il primo né l’unico filosofo greco che devii la rete metaforica dal femminile per spostarla verso il maschio» e che, anzi, ci si potrebbe chiedere se non sia riconoscibile nel pensiero greco la peculiarità di un’operazione riflessiva, di una sorta di scivolamento epistemologico «attraverso il quale il femminile sarebbe passato dal corpo della donna nell’anima del maschio per essere riassorbito nel pensiero» (p.XXI). Interrogativo affascinante, che percorre costantemente il libro e che non sarebbe possibile consegnare a un improbabile sforzo riassuntivo. Sarà forse più utile richiamare alcuni suggerimenti presenti all’interno del testo, e tentare di segnalarne la natura riflessiva e la coerenza dimostrativa in un simile quadro di riferimento. Ci limiteremo a ricordare alcune figure e alcuni nuclei tematici particolarmente rappresentativi. E ancora una volta sarà il corpo, «virile o femminile, aperto o chiuso, violato o intatto» a farci cogliere tra gli interstizi della storia della città greca la specificità e l’originalità delle riflessioni proposte. Il corpo strangolato, ad esempio, rispetto al quale «una constatazione è subito d’obbligo: che si tratti del suicida o del condannato, il discorso è identico: con l’immagine della corda al collo è sempre la medesima sequenza che ritorna; e anche, è sempre lo stesso silenzio che impedisce qualsiasi possibilità di accedere alle modalità e all’istante preciso dell’uccisione» (p.102). Anche in questo caso, ciò che la parola civica pretende di occultare trova spazi espressivi nella scena tragica, nella parola poetica (e sorprendentemente anche nella prosa puntuale di una nascente scienza medica). Riaffiora così nella coscienza mitica della pòlis la Fedra euripidea: una Fedra che, non a caso, nell’atto di togliersi la vita, consegna al bròkos (alla corda che si fa strumento di morte) la voce dissonante dei lògoi sulle donne. Più che una voce, un silenzio, dal momento che persino l’atto estremo nel quale il corpo femminile cessa di vivere si consuma nel silenzio. Silenzio eloquente, tuttavia, nelle cui trame Nicole Loraux individua la polifonia e la polisemia di un corpo femminile percorso e attanagliato dal frastuono di due bocche, di due colli, di due voci. E non è un caso che questo corpo sia restituito al silenzio, nella morte, da una corda che ne imprigiona il sangue e ne impedisce lo spargimento, laddove, di contro l’uomo greco è tanto più nobile e virile «in proporzione al sangue che versa e cola dalle ferite aperte nella carne calda» (p.114) In questo caso è la parola tragica a dar corpo alla morte femminile e a ridelimitare, attraverso il linguaggio della violenza, la geografia di un corpo che è fonte di vita e al tempo stesso zona oscura e inquietante di negazione del pensiero razionale. Non meno coerenti appaiono tuttavia i tentativi di ridefinizione prodotti in ambito scientifico dall’autore del trattato ippocratico Sulle malattie delle fanciulle: anch’egli rinvia a un corpo femminile che non si offre come metafora unitaria di un’identità conquistata, ma che si ridefinisce incessantemente in una serie di attributi assumibili come perifrasi di un mosaico corporeo; attributi che vanno ripercorsi nella loro complessità simbolica, per articolare la sofferta conquista storica di un corpo ‘conosciuto’ che si stacca dal corpo ‘conoscente’. Attributi riconoscibili, tuttavia, anche al di fuori dell’universo femminile, se si prova a ripercorrere nella sua sorprendente ambivalenza il corpo di un eroe. «Spetta ora ad Eracle, eroe della virilità, il compito di svelare il suo stretto e multiforme rapporto con attributi e comportamenti classificati di norma nella categoria del femminile» (p.119). A proposito di questo eroe invincibile, dopo averci ricordato la sua popolarità nella mitologia greca, la studiosa sottolinea come «fin dall’epopea omerica, l’ambivalenza primaria di Eracle consiste nel fatto che in lui l’eroe forte e dalle molteplici imprese è indissolubile dall’eroe sofferente o ridotto all’aporia […]» (p.121) Sarà per l’appunto scomponendo e analizzando con tenacia filologica il suo corpo e gli attributi che lo riguardano (il ventre ingordo ‘dallo statuto incerto’; la pelle di leone, capo di abbigliamento ufficiale; il peplo, insolito indumento, di cui Atena gli fa dono; la tunica color zafferano, propria delle donne, che indossa nel periodo di schiavitù presso Onfale; gli abiti di nozze e la mitra che cinge i suoi capelli) che in Eracle si svelerà l’intimo rapporto con l’universo femminile. E l’abbondante materiale documentario preso in esame consentirà alla studiosa di concludere ridisegnando il profilo dell’eroe: «egli è pura esteriorità, ma la sua figura ci ha portato nell’intimità più segreta della presenza del femminile nell’uomo, mettendo a nudo la sessualità mal celata nelle pratiche sociali, costringendo il lettore a farsi interprete e quindi, volente o nolente, a entrare nell’oggetto della sua interpretazione» (p.146). Dal corpo dell’eroe a quello del filosofo, non meno privo di sorprese anche per il lettore ormai avvertito. Un corpo particolarmente degno di memoria: il corpo di Socrate, che in una rilettura del Fedone platonico Nicole Loraux restituirsce all’assoluta purezza dell’intenzione filosofica. Nel dialogo a tutti noto che ricostruisce le ultime ore di vita di Socrate, dopo aver sottolineato l’efficacia innovativa di un elogio della morte che sfugge a ogni richiamo rituale (e che anzi procede alla confutazione del rito rovesciando le sequenze temporali del rito stesso), la studiosa ci induce a riflettere su un aspetto sorprendente del progetto platonico: bandire il corpo usando il corpo. Socrate in attesa della morte parla dell’immortalità come conseguenza naturale di un progressivo esercizio di separazione dell’anima dal corpo: cosicché, «se, come egli stesso afferma, da vivo Socrate risiede interamente nel suo lògos, ‘Socrate’ non è altro che la sua anima» (158). Ciò nonostante, afferma Nicole Loraux, «Platone è riuscito meglio di ogni altro a mettere in evidenza il paradosso per cui, nell’istante della separazione, ‘è al livello del corpo che l’essere sembra provare la propria identità’» (p.171). Cosicché il ‘corpo simbolico e parlante’ di Socrate è il migliore indicatore di lettura per riflettere su un testo in cui si parla dell’ambizione a liberarsi dalle angustie di un corpo percepito come pericoloso ricettacolo di passioni ed emozioni. E il tentativo di ripercorrere il dialogo platonico concentrando la propria riflessione sull’eloquenza del corpo di Socrate, induce Nicole Loraux a interrogarsi sul successo del Fedone e sull’insolita procedura platonica: pensare l’annullamento del corpo in una lingua dominata dal corpo: «Nel suo corpo irrigidito, Socrate è pietrificato dalla forza del testo platonico […] Il corpo è un sèma, diceva il Gorgia alla maniera orfica. Ma il Fedone è esso stesso un sèma, una stele commemorativa per questo corpo-tomba che, per tutto il dialogo, è stato innanzitutto corpo-segno» (p.174). Ne consegue che il successo del dialogo platonico si deve proprio all’ambivalenza di un’anima che perviene all’immortalità «soprattutto perché essa ha preso come supporto il memorabile corpo di Socrate». Ce n’è abbastanza per riconsiderare tutta la tradizione spiritualistica inaugurata da Platone, ma soprattutto per imboccare nuovi orizzonti interpretativi, alla ricerca di un corpo da intendere come ‘categoria storica’. Laura Faranda