UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” S.I.C.S.I. Scuola Interuniversitaria Campana di Specializzazione all’Insegnamento Indirizzo Linguistico-Letterario VII ciclo II anno – III semestre Classe A043/A050 MODULO DI STORIA Prof. DANDOLO SPECIALIZZANDI: ANNALISA LANFREDINI MANUELA SODANO Modulo: L’imperialismo Destinatari: Allievi del quinto anno di un liceo psico-pedagogico Tempi: 8 h Motivazioni: Tale percorso modulare si propone di sottoporre ai discenti un problema ancora attuale come quello del desiderio di potere degli stati, che spesso coincide con l’allargamento territoriale dei propri domini, e che affonda le radici nel movimento imperialista. Indaga, pertanto, le problematiche relative all’espansione coloniale delle grandi potenze a fine ‘800, tentando di fornirne adeguate spiegazioni. L’articolazione delle U.D. mira a delineare un quadro generale dei tempi, soffermandosi sulle cause dell’imperialismo e sulla sua differenza con il colonialismo. Passa poi, attraverso l’utilizzo di una cartina, ad illustrare la situazione mondiale nel momento di massima espansione coloniale, in modo da dare un’idea precisa di quelli che erano i delicatissimi rapporti esistenti tra gli stati. Per rendere chiaro, inoltre, quanto i singoli avvenimenti possano produrre enormi fratture nelle situazioni preesistenti, ci si interroga sulle conseguenze della politica dell’imperialismo, fino ad arrivare alla comparsa degli Stati Uniti sulla scena mondiale, allo scopo di fornire un precedente storico della posizione odierna statunitense. A completare il percorso c’è una scheda di approfondimento relativa al dibattito storiografico sul fenomeno dell’Imperialismo. Contenuti: U.D. I – Che cos’è l’imperialismo; rapporto con il colonialismo U.D. II – La spartizione del mondo U.D. III – Conseguenze dell’imperialismo U. D. IV – La comparsa degli Stati Uniti sulla scena mondiale U. D. V – L’imperialismo: dibattito storiografico 2 Obiettivi: Sviluppare la conoscenza dei motivi economici, politici e culturali che caratterizzarono la politica imperialistica Conoscere la differenza tra colonialismo e imperialismo Riconoscere le relazioni temporali esistenti tra i fenomeni Collegare il posizionamento geografico delle nazioni alla loro politica di sviluppo Riconoscere mutamenti e permanenze nella realtà storica a partire da un determinato evento Prerequisiti: Conoscenza delle dinamiche che determinarono l’espansione coloniale delle grandi potenze Conoscenza dei rapporti di potere esistenti tra gli stati precedentemente all’epoca imperialistica Capacità di consultazione dell’atlante storico Metodologia: Lezioni frontali Lezione partecipativa Attività di gruppo Visione di film e documentari sulla storia del tempo Strumenti: Libro di testo Supporti multimediali Atlante storico Verifiche: Test a risposta aperta Colloqui individuali Lavori di gruppo 3 Valutazione: In base alla situazione di partenza si valuterà il raggiungimento degli obiettivi prefissati, la partecipazione, lo svolgimento delle attività individuali e di gruppo, i risultati dei test e dei colloqui. Bibliografia: Giardina- Sabbatucci- Vidotto, L’età contemporanea, ed. Laterza, 2000 Detti T. – Gozzini G., Storia contemporanea, l’Ottocento, vol. I, Milano, ed. Mondatori, 2000 Salvo – Rotolo – Benvenuti, Dalla società feudale al mondo d’oggi, ed. Le Monnier, 1996 Hobsbawm E.J., Il secolo breve, Bur, Milano, 2006 Schumpeter J., Sociologia dell’imperialismo, Laterza, Roma-Bari, 4 Unità Didattica I Che cos’è ’imperialismo Coniato in Francia ai tempi di Napoleone III, il termine imperialismo si affermò in Inghilterra intorno al 1870 per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli, entrando poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli stati europei a proiettare più aggressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa, la propria immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diversi componenti si tradusse in una politica di potenza internazionale, realizzata con la forza e talvolta addirittura perseguita come fine in sé. Il dibattito sulle cause, sulla natura e sulla stessa estensione cronologica dell’imperialismo è ancora aperto. Ma è certo che, in sede storica, la nozione di imperialismo diventa difficilmente utilizzabile se svincolata dal contesto nel quale nacque e se slegata da quella che ne fu la manifestazione più tipica ed appariscente: la grande espansione coloniale degli ultimi decenni dell’ottocento. Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l’Europa si era lanciata alla conquista del mondo, ma questo processo raggiunse il culmine proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, acquisendo dimensioni e obiettivi nuovi rispetto a quelli della colonizzazione tradizionale. Se quest’ultima era rimasta legata soprattutto all’iniziativa dei privati (le grandi compagnie mercantili), la nuova espansione venne assunta sempre più come un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento economico. La tendenza prevalente fu quella di imporre un controllo più o meno formale a vastissimi territori dell’Africa, dell’Asia e del Pacifico, che furono ridotti al rango di vere e proprie colonie se assoggettate all’amministrazione diretta dei conquistatori, o di protettorati se il controllo veniva esercitato in maniera indiretta, conservando, almeno formalmente, gli ordinamenti preesistenti. I territori detenuti dalle potenze europee, nell’una o nell’altra forma, si ampliarono enormemente nel giro di pochi decenni e sulla scia della competizione coloniale si fecero avanti anche stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente come la Germania, l’Italia, il Belgio e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti. Alla base di questi cambiamenti c’erano fattori numerosi e complessi. Primi fra tutti, gli interessi economici: l’accaparramento di materie prime a basso costo, spinta tradizionale nella storia del colonialismo, la ricerca di sbocchi commerciali, più rilevante in seguito alla svolta protezionistica sui mercati europei, e, ultimo cronologicamente, lo stimolo derivante dall’accumulazione di capitali finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nei territori d’oltremare. Accanto alle 5 motivazioni di tipo economico assunsero non meno peso le motivazioni politico-ideologiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. Il mito di una vocazione imperiale delle singole potenze si legò pertanto, a quello di una missione nel mondo della civiltà europea. Il cosiddetto fardello dell’uomo bianco di cui parlava Kipling consisteva nel dovere di “redimere le popolazioni selvagge”. Un paternalismo non privo di componenti umanitarie si univa così a un razzismo di matrice positivistica. L’interesse dell’opinione pubblica nei confronti delle colonie, già sollecitato dall’opera dei missionari, fu inoltre fortemente alimentato dalle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l’Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura positivista, la moda dell’esotismo presente in molta letteratura del secondo ‘800 e l’alone romantico da cui erano contornate le figure dei grandi esploratori. Accanto ai motivi elencati, agirono come stimoli all’azione coloniale anche fattori più occasionali determinati dalle specifiche realtà locali dei territori extraeuropei o dalla necessità di controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò corrispondesse ad un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza tra le maggiori potenze. Unità Didattica II La spartizione del mondo Nella corsa alle colonie fu l’Africa il paese più bersagliato: nel giro di pochi decenni tutto il continente venne conquistato e lo scramble for Africa (la corsa alle colonie africane) divenne una scottante realtà. Tutta l'Europa partecipò alla conquista di colonie africane. L’Inghilterra, che voleva assicurarsi sia i rifornimenti di materie prime, sia soprattutto il controllo su alcuni punti strategici per il suo commercio, occupò nel 1882 l'Egitto, punto strategico per il controllo del canale di Suez. Creò poi colonie nel Sudan, in Nigeria, nel Kenya, in Rhodesia, nella Costa d'Oro e nel Sudafrica. Quest'ultimo fu sottratto con una sanguinosa guerra (1899-1902) ai boeri, l’unica popolazione bianca di origine europea (olandese) che si considerava africana a tutti gli effetti. Il Belgio s’impadronì del Congo, ricchissimo di miniere di rame e lo sottopose a un durissimo e rapace sfruttamento. La Francia, che già possedeva l'Algeria dal 1830, occupò la Tunisia, il Ciad, il Dahomey (oggi Benin) e la Mauritania. Anche la Germania intervenne occupando il Toga, il Camerun e l'attuale Namibia. Restarono indipendenti in Africa solo l'Etiopia (dopo il tentativo fallito da parte dell’Italia con la sconfitta di Adua nel 1896) e la Liberia, un piccolo Stato creato 6 appositamente per dare una patria a ex schiavi provenienti dagli Stati Uniti. Per quanto l’immagine dell’imperialismo ruggente della fine del XIX secolo sia associata alla rapida spartizione del continente nero, in realtà fu in Asia e negli anni ’70 che cominciò una nuova “corsa all’impero”. Ciò fu dovuto principalmente al fatto che l’interscambio con l’Asia, in particolar modo con l’India e la Cina, rimase sempre la base degli imperi d’oltremare bianchi. Anche nel continente asiatico il timone dell’espansione europea rimaneva nelle mani della potenza inglese, saldamente stabilita in India; mentre la Francia conquistava l’Indocina, l’Olanda aggiungeva Sumatra a Giava e Boero, la Russia allargava i propri domini ad est verso la Siberia e a sud verso l’Amur e il Turkestan, e la Germania s’impadroniva delle isole Caroline, Marianne e di Palaos. La cartina ci mostra gli assetti mondiali alla luce di quanto appena detto: Una novità nel panorama delineato dalle competizioni imperialistiche fu l’improvviso emergere del Giappone che, modernizzando il proprio sistema politico e la propria economia, riuscì a contrastare l’aggressione occidentale e ad imporsi da protagonista sulla scena mondiale. Tutto ciò a scapito, in particolar modo, della Cina che dopo essersi vista portare via molti territori, tra cui la Corea, si avviò verso un lungo, inevitabile declino. 7 Unità Didattica III Le conseguenze dell’imperialismo Nel corso della sua espansione coloniale, l’Europa portò in tutto il mondo l’impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne esportò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono infatti segnate dall’uso indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene e da un campionario di crudeltà quanto mai ricco e finora sconosciuto. Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti, portando ad un miglioramento dell'apparato produttivo, ma questo a prezzo di un continuo depauperamento di risorse materiali ed umane. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l’esportazione, solo in alcuni casi servì a rompere sistemi economici arretrati e di pura sussistenza; in altri casi andò a stravolgere un meccanismo produttivo orientato verso il mercato interno, che garantiva almeno la sussistenza della popolazione. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo, ma in funzione degli interessi dei colonizzatori, i quali del resto si appropriarono sistematicamente di gran parte dei ricavi economici dei paesi colonizzati, con il risultato che questi ultimi passarono semplicemente dalla povertà al sottosviluppo. L'effetto culturale della colonizzazione fu dirompente, pur variando a seconda dalle diverse realtà locali e dalle diverse politiche attuate dai colonizzatori. I sistemi culturali che avevano una più solida tradizione e che erano legati a strutture politico-sociali più organizzate, come nei paesi dell'Asia e del Nord Africa si difesero meglio, opponendo agli apporti stranieri una resistenza più consapevole. Ben diverso fu il caso dell'Africa arcaica, animista e pagana. Qui furono infatti alterati alle fondamenta gli equilibri delle tribù e dei villaggi, mentre interi sistemi di vita, di riti e di valori entrarono rapidamente in crisi, lasciando a malapena tracce visibili. Sul piano politico, però, l'espansione coloniale finì per favorire la formazione o il risveglio di nazionalismi locali, ad opera soprattutto dei nuovi quadri dirigenti che ebbero modo di formarsi nelle scuole europee, dove assorbirono gli ideali democratici e i principi di nazionalità. L'Europa si trovò così, paradossalmente, ad esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere del proprio destino. 8 Unità Didattica IV La comparsa sulla scena mondiale degli Stati Uniti In questo frastagliato panorama si inserì l’ascesa degli Stati Uniti che, negli ultimi decenni dell’800, conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo di secessione e della ricostruzione postbellica, la colonizzazione dei territori dell’Ovest riprese con rinnovato slancio, ora favorita anche dall’estensione della rete ferroviaria. Vittime principali dell’espansione statunitense furono le tribù dei pellirosse, che videro restringersi progressivamente i loro spazi, fino ad essere confinati nelle riserve e costituire così un corpo estraneo e marginale nella società inglobante, il cui principio costitutivo era quello della proprietà individuale. La crescita più imponente si verificò nell’industria, dove dominavano le grandi concentrazioni finanziarie (corporations), ma progressi decisivi furono raggiunti anche nei campi dell’agricoltura e dell’allevamento. Tale sviluppo economico fu reso possibile, oltre che dall’abbondanza di risorse naturali, anche e soprattutto da un mercato interno in continua espansione, alimentato da una consistente immigrazione che permise la formazione di un immenso crogiolo (melting pot) di culture, tradizioni e valori di tutti i paesi del vecchio continente. Pur restando in larga misura ancora un paese agricolo, gli Stati Uniti conobbero, in questo periodo, una rapida crescita dei grandi centri urbani che acquisirono la fisionomia di vere e proprie metropoli. Ma la prosperità americana non era esente da contraddizioni, che risultavano più evidenti proprio in queste grandi città, dove convivevano, le une accanto alle altre, aree di miseria e di benessere. A dimostrazione di queste incongruenze, nacquero le prime forme politiche di protesta e proliferarono le lotte sindacali. Da questo contesto generale prese avvio la politica espansionistica degli Stati Uniti che, se da un lato presentò tutte le caratteristiche dell’imperialismo classico (concentrazione monopolistica, integrazione tra capitale industriale e finanziario, esportazione di merci e capitale), dall’altro ebbe caratteristiche peculiari, basata com’era su forme di controllo indiretto e sulla proclamazione della difesa degli ideali di libertà sui quali si era costruita la nazione americana. In particolare, la politica imperialistica degli Stati Uniti, che ebbe come area di espansione i paesi dell’America centro-meridionale, fortemente arretrati dal punto di vista economico e instabili da quello politico, non seguì la via della dominazione coloniale europea, quasi sempre accompagnata da occupazioni militari e annessioni territoriali; si sviluppò, invece, nei termini della cosiddetta diplomazia del dollaro, secondo alcuni metodi ricorrenti: l’azione governativa fu quasi sempre preceduta da iniziative di gruppi privati, industriali, finanziari e commerciali. Questi offrivano aiuti finanziari ai governi di quei 9 paesi che avevano bisogno di consolidare la vita economica e l’amministrazione pubblica chiedendo, come contropartita, concessioni per l’insediamento di imprese agricolo-industriali, lo sfruttamento di risorse naturali, l’organizzazione del credito e l’appalto di lavori pubblici la diplomazia di Washington si adoperò affinché le iniziative dei privati statunitensi venissero accolte dai governi interessati a tutela dei privilegi economici ottenuti, il governo statunitense sviluppò sistematicamente una politica di ingerenza negli affari interni di quei paesi caduti sotto la sua sfera d’influenza, facendo talvolta ricorso a forme d’intervento diretto, anche militare, qualora si registrassero tentativi di ribellione, volti a spezzare la saldatura di interessi realizzatasi tra la classe dominante indigena e i potentati economici statunitensi Tale diplomazia del dollaro, che venne obbligatoriamente affiancata da una politica del bastone, condannò i paesi che ne divennero oggetto ad una progressiva degradazione politica ed economica. Infatti, anziché soddisfare i bisogni alimentari della popolazione, l’agricoltura fornì prodotti tropicali al mercato internazionale; le materie prime e i semilavorati, esportati a basso prezzo, vennero reimportati come prodotti finiti ad alto prezzo, a solo vantaggio dei gruppi stranieri e delle borghesie locali che trovavano il proprio utile facendosi strumenti delle grandi società statunitensi; i bilanci degli stati sottoposti furono largamente danneggiati da spese improduttive, che si rivelavano a solo vantaggio degli Stati Uniti (si pensi alle spese per l’istruzione, poi vanificate dalla fuga dei cervelli); e infine, la massa dei profitti venne in gran parte esportata e reinvestita in patria dalle grandi società americane, determinando un progressivo impoverimento dei paesi “protetti” che marciavano così verso l’indebitamento perenne, dati i continui aiuti economici che si vedevano costretti a chiedere. L’espansionismo statunitense conquistò in poco tempo tappe importanti, come il Portorico, le Filippine, le Hawaii e la tutela sull’isola di Cuba, resasi indipendente dal dominio spagnolo; in questo modo gli Stati Uniti compivano un passo decisivo nella loro posizione internazionale e assumevano a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale. Unità didattica V Il dibattito storiografico sull’imperialismo Gli storici ancora oggi non sono concordi nel fornire un’interpretazione univoca del fenomeno imperialistico; le diverse posizioni nascono dall’analisi delle motivazioni, per alcuni essenzialmente economiche, per altri politiche, per altri ancora psicologiche. 10 La prima teoria che affrontò in modo scientifico il problema dell’imperialismo fu quella dell’inglese Hobson che, nell’opera "Imperialismo, uno studio" (1902), ne addebitò le cause a fattori di natura essenzialmente economica, quali la concentrazione monopolistica, la crescita dell’industria pesante e il primato del capitalismo finanziario. All’origine dell’imperialismo vi erano, per Hobson, due tipi di fenomeni economici: a) gli interessi di quei gruppi economici che si arricchivano grazie alle spese necessarie per portare avanti una politica imperialistica: industrie belliche, ferroviarie, minerarie; e gli interessi di quei gruppi sociali, come la casta militare e burocratica, che vedevano aumentare il proprio peso grazie all’imperialismo b) la supremazia del potere finanziario, interessato ad investire i propri capitali in aree più redditizie rispetto al territorio metropolitano, come appunto le colonie, che garantivano rendimenti superiori agli investimenti L'imperialismo, per Hobson, era comunque contemplato nella natura stessa del sistema capitalistico, in quanto generava aumenti di capitali improvvisi e inaspettati che, non trovando spazio sul mercato interno, dovevano necessariamente rivolgersi all'estero. L'imperialismo non era dunque una scelta ma una necessità. Nonostante fosse sostenitore di un moderato riformismo, Hobson formulò aspre critiche al sistema capitalistico, considerandolo il maggior artefice della disoccupazione e della miseria della classe operaia. Tuttavia, egli credeva nella possibilità di una riforma del capitalismo, che fosse in grado di sanarne gli aspetti più deleteri. Partito dalle stesse premesse, ma giunto a soluzioni molto più radicali Lenin, il quale, nel famoso saggio "L'imperialismo fase suprema del capitalismo" (1916), definì l’imperialismo come una fase obbligata di sviluppo del capitalismo monopolistico, bisognoso di nuovi mercati al fine di scongiurare le crisi di sovrapproduzione. Per aggirare la caduta del profitto, il capitale finanziario, sorto dalla fusione di capitale industriale e bancario, tendeva a controllare le materie prime e i mercati a livello mondiale. Il mondo veniva quindi diviso in aree di influenza tra i diversi stati, che agivano sotto il controllo dei rispettivi monopoli economici nazionali. Lenin condivideva sostanzialmente con Hobson l'ipotesi di un'origine economica dell'imperialismo, dovuta alla fine della libera concorrenza e alla nascita degli aggressivi monopoli, ma non concordava con la sua teoria che il capitalismo potesse essere riformato. Completata la spartizione del mondo, infatti, la concorrenza economica e politica, non trovando più sbocco nella conquista di nuovi mercati, si sarebbe ben presto trasformata in conflitto militare tra i gruppi economici rivali, e quindi tra gli stati che tali gruppi controllavano. Prova di ciò era per Lenin il primo conflitto mondiale, conseguenza diretta dell'imperialismo, in quanto guerra di 11 conquista e di rapina, volta all’annientamento del nemico concorrente. Tale conflitto avrebbe, per Lenin, portato alla crisi finale del capitalismo, rendendo possibile la rivoluzione socialista. A contrastare le teorie economicistiche di Hobson e Lenin, lo studioso Fieldhouse che ne “L'età dell'imperialismo 1830-1914” (1975), dipinse quest’ultimo non come un orientamento nuovo, ma come un semplice moto di ritorno verso un fenomeno già osservato nel XVIII secolo. I motivi del nuovo imperialismo tra il 1870 e il 1914 andavano ricondotti alla situazione europea: sarebbe stata, infatti, la creazione del nuovo stato tedesco militarista ed aggressivo della Germania di Bismarck a determinare in Europa atteggiamenti propri del vecchio mercantilismo quali le tariffe protettive, con il primario scopo di edificare un'autosufficienza nazionale. Tra i motivi eminentemente politici individuati da Fieldhouse si annoverava anche l’ansia di rimanere fuori dalla spartizione del mondo, tanto che l’imperialismo diveniva quasi il prodotto dei timori e delle rivalità nell'ambito europeo. Altro antagonista alle teorie di Lenin, l’economista americano J. Schumpeter che, nella Sociologia dell’imperialismo (1919) guardò all’imperialismo come ad una scelta volontaria, anziché una fase necessaria, compiuta da imprenditori e governi incapaci di reggere alla concorrenza attraverso l’innovazione tecnologica. Sostenitore di una teoria di natura psicologica, Shumpeter addebitò l’imperialismo a cause di tipo irrazionale e istintive che, impersonate dalla politica, avevano deformato e alterato le strutture tendenzialmente pacifiche e razionali del capitalismo, orientato al perseguimento dell'interesse attraverso la concorrenza e il libero gioco della domanda e dell'offerta. A sostegno della sua tesi, Schumpeter considerò il caso dell'Inghilterra dove il partito conservatore, per guadagnarsi il favore delle masse, e quindi essenzialmente per motivi politici interni, lanciò lo slogan dell'imperialismo rivolto al sentimento nazionalista inglese, raccogliendo una moltitudine di consensi che spinse il governo ad adottare una politica coloniale. Politica che, senza Disraeli, si sarebbe esaurita nel corso dell' 800. Nessuna delle teorie sopraelencate viene preferita oggi ad un’altra. Nel complesso, la storiografia più recente concorda in generale sul rifiuto di una spiegazione unicausale del fenomeno coloniale, e sulla necessità di una valutazione che consideri le interazioni tra fattori economici, politici e ideologici. Mette inoltre in evidenza che le cause del fenomeno vanno ricercate non soltanto in Europa, ma anche nei paesi che furono colonizzati. Permangono, secondo le tendenze e gli interessi degli autori, divergenze sul valore più o meno ampio che ciascuno di questi fattori assume nelle diverse culture coloniali, nei vari momenti storici e nelle aree geografiche studiate. 12