UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II”
S.I.C.S.I.
Scuola Interuniversitaria Campana di Specializzazione all’Insegnamento
Indirizzo Linguistico-Letterario
VII ciclo
II anno – III semestre
Classe A043/A050
MODULO DI STORIA
Prof. DANDOLO
SPECIALIZZANDI:
ANNALISA LANFREDINI
MANUELA SODANO
Modulo: L’imperialismo
Destinatari: Allievi del quinto anno di un liceo psico-pedagogico
Tempi: 8 h
Motivazioni:
Tale percorso modulare si propone di sottoporre ai discenti un problema ancora attuale come quello
del desiderio di potere degli stati, che spesso coincide con l’allargamento territoriale dei propri
domini, e che affonda le radici nel movimento imperialista. Indaga, pertanto, le problematiche
relative all’espansione coloniale delle grandi potenze a fine ‘800, tentando di fornirne adeguate
spiegazioni. L’articolazione delle U.D. mira a delineare un quadro generale dei tempi,
soffermandosi sulle cause dell’imperialismo e sulla sua differenza con il colonialismo. Passa poi,
attraverso l’utilizzo di una cartina, ad illustrare la situazione mondiale nel momento di massima
espansione coloniale, in modo da dare un’idea precisa di quelli che erano i delicatissimi rapporti
esistenti tra gli stati. Per rendere chiaro, inoltre, quanto i singoli avvenimenti possano produrre
enormi fratture nelle situazioni preesistenti, ci si interroga sulle conseguenze della politica
dell’imperialismo, fino ad arrivare alla comparsa degli Stati Uniti sulla scena mondiale, allo scopo
di fornire un precedente storico della posizione odierna statunitense.
A completare il percorso c’è una scheda di approfondimento relativa al dibattito storiografico sul
fenomeno dell’Imperialismo.
Contenuti:

U.D. I – Che cos’è l’imperialismo; rapporto con il colonialismo

U.D. II – La spartizione del mondo

U.D. III – Conseguenze dell’imperialismo

U. D. IV – La comparsa degli Stati Uniti sulla scena mondiale

U. D. V – L’imperialismo: dibattito storiografico
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Obiettivi:

Sviluppare la conoscenza dei motivi economici, politici e culturali che caratterizzarono la
politica imperialistica

Conoscere la differenza tra colonialismo e imperialismo

Riconoscere le relazioni temporali esistenti tra i fenomeni

Collegare il posizionamento geografico delle nazioni alla loro politica di sviluppo

Riconoscere mutamenti e permanenze nella realtà storica a partire da un determinato evento
Prerequisiti:

Conoscenza delle dinamiche che determinarono l’espansione coloniale delle grandi potenze

Conoscenza dei rapporti di potere esistenti tra gli stati precedentemente all’epoca
imperialistica

Capacità di consultazione dell’atlante storico
Metodologia:

Lezioni frontali

Lezione partecipativa

Attività di gruppo

Visione di film e documentari sulla storia del tempo
Strumenti:

Libro di testo

Supporti multimediali

Atlante storico
Verifiche:

Test a risposta aperta

Colloqui individuali

Lavori di gruppo
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Valutazione:
In base alla situazione di partenza si valuterà il raggiungimento degli obiettivi prefissati, la
partecipazione, lo svolgimento delle attività individuali e di gruppo, i risultati dei test e dei colloqui.
Bibliografia:
Giardina- Sabbatucci- Vidotto, L’età contemporanea, ed. Laterza, 2000
Detti T. – Gozzini G., Storia contemporanea, l’Ottocento, vol. I, Milano, ed. Mondatori, 2000
Salvo – Rotolo – Benvenuti, Dalla società feudale al mondo d’oggi, ed. Le Monnier, 1996
Hobsbawm E.J., Il secolo breve, Bur, Milano, 2006
Schumpeter J., Sociologia dell’imperialismo, Laterza, Roma-Bari,
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Unità Didattica I
Che cos’è ’imperialismo
Coniato in Francia ai tempi di Napoleone III, il termine imperialismo si affermò in Inghilterra
intorno al 1870 per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli, entrando
poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala
mondiale. In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli stati europei a proiettare più
aggressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa, la propria
immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diversi componenti si tradusse in una
politica di potenza internazionale, realizzata con la forza e talvolta addirittura perseguita come fine
in sé.
Il dibattito sulle cause, sulla natura e sulla stessa estensione cronologica dell’imperialismo è ancora
aperto. Ma è certo che, in sede storica, la nozione di imperialismo diventa difficilmente utilizzabile
se svincolata dal contesto nel quale nacque e se slegata da quella che ne fu la manifestazione più
tipica ed appariscente: la grande espansione coloniale degli ultimi decenni dell’ottocento. Fin dai
tempi delle grandi scoperte geografiche, l’Europa si era lanciata alla conquista del mondo, ma
questo processo raggiunse il culmine proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, acquisendo
dimensioni e obiettivi nuovi rispetto a quelli della colonizzazione tradizionale. Se quest’ultima era
rimasta legata soprattutto all’iniziativa dei privati (le grandi compagnie mercantili), la nuova
espansione venne assunta sempre più come un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi.
Alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di
sfruttamento economico. La tendenza prevalente fu quella di imporre un controllo più o meno
formale a vastissimi territori dell’Africa, dell’Asia e del Pacifico, che furono ridotti al rango di vere
e proprie colonie se assoggettate all’amministrazione diretta dei conquistatori, o di protettorati se il
controllo veniva esercitato in maniera indiretta, conservando, almeno formalmente, gli ordinamenti
preesistenti. I territori detenuti dalle potenze europee, nell’una o nell’altra forma, si ampliarono
enormemente nel giro di pochi decenni e sulla scia della competizione coloniale si fecero avanti
anche stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente come la
Germania, l’Italia, il Belgio e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti. Alla
base di questi cambiamenti c’erano fattori numerosi e complessi. Primi fra tutti, gli interessi
economici: l’accaparramento di materie prime a basso costo, spinta tradizionale nella storia del
colonialismo, la ricerca di sbocchi commerciali, più rilevante in seguito alla svolta protezionistica
sui mercati europei, e, ultimo cronologicamente, lo stimolo derivante dall’accumulazione di capitali
finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nei territori d’oltremare. Accanto alle
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motivazioni di tipo economico assunsero non meno peso le motivazioni politico-ideologiche. Esse
affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e
di spirito missionario. Il mito di una vocazione imperiale delle singole potenze si legò pertanto, a
quello di una missione nel mondo della civiltà europea. Il cosiddetto fardello dell’uomo bianco di
cui parlava Kipling consisteva nel dovere di “redimere le popolazioni selvagge”. Un paternalismo
non privo di componenti umanitarie si univa così a un razzismo di matrice positivistica. L’interesse
dell’opinione pubblica nei confronti delle colonie, già sollecitato dall’opera dei missionari, fu
inoltre fortemente alimentato dalle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero
per teatro soprattutto l’Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze
nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura positivista,
la moda dell’esotismo presente in molta letteratura del secondo ‘800 e l’alone romantico da cui
erano contornate le figure dei grandi esploratori.
Accanto ai motivi elencati, agirono come stimoli all’azione coloniale anche fattori più occasionali
determinati dalle specifiche realtà locali dei territori extraeuropei o dalla necessità di controbattere
le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò corrispondesse ad un piano di conquista
prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero
risultò spartito in imperi e zone di influenza tra le maggiori potenze.
Unità Didattica II
La spartizione del mondo
Nella corsa alle colonie fu l’Africa il paese più bersagliato: nel giro di pochi decenni tutto il
continente venne conquistato e lo scramble for Africa (la corsa alle colonie africane) divenne una
scottante realtà. Tutta l'Europa partecipò alla conquista di colonie africane. L’Inghilterra, che voleva
assicurarsi sia i rifornimenti di materie prime, sia soprattutto il controllo su alcuni punti strategici
per il suo commercio, occupò nel 1882 l'Egitto, punto strategico per il controllo del canale di Suez.
Creò poi colonie nel Sudan, in Nigeria, nel Kenya, in Rhodesia, nella Costa d'Oro e nel Sudafrica.
Quest'ultimo fu sottratto con una sanguinosa guerra (1899-1902) ai boeri, l’unica popolazione
bianca di origine europea (olandese) che si considerava africana a tutti gli effetti. Il Belgio
s’impadronì del Congo, ricchissimo di miniere di rame e lo sottopose a un durissimo e rapace
sfruttamento. La Francia, che già possedeva l'Algeria dal 1830, occupò la Tunisia, il Ciad, il
Dahomey (oggi Benin) e la Mauritania. Anche la Germania intervenne occupando il Toga, il
Camerun e l'attuale Namibia. Restarono indipendenti in Africa solo l'Etiopia (dopo il tentativo
fallito da parte dell’Italia con la sconfitta di Adua nel 1896) e la Liberia, un piccolo Stato creato
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appositamente per dare una patria a ex schiavi provenienti dagli Stati Uniti. Per quanto l’immagine
dell’imperialismo ruggente della fine del XIX secolo sia associata alla rapida spartizione del
continente nero, in realtà fu in Asia e negli anni ’70 che cominciò una nuova “corsa all’impero”.
Ciò fu dovuto principalmente al fatto che l’interscambio con l’Asia, in particolar modo con l’India e
la Cina, rimase sempre la base degli imperi d’oltremare bianchi. Anche nel continente asiatico il
timone dell’espansione europea rimaneva nelle mani della potenza inglese, saldamente stabilita in
India; mentre la Francia conquistava l’Indocina, l’Olanda aggiungeva Sumatra a Giava e Boero, la
Russia allargava i propri domini ad est verso la Siberia e a sud verso l’Amur e il Turkestan, e la
Germania s’impadroniva delle isole Caroline, Marianne e di Palaos.
La cartina ci mostra gli assetti mondiali alla luce di quanto appena detto:
Una novità nel panorama delineato dalle competizioni imperialistiche fu l’improvviso emergere del
Giappone che, modernizzando il proprio sistema politico e la propria economia, riuscì a contrastare
l’aggressione occidentale e ad imporsi da protagonista sulla scena mondiale. Tutto ciò a scapito, in
particolar modo, della Cina che dopo essersi vista portare via molti territori, tra cui la Corea, si
avviò verso un lungo, inevitabile declino.
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Unità Didattica III
Le conseguenze dell’imperialismo
Nel corso della sua espansione coloniale, l’Europa portò in tutto il mondo l’impronta della sua
tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne esportò la faccia
migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono infatti segnate dall’uso indiscriminato della forza
contro le popolazioni indigene e da un campionario di crudeltà quanto mai ricco e finora
sconosciuto. Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui
paesi che ne furono investiti, portando ad un miglioramento dell'apparato produttivo, ma questo a
prezzo di un continuo depauperamento di risorse materiali ed umane. La trasformazione delle
economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l’esportazione, solo in
alcuni casi servì a rompere sistemi economici arretrati e di pura sussistenza; in altri casi andò a
stravolgere un meccanismo produttivo orientato verso il mercato interno, che garantiva almeno la
sussistenza della popolazione. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo, ma in funzione
degli interessi dei colonizzatori, i quali del resto si appropriarono sistematicamente di gran parte dei
ricavi economici dei paesi colonizzati, con il risultato che questi ultimi passarono semplicemente
dalla povertà al sottosviluppo.
L'effetto culturale della colonizzazione fu dirompente, pur variando a seconda dalle diverse realtà
locali e dalle diverse politiche attuate dai colonizzatori. I sistemi culturali che avevano una più
solida tradizione e che erano legati a strutture politico-sociali più organizzate, come nei paesi
dell'Asia e del Nord Africa si difesero meglio, opponendo agli apporti stranieri una resistenza più
consapevole. Ben diverso fu il caso dell'Africa arcaica, animista e pagana. Qui furono infatti alterati
alle fondamenta gli equilibri delle tribù e dei villaggi, mentre interi sistemi di vita, di riti e di valori
entrarono rapidamente in crisi, lasciando a malapena tracce visibili. Sul piano politico, però,
l'espansione coloniale finì per favorire la formazione o il risveglio di nazionalismi locali, ad opera
soprattutto dei nuovi quadri dirigenti che ebbero modo di formarsi nelle scuole europee, dove
assorbirono gli ideali democratici e i principi di nazionalità. L'Europa si trovò così,
paradossalmente, ad esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e
di decidere del proprio destino.
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Unità Didattica IV
La comparsa sulla scena mondiale degli Stati Uniti
In questo frastagliato panorama si inserì l’ascesa degli Stati Uniti che, negli ultimi decenni
dell’800, conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale.
Chiuso il capitolo di secessione e della ricostruzione postbellica, la colonizzazione dei territori
dell’Ovest riprese con rinnovato slancio, ora favorita anche dall’estensione della rete ferroviaria.
Vittime principali dell’espansione statunitense furono le tribù dei pellirosse, che videro
restringersi progressivamente i loro spazi, fino ad essere confinati nelle riserve e costituire così
un corpo estraneo e marginale nella società inglobante, il cui principio costitutivo era quello
della proprietà individuale. La crescita più imponente si verificò nell’industria, dove
dominavano le grandi concentrazioni finanziarie (corporations), ma progressi decisivi furono
raggiunti anche nei campi dell’agricoltura e dell’allevamento. Tale sviluppo economico fu reso
possibile, oltre che dall’abbondanza di risorse naturali, anche e soprattutto da un mercato
interno in continua espansione, alimentato da una consistente immigrazione che permise la
formazione di un immenso crogiolo (melting pot) di culture, tradizioni e valori di tutti i paesi
del vecchio continente. Pur restando in larga misura ancora un paese agricolo, gli Stati Uniti
conobbero, in questo periodo, una rapida crescita dei grandi centri urbani che acquisirono la
fisionomia di vere e proprie metropoli. Ma la prosperità americana non era esente da
contraddizioni, che risultavano più evidenti proprio in queste grandi città, dove convivevano, le
une accanto alle altre, aree di miseria e di benessere. A dimostrazione di queste incongruenze,
nacquero le prime forme politiche di protesta e proliferarono le lotte sindacali.
Da questo contesto generale prese avvio la politica espansionistica degli Stati Uniti che, se da un
lato presentò tutte le caratteristiche dell’imperialismo classico (concentrazione monopolistica,
integrazione tra capitale industriale e finanziario, esportazione di merci e capitale), dall’altro
ebbe caratteristiche peculiari, basata com’era su forme di controllo indiretto e sulla
proclamazione della difesa degli ideali di libertà sui quali si era costruita la nazione americana.
In particolare, la politica imperialistica degli Stati Uniti, che ebbe come area di espansione i
paesi dell’America centro-meridionale, fortemente arretrati dal punto di vista economico e
instabili da quello politico, non seguì la via della dominazione coloniale europea, quasi sempre
accompagnata da occupazioni militari e annessioni territoriali; si sviluppò, invece, nei termini
della cosiddetta diplomazia del dollaro, secondo alcuni metodi ricorrenti:

l’azione governativa fu quasi sempre preceduta da iniziative di gruppi privati,
industriali, finanziari e commerciali. Questi offrivano aiuti finanziari ai governi di quei
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paesi che avevano bisogno di consolidare la vita economica e l’amministrazione
pubblica chiedendo, come contropartita, concessioni per l’insediamento di imprese
agricolo-industriali, lo sfruttamento di risorse naturali, l’organizzazione del credito e
l’appalto di lavori pubblici

la diplomazia di Washington si adoperò affinché le iniziative dei privati statunitensi
venissero accolte dai governi interessati

a tutela dei privilegi economici ottenuti, il governo statunitense sviluppò
sistematicamente una politica di ingerenza negli affari interni di quei paesi caduti sotto
la sua sfera d’influenza, facendo talvolta ricorso a forme d’intervento diretto, anche
militare, qualora si registrassero tentativi di ribellione, volti a spezzare la saldatura di
interessi realizzatasi tra la classe dominante indigena e i potentati economici statunitensi
Tale diplomazia del dollaro, che venne obbligatoriamente affiancata da una politica del bastone,
condannò i paesi che ne divennero oggetto ad una progressiva degradazione politica ed economica.
Infatti, anziché soddisfare i bisogni alimentari della popolazione, l’agricoltura fornì prodotti
tropicali al mercato internazionale; le materie prime e i semilavorati, esportati a basso prezzo,
vennero reimportati come prodotti finiti ad alto prezzo, a solo vantaggio dei gruppi stranieri e delle
borghesie locali che trovavano il proprio utile facendosi strumenti delle grandi società statunitensi; i
bilanci degli stati sottoposti furono largamente danneggiati da spese improduttive, che si rivelavano
a solo vantaggio degli Stati Uniti (si pensi alle spese per l’istruzione, poi vanificate dalla fuga dei
cervelli); e infine, la massa dei profitti venne in gran parte esportata e reinvestita in patria dalle
grandi società americane, determinando un progressivo impoverimento dei paesi “protetti” che
marciavano così verso l’indebitamento perenne, dati i continui aiuti economici che si vedevano
costretti a chiedere.
L’espansionismo statunitense conquistò in poco tempo tappe importanti, come il Portorico, le
Filippine, le Hawaii e la tutela sull’isola di Cuba, resasi indipendente dal dominio spagnolo; in
questo modo gli Stati Uniti compivano un passo decisivo nella loro posizione internazionale e
assumevano a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale.
Unità didattica V
Il dibattito storiografico sull’imperialismo
Gli storici ancora oggi non sono concordi nel fornire un’interpretazione univoca del fenomeno
imperialistico; le diverse posizioni nascono dall’analisi delle motivazioni, per alcuni
essenzialmente economiche, per altri politiche, per altri ancora psicologiche.
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La prima teoria che affrontò in modo scientifico il problema dell’imperialismo fu quella
dell’inglese Hobson che, nell’opera "Imperialismo, uno studio" (1902), ne addebitò le cause a
fattori di natura essenzialmente economica, quali la concentrazione monopolistica, la crescita
dell’industria pesante e il primato del capitalismo finanziario. All’origine dell’imperialismo vi
erano, per Hobson, due tipi di fenomeni economici:
a) gli interessi di quei gruppi economici che si arricchivano grazie alle spese necessarie per
portare avanti una politica imperialistica: industrie belliche, ferroviarie, minerarie; e gli interessi
di quei gruppi sociali, come la casta militare e burocratica, che vedevano aumentare il proprio
peso grazie all’imperialismo
b) la supremazia del potere finanziario, interessato ad investire i propri capitali in aree più
redditizie rispetto al territorio metropolitano, come appunto le colonie, che garantivano
rendimenti superiori agli investimenti
L'imperialismo, per Hobson, era comunque contemplato nella natura stessa del sistema
capitalistico, in quanto generava aumenti di capitali improvvisi e inaspettati che, non trovando
spazio sul mercato interno, dovevano necessariamente rivolgersi all'estero. L'imperialismo non
era dunque una scelta ma una necessità. Nonostante fosse sostenitore di un moderato
riformismo, Hobson formulò aspre critiche al sistema capitalistico, considerandolo il maggior
artefice della disoccupazione e della miseria della classe operaia. Tuttavia, egli credeva nella
possibilità di una riforma del capitalismo, che fosse in grado di sanarne gli aspetti più deleteri.
Partito dalle stesse premesse, ma giunto a soluzioni molto più radicali Lenin, il quale, nel
famoso saggio "L'imperialismo fase suprema del capitalismo" (1916), definì l’imperialismo
come una fase obbligata di sviluppo del capitalismo monopolistico, bisognoso di nuovi mercati
al fine di scongiurare le crisi di sovrapproduzione. Per aggirare la caduta del profitto, il capitale
finanziario, sorto dalla fusione di capitale industriale e bancario, tendeva a controllare le materie
prime e i mercati a livello mondiale. Il mondo veniva quindi diviso in aree di influenza tra i
diversi stati, che agivano sotto il controllo dei rispettivi monopoli economici nazionali. Lenin
condivideva sostanzialmente con Hobson l'ipotesi di un'origine economica dell'imperialismo,
dovuta alla fine della libera concorrenza e alla nascita degli aggressivi monopoli, ma non
concordava con la sua teoria che il capitalismo potesse essere riformato. Completata la
spartizione del mondo, infatti, la concorrenza economica e politica, non trovando più sbocco
nella conquista di nuovi mercati, si sarebbe ben presto trasformata in conflitto militare tra i
gruppi economici rivali, e quindi tra gli stati che tali gruppi controllavano. Prova di ciò era per
Lenin il primo conflitto mondiale, conseguenza diretta dell'imperialismo, in quanto guerra di
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conquista e di rapina, volta all’annientamento del nemico concorrente. Tale conflitto avrebbe,
per Lenin, portato alla crisi finale del capitalismo, rendendo possibile la rivoluzione socialista.
A contrastare le teorie economicistiche di Hobson e Lenin, lo studioso Fieldhouse che ne “L'età
dell'imperialismo 1830-1914” (1975), dipinse quest’ultimo non come un orientamento nuovo,
ma come un semplice moto di ritorno verso un fenomeno già osservato nel XVIII secolo. I
motivi del nuovo imperialismo tra il 1870 e il 1914 andavano ricondotti alla situazione europea:
sarebbe stata, infatti, la creazione del nuovo stato tedesco militarista ed aggressivo della
Germania di Bismarck a determinare in Europa atteggiamenti propri del vecchio mercantilismo
quali le tariffe protettive, con il primario scopo di edificare un'autosufficienza nazionale. Tra i
motivi eminentemente politici individuati da Fieldhouse si annoverava anche l’ansia di rimanere
fuori dalla spartizione del mondo, tanto che l’imperialismo diveniva quasi il prodotto dei timori
e delle rivalità nell'ambito europeo.
Altro antagonista alle teorie di Lenin, l’economista americano J. Schumpeter che, nella
Sociologia dell’imperialismo (1919) guardò all’imperialismo come ad una scelta volontaria,
anziché una fase necessaria, compiuta da imprenditori e governi incapaci di reggere alla
concorrenza attraverso l’innovazione tecnologica. Sostenitore di una teoria di natura
psicologica, Shumpeter addebitò l’imperialismo a cause di tipo irrazionale e istintive che,
impersonate dalla politica, avevano deformato e alterato le strutture tendenzialmente pacifiche e
razionali del capitalismo, orientato al perseguimento dell'interesse attraverso la concorrenza e il
libero gioco della domanda e dell'offerta. A sostegno della sua tesi, Schumpeter considerò il
caso dell'Inghilterra dove il partito conservatore, per guadagnarsi il favore delle masse, e quindi
essenzialmente per motivi politici interni, lanciò lo slogan dell'imperialismo rivolto al
sentimento nazionalista inglese, raccogliendo una moltitudine di consensi che spinse il governo
ad adottare una politica coloniale. Politica che, senza Disraeli, si sarebbe esaurita nel corso dell'
800.
Nessuna delle teorie sopraelencate viene preferita oggi ad un’altra.
Nel complesso, la storiografia più recente concorda in generale sul rifiuto di una spiegazione
unicausale del fenomeno coloniale, e sulla necessità di una valutazione che consideri le
interazioni tra fattori economici, politici e ideologici. Mette inoltre in evidenza che le cause del
fenomeno vanno ricercate non soltanto in Europa, ma anche nei paesi che furono colonizzati.
Permangono, secondo le tendenze e gli interessi degli autori, divergenze sul valore più o meno
ampio che ciascuno di questi fattori assume nelle diverse culture coloniali, nei vari momenti
storici e nelle aree geografiche studiate.
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