LLP-LDV/TOI/09/IT/0405 MANUALE WRITING THEATRE METODI E TECNICHE DI SCRITTURA TEATRALE Volume I ITALY GREECE ROMANIA Institutul de Ştiinţe ale Educaţiei Coordinamento editoriale: Federica D'Armini Contenuti: Federica D’Armini, Daniela De Lillo, Lidia Giansanti, Claudia Lauricella, Vittoria Rossi, Alessandro Spadorcia, Valeria Stanziale. Grafica: Gianfranco Pintus Si ringraziano l'Agenzia Nazionale per il Programma di Apprendimento Permanente - Programma settoriale Leonardo Da Vinci e la Commissione Europea - DGEAC MANUALE WRITING THEATRE METODI E TECNICHE DI SCRITTURA TEATRALE Volume I Senza la parola, il senso compare egualmente e si modifica sotto l'effetto del tempo e del contesto. Ma quando la parola entra in gioco in un bambino, quest'ultimo acquisisce la possibilità di elaborare tale senso, in seno alla sua famiglia e al suo ambiente culturale. Una conoscenza impensata si iscrive nella memoria di tutti gli esseri viventi, ma quando un essere umano accede alla possibilità di farne una rappresentazione condivisibile, può agire sul modo in cui vede il suo passato e gusta il suo mondo. Dopo il gesto e la mimica, che nei bambini piccoli creano un senso preverbale, l'atto della parola permette una prima metamorfosi affettiva e interrelazionale. Più tardi, la parola scritta permetterà un ulteriore rimaneggiamento. Infine, il racconto giocato, parlato, scritto o filmato, utilizzerà la rappresentazione del tempo per tradurre i ricordi del reale. A nostra insaputa, il reale fissa nel nostro cervello una memoria che ci governa implicitamente. Senza saperlo possiamo elaborare la rappresentazione per tutto il tempo della nostra vita e trasformare la realtà per farne delle meraviglie o degli orrori, delle felicità o delle tristezze. E' il contesto affettivo, sensato, familiare e culturale, che indica la direzione per conferire senso ai fatti. La nostra capacità biologica, affettiva, psicologica e culturale di trasformare le nostre rappresentazioni del reale ci offre la possibilità di modificare un trauma. Il trauma esiste nel reale e persiste nelle memoria, ma i nostri strumenti verbali, affettivi e culturali ci danno il potere di rimaneggiare la rappresentazione, costituendo così un precedente per la resilienza. Boris Cyrulnik Le réel et sa représentation. Les requis de la résilience Journal de la Psychanalyse de l'Enfant, Paris, Bayard (2004) INDICE PREMESSA 7 STRUTTURA DEL MANUALE. GUIDA PRATICA ALLA CONSULTAZIONE 8 Durata 9 Nota metodologica 9 Legenda 10 SEZIONE 1 - RIFERIMENTI TEORICI DEL METODO WRITING THEATRE 11 1. METODOLOGIA E PRASSI 12 1.1 Mappa 12 1.2 Obiettivi di apprendimento 13 1.3 Introduzione 13 1.4 Teatro di Inclusione Sociale 13 1.5 Linee programmatiche 14 1.6 Fondamenti del Writing Theatre 16 1.7 L’operatore di Writing Theatre 17 Bibliografia 18 (AC) ARGOMENTO CORRELATO - TEATRO E DISAGIO 19 Scheda 1. a - Teatro educativo 20 Mappa 20 Obiettivi di apprendimento 21 Introduzione 21 Argomenti specifici 21 Bibliografia 27 Scheda 1. b - Il gioco e la terapia del gioco 28 Mappa 28 Obiettivi di apprendimento 29 Introduzione 29 Argomenti specifici 30 Bibliografia 32 Scheda 1. c - Metodi di teatro creativo 33 Mappa 33 Obiettivi di apprendimento 34 Introduzione 34 Argomenti specifici 35 Bibliografia 40 Scheda 1. d - Orientamenti di teatro terapeutico 41 Mappa 41 Obiettivi di apprendimento 42 Argomenti specifici 42 Bibliografia 46 SEZIONE 2 - DIDATTICA TEATRALE E TECNICHE DEL METODO WRITING THEATRE 47 2 - AREE DELLA FORMAZIONE TEATRALE 48 2.1 Mappa 48 2.1 Obiettivi di apprendimento 49 2.3 Introduzione 49 2.4 Interpretazione 50 2.5 Movimento 51 2.6 Voce 51 2.7 Drammaturgia 52 2.8 Regia 53 2.9 Scenografia e costumi 55 2.10 Tecnologia dello spettacolo 56 2.11 Bibliografia 57 3 - TECNICHE SCENICHE E ARTE TERAPIA 58 3.1 Mappa 58 3.2 Obiettivi di apprendimento 59 3.3 Introduzione 59 3.4 Warm up 59 3.5 Video tecniche 61 3.6 Improvvisazione teatrale 62 3.7 Improvvisazione musicale 63 3.8 Immaginazione collettiva 64 3.9 Blog, Facebook, sms 65 3.10 Raccontare e raccontarsi 66 3.11 Racconto rap – presentato 67 3.12 Bibliografia 67 (AC) ARGOMENTO CORRELATO - TECNICHE DI LABORATORIO 69 Mappa 69 Obiettivi di apprendimento 70 Introduzione 70 Argomenti specifici 71 Bibliografia 73 4 - TECNICHE DI NARRAZIONE: LO STORYTELLING 74 4.1 Mappa 74 4.2 Obiettivi di apprendimento 75 4.3 Introduzione 75 4.4 Funzionamento delle storie 76 4.5 Le storie e l'apprendimento inconscio 80 4.6 Lo storytelling e la formazione 81 4.7 Le nuove applicazioni dello Storytelling 91 4.8 Bibliografia 93 (AC) ARGOMENTO CORRELATO - COME DIVENTARE UNO STORYTELLER 95 Mappa 95 Obiettivi di apprendimento 96 Introduzione 96 Argomenti specifici 96 Bibliografia 99 5 - LEZIONI DI SCRITTURA 100 5.1 Mappa 100 5.2 Obiettivi di apprendimento 101 5.3 Introduzione 101 5.4 Com'è fatta una storia 102 5.5 Intervistare con le storie 102 5.6 La scrittura creativa 103 5.7 Scrittura drammaturgica e scrittura scenica 104 5.8 Il proprio universo drammaturgico 105 5.9 Dal racconto al monologo 106 5.10 L'incipit 108 5.11 La descrizione 109 5.12 Il dialogo 111 5.13 Lo stile 111 5.14 Bibliografia 112 (AC) ARGOMENTO CORRELATO - IL LINGUAGGIO E L'AUTORE TEATRALE 113 Scheda 5.a Le funzioni del linguaggio 114 Mappa 114 Obiettivi di apprendimento 115 Introduzione 115 Argomenti specifici 115 Scheda 5.b Le fasi della creazione testuale 121 Mappa 121 Obiettivi di apprendimento 122 Introduzione 122 Argomenti specifici 123 Bibliografia 128 Modi differenti per ricercare la medesima strada: quella che conduce alla scoperta delle possibilità per resistere, far fronte, trasformare, sviluppare e costruire ...un percorso, una comunità, una società civile capace di integrare le differenze e le uguaglianze nel rispetto di tutti e di ciascuno. Elena Malaguti ("Articolazioni teoriche della resilienza" in "Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi" a cura di Boris Cyrulnik e Elena Malaguti, Edizioni Erickson, 2005). PREMESSA Il presente Manuale, rielaborato nel corso del progetto Writing Theatre (Programma di Apprendimento Permanente – Programma settoriale Leonardo da Vinci, 2009-2011), raccoglie principi, contenuti e strumenti afferenti i Metodi e le Tecniche della scrittura teatrale costituenti la base teorico-pedagogica necessaria ad insegnanti, educatori, operatori culturali e sociali per gestire laboratori formativi che utilizzino le discipline e prassi drammaturgiche a beneficio di giovani ed adulti a rischio di esclusione economica, sociale ed occupazionale. Le soluzioni proposte promuovono e supportano il trasferimento e l'applicazione di prassi formativo-educative che vadano ad integrare quelle tradizionali con l'obiettivo di contribuire all'innalzamento della qualità dei servizi formativi, educativi e di orientamento in vigore nei sistemi nazionali, in modo tale che rispondano sempre più efficacemente alla preparazione, sviluppo e qualificazione degli individui rispetto alle richieste di un mercato del lavoro sempre più competitivo e di una società che richiede ai singoli l’attivazione di processi di integrazione e socializzazione più complessi e sfidanti. Le pratiche di riferimento di seguito presentate, sono basate sull’utilizzo, sviluppo e promozione delle capacità “creative e riflessive” non solo di "utenti" a rischio ma anche di formatori, docenti ed educatori che, attraverso un percorso strutturato, siano interessati a rafforzare il loro ruolo di facilitatore di processi di apprendimento finalizzati alla massima valorizzazione di skills, capacità e abilità che il singolo abbia acquisito in contesti informali e non formali di apprendimento. L'impianto di conoscenze e competenze proposto e la metodologia teorica e attuativa connesse, hanno come fondamento teorico, pedagogico e applicativo, l’apparato conoscitivo relativo a tecniche di scrittura e recitazione proprie del Teatro per l’inclusione sociale, il quale condivide con altre buone pratiche riconosciute approcci metodologici e pedagogici fondati su: la centralità del “formando” in quanto individualità irripetibile; il coinvolgimento pieno, in termini di co-produzione e proattività, degli stessi beneficiari, affinché divengano coattori del loro stesso processo di apprendimento; la cooperazione e “contaminazione” tra il contesto educativo-formativo informale e quello formale (sviluppo e applicazione in chiave integrata di metodi e strumenti); la necessità di integrare e aggiornare ruoli e competenze dei “mediatori” della formazione e degli operatori di orientamento; l'esigenza di ritarare i processi educativi e formativi applicando una logica che promuova la cooperazione e integrazione tra figure, competenze e attorialità diverse, appartenenti allo stesso sistema. L’applicazione del Teatro Sociale in termini pedagogici e terapeutici è ormai ampiamente diffusa a livello internazionale, in/verso ambiti diversificati. Nel panorama generale che investe il ri-pensamento di discipline pedagogiche, formative e psicologiche, infatti, si inseriscono pratiche (come la narrazione o l’autobiografia) fondate su una categoria pedagogica 7 ormai ampiamente riconosciuta dalla maggior parte dei metodi validati che abbiano come obiettivo il recupero o reinserimento di soggetti a rischio di esclusione socio-economica ed occupazionale: l’assunzione della cura del sé. Aspetto questo, che implica un processo che a sua volta implica un atto formativo e l’adozione di prassi auto-educative orientate non solo alla formazione del singolo ma anche alla formazione professionale. Pertanto, la natura dei risultati attesi dall'adozione del percorso presentato in questo Manuale, è declinabile in tre specifici aspetti riferibili a: impianto metodologico; contesto di apprendimento; processo formativo, che, oltre ad essere confermati dalla pratica, sono sostanziati da un’ampia letteratura di riferimento. Innanzitutto, perchè l’uso delle tecniche teatrali o dei linguaggi artistici in genere, in senso educativo-formativo, trova riscontro nella ricerca contemporanea (sociologica, pedagogica e psicologica), che riporta l’attenzione sulla esigenza di ricollocare il soggetto al centro delle esperienze e dei processi che ne strutturano la personalità e lo orientano nelle scelte. In secondo luogo, per la dimensione "di Laboratorio" proposta come setting necessario, che rimanda alla sperimentazione e al learning by doing in un luogo diverso dall’aula organizzato come una comunità di pratiche. Infine, per il ruolo del formatore che nello sperimentare su se stesso l'applicazione di un altro metodo, collabora nella costruzione del sapere di altri, in qualità di facilitatore di processi. STRUTTURA DEL MANUALE. BREVE GUIDA PRATICA ALLA CONSULTAZIONE Il presente Manuale rappresenta una rielaborazione della struttura del percorso formativo su Metodi e Tecniche di scrittura e rappresentazione teatrale applicato e trasferito in tre diversi contesti nazionali (Italia, Grecia e Romania) nel corso dell'implementazione del progetto Writing Theatre. I laboratori formativi realizzati, rivolti prima alla preparazione degli operatori Writing Theatre (formatori, insegnanti, educatori e operatori culturali e sociali) e, successivamente, di giovani autori Writing Theatre (giovani a rischio di età compresa tra i 14 e i 24 anni) prevedevano una struttura modulare (6 Moduli e 18 Unità), erogata secondo la metodologia blended (formazione on line e in presenza). L'impostazione del Manuale nella attuale versione prevede una struttura per argomenti e non per moduli, rispondente all'obiettivo di fornire 1 uno strumento pedagogico-formativo flessibile maggiormente utilizzabile in un setting laboratoriale . Il Manuale infatti si articola in due Volumi. Nel primo Volume (Volume I) vengono declinati tutti i contenuti e principi che sostanziano il percorso formativo; nel secondo Volume (Volume II) vengono fornite letture di approfondimento, esercizi ed esempi pratici connessi a ciascun argomento trattato nel primo Volume. 1 Nella sua attuale riformulazione, il Manuale non include gli argomenti trattati nel Modulo 1 (Elementi di storia e teoria della Drammaturgia) previsti nel percorso originario, in quanto si tratta di nozioni storico-teoriche di base facilmente rintracciabili in qualsiasi saggio di Storia del Teatro (il percorso modulare completo resta comunque fruibile on line in autoistruzione da sito di progetto www.writingtheatre.eu, accesso libero in homepage a writing theatre courseware). 8 Nel Volume I, i contenuti del percorso sono stati articolati secondo 5 macro argomenti, a loro volta divisi in due macro sezioni: Sezione I - Riferimenti teorici del metodo Writing Theatre Sezione 2 - Didattica Teatrale e Tecniche del metodo Writing Theatre La struttura del Volume I è pertanto la seguente: Sezione I - Riferimenti teorici del metodo Writing Theatre (Argomento) 1. Metodologia e prassi Sezione 2 - Didattica Teatrale e Tecniche del metodo Writing Theatre (Argomento) 2. Aree della formazione teatrale (Argomento) 3. Tecniche sceniche e arte terapia (Argomento) 4. Tecniche di narrazione: lo Storytelling (Argomento) 5. Lezioni di scrittura A ciascun argomento - fatta eccezione per il 2. Aree della formazione teatrale - sono stati associati degli argomenti integrativi, indicati come Argomenti Correlati (AC). Durata La durata complessiva del percorso proposto è di 40 ore. Nota metodologica Ciascun argomento (inclusi gli argomenti correlati) è stato strutturato seguendo il medesimo schema (vedi Legenda che segue), proprio in virtù del fatto che ciascun segmento formativo possa essere utilizzato, fruito ed erogato sia individualmente che in correlazione ad altri. Tale impostazione consente al formatore di poter selezionare gli argomenti di interesse e poterli trattare e ri-organizzare secondo le diverse esigenze e circostanze. A tale proposito, è necessario sottolineare che gli Argomenti "integrativi" hanno peso e rilevanza eguale agli altri. La scelta di identificarli come "correlati" dipende solo dal fatto che i contenuti in essi trattati sono particolarmente pertinenti rispetto al macroargomento cui sono associati. 9 LEGENDA La declinazione dei singoli argomenti è strutturata secondo il seguente schema: Mappa Visualizzazione del percorso complessivo in cui è inserito ciascun argomento e dei contenuti in esso trattati, per Sezione. Obiettivi di apprendimento Conoscenze afferenti i contenuti trattati in ciascun argomento Introduzione Presentazione generale dei principi e contenuti trattati nei sottoargomenti in cui si declina ciascun argomento Sottoargomenti specifici Declinazione dei contenuti specifici afferenti ciascun argomento Bibliografia Elenco della letteratura di riferimento afferente i contenuti trattati in ciascun argomento proposto Informazioni aggiuntive sono fornite utilizzando i seguenti simboli: Durata del segmento formativo (tempo di erogazione prevista in presenza) vedi anche Riferimento a letture di approfondimento proposte nel Volume II - Sezione Approfondimenti Riferimento ad esercizi pratici proposti nel Volume II - Sezione Esercizi ed Esempi Riferimento a giochi proposti nel Volume II - Sezione Esercizi ed Esempi 10 SEZIONE 1 RIFERIMENTI TEORICI DEL METODO WRITING THEATRE 11 1. METODOLOGIA E PRASSI vedi anche: Vol. II Approfondimenti 1. Esperienze di Laboratorio 2. Una riflessione autorevole: José Jorge Chade 1.1 Mappa 1. Metodologia e Prassi Contenuti: 1.1 Teatro di Inclusione sociale 1.2 Linee programmatiche 1.3 Fondamenti del Writing Theatre 1.4 L'operatore di Writing Theatre AC Teatro e Disagio Scheda 1.a Scheda 1.b Teatro educativo Il gioco e la terapia del gioco Scheda 1.d Scheda 1.c Orientamenti di Teatro terapeutico Metodi di teatro creativo 12 3 ore 1.2 OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Attraverso la conoscenza delle metodologie del Teatro di Inclusione Sociale è possibile: • conoscere i fondamenti e le finalità del Writing Theatre; • apprenderne le metodologie, le diverse modalità di intervento e la struttura formativa dell'operatore teatrale che decide di intervenire con questo metodo su varie categorie del disagio; • acquisire una cultura personale basata sull'integrazione sociale e indirizzata al benessere e alla crescita culturale e professionale dei soggetti beneficiari. 1.3 INTRODUZIONE L’arte, il più antico dei linguaggi espressivi, partecipa all’evoluzione intellettiva e culturale dell’individuo, lo sostiene e lo fortifica nel processo di maturazione e nell’acquisizione di capacità di comunicazione, rispetto delle regole sociali e senso estetico adeguato a recepire l’essenza delle idee culturali che la società propone. È su queste semplici ma fondamentali premesse che si basa l’idea del WRITING THEATRE per la diffusione di un modello formativo ed educativo basato sugli strumenti dell'arte, in particolare sulla scrittura teatrale, un modello formativo etico e solidale che conduce da una parte alla produzione creativa, dall’altra alla realizzazione del benessere di coloro che ne usufruiscono, attraverso una modalità organizzativa che presti attenzione alla socializzazione, al riconoscimento e all’accoglienza delle diversità individuali, alla individuazione di capacità e talenti artistici. Basandosi sulle teoriche del Teatro di Inclusione Sociale, il metodo del Writing Theatre, pone al centro gli individui, le storie, la relazione, la comunicazione utilizzando gli strumenti della scrittura teatrale. 1.4 IL TEATRO DI INCLUSIONE SOCIALE Dopo i mutamenti sociali presenti nell’immediato primo dopoguerra, anche il Teatro si interroga, cambia forma e sostanza, si distacca dalla tradizione, cerca di definirsi cercando di abbattere tutti gli stereotipi. Diventa così avanguardia e teatro politico. Il vecchio testo drammaturgico lascia il posto all’espressione dell’attore e alla creazione del regista. Il teatro esce dalle sedi istituzionali, si confronta con il pensiero psicologico e pedagogico, si offre a un nuovo pubblico con cui vuole instaurare rapporti di comunicazione e non rapporti commerciali. Nella sua nuova veste, il teatro abolisce il sipario e s’impegna a mettere in scena la verità. Dietro ai personaggi c’è l’attore, dietro al pubblico ci sono gli uomini che hanno vissuto i drammi della guerra. Fondamentale l’incontro con la pedagogia che, nell’esperienza teatrale, restituisce valore all’insegnamento, alle dinamiche del gioco, all’espressione corporea e all’improvvisazione. Nascono e pullulano le scuole di teatro che fondano il loro lavoro sull’affermazione di una realtà sperimentale, in cui il presente si esprime attraverso l’attore e il regista, e in cui allo spettacolo si preferisce lo studio dell’arte creativa. Verso la fine degli anni ’60 si verifica un nuovo cambiamento sociale e il dibattito culturale si riapre e invade di nuovo il teatro. Il senso della collettività, la lotta per la liberazione degli oppressi, la contestazione giovanile, impongono nuove strade. Nei primi anni 70 in Italia crescono i gruppi teatrali con il fine di rinnovare la società, opponendosi all’individualismo e al potere borghese. L’oppresso, l’emarginato diviene soggetto di teatro, il teatro è al suo servizio, come organo di trasformazione della sua condizione. Tutti interi gli anni 70 vedono impegnati uomini di teatro e amministratori con una conseguente crescita dell’attività e della cultura teatrale. Nel sistema dello spettacolo italiano, si impone in quegli anni l’idea del Teatro come servizio pubblico. Ad oggi, il Teatro Sociale è ampiamente diffuso su tutto il territorio nazionale indirizzandosi verso diverse realtà: teatro e carcere, teatro e scuola, teatro e disagio sociale, teatro e handicap, teatro e psichiatria, teatro e follia, teatro integrato, teatro 13 terapeutico e drammaterapia. Il termine è stato utilizzato probabilmente per la prima volta nel 1995 da Claudio Bernardi e si è diffuso attraverso il Centro Ricerche Teatrali di Milano che ha appunto indagato sulle esperienze teatrali di persone che vivono in situazioni di marginalità. Un’approfondita indagine è stata compiuta anche dal gruppo Nuove Catarsi-teatri delle diversità dell’Università di Urbino ed ha prodotto nel 2003, insieme all’Ente Teatrale Italiano, il “primo censimento nazionale di gruppi e compagnie che svolgono attività con soggetti svantaggiati e disagiati”. Le esperienze si possono distinguere in tre categorie: 1. quelle dei gruppi teatrali già esistenti che si avvicinano ai contesti del disagio e propongono un percorso teatrale coinvolgendo i soggetti; 2. quelle messe in atto da operatori di servizi di assistenza, terapia o riabilitazione con i propri utenti, a volte con la collaborazione di “tecnici” teatrali; 3. quelle proposte direttamente da soggetti che vivono o hanno vissuto condizioni di disagio. 1.5 LINEE PROGRAMMATICHE Andremo ora ad analizzare un metodo di formazione ed educazione artistica che prende il nome di TIS - TEATRO DI INCLUSIONE SOCIALE, che si fonda sull'idea che il teatro che è della gente e che coinvolge registi, autori, attori, danzatori e coreografi, musicisti, fotografi e operatori cinematografici, scenografi, esperti di comunicazione con lo scopo di garantire la conoscenza e il corretto utilizzo delle tecniche teatrali collaborando strettamente con le figure professionali scientifiche che possono codificare in sistemi riabilitativi e terapeutici, le pratiche, le regole e i principi dell’arte scenica e drammaturgia. «Il Teatro non ha categoria ma si occupa della vita. È il solo punto di partenza, l'unico veramente fondamentale. Il Teatro è la vita. » (Peter Brook) Il teatro è un insieme di differenti discipline, che si uniscono e concretizzano nella esecuzione di un evento spettacolare dal vivo. Su queste due affermazioni si basa il nostro metodo: il teatro è vita e il teatro “casa” di differenti discipline. Imparare le tecniche attraverso la vita e viceversa. Usare i percorsi formativi del teatro per entrare in relazione con se stessi e gli altri. Scrive Silvio D'Amico che il teatro è «la comunione d'un pubblico con uno spettacolo vivente …. Il Teatro vuole l'attore vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori». Il teatro si rivolge e si fonda sull'elemento umano con la straordinaria capacità di metterlo nelle condizioni di esprimersi attraverso l'esperienza creativa. Nella nostra esperienza, abbiamo potuto verificare la forza e l'importanza socio-educativa del Teatro e la sua capacità di creare, da tanti diversi individui, un gruppo in grado di autogestirsi, di impegnarsi per il raggiungimento di un risultato finale e soprattutto di confrontarsi con la realtà esterna. Il teatro è la sola forma che permetta all'uomo la ricerca di se stesso in situazioni di vita vissuta. Esso permette di agire attraverso la fantasia e l'invenzione, ma anche di raggiungere la conoscenza insieme agli altri: superare insieme gli ostacoli, migliorare il proprio lavoro, arricchiscono l'individuo e il gruppo intero. E se da una parte l'applicazione della filosofia teatrale libera il corpo e la mente da inibizioni e pregiudizi, dall'altra, la realizzazione dello spettacolo finale conduce alla disciplina, all'autocontrollo e alla coordinazione. Per recitare, come per vivere, è necessario che il singolo sia sensibile al gruppo, sia consapevole di esso e che si adoperi per farne emergere le qualità, le possibilità, i talenti. Il Teatro di Inclusione Sociale rappresenta una innovativa e variegata forma 14 culturale nel quadro secolare della storia del Teatro, forma che si basa sulla costruzione della persona e che agisce tramite l’uso intenzionale delle tecniche teatrali e rappresentative a scopi educativi, riabilitativi e terapeutici e per incoraggiare la crescita personale, l’integrazione e il benessere individuale e collettivo. È orientata all’estetica, al simbolico e al senso di appartenenza ad un gruppo. Il metodo con cui si sperimenta, si basa sull'idea che il teatro sia una delle poche reali possibilità offerte all’essere umano del nostro tempo di occuparsi dell’altro come valore. 1.5.1 Metodologie di intervento Individuare nel teatro quel significato profondo di coinvolgimento emotivo e sociale insieme, il rapporto con il sé, con il proprio e gli altri personaggi, con il pubblico, attivo fruitore di un messaggio di concreta integrazione e inclusione. Diffondere un’educazione a un nuovo concetto di cultura che conduca a riconoscere nell’altro la differenza e non la diversità. L’integrazione, l’inclusione e la condivisione come primi valori riabilitativi. Trovare un livello di comunicazione che faccia vivere a tutti l’esperienza del teatro in modo completo, secondo le regole di una vera Compagnia, dando rilievo alle possibilità di socializzazione del lavoro teatrale. La cultura del gruppo altro non è che il normale lavoro di una Compagnia teatrale, dove una serie di individui diversi, unici, irripetibili si sentono parte integrante di una comunità adoperandosi per il raggiungimento di un unico scopo: la creazione di uno spettacolo che sappia comunicare tante diverse realtà ed emozioni. IL TEATRO, DUNQUE, COME FINE E NON SOLO COME MEZZO. Alla base del nostro metodo, si collocano l’introspezione, l’improvvisazione e l’interpretazione che conducono al gioco dello scambio del ruolo. Quello che Aristotele definiva “catarsi” non è che la nostra capacità di indagare sulla nostra personalità, rintracciando i sentimenti che il personaggio che interpretiamo ci chiede di esprimere. Tutto questo è un magnifico gioco che ci insegna a non aver paura di conoscere noi stessi. Privilegiare le tecniche del gioco, del camuffamento, dell’essere altro da sé. Non dimentichiamo che nella maggioranza delle lingue, recitare si traduce con giocare: “spielen” in tedesco, “to play” in inglese, “jouer” in francese, “igrat” in russo, significano “giocare” e “recitare”. Nel teatro, il gioco fantastico del “fare finta di”, creare degli interlocutori invisibili, parlare lingue inventate, creare miti positivi e negativi, lasciarsi guidare dalle sensazioni, non avere freni inibitori e censori, sono, nella maggior parte dei casi, le caratteristiche più salienti del raggiungimento di risultati terapeutici e riabilitativi di persone con disabilità o con disagio conclamato. Affidarsi al valore educativo delle norme e dei comportamenti che regolano il gioco del teatro, laddove per educare si intende letteralmente rinviare alla radice latina del termine: e-ducere trarre fuori. Educare, dunque, vuol dire aiutare qualcuno a “tirare fuori”, sviluppare le proprie capacità e potenzialità sapendo metterle in relazione con l’esterno e, quindi, con l’altro. Il prodotto, lo spettacolo, dunque, inteso come momento di verifica: il lavoro più importante è quello che si va a svolgere sul vissuto del soggetto, nella volontà di condurlo, attraverso la gratificazione del risultato, ad una consapevolezza delle proprie capacità, all’acquisizione di una profonda autostima e di un senso di appartenenza alla comunità. 1.5.2 Integrazione e benessere Si considerano soggetti svantaggiati invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex-degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione. Intorno all'aerea del disagio si 15 muovono molte strutture e molte differenti professionalità ma la strada per la sperimentazione è ancora aperta. Il nostro progetto può essere in grado di fornire strumenti di comunicazione e intervento del tutto innovativi che, sperimentati su varie categorie del disagio, hanno condotto a grandi risultati rispetto all'integrazione sociale e la crescita culturale e professionale dei soggetti beneficiari. D'altro canto, l'utilizzo del gioco delle arti sceniche motiva e coinvolge, favorendo un approccio meno gravoso nei confronti del disagio ma anzi considerandolo come una risorsa che dà la possibilità di conoscere un mondo vasto fatto di uomini e di individui attivi e protagonisti. La rappresentazione teatrale diventa specchio della quotidianità come delle aspirazioni nel suo complesso rendendola espressione privilegiata delle sfumature di una personalità e di un gruppo. Dal gioco, al ballo, all’introspezione fino alla coscienza del sé e alla scrittura, tutto porta a scegliere il teatro come veicolo privilegiato per operazioni di inclusione sociali di ragazzi in via di abbandono scolastico operando anche ai fini della prevenzione del disagio sociale e della marginalizzazione. 1.6 FONDAMENTI DEL WRITING THEATRE Come accennato precedentemente, il Writing Theatre prende spunto dalle metodologie del Teatro di Inclusione Sociale che vede “l’altro” come “valore” pertanto la metodologia è direttamente legata alla realizzazione di un’opera che abbia come scopo l’inclusione sociale di ragazzi con difficoltà. Si sceglie la scrittura teatrale e le tecniche del teatro come strumento privilegiato poiché è in grado di parlare e raccontare la vita come nessun’altra forma d’arte diventando specchio della vita e delle aspirazioni nel suo complesso, espressione delle sfumature di una personalità o di un gruppo. Dal gioco, alla recitazione, all’introspezione fino alla scrittura e, dunque, alla coscienza del sé, tutto porta a scegliere il teatro come veicolo privilegiato per operazioni di inclusioni sociali di ragazzi drop-out operando anche ai fini della prevenzione del disagio sociale e della marginalizzazione. È per tali motivi che il Teatro di inclusione sociale insieme al Writing Theatre si rivolgono e si fondano sull'elemento umano con la straordinaria capacità di metterlo nelle condizioni di esprimersi attraverso l'esperienza creativa. La forza e l'importanza socio-educativa del Teatro e la sua capacità di creare risiede in diversi individui in grado di impegnarsi per il raggiungimento di un risultato finale e soprattutto di confrontarsi con la realtà esterna. La scrittura teatrale insieme al teatro stesso sono quelle forme artistiche che permettono all'uomo la ricerca di se stesso in situazioni di vita vissuta. Permettono di agire attraverso la fantasia e l'invenzione, ma anche di raggiungere la conoscenza di se stessi, degli altri e del mondo che ci circonda superando insieme gli ostacoli, migliorare il proprio lavoro, arricchire l'individuo e il gruppo intero. Il teatro è non solo poi sensoriale ma multidisciplinare: le varie discipline si uniscono e concretizzano alla fine per l’esecuzione di un evento spettacolare dal vivo a cominciare dalla scrittura, elemento fondamentale su cui poi si basa tutta la metodologia del Writing Theatre. Sono necessarie quindi delle premesse per spiegare la filosofia alla base del Writing Theatre: la convinzione che la scrittura possa portare a una maggiore comprensione di sé fino alla risoluzione di alcuni nodi emotivi; la convinzione che la scrittura è una catarsi, e che scrivendo man mano si scopre che anche quando si vuole scrivere un semplice racconto, una storia astratta è sempre una parte di sé che muove i fili della storia; La convinzione che la scrittura riesce ad assegnare un ruolo da protagonisti e soggetti attivi ai giovani coinvolti. Possiamo così stilare delle linee guida. Il percorso di Writing Theatre è basato sulle tecniche del Teatro di Inclusione Sociale poiché rappresenta: una innovativa e variegata forma culturale nel quadro della storia del Teatro; 16 un modo per raggiungere un’equilibrata costruzione della personalità; un metodo educativo perseguito tramite l’uso delle tecniche teatrali; una tecnica che mira alla crescita personale, l’integrazione e il benessere individuale e collettivo; un tipo di rappresentazione orientato all’estetica e al senso di appartenenza ad un gruppo. 1.7 L’OPERATORE DI WRITING THEATRE L’operatore di Writing Theatre, come l’operatore teatrale di inclusione sociale, deve possedere o acquisire competenze e flessibilità in ambito psicologico, sociale, pedagogico ed educativo, chiaramente possedendo anche la dovuta conoscenza ed esperienza teatrale, dai suoi fondamenti storici e teorici, alle tecniche. Una preparazione tale da garantire un lavoro di qualità nel raggiungimento della promozione umana di qualunque forma di disagio sociale. Tra gli obiettivi dell’operatore vi è quello di restituire dignità a persone svantaggiate attraverso un mezzo, quello teatrale appunto, che sappia, con la ricerca e lo sviluppo della creatività artistica, raggiungere risultati riabilitativi e terapeutici. Oltre che ai professionisti del settore, lo stesso metodo e la stessa tipologia d'intervento sono riservati a tutte le categorie, formatori, educatori, assistenti alla persona, operatori culturali da una parte e adulti, adolescenti dall'altra. L’operatore di Writing Theatre deve aderire alla realizzazione di un programma basato sulla volontà di cimentarsi, realizzare un modello teatrale che sappia coniugare produttività e solidarietà “in un’armonica relazione perché è giusto e solidale dare a tutti la possibilità di concorrere alla produzione del benessere e della ricchezza e di goderne di un’equa distribuzione”. L’operatore di Writing Theatre, inoltre, deve tener presente, a conclusione di ogni percorso, il valore che possiede lo spettacolo teatrale che, oltre ad essere il prodotto finale (visibile a tutti) di un percorso formativo ed educativo, costituisce principalmente una importante possibilità di crescita da parte dei ragazzi. Non si tratta, spesso, di risultati di alta qualità artistica ma come strumento di abilitazione espressiva, di socializzazione tra i membri di un gruppo che imparano a parlare ad ascoltare. L’obiettivo condiviso sarà quello di porre attenzione ai processi di trasformazione ed emarginazione sociale, per progettare e sviluppare percorsi di inclusione sociale per persone che manifestano forme di disagio, attraverso un modello esplicitato e visibile: lo spettacolo. Tutte le persone impegnate seguiranno un modello educativo etico e solidale nel quale il laboratorio di arti teatrali, conduce da una parte alla produzione e ai servizi, dall’altra alla realizzazione del benessere di coloro che ne fruiscono, attraverso appunto una modalità organizzativa che presta attenzione al clima relazionale, alla condivisione dei problemi quotidiani, ai momenti di socializzazione, al riconoscimento e all’accoglienza delle diversità individuali, alla individuazione di capacità e talenti artistici. La condivisione delle finalità, degli obiettivi e degli ideali di tutti gli istruttori, gli insegnanti, il personale tecnico e artistico, l’equipe di educatori e psicologi, si affiancherà nella partecipazione a tutta l’attività, alle fasi progettuali, ai risultati con particolare attenzione alla crescita del singolo secondo le sue possibilità. La formazione è un patrimonio, una risorsa importante e appartiene al valore aggiunto sul quale il corso intende investire cogliendo la sfida che la qualità chiede. Accanto a una formazione più squisitamente professionale legata al settore produttivo, viene proposta anche una formazione relazionale e culturale, strumento indispensabile per indagare la complessità della società. Cerchiamo di individuare alcuni obiettivi specifici che gli operatori devono perseguire durante i percorsi, validi per ogni tipo di intervento teatrale. Possiamo distinguere tra quelli di carattere interiore e personale e quelli di carattere tecnico, che assumono diversa entità a seconda del gruppo di lavoro, in modo particolare rispetto all’età dei partecipanti. 17 Obiettivi di carattere interiore e personale: Imparare a relazionarsi all’interno di un gruppo di lavoro. Superare ostacoli psicologici: inibizioni, paure, incertezze, vergogne. Acquisire autocontrollo e sicurezza. Dar sfogo alla propria creatività. Accrescere il senso di responsabilità nei confronti del gruppo di lavoro e del risultato finale da ottenere. Obiettivi di carattere tecnico Studio e apprendimento delle tecniche teatrali: recitazione, canto, danza e attività correlate. Studio e apprendimento della dizione. Scrittura teatrale. Realizzazione di uno spettacolo teatrale. 1.8 BIBLIOGRAFIA Barker C., Giochi di teatro, (Titolo originale: The games theatre) Milano, Bulzoni, 2000 Boal A., Il poliziotto e la maschera, (Titolo originale: Theatre of the Oppressed), La Meridiana, Molfetta, 1993 Demetrio D., L'autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996 Cavallo M., Pensare per immagini. Arti Terapie e immagini mentali, Arti Terapia n.4, anno 1, 1995 Landy R.J., Drammaterapia. Concetti, teorie e pratica, (titolo originale Drama Therapy: Concepts, Theories, and Practices) Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1999 Moreno J.L., Manuale di psicodramma. Il teatro come terapia., (titolo originale: The Handbook of Psychodrama) Roma, Astrolabio, 1985 Rossi O, La videoterapia nella relazione d’aiuto, Formazione in Psicoterapia Counselling Fenomenologia" n. 2, ed. IGF, Roma, 2003 Rossi, O., Narrazione creativa e disagio scolastico, Formazione in Psicologia Psicoterapia Psichiatria, vol.40, ed. GRIN- Roma, 2000 Rossi, O., Il teatro delle emozioni: un intervento di counseling scolastico, Formazione in Psicologia Psicoterapia Psichiatria, vol.41-42, ed. GRIN- Roma, 2000/2001 Winnicott D., Gioco e realtà, (Titolo originale: Playing and Reality) Roma, Armando, 1974 18 1. METODOLOGIA E PRASSI (AC) ARGOMENTO CORRELATO TEATRO E DISAGIO 19 Scheda 1.a Teatro educativo Mappa Scheda 1.a Teatro Educativo 1. Metodologia e Prassi AC Teatro e Disagio Scheda 1.a Scheda 1.b Teatro educativo Il gioco e la terapia del gioco Contenuti: Laboratorio teatrale come risorsa psicopedagogica L'educazione per un mondo nuovo di M. Montessori La centralità del personaggio Apprendere ad apprendere Scheda 1.d Scheda 1.c Orientamenti di Teatro terapeutico Metodi di teatro creativo 20 2 ore OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Conoscere e comprendere gli aspetti pedagogici implicati nell'attività del laboratorio teatrale che stimolano e supportano la crescita e la trasformazione dell'individuo, sia come singolo che come identità in relazione con gli altri. Acquisire i principi a fondamento del metodo Montessori e correlarli al percorso di self-empowerment personale che sostanzia il laboratorio teatrale, evidenziandone gli elementi comuni finalizzati all'accompagnamento del singolo nella conoscenza e nello sviluppo delle proprie capacità di apprendimento, attraverso la valorizzazione delle capacità comunicative e creative. INTRODUZIONE La pedagogia, la scuola e il laboratorio teatrale sono tutti mezzi atti a stimolare o a comprendere la creatività e i metodi di apprendimento. Dall’analisi di figure importanti nella storia della pedagogia fino allo studio di un laboratorio teatrale si evidenzieranno le linee di continuità esistenti tra pedagogia e teatro. Il teatro e l’educazione sono due realtà aventi finalità comuni: da un lato la pedagogia pone al centro dell’azione educativa la persona con tutte le sue potenzialità da sviluppare; dall’altro il teatro persegue lo stesso obiettivo attraverso attività che stimolano lo sviluppo della creatività e la comunicazione. Il Teatro Educativo è un percorso formativo che si realizza attraverso le pratiche del laboratorio teatrale e al centro del quale sta una persona in fase di crescita o trasformazione. L'esperienza teatrale ha come obiettivo l'individuo, ma avviene nella relazione; è un’occasione per la conquista di sé, ma anche spazio di costruzione di rapporti significativi volti a rinforzare l'identità di gruppo, a stimolare la conoscenza reciproca, la condivisione, la cooperazione, la valorizzazione dell’eterogeneità; è un percorso individuale in un lavoro di gruppo. Il laboratorio teatrale come risorsa psicopedagogica Un nuovo modello pedagogico tendente a sviluppare una serie interattiva di competenze e di abilità necessarie per una vera formazione del discente, dovrebbe inglobare strumenti e tecnologie, visuali e multimediali, più consoni alla realtà comunicativa nella quale il discente è immerso. Il laboratorio teatrale diventa una forma interattiva di linguaggi diversi: verbale, non verbale, mimico, gestuale, prossemico, prosodico, iconico, musicale, ecc. grazie a questa poliedricità del linguaggio, si configura come un prezioso strumento formativo, multidisciplinare e interdisciplinare, insostituibile come strumento di attivazione simbolicosemiotica, emotiva, dinamico-relazionale, culturale ed interculturale del discente. L'idea di laboratorio teatrale non si riferisce solamente al momento finale della rappresentazione, ma anche e soprattutto all'iter dei processi che conducono alle forme rappresentative della realtà. Il teatro è inteso come ogni possibile forma espressiva che tende a rappresentare la realtà e i suoi diversi linguaggi (poetico, narrativo, musicale, pittorico, corporeo ecc.), la storia, il presente, il passato, il futuro, il sogno, la fantasia, l'immaginazione. In quest'ottica il laboratorio teatrale diventa strumento pedagogico trasversale a tutti i linguaggi e le discipline. Fare teatro ai ragazzi significa realizzare una concreta "metodologia" interdisciplinare che attiva i processi simbolici del discente e potenzia e sviluppa la molteplicità interattiva delle competenze e delle abilità connesse sia con la comunicazione "globale" sia con il pensiero. Inoltre, il Teatro come approccio ermeneutico ai significati testuali, è di aiuto a tutti gli apprendimenti disciplinari: la poesia, la storia, la letteratura, la fisica, la filosofia, la matematica possono diventare segni e significati teatrali. Rispetto ad altre forme artistiche, come il cinema, il Teatro possiede una sua tipicità che lo distingue: la comunicazione scenica, caratterizzata dall'interattività, tra la rappresentazione e l'audience, come tipica esperienza sociale. 21 Chi recita a teatro non è solo l'attore, ma anche lo spettatore che "vive" l'esperienza della rappresentazione non come artifizio, ma come realtà, vita reale. In questo senso il valore pedagogico del teatro va al di là delle stesse forme comunicative che lo producono. Il teatro diventa cosi una strategia interdisciplinare che può far del progetto educativo oltre a sviluppare la creatività del discente. Non va dimenticato, inoltre, che l'uso di linguaggi diversi nella rappresentazione teatrale attiva il pensiero metaforico che permette di decodificare la realtà nei suoi aspetti più profondi: il teatro come immagine poliedrica della realtà educa al relativismo delle verità stabilite. Un ulteriore aspetto pedagogico del teatro consiste nella possibilità di rappresentare i sistemi di vita e i "valori" di culture diverse dalla nostra. Rappresentare in forma scenica le culture significa, non solo conoscere profondamente la cultura che si intende rappresentare, ma anche attivare forme rielaborative interculturali. Il laboratorio teatrale può rappresentare non solo i tratti "visibili" delle culture, ma anche quelli non immediatamente percepibili come i miti, le credenze, il senso comune, la visione del mondo. In quest'ottica fare teatro significa "ricreare" significati culturali non solo tramite le parole, ma anche attraverso la mimica, il gesto, l'ironia, e la stessa dimensione di spazio-tempo. Quindi, a livello pedagogico, appare insostituibile il mezzo teatrale per educare al rispetto e alla tolleranza della diversità. L'istanza fondamentale del laboratorio teatrale è innanzitutto rivolta a stimolare il discente all'acquisizione di una metodologia critica ponendolo dinanzi ad un testo (di qualsiasi genere) con l'atteggiamento di chi deve interpretare e ricostruire creativamente i materiali a disposizione. Caso esemplare di questo procedimento sono appunto le diverse fasi che conducono alla messinscena teatrale, ove la necessità della trasposizione dei dati dal contesto grafico-verbale al contesto fisico-spaziale è stimolo all'analisi del testo e alla problematizzazione e all'approfondimento delle singole componenti storico-culturali, semantiche, pragmatiche, ideologiche ecc., e implica l'assunzione di una posizione attiva e fattiva dinanzi al materiale proposto. La scelta del teatro come mezzo d'intervento è motivata dalla peculiarità stessa del linguaggio specifico della scena, costituito dall'interazione di codici ai quali separatamente fanno riferimento le varie discipline curriculari (testuale, verbale, sonoro, visivo, fisico ecc.), che si offre come strumento adeguato, grazie al suo procedimento di interpretazione e "ritestualizzazione" del materiale di partenza, all'acquisizione di un metodo utilizzabile anche oltre il campo consueto della drammaturgia e della letteratura in genere. Perciò, se è vero che l'ambito di lingua e letteratura è quello su cui un tale metodo si esplica più direttamente, ciò non toglie che procedimenti simili possano essere applicati in altri settori delle discipline umanistiche, sulle quali il metodo d'analisi del testo in funzione della messinscena può essere impiegato per penetrare e scandagliare il sostrato storico-culturale, ideologico, filosofico, estetico-artistico di un'opera (non necessariamente drammaturgica). Inoltre, più in generale, l'istanza del teatro alla rappresentazione del mondo- non solo in termini ideologicoculturali, ma anche come riproposizione delle categorie dello spazio e del tempo attraverso segni convenzionali ed immagini amplia la ricerca e l'analisi ai fondamenti delle scienze fisiche, implicando l'approfondimento del concetto di rappresentazione come sistema di interpretazione della realtà. L'educazione per un mondo nuovo di Maria Montessori Maria Montessori (1870 – 1952) è stata una pedagogista, filosofa, medico, scienziata. Ma soprattutto fu un’educatrice che fondò il metodo pedagogico che da lei prende il nome. La Montessori sviluppò tutto il suo pensiero pedagogico partendo da una costruttiva critica della psicologia scientifica affermatasi nei primi anni del secolo. Il pensiero pedagogico montessoriano riparte dalla pedagogia scientifica. L'introduzione della scienza nel campo dell'educazione è il primo passo fondamentale per poter costruire un'osservazione obiettiva dell'oggetto. Della scuola tradizionale infantile Maria Montessori critica il fatto che, in essa, tutto l'ambiente sia pensato a misura di adulto. In un ambiente così concepito, il bambino non si trova a suo agio e quindi 22 nelle condizioni per poter agire spontaneamente. Un presupposto indispensabile per realizzare una scuola montessoriana, è infatti quello della massima fiducia nell’interesse spontaneo del bambino, nel suo impulso naturale ad agire e conoscere. Se è posto in un ambiente adatto, scientificamente organizzato e preparato, ogni bambino, seguendo il proprio disegno interiore di sviluppo e i suoi istinti-guida, accende naturalmente il proprio interesse ad apprendere, a lavorare, a costruire, a portare a termine le attività iniziate, a sperimentare le proprie forze, a misurarle e controllarle. A questo principio l’adulto deve ispirare la sua azione e in particolare i due suoi compiti fondamentali: saper costruire un ambiente suscitatore degli interessi che via via si manifestano e maturano nel bambino; evitare, con interventi inopportuni, un ruolo di disturbo allo svolgimento del lavoro, pratico e psichico, a cui ciascun bambino va dedicandosi. Ha scritto Maria Montessori che l’obiettivo a cui puntare: “è lo studio delle condizioni necessarie per lo sviluppo delle attività spontanee dell’individuo, è l’arte di suscitare gioia ed entusiasmo per il lavoro. Il fatto dell’interesse che spinge ad una spontanea attività è la vera chiave psicologica dell’educazione.”. “Lo sforzo del lavoro, dello studio, dell’apprendere è frutto dell’interesse e niente si assimila senza sforzo (...). Ma sforzo è ciò che si realizza attivamente usando le proprie energie e ciò a sua volta si realizza quando esiste interesse (...). Colui il quale nell’educare cerca di suscitare un interesse che porti a svolgere un’azione e a seguirla con tutta l’energia, con entusiasmo costruttivo, ha svegliato l’uomo”. (M. Montessori, “Introduzione a Psicogeometria”). Interesse, attività e sforzo sono i caratteri del lavoro spontaneo e autoeducativo nel quale il bambino si immerge con entusiasmo e amore, rivelando e costruendo le qualità superiori dell’uomo. Aiutami a fare da solo non è uno slogan pedagogico, ma una domanda ‘scientifica’ posta dalla natura stessa del bambino. Il compito dell’educatore è quello di liberare il bambino da ciò che ostacola il disegno naturale del suo sviluppo. L’istinto e il bisogno fondamentali del bambino sono quelli di un adattamento attivo al mondo delle cose e delle persone, misurate e commisurate alle sue personalissime istanze. Non v’è ambiente sociale, ha scritto Maria Montessori, nel quale non vi siano individui che abbiano esigenze e livelli diversi. Per questo stesso fatto la scuola è un ambiente che deve accogliere bambini di età eterogenea e adatto al lavoro individuale o di piccolo gruppo. Il suo parametro di misura è dunque la casa, con spazi articolati, irregolari, ricchi di ‘angoletti nascosti’, di ‘cantucci tranquilli’ dove lavorare, pensare, immaginare con i propri tempi e ritmi interiori. Ma anche ambiente preparato nel senso della misura, con oggetti e arredi proporzionati all’età e al corpo dei bambini stessi, rivelatori dell’esattezza e dell’ordine, qualità che suggeriscono una disciplinata attività autonoma; ambiente accogliente e caldo, rassicurante e vissuto con un positivo senso di appartenenza. Un ambiente, infine, nel quale i bambini possano muoversi liberamente anche senza il diretto controllo dell’adulto alle cui cure è affidata la casa-scuola come luogo aperto alle scelte e al lavoro dei piccoli alunni. Mobili, tavoli e sedie devono essere costruiti e resi disponibili all’insegna della leggerezza: ciò, se da una parte favorisce il lavoro di vita pratica dei bambini chiamati ad un impegno fisico di responsabilità nel posizionarli o trasportarli, dall’altra parte per il carattere di fragilità denunciano l’errore dei bambini o il loro mancato rispetto. Per il medesimo criterio educativo, i bambini di una scuola Montessori usano piatti di ceramica, bicchieri di vetro, soprammobili fragili: i bambini sono così invitati a movimenti coordinati, precisi, educati e in ogni caso ad esercizi di autocontrollo, di autocorrezione, di prudenza e rispetto, facendosi ‘maestri’ del proprio movimento e padroni del proprio carattere: “Così il bambino avanza nella propria perfezione ed è così che egli viene a coordinare perfettamente i suoi movimenti volontari”. (Maria Montessori, “L’Autoeducazione nelle scuole elementari”). 23 L’ambiente scolastico diventa ambiente di vita nel quale i bambini sono impegnati gioiosamente al mantenimento dell’ordine, della pulizia, della bellezza. Queste attività, definite appunto esercizi di vita pratica, hanno una funzione importante e significativa sia nella “Casa dei bambini” dove favoriscono il perfezionamento psico-fisico e la coordinazione dei movimenti, sia nella scuola elementare dove assume maggior rilievo la dimensione della autonomia responsabile e quindi della socialità. La scelta metodologica montessoriana assegna all’insegnante e all’adulto anche da questo punto di vista una assunzione di responsabilità circa i rischi collegati all’uso di materiali ‘reali’. Nella “Casa dei bambini” l’ambiente sarà: proporzionato alle capacità motorie, operative e mentali dei bambini per essere attivamente utilizzato e padroneggiato; ordinato e organizzato affinché, attraverso punti di riferimento non discontinui, il bambino possa formarsi una propria visione della realtà che anche emotivamente abbia carattere di rassicurazione e certezza; calmo e armonioso per favorire la libera espansione degli interessi e delle esperienze e una positiva dimensione psicoaffettiva necessaria al sorgere del sentimento di fiducia in sé e negli altri; curato e ben articolato nei particolari anche per stimolare il bambino alla scoperta dell’errore e all’autocorrezione; attraente e bello affinché sia suscitato il naturale amore ‘estetico’ del bambino verso tutto ciò che rivela qualità di gentilezza, di ordine, di gradevolezza, di cura e attenzione. Nella Scuola Elementare l’ambiente sarà razionalmente organizzato e articolato anche in vista della più attiva ricerca di relazione e di socialità che sono caratteristiche di questa età. Esso dovrà favorire: la sperimentazione e il lavoro individuale e di gruppo; la lettura e la consultazione di testi con una essenziale biblioteca di classe; la raccolta, lo studio e la valorizzazione di elementi forniti dalla natura come occasione per la ricerca e le uscite di osservazione; l’apertura alla realtà extrascolastica e al territorio (la scuola entra nel mondo e il mondo entra nella scuola); le attività manuali legate al “lavoro dell’umanità”, ma sempre collegate allo sviluppo della mente: “il lavoro delle mani - ha scritto Maria Montessori - deve sempre accompagnare il lavoro della mente in virtù di una unità funzionale della personalità”. Come è noto, l’ambiente tipico di una scuola montessoriana si distingue per la presenza dei necessari ‘strumenti’ di lavoro psico-motorio e intellettivo dei bambini, strumenti definiti “materiali di sviluppo e di formazione interiore”. Il bambino, come peraltro ogni essere vivente, è guidato dai suoi misteriosi impulsi vitali ad adattarsi all’ambiente assorbendone i caratteri. Laddove esso sia confuso, instabile, incompiuto, né utile né necessario, privo di attrattiva e di interesse e non direttamente utilizzabile per una personale sperimentazione di conoscenza, ebbene il bambino assimilerà questi caratteri negativi senza poter esercitare in modo chiaro, preciso e finalizzato i propri poteri psichici e mentali. In sostanza gli è impedita o resa difficile la stessa formazione del carattere. Per questo motivo di fondo, strettamente legato alla costruzione di una personalità attiva e disciplinata, l’ambiente educativo montessoriano è stato definito come maestro di vita e di cultura, come ambiente educatore. Il lavoro organizzato è la dimensione pratica nella quale vivono e si realizzano i due presupposti scientifici che sostengono le ragioni e la necessità del metodo Montessori. Il primo di essi riguarda il bambino, ossia la sua natura che gli ‘comanda’, 24 attraverso spinte interiori, impulsi delicati e profondi, di realizzare il proprio sviluppo psichico. È soltanto la natura che gli suggerisce che cosa fare, quando farlo e come farlo, e lo guida nella creazione dei propri ‘organi psichici’ (si pensi al movimento e al linguaggio) mettendogli a disposizione particolari e temporanee sensitività. Queste presiedono alla preparazione e formazione di forze e poteri che non potranno essere positivamente acquisiti quando i corrispondenti periodi sensitivi abbiano cessato di agire in modo intenso e dominante. Pertanto lo sviluppo psichico non avviene a caso né ha origine da stimoli esterni: certamente il bambino deve essere esposto all’ambiente alle cui spese si sviluppa; ma se l’ambiente è necessario affinché il bambino agisca e incarni se stesso, la propria creazione psichica e mentale è il risultato di una ‘volontà interna’, di un misterioso segreto vitale: “In questi rapporti sensitivi tra il bambino e l’ambiente, sta la chiave che può aprirci al fondo misterioso in cui l’embrione spirituale compie i miracoli della crescenza”. Il secondo presupposto afferma che i bambini hanno una forma mentale propria e diversa dall’adulto: è la mente inconscia e assorbente, creatrice della natura dell’uomo e della sua cultura: movimento, linguaggio, pensiero, amore. Ma il bambino non crea e assorbe a caso, ma attraverso una guida severa e ordinata. Egli segue leggi costanti che creano normalmente i fatti dello sviluppo rispettandone i tempi di manifestazione ed esplosione. Per il solo fatto di vivere il bambino impara o meglio assorbe e fa suo tutto ciò che l’ambiente offre alla sua attenzione trasformandolo in cultura e civiltà e assicurando così la continuità storica dell’umanità. La scuola, a partire da questi fatti e fenomeni naturali, è perciò ‘coltivazione’ dell’umanità, aiuto alla sua espansione e formazione: “le menti in via di sviluppo hanno l’avidità di un corpo affamato”. La cultura del bambino è, dunque, il risultato del suo libero lavoro nel corso di esperienze personali donde egli trae e assorbe gli elementi costitutivi, i quali si fissano nel suo spirito preparandosi a dare nuovi frutti. La scuola nel suo insieme e le aule non sono confini limitanti, ma luoghi di storie e di esperienze, perché il bambino circolandovi liberamente scopre nuove possibilità di lavoro e di conoscenza. Il bambino istintivamente si porta dove c’è opportunità di lavoro, di esperienza, di osservazione, di studio. La scuola Montessori rifiuta la concezione segmentaria dello spazio e del tempo, e si fa realtà di vita e di ricerca in ogni suo luogo e momento, perché il bambino vive e si educa ovunque e sempre. I bambini desiderano conoscere e sapere, domandano e ricercano, pensano e immaginano perché istintivamente sanno che i fenomeni e i fatti debbono essere spiegati e giustificati e che essi ‘vivono’ e esistono secondo determinate leggi e proprietà. Ogni cosa è pensata in una visione più vasta della realtà. Ma, ha scritto Maria Montessori, essi “hanno bisogno di ricevere risposte complete, che provocano il loro entusiasmo e suscitano il bisogno di nuove ricerche e di attività intensa”.Gli insegnanti dovranno essere all’altezza di tale prorompente bisogno, “ampliando la loro vita psichica”, penetrando con le loro ricerche in campi inesplorati, aprendosi a più larghi orizzonti, impadronendosi di nuove conoscenze di cui forse non sospettano l’esistenza. Pertanto, ha ricordato la Montessori, “la scuola deve essere vivificata da uno spirito nuovo, deve essere animata da un maestro saggio, più saggio di qualunque altro individuo umano, che conosce e rispetta le leggi dell’educazione”. L’insegnante montessoriano opera dunque con la fondata speranza che ogni individuo sia chiamato dalla natura a realizzare la propria evoluzione psichica, secondo un disegno da essa preordinato, purché egli viva in un ambiente adatto alle forme del suo lavoro. L’insegnante allora non giudica i risultati conseguiti dal bambino, ma le cause che ne impediscono o ritardano l’ascesa provvedendo a osservarle e capirle e a modificare le circostanze che ostacolano il normale sviluppo. Per questo motivo egli non ha un centro e una periferia nella classe ed è contemporaneamente assente e presente: è vicino al bambino che richiede la sua presenza, gli siede accanto con una piccola sedia, gli parla dolcemente e brevemente, senza 25 sovrastare il bambino con il corpo e la parola adulti. Aiuta senza interrompere e correggere, e questo aiuto è dato senza disturbare il lavoro e la concentrazione degli altri bambini. Il materiale Montessori è il capitolo centrale del metodo e rende l’insegnante stessa una figura di contatto e di mediazione. Il materiale è, per così dire, un eserciziario dello spirito, in quanto il bambino vi esercita la propria sensorialità ed intelligenza, liberamente attirato dalle segrete informazioni e dalle inesplorate soluzioni che esso racchiude. Penetrando il materiale strutturato i bambini si rendono conto di come operano, pensano, adottano ipotesi, congetture e soluzioni, di come classificano, risolvono problemi e modificano le proprie rappresentazioni mentali. In questo senso il materiale Montessori ha una valenza metacognitiva pressoché assente in altri materiali e tecniche di apprendimento. Non solo, ma i bambini sono consapevoli di costruire la propria conoscenza, integrano le informazioni nuove a quelle già possedute, esplorano e scelgono le strategie, anche alternative, per impadronirsi di una nozione, di una operazione matematica, di un testo anche poetico. Poiché il loro lavoro è intimamente personale, essi esperimentano e conquistano il sentimento della propria autonomia e identità. È certo che la dotazione storica del materiale Montessori è sempre e necessariamente aperta allo studio e alla inventività dell’insegnante che esperimenta e adotta nuovi mezzi, ma solo nella loro congruenza e conformità ai principi del metodo. In questo caso non è escluso che si avvalga anche di materiali strutturati disponibili sul mercato. La centralità del personaggio In un’ottica in cui il laboratorio teatrale diventa strumento privilegiato di prevenzione al disagio i conduttori, secondo quanto analizzato fin’ora, acquisiranno consapevolezza sugli obiettivi primari che tale strumento dovrà portare a compimento. Il teatro, in questo senso, diventerà qualcosa di più delle semplici parole messe in bocca ai personaggi. Saranno i personaggi stessi con le loro parole, le loro storie a legarsi intimamente con la storia personale degli attori stessi, i loro conflitti, le loro paure tanto da trasformare il loro di-sagio in “agio”, attraverso le parole del Teatro, si potrà interpretare il mondo, attraverso una motivazione tutta nuova in grado restituire senso, voglia di mettersi in gioco, di relazionarsi con l’altro (gli altri personaggi) che spesso si oppone ai nostri desideri. Essere qualcosa di diverso da quello che si è, permette di entrare in processi di creazione e di nuove regole di creazione, “il laboratorio è un mezzo per dotare di ogni tipo di strumenti espressivi gli alunni, con il fine di facilitare il loro stesso sviluppo e per aiutarli a superare e rendere più ampi i propri limiti”. (Fernando Bercebal, Drama. Un estadio intermedio entre juego y teatro, Ed. Ñaque, Ciudad Real Editora, 1995) Il Teatro, dunque, attraverso le sue origini rituali e ludiche, elabora i vissuti di disagio vissuti da chi si accinge a creare il personaggio e lo fa percorrendo meccanismi come la catarsi, l’imitazione, la produzione simbolica. Il corpo, la voce diventano strumenti fondamentali per creare un personaggio che non possono essere nascosti, occorre lavorare su di sé, in mezzo agli altri e possedere lo spazio. Essere padroni della propria voce che deve essere emessa per un certo tempo, avere una cadenza, creare atmosfere, coordinarsi con l’azione. La rappresentazione di un personaggio, le difficoltà dello stare in scena, i trucchi per acquisire più sicurezza, per comunicare maggiormente uno stato d’animo portano l’utente a sperimentare se stesso nella realtà che lo circonda, prendere coscienza del proprio essere, delle proprie capacità e potenzialità, per lo più spesso sconosciute. Creare il personaggio significa, dunque, creare un cambiamento poiché si impara a cambiare e cambiarsi, concentrarsi sull’inesistente, manipolare cose ed emozioni, evocare la propria memoria affettiva per crearne di nuove ed entrare in contatto con il diverso da sé auto-controllandosi. 26 “La diversità dall'altro, con le sofferenze che può provocare, fonda l'esistere dell'esperienza teatrale stessa, possibile solo nel distinguersi di un attore e di uno spettatore. L'alterità riconosciuta si fa specchio in cui affermare la propria e l'altrui pluralità, nell'esperienza creativa del corpo espressivo e intenzionale”. (http://delteatro.it/dizionario_dello_spettacolo_del_900/d/disagio_teatro_e.php). Apprendere ad apprendere "Apprendere ad apprendere" è un’espressione che sta a dimostrare l'acquisizione di un metodo, è anche quel genere di apprendimento che offre la possibilità di aprirsi ad un secondo apprendimento, nuovo o di livello differente. In altre parole, l’apprendere ad apprendere va oltre l'oggetto che ha generato una specifica abilità (cognitiva, strumentale ecc.) e oltre la circostanza della sua acquisizione. Secondo Gregory Bateson l’apprendimento produce un cambiamento, l’uomo sin dell’infanzia ha imparato ad apprendere in ambito familiare, e in contesti che si sono quotidianamente ripetuti. Insegnare ad apprendere nuovi metodi, come quello del teatro, significa stimolare nuove curiosità, creatività, ingegno vivendo il tutto alla luce dei primissimi precedenti apprendimenti. È in virtù del significato che ciascuno dà all’esperienza d’apprendimento che è possibile quella che Bateson chiama 'l'uscita creativa': a causa di una difficoltà o di particolari stati d’animo, una persona re-interpreta l'esperienza, vede in modo nuovo la realtà, sempre alla luce degli apprendimenti profondi - mai uguali agli apprendimenti altrui - che ha acquisito stando al mondo. (Cfr. Gregory Bateson Le categorie logiche dell'apprendimento e della comunicazione, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976). Sono le esperienze nuove e l’apertura verso queste che stimolano la creatività, l’immaginazione. Ci sono indubbiamente materie di studio per vocazione 'creative' (il teatro, la musica, il disegno, la danza), che danno la possibilità all’uomo di rapportarsi al mondo in modo differente, sino ad arrivare a guardarlo come non lo si è mai guardato. Le capacità di apprendimento, dunque, sono solo in minima parte delle abilità innate e normalmente si esprimono in ciascun di noi al di sotto delle nostre reali potenzialità. Ciò accade perché ci si ferma per lo più ad abitudini disfunzionali acquisite nel tempo, credenze limitanti, e, soprattutto, a scarsa auto-consapevolezza. L’obiettivo è di migliorare la stessa capacità di apprendimento attraverso un vero e proprio percorso di self-empowerment personale in grado di accompagnare alla conoscenza e al pieno sviluppo delle proprie capacità di apprendimento, riuscendo così a prendere coscienza del modo in cui si apprende di apprendere e quindi a migliorarlo, per poi valorizzare e sviluppare la creatività, sperimentare nuove strategie, risvegliare la curiosità e l’attitudine a porsi domande. (Cfr. Daniele Mattoni, Crescita personale – Apprendimento, memoria, Milano, Franco Angeli, 2008). Bibliografia Bateson, G., Le categorie logiche dell'apprendimento e della comunicazione, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 Bercebal, F., Drama. Un estadio intermedio entre juego y teatro, Ed. Ñaque, Ciudad Real Editora, 1995 De Santos, J. L. A., L’abc del teatro – volume 2, Roma, Dino Audino Editore, 2007 Hatcher, J., “Scrivere per il teatro”, Roma, Dino Audino Editore, 1996 Mattoni, D., Crescita personale – Apprendimento, memoria, Milano, Franco Angeli, 2008 27 Scheda 1.b Il gioco e la terapia del gioco Mappa scheda 1.b Il gioco e la terapia del gioco 1. Metodologia e Prassi AC Teatro e Disagio Scheda 1.a Scheda 1.b Teatro educativo Il gioco e la terapia del gioco Contenuti: Facciamo finta che io ero... Creatività, immaginazione e teatralità Scheda 1.c Metodi di teatro creativo Scheda 1.d Orientamenti di Teatro terapeutico 28 1 ora OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO L’abilità di drammatizzare, di avere la possibilità di giocare tra mondo oggettivo e la realtà dell’immaginazione, segna una significativa evoluzione nell’ampliamento della coscienza umana creando le condizioni di mettere in luce e prendere coscienza dei processi inconsci e quindi a livello terapeutico di arrivare all’obiettivo di aiutare ad esprimere con sicurezza i propri problemi e ad acquisire padronanza (Cfr. Landy R. Drammaterapia, Treviso, Edizioni universitarie romane, 1999, 93). «Queste riflessioni intorno all’attività ludica in generale spiegano anche aspetti del teatro come forma di gioco dell’improvvisazione, in cui all’attore è richiesto un certo allenamento al gioco simbolico dell’immedesimazione in un personaggio, dove, pur rappresentando un altro, l’individuo vuole essere se stesso, vuole essere con qualcuno, essere in contatto con ciò che non conosce ancora. In questo senso il gioco del teatro è di per sé una psicoterapia per l’adulto» (Orioli W. Teatroterapia, Trento, Erickson, 2007, 23). Il gioco del teatro, dunque, provoca cambiamento nelle persone. Utilizzando tale strumento come mezzo ludico- espressivo si possono generare situazioni di gratificazione e di emozione positiva promuovendo la qualità della vita soprattutto in quei ragazzi che, nel periodo dell’adolescenza, vivono molti fallimenti (uno di questi può essere, per esempio, l’abbandono scolastico) come conferma di un’immagine di sé svalorizzata, inadeguata e senza speranze. La possibilità di riuscire al meglio secondo proprie potenzialità e capacità, la messa in gioco di aspetti sconosciuti, il positivo utilizzo di energie per “fare” sono tutti aspetti che definiscono positivamente la funzione del gioco teatrale. INTRODUZIONE «Il gioco è una forma collettiva naturale che procura il coinvolgimento e la libertà personale necessari al fare esperienza. I giochi sviluppano le tecniche e le abilità personali necessarie al gioco stesso, mediante lo svolgimento del gioco» (Spolin V. Esercizi e improvvisazioni per il teatro, Roma, Dino Audino Editore, 2005, 12). Il teatro, inteso come esperienza creativa e ricreativa, può costituire una via di fuga dalla quotidianità dell’individuo, per di più, ha una forte componente ludica che non può e non deve essere trascurata. L’universo del gioco appare governato da una serie di regole, che possono essere trasferite nell’universo teatrale, interagendo con i suoi codici e le sue strutture. Non a caso molti sono stati gli studiosi che hanno ricercato e analizzato diverse teorie sul gioco e in tutte emerge un comune aspetto fondamentale: la sua natura drammatica «in quanto il dramma è una dialettica tra il reale, la quotidianità e l’immaginazione. Il bambino, o l’adulto, che gioca esplora il contesto in cui vive tramite l’immaginazione. Il contesto del gioco è immaginativo e spontaneo, caratterizzato dalla qualità di trasformazione della realtà oggettiva in rappresentazioni soggettive» (Landy R. Drammaterapia, Treviso, Edizioni universitarie romane, 1999, 90). Il teatro, dunque, utilizzato in diversi contesti terapeutici o come attività finalizzata alla prevenzione, diventa strumento privilegiato in grado di far acquisire padronanza della realtà rappresentata proprio come avviene nel gioco, in grado, soprattutto di creare quell’equilibrio che porta all’empowerment, all’acquisizione di abilità di orientamento, di problem-solving e di creatività individuale e di gruppo. Nel gioco si riesce ad entrare in un’area tutta particolare in grado di mettere da parte l’egocentrismo e di dare alla crescita uno spazio proprio ma che, allo stesso tempo, è anche condivisibile, lo spazio dell’indipendenza, dello stare da soli alla presenza di qualcuno provando gioia nello sperimentare la libera espressione forma primaria e necessaria di comunicazione e di relazione tra uomini. Influente in questo senso è la nozione di gioco drammatico, diffusa in Francia sin dagli anni trenta da Louis Chancerel come «forma di libera espressione ricercata dai ragazzi in funzione del proprio piacere» (Rostagno R. Animazione, Torino, Rostagno, 1980, 342). 29 Il gioco drammatico funziona, però, soltanto quando si ritagliano uno spazio e un tempo. «Lo spazio non è percepito dal giocatore come completamente fuori da sé e neppure totalmente dentro. Il giocatore non è separabile dall’azione di giocare» (Orioli W. Teatroterapia, Trento, Erickson, 2007, 23). Facciamo finta che io ero … Come già anticipato nell’introduzione, nel gioco del teatro il piano della realtà e quello della irrealtà sono contigui e per certi versi interscambiabili. Quando si mette in atto il gioco del “far finta di” entra in campo l’iniziativa, la capacità di far fronte a determinate situazioni che si vengono a creare proprio attraverso l’esperienza del gioco, si ha la possibilità di scavare tra cose e vissuti, tra fatti e schemi mentali, fra il piano della realtà e quello dell’immaginazione e la conquista maggiore diventa l’apprendimento o una piccola parte d’apprendimento. È per tale motivo che il gioco del teatro o meglio il gioco del “far finta di” va preso seriamente in considerazione. Il bambino, per esempio, quando finge di guidare un’automobile mentre afferra soltanto lo schienale di una sedia, lo fa con serietà, sapendo benissimo che non si tratta di una vera e propria automobile, al bambino preme l’atto, il vissuto, il significato, l’aspetto soggettivo del gesto compiuto. Adattamento e apprendimento, perciò, si avvantaggiano del carattere simbolico del gioco, inoltre, il rielaborare sotto forma di gioco simbolico situazioni reali di vita quotidiana o non porta all’esplorazione e rielaborazione, soprattutto in forma terapeutica, del proprio vissuto emotivo (Cfr. Paparella N. Pedagogia dell’infanzia, principi e criteri, Roma, Armando Editore, 2005, 67). Il gioco del “far finta di” assume, tuttavia, durante la crescita di un uomo, diverse caratteristiche che possiamo definire stadi evolutivi studiati e teorizzati da diversi ricercatori come Peter Slade (1954) e successivamente da Richard Courtney (1982). Secondo tali teorie, esistono diversi stadi in cui l’essere umano, attraverso il gioco, passa da una prima identificazione con la madre, successivamente alla capacità di interpretare un ruolo fino ad arrivare a creare, soprattutto in gruppo, veri e propri esperimenti di improvvisazione. «Nello stadio finale dell’adulto si realizza un processo di socializzazione continua mediata dall’interpretazione di un ruolo. Alcuni continueranno l’esplorazione della forma drammatica prendendo parte ad attività teatrali. A questo punto l’attività drammatica diviene più complessa, evolvendosi in una situazione di interpretazione di ruolo o di improvvisazione» (Landy R. Drammaterapia, Treviso, Edizioni universitarie romane, 1999, 122). Chi sperimenta questo tipo di gioco, mentre fa finta di essere qualcun altro e improvvisa un ruolo, riesce anche a liberarsi e a generare fiducia in se stessi e nel gruppo, che in quel momento è impegnato a giocare con altri ruoli, si ha la possibilità, inoltre, di entrare a far parte di uno spazio tutto speciale, vivo, organico, ricco di stimoli liberandosi dalle risposte ristrette di un comportamento prestabilito, che inibisce la spontaneità ma che, invece, genera la capacità di far fronte a determinate situazioni attraverso il coinvolgimento e la libertà di sperimentarsi, di essere creativi. Attraverso il gioco del “far finta di” vengono sviluppate abilità in grado di far dissolvere conflitti e tensioni per far fronte alle richieste poste dalla situazione. «Qualunque gioco degno di essere giocato è fortemente sociale, e presenta un problema che deve essere risolto al suo interno: un obiettivo nel quale ogni individuo deve coinvolgersi, che si tratti di raggiungere una meta o di lanciare un gettone in un bicchiere. Perché il gioco possa essere giocato il gruppo deve accordarsi sulle regole del gioco e interagire allo scopo di raggiungere l’obiettivo. I giocatori divengono agili e vigili, pronti e aperti a qualunque mossa inusuale, mentre reagiscono contemporaneamente ai tanti avvenimenti casuali. La capacità personale di entrare in contatto col problema del gioco e lo sforzo portato avanti per gestire i molteplici stimoli provocati dal gioco determinano la portata di questa crescita. 30 La crescita avverrà senza difficoltà nell’allievo attore, perché sarà proprio il gioco a soccorrerlo. L’obiettivo sul quale il giocatore deve costantemente focalizzarsi e verso il quale ogni azione deve essere diretta provoca la spontaneità. In questa spontaneità si sprigiona la libertà personale e si risveglia la totalità della persona, fisicamente, intellettualmente e intuitivamente. Ciò causa nell’allievo un’eccitazione capace di fargli superare se stesso: diventa libero di entrare nell’ambiente, di esplorarlo, di avventurarsi e di affrontare senza paura tutti i pericoli che incontra.» (Spolin V. Esercizi e improvvisazioni per il teatro, Roma, Dino Audino Editore, 2005, 12). Creatività, Immaginazione, Teatralità Attraverso l’educazione alla teatralità, oltre a trasmettere apprendimento, si dà la possibilità al fruitore di entrare in un’esperienza arricchente in grado di sviluppare fantasia, immaginazione e abilità creative, tali abilità vengono sviluppate proprio nel momento in cui una persona sta ricavando tutto il divertimento che un gioco possa offrire. Creatività e immaginazione, inoltre, riescono a far fronte a qualunque crisi che il gioco possa proporre, «poiché giocando diventa chiaro che il giocatore è libero di raggiungere lo scopo del gioco secondo lo stile che preferisce. Fintanto che rispetta le regole del gioco può dondolarsi, stare a testa in giù, o volare per aria» (Spolin V. Esercizi e improvvisazioni per il teatro, Roma Dino Audino Editore, 2005, 12). Immaginazione e creatività, dunque, vengono solo incrementate dalla pratica, non esistono tecniche prestabilite per ottenerle: «Ciò che va ricordato quando si lavora sull’immaginazione è che la teatralità nasce solo quando si recita con delle cose, e non con l’idea delle cose. Ora, le cose in se stesse, nella loro essenza, è la poesia a darcele, come in un lampo. L’immaginazione consiste dunque in questo potere di trasformare, una cosa banale, prigioniera della sua funzionalità, in un mezzo disponibile per la sua creazione artistica e per la creazione teatrale, all’interno di una storia. Del resto questa trasformazione può poggiare sugli accessori, i costumi, il trucco, così come sulle emozioni» (Spolin V. Esercizi e improvvisazioni per il teatro, Roma, Dino Audino Editore, 2005, 12). Utilizzando il gioco del teatro come strumento in grado di accrescere l’inventiva e la libera espressione non si fa altro che alimentare quell’attività creativa interiore in grado di far lavorare sul proprio sé, di far entrare nell’immaginario, in una dimensione inconscia per poi ritornare a un processo di ridefinizione in termini positivi della propria identità personale, ricostruendo un livello accettabile di autostima e di ridefinizione del sé. L’immaginazione e la creatività, non sono strumenti impenetrabili, ma se utilizzati e alimentati nella pratica quotidiana sono in grado di supportare modalità espressive diversificate, codici di comunicazioni alterni in grado di dare un senso a se stessi, ai propri comportamenti e alle proprie relazioni, in grado, inoltre, di mettere in atto strategie di volta in volta più elaborate per affrontare problemi nuovi. Le finalità pedagogiche del fare teatro dunque sono quelle dell’imparare a esprimersi, a comunicare, ad usare la fantasia, l’immaginazione, ma anche, e soprattutto, stare insieme agli altri, con-dividere. La risposta al bisogno di creatività che è in ogni persona, la ricerca del propria personalità in rapporto con gli altri sono momenti fondamentali che si possono riscoprire divertendosi “al gioco del teatro”. Per tali motivi diventa importante una proposta di educazione alla teatralità. «La teatralità non è ancora il teatro, è qualcosa che appartiene a tutti, che si può ritrovare nella vita di tutti i giorni. *…+ Fondamentale in questa prospettiva è il gioco di finzione attraverso il quale il bambino si rapporta alla realtà» (Orioli, 79). Bisogna partire dunque dal gioco, dal piacere che si prova giocando, per incoraggiare a sperimentare la teatralità e arrivare così all’atto creativo che poi porterà al progetto teatrale che racchiude in sé una grande ricchezza formativa. 31 Bibliografia Bertini P., Ragazzi difficili, pedagogia interpretativa e livelli di intervento, Firenze, La Nuova Italia, 1999 Caterina R., Che cosa sono le arti-terapie, Roma, Carocci, 2005 Demetrio D., Manuale di Educazione degli adulti, Roma, La terza, 2003 Gonfalonieri E., G. Scaratti (a cura di), Storie di crescita. Approccio narrativo e costruzione del sé in adolescenza, Milano, Unicopli, 2000 Oriol W., Teatroterapia, Trento, Erickson, 2007 Paparella N., Pedagogia dell’infanzia, Roma, Armando Editore, 2005 Pezin P., Il libro degli esercizi per attori, Roma, Dino Audino editore, 2003 Spolin V, Esercizi e improvvisazioni per il teatro, Roma, Dino Audino Editore, 2005 32 Scheda 1.c Metodi di Teatro Creativo vedi anche Vol. II Approfondimenti 3. Psicodramma e Drammaterapia 4. Teatro dell’oppresso Mappa scheda 1.c Metodi di Teatro creativo 1. Metodologia e Prassi AC Teatro e Disagio Scheda 1.a Scheda 1.b Teatro educativo Il gioco e la terapia del gioco Scheda 1.d Scheda 1.c Orientamenti di Teatro terapeutico Metodi di teatro creativo Contenuti: Psicodramma Drammaterapia Playback theatre Nuovo circo e Teatro di strada 33 2 ore OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO La funzione terapeutica e di cura a cui vuole assolvere il teatro e l’arte terapia in generale, è legata a obiettivi specifici che devono essere ben chiari a chi intende approcciarsi a tale metodologia di cambiamento. Attraverso l’acquisizione di conoscenze relative ai metodi di teatro creativo il conduttore di gruppi deve assolvere un compito principale: cercare di risolvere la situazione di emarginazione psichica o sociale dei componenti del gruppo dando loro la possibilità di esprimere in maniera adeguata ciò che sentono, le loro emozioni e trovare nel rapporto con il conduttore del gruppo e con il gruppo stesso una struttura efficace di contenimento. INTRODUZIONE Le arti terapie, il teatro educativo, il teatro sociale, il teatro di comunità, o come variamente viene definito, costituisce un nuovo modo di vedere il teatro. È a partire dagli anni sessanta che si sente l’esigenza di uscire fuori dai canoni specialistici che vedono il teatro come una forma d’arte apprezzabile soltanto dal punto di vista estetico e che può essere fatta soltanto da professionisti e in luoghi deputati per le rappresentazioni, al contrario, il teatro sente l’esigenza di cominciare ad occuparsi, attraverso un rinnovamento radicale, del disagio e dei problemi sociali. L’arte, in questo modo, comincerà a diventare formazione ed emancipazione per le persone. Il Teatro, in particolare, intende favorire processi di comunicazione in chi spesso ha difficoltà a comunicare, a rapportarsi con gli altri, ad avere un ruolo sociale. L’intento è di stimolare, far emergere in modo positivo quei lati creativi presenti in ogni individuo. Oggi esistono centinaia di pratiche, di metodi, di applicazioni, di scuole che affidano all’esperienza teatrale una forte valenza socio-psicologica ma, tutte, si rifanno in qualche modo alle idee di base di Moreno inventore dello psicodramma e del teatro della spontaneità. Moreno maturò una serie di tecniche di improvvisazione e di giochi di ruolo volti a rappresentare i conflitti e i drammi degli individui e a liberarli dalle oppressioni sociali attraverso la spontanea espressività. (Cfr. Bernardi C., Teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Roma, Carrocci, 2005) Nel corso del tempo le arti-terapie hanno assunto caratteristiche specifiche che pian piano hanno cominciato ad assumere una loro singolarità differenziandosi dalla psicoanalisi e dalle altre forme di psicoterapia. Nel modulo precedente, è stata rilevata, per esempio, la forte influenza, ottenuta in Francia da Louis Chancerel, sulla nozione di gioco drammatico che egli definiva «forma di libera espressione ricercata dai ragazzi in funzione del proprio piacere». (Rostagno R. 1980, Animazione, in Attisani A. (a cura di) Enciclopedia del teatro del 900, Milano, Feltrinelli, 1980, 342). Rilevanti furono anche gli influssi di movimenti come l’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa), il Teatro degli Oppressi di Augusto Boal, l’Animazione Teatrale, movimento nato in Italia alla fine degli anni sessanta che utilizza il Teatro come originale metodo pedagogico. Un percorso esemplare nel campo dell’animazione teatrale è stato quello di Giuliano Scabia, definito poeta-animatore, tra i suoi più celebri interventi è da ricordare, sicuramente quello promosso, in un ospedale psichiatrico di Trieste tra il 1972 e il 1973 da Franco Basaglia. «Nei laboratori interni all’ospedale psichiatrico si stabilì di preparare una grande parata di tutte le persone rinchiuse da anni nel manicomio che doveva invadere la città e terminare con una grande festa». (Bernardi, 46) Sempre in Italia, negli anni settanta, ebbe inizio la grande stagione delle politiche culturali, l’allargamento offerto alla popolazione nell’ambito dei beni immateriali e materiali volti a migliorare la qualità della vita. Iniziano, così, a svilupparsi iniziative e attività relative al settore spettacolo. 34 «In tutte le città pullulavano gruppi di giovani, più o meno politicizzati, ma tutti pronti a contribuire ad un forte cambiamento e rinnovamento delle istituzioni e della società. I più propositivi erano i gruppi di teatro che nelle grandi città sceglievano di lavorare nelle periferie e nei quartieri di maggior degrado sociale. Denunciavano con il teatro di strada o le grandi animazioni le oppressioni sociali, le alienazioni, l’emarginazione. Ricostituivano con i laboratori nuove aggregazioni, nuovi soggetti, nuovi attori». (Bernardi, 53-54) Da non dimenticare anche la valenza assunta dal Teatro Sociale e del suo stretto rapporto tra individuo (il teatro) e gruppo (il sociale) e, infine, la Teatro Terapia utilizzata da psicologi, terapisti, dramma terapeuti per risolvere problemi interiori e relazionali di individui o di piccoli gruppi. I confini tra queste aree teatriche sembrano, in realtà molto differenti ma tra loro c’è una linea comune che mette in evidenza un unico obiettivo: il benessere psicofisico delle singole persone in armonia con l’ambiente che le circonda. Psicodramma Nella storia della psicologia e della psichiatria dinamica Jacob Levi Moreno entra come il creatore dello psicodramma e uno dei principali inventori della psicoterapia di gruppo. A lui si deve l’idea rivoluzionaria di aiutare l’individuo intervenendo sul suo sistema di relazioni interpersonali. Lo psicodramma può essere definito come la scienza che, attraverso metodi drammatici, esplora la verità, non a caso l’etimologia greca della parola dramma significa azione; azione che richiede l’utilizzo di cinque strumenti: il palcoscenico, il soggetto o paziente, il regista o direttore, il gruppo degli assistenti terapeutici, detti anche Io ausiliari e il pubblico. Il palcoscenico fornisce al paziente uno spazio che rappresenta la realtà ma, sicuramente, uno spazio più rassicurante dove il paziente può sentirsi libero di esprimersi e di far prendere corpo ai sentimenti, le emozioni, le illusioni e allucinazioni. Al soggetto paziente viene richiesto di essere se stesso sul palcoscenico, non un attore a cui è chiesto di reprimere il proprio sé per dare spazio al ruolo imposto da qualcun altro, ma il soggetto attraverso la sua azione drammatica deve dare un esempio della sua vita quotidiana, esprimersi liberamente man mano che le cose gli vengono in mente, egli così potrà incontrare non solo parti di se stesso ma anche le altre persone (reali o illusorie) che prendono parte ai suoi conflitti mentali. L’esame della vita quotidiana del paziente, che nelle altre terapie viene analizzata soltanto in forma passiva, qui viene effettivamente realizzato sul palcoscenico. Tante possono essere le tecniche di riscaldamento del soggetto al ritratto psicodrammatico come il soliloquio, la presentazione di sé, l’inversione di ruoli, il doppio, la tecnica dello specchio tutte, però, hanno un unico scopo: incoraggiare i pazienti non a essere attori ma ciò che essi profondamente sono. Il terzo strumento può essere definito in vari modi e può ricoprire diverse funzioni: regista, terapeuta, analista. Il regista, in particolare, deve essere abile ad accordare l’andamento della sua regia con la vita del soggetto. A questa figura, inoltre, può risultare utile far collimare all’andamento del dramma informazioni ricavate dal pubblico, mariti, genitori, amici ecc. Estensioni del regista ma anche del paziente possono essere gli attori terapeutici o Io ausiliari poiché raffigurano le persone reali o immaginate nel mondo del paziente e allo stesso tempo svolgono la funzione guida e indagatore sociale. Anche il pubblico, quinto strumento dello psicodramma, può aiutare il paziente poiché, proprio come avveniva nel teatro greco, il pubblico stava in prima linea ed era portavoce, rifletteva e valutava ciò che guardava, accettando o comprendendo con risate o violente proteste. Allo stesso modo succede nello psicodramma di Moreno e il pubblico, di conseguenza, diventa esso stesso paziente. (Cfr. Rosati O.(a cura di) Manuale di psicodramma Roma, Astrolabio, 1985, 29-33) Altro concetto fondamentale da chiarire per definire meglio lo psicodramma di Moreno è la sua idea di ruolo. Il ruolo, secondo Moreno, non si crea a partire dallo sviluppo del linguaggio perché non ci si può limitare solo ai ruoli sociali ma il 35 concetto di ruolo va applicato a tutte le dimensioni della vita, esso inizia ad operare a partire dal momento della nascita in poi. Moreno parla di ruoli sociali, psicosomatici (ruolo del mangiare, ruolo sessuale) e psicodrammatici che esprimono la dimensione psicologica del sé. Se il paziente dimostra di avere ciò che Moreno definisce ruolo in conserva, in poche parole, un ruolo rigido, prefissato che non dà possibilità di cambiamento, attraverso lo psicodramma i pazienti hanno la possibilità di acquisire nuove potenzialità trasformative del ruolo e metterle in atto attivando il processo della spontaneità e della creatività. Ciò permette alla persona di esprimere i diversi aspetti della sua vita, aiutando a stabilire tra questi dei collegamenti costruttivi. Durante il processo drammatico, inoltre, il paziente ha la possibilità mettere in pratica un processo catartico (termine aristoteliano recuperato da Moreno e trasferito sull’attore), rivivendo i conflitti irrisolti della propria vita attraverso la rappresentazione, il paziente, sperimenta un intenso flusso emotivo, che gli permette di esprimere le emozioni represse legate all’episodio in questione. (Cfr. Pitruzzella S. Manuale di teatro creativo, Milano, Franco Angeli, 2004, 31) In anni più recenti lo psicodramma moderno risulta essere molto diverso da quello messo a punto da Moreno. Dagli anni quaranta in poi infatti, esso ha assunto via via un’impostazione prevalentemente psicoanalitica, allontanandosi dall'impronta dichiaratamente antipsicoanalitica del suo fondatore e perdendo così il carattere di psicoterapia catartica (ritenuta inefficace per trasformare la struttura psichica profonda). Lo psicodramma psicoanalitico vieta il contatto fisico fra partecipanti, assegna agli analisti presenti il compito di costituire l'oggetto del transfert e ai partecipanti quello delle identificazioni, mentre lo scopo della rappresentazione, che avviene in assenza di pubblico, non ha in vista la catarsi, ma l'interpretazione, non della realtà rappresentata, ma dell'immaginario del paziente-protagonista sul piano simbolico. Le sedute si svolgono in orari che sono regolarmente stabiliti, in spazi che non ospitano accessori teatrali e sono condotte da due analisti, di solito di sesso diverso, a cui spetta il compito dell'interpretazione dei conflitti che lo psicodramma evidenzia. Molte sono le differenze riguardo le teorie e tecniche tra le diverse scuole di psicoanalisi e molte riguardano la composizione dell’equipe di terapeuti, l’importanza accordata all’analisi del controtransfert, i significati dell’interpretazione (freudiana, lacaniana, junghiana) e lo stile della sua enunciazione, le indicazioni e controindicazioni del trattamento, l’implicazione degli analisti nel gioco drammatico. In realtà, vari approcci si sono combinati tra loro. Lo stesso Moreno riteneva che il superamento di ogni rigidità di ruolo e di quelle che chiamava cultural conserves potessero essere la combinazione vincente del suo metodo. Lo sviluppo degli psicodrammi analitici, paradossalmente, sembra dargli ragione e conferma la grandezza della sua invenzione. Molte, inoltre, sono le forme di teatro che hanno tratto spunto dallo psicodramma di Moreno, tutte tengono presente l’assunto che il comportamento quotidiano è già di per sé drammatico e che, quando viene a mancare l’abilità di interpretare spontaneamente il proprio ruolo, il dramma è il modo più appropriato per ripristinare una condizione di equilibrio. Fra le più importanti forme di teatro a tener presente quest’ultimo assunto c’è la drammaterapia che ora andremo ad analizzare. Drammaterapia A differenza di quanto detto per lo psicodramma, la drammaterapia non fa riferimento a specifiche teorie e tecniche enunciate da singoli ricercatori. I concetti e la struttura metodologica della drammaterapia si inseriscono in una lunga tradizione di teatro educativo sviluppatasi prima in Gran Bretagna, poi negli Usa e in Canada grazie a studiosi come Peter Slade (il primo ad usare il termine drammaterapia) Brian Way Richard Courtney che, in prima persona, hanno praticato, in svariati contesti, gli effetti benefici, a livello pedagogico, provocati dall’esperienza drammatica. (Cfr. Pitruzzella, 32) 36 Certamente, la drammaterapia, si rifà a molte delle maggiori teorie psicoterapeutiche, poiché è attenta alle diverse dimensioni del cliente: processi consci e inconsci, mente e corpo, sentimenti e intuizione, ma gli obiettivi dei drammaterapeuti si presentano più sotto forma di obiettivi teatrali, educativi e ricreativi allo stesso tempo, poiché il teatro, oltre a liberare emozioni, pensieri, è anche quel mezzo attraverso il quale si vive un momento di tregua dai problemi quotidiani. Per capire bene su che linea si muove la drammaterapia occorre analizzare concetti e pratiche attraverso quelle forme creative alle quali i drammaterapeuti hanno dato molta importanza. La drammaterapia, dunque, è una forma eclettica di fare teatro per il benessere delle persone che trae spunto da molti modelli, alla base vi è la relazione dell’opera teatrale (recitazione, improvvisazione, narrazione, sceneggiatura ecc.) con la terapia. Naturalmente, tra gli obiettivi principali, come in ogni forma di terapia che usa il teatro come strumento di prevenzione o cura del disagio, vi è il “cambiamento”. Il “cambiamento” può verificarsi nella consapevolezza (un individuo percepisce in modo differente la relazione con se stesso, gli altri e l’ambiente in cui vive) e nell’azione (attraverso il processo della terapia, un individuo comincia ad agire in modo diverso in relazione a se stesso, agli altri e al mondo). Spesso, però, consapevolezza e azione non vanno di pari passo, il paziente potrebbe acquisire consapevolezza ma non riuscire a mettere in pratica l’azione o, al contrario, potrebbe mettere in pratica un cambiamento nei comportamenti ma non avere consapevolezza del suo stesso cambiamento. Occorre, dunque, che il drammaterapeuta utilizzi modelli di riferimento che abbiano alla base la natura creativa ed espressiva dell’arte del dramma/teatro, accrescendo la gamma di ruoli del cliente e la sua capacità di interpretarli con più pienezza, tenendo presente anche la natura stessa del cliente e quindi la scelta flessibile nell’applicazione della terapia in relazione a differenti persone e circostanze. (Cfr. Landy R. J. Drammaterapia. Concetti, teorie e pratica, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1999, 69). In questo modo si dà la possibilità al paziente di incontrare nuove forme del sé, di provare nuovi modi di entrare in relazione con gli altri e con se stessi mai praticati prima, esprimere e riconoscere emozioni profonde, sperimentare nuovi e diversi punti di vista sul mondo e sulle cose. «La drammaterapia è un percorso di ricerca, di esplorazione, di scoperta, di recupero delle potenzialità e delle capacità creative presenti in ogni persona. Attraverso i processi drammatici,immaginativi e narrativi, propri del teatro, i soggetti hanno la possibilità di riattraversare in modo creativo la propria condizione, allontanandosi da rigidi schemi di comportamento per scoprire nuovi modi di trasformare la propria realtà». (www.drammaterapia.it). È per tali motivi che il drammaterapeuta, a differenza degli psicoanalisti, deve saper praticare la forma artistica del teatro con competenza, deve fare esperienza del processo drammatico creativo, deve saper governare i fondamenti della performance teatrale e dell’improvvisazione, avere abilità creative attraverso l’acquisizione di capacità recitative, di regia e di sceneggiatura, abilità che si possono acquisire soprattutto con la pratica applicata creativamente con gruppi di bambini, adolescenti o adulti. (Cfr. Landy, 75-76). Naturalmente, oltre a categorie di clienti come tossicodipendenti, detenuti, diversamente abili, borderline, sordi, ciechi, ritardati mentali, il drammaterapeuta lavora anche con persone che non presentano speciali invalidità ma che hanno l’esigenza di fare questa determinata esperienza, in chiave preventiva, per riesaminare la propria vita. Il drammaterapeuta, dunque, deve tener presente le specifiche singolarità e l’ambiente di provenienza del paziente. Oltre queste specifiche abilità, il drammaterapeuta deve essere in grado di inserire all’interno del percorso drammatico il gioco in grado di produrre la possibilità di accesso ad un processo creativo e condiviso poiché nella drammaterapia il gruppo è una risorsa fondamentale. 37 Nella drammaterapia, infatti, il gruppo diventa il contenitore affettivo, si legittima sempre di più come contenitore in cui è possibile esplorare i conflitti e dar voce, sulla scena, a emozioni represse e a parti di sé in ombra. per poi ristabilire un equilibrio individuale e di gruppo. L’equilibrio è un concetto fondamentale nella drammaterapia, è l’obiettivo terapeutico, in quanto la persona con disagio o disturbata è in disequilibrio, dominata da ruoli autodistruttivi, confusa o ansiosa di confrontarsi con le ambivalenze dei ruoli. Durante il dramma, invece, con l’acquisizione di determinate ruoli, si può riuscire a dare un senso all’esistenza. In conclusione, passiamo ad elencare, in maniera sintetica le tre diverse fasi in cui si suddivide un incontro di drammaterapia: 1. La fase di fondazione che è quella iniziale è destinata alla creazione del clima di gruppo (fiducia, intimità, collaborazione) e all’attivazione delle risorse espressive dei partecipanti attraverso esercizi di attivazione fisica; giochi di conoscenza; improvvisazione corporea; giochi di fiducia; improvvisazione immaginativa e narrativa. In questa fase è necessario attivare un contesto ludico e promuovere un clima affettivo positivo. 2. La fase di creazione è quella centrale in cui si creano le scene e la drammaturgia e si mette in moto il processo creativo drammatico attraverso giochi di ruolo: immaginativi, sociali, familiari. In questa fase il gruppo passa da uno spazio ludico a un momento di ricerca creativa in cui è possibile affrontare alcuni elementi problematici personali attraverso il contenitore protetto della finzione. 3. La fase finale di condivisione segna l’uscita dai ruoli e dalla realtà drammatica ed è quella in cui il percorso viene riesaminato dai partecipanti e ne vengono condivisi i vissuti soggettivi attraverso lo scambio verbale che non sempre è necessario: la consapevolezza del percorso fatto può esprimersi in termini simbolici e immaginativi, con un gesto o con un segno, o semplicemente col silenzio o con il puro esserci. Queste fasi sono presenti nell’arco di una singola seduta e sono fondamenti su cui si basa l’intero processo drammatico. Playback Theatre In anni più recenti molte altre sono state le forme di teatro che hanno preso spunto dallo Psicodramma di Moreno, particolarmente importante da analizzare è il Playback Theatre che nasce intorno alla metà degli anni settanta. Il suo fondatore Jonathan Fox, sperimenta forme di teatro improvvisato fino a giungere a un’idea di performance basata principalmente sulle storie di vita del pubblico, nasce quindi come una delle forme sperimentali delle esplorazioni teatrali degli anni settanta poiché cercava di coinvolgere il pubblico e di portare il teatro più vicino alla realtà quotidiana, rompendo con la tradizione del teatro scritto. Fox, con l’appoggio di Zerka Moreno e del Moreno Institute, ebbe la possibilità di sperimentare le sue idee e di dare origine ad una compagnia di attori non professionisti, che avevano ricevuto una formazione in psicodramma, sottoponendoli a un training di sviluppo della spontaneità. La “Original Playback Theatre Company” ebbe vita fino agli anni 80, ma lasciò, in tutte le parti del mondo allievi e continuatori. In particolare, in Italia nel 2002 si è costituita la SIPT (Scuola Italiana di Playback Theatre), essa è affiliata alla International School of Playback Theatre di New Paltz (New York State) e organizza corsi di formazione accreditati dalla scuola internazionale di diverso livello in Italia e all’estero. Realizza eventi pubblici per incrementare la ricerca e la sperimentazione e per costruire una rete tra chi si occupa di playback theatre. Alla base delle idee che vedono nascere la pratica del playback theatre vi è quella che sostiene l’importanza che alle persone debba essere restituita la dignità che meritano. 38 "Le storie rappresentate in scena hanno un effetto di rispecchiamento sul pubblico, e provocano una diffusa risonanza empatica che rinsalda il senso della comunità. La nozione di catarsi è qui molto più vicina a quella di Aristotele che a quella di Moreno. L’attivazione della spontaneità, attraverso la rimozione dei blocchi psicologici che ne ostruiscono il naturale fluire, è uno dei cardini del processo del playback theatre. Fox delinea quattro aspetti principali della spontaneità: Vitalità, Appropriatezza, Intuizione, Disponibilità al cambiamento" (Pitruzzella, 34). Nuovo Circo e Teatro di Strada Negli ultimi anni molte sono state le esperienze che hanno visto il teatro di strada e forme d’arte singolari come il circo avvicinarsi ai contesti di disagio. Tali esperienze prendono certamente spunto dalle idee di Augusto Boal e del suo Teatro dell’Oppresso. Un teatro che rende attivo il pubblico e serve ai gruppi di "spett-attori" per esplorare, mettere in scena, analizzare e trasformare la realtà che essi stessi vivono. Ha tra le finalità quella di far riscoprire alla gente la propria teatralità, vista come mezzo di conoscenza del reale, e di rendere gli spettatori protagonisti dell’azione scenica, affinché lo siano anche nella vita. È proprio da questi assunti che sembrano farsi strada nuovi modi di applicare l’arte al disagio, di utilizzarla come mezzo di intervento sociale. Oggi tali esperienze diventano sempre più solide e diffuse, in particolare il circo viene sempre più visto come quella forma d’arte in grado di sviluppare autostima dare l’opportunità ai ragazzi di esprimere se stessi di essere più creativi, passare dal ruolo di vittima a quello di protagonista del cambiamento della propria vita, da pubblico ad artista, e, infine, per avere l’opportunità di mettersi in collegamento con la società, esprimersi, venire ascoltati. Singolare in questo senso è il lavoro fatto durante gli anni 90 in Romania da un clown francese di nome Miloud Oukili. Il suo naso rosso, i suoi balli e la sua borsa gli servirono come passaporto per avvicinarsi ai bambini che vivevano nei sotterranei della città di Bucarest, insegnava loro i primi rudimenti dell’arte del circo, condivideva con loro lo smarrimento, la loro profonda solitudine, le loro angosce di bambini abbandonati, li accompagnava nei loro rifugi e passava la notte con loro. Forte di questa esperienza e realmente convinto dell’importanza di avvicinare i ragazzi di strada secondo le modalità da lui sperimentate, Miloud decise di strutturare un vero e proprio intervento e nel 1996 si costituì “FUNDATIA PARADA” che in sei anni di attività ha dato la possibilità a centinaia di ragazzi di essere reintegrati nella scuola, nelle loro famiglie e professionalmente. Oltre a quello di Miloud, molti altri sono stati gli interventi nel mondo che hanno portato a risultati eccellenti. Tra i tanti, possiamo menzionare concludendo, l’azione del “Cirque du Monde”, uno degli otto programmi di azione sociale che il Cirque du Soleil ha dedicato alla causa dei giovani in difficoltà. «In termini concreti il programma organizza workshop di arti circensi insieme alle organizzazioni sociali che lavorano con giovani a rischio nel mondo. L’idea del Cirque du Monde cominciò a prendere forma nel 1993, quando il Cirque du Soleil e Jeunesse du Monde, una grande organizzazione canadese che lavora con i giovani a livello nazionale ed internazionale, riconobbero il potenziale di un programma di intervento che usasse le arti circensi come metodo alternativo di insegnamento per giovani a rischio. Nel 1994, con il supporto finanziario del ministero di Health e Welfare canadese, cominciarono i preparativi per workshop di arti circensi in Brasile, Cile e Canada, in collaborazione con organizzazioni comunitarie la cui missione fosse quella di lavorare con giovani a rischio. Nel 1995 i primi workshop presero il via a Rio de Janeiro, Recife, Santiago, Montreal, Quebec City e Vancouver. Nel 1996 un documentario sul progetto, intitolato “Quando il Circo arrivò in Città” venne prodotto e diretto da Adobe Foundation. Nel 1997, la Oxfam-Quebec, un’organizzazione impegnata nella cooperazione internazionale, divenne partner del Cirque du Monde, offrendosi di inserire dieci volontari all’anno nel settore. Programmi furono fatti partire a Las Vegas e nel distretto San-Michel di Montreal, area dove si trova anche la sede centrale 39 del CdS. Mexico City, e Belo Horizonte in Brasile, vennero aggiunti all’agenda nel 1998. L’anno successivo Cirque du Monde crebbe in modo sostanziale: giovani da Dakar (Senegal), Abidjan (Costa d’Avorio), Douala (Cameron), Durban (Sud Africa), Erth e Melbourne (Australia), Singapore, Ulaanbaatar (Mongolia) e dagli aborigeni della Atikamekw Nation (Quebec) presero parte al programma dei workshop. Nel 2002, giovani da più 33 comunità di cinque continenti sono stati raggiunti attraverso Cirque du Monde. Per supportare lo sviluppo di Cirque du Monde e permettergli di operare con continuità è stato varato fin dal 2001 un programma di formazione per istruttori di arti circensi basato su un approccio pedagogico che unisce espressone artistica e intervento sociale. Il programma attira artisti che desiderano usare il loro talento da un punto di vista sociale e operatori sociali che desiderano integrare le arti circensi nelle loro iniziative con i giovani. Questo programma di formazione supporta e sviluppa l’approccio pedagogico, fornisce agli istruttori la possibilità di sviluppare le abilità necessarie al loro lavoro, incoraggia la condivisione e la creazione di un network tra gli istruttori e le organizzazioni coinvolte nell’avventura del circo sociale. Cirque du Monde non vuole essere una panacea per i disagi sociali, né un semplice diversivo per distogliere le menti dei giovani a rischio dalla loro situazione reale, ma solo un mezzo per agevolare il loro pieno sviluppo e consolidare i legami con la comunità. Si vuole fornire ai giovani partecipanti, siano a Montreal, Rio o in altri posti, un trampolino verso un nuovo stadio della loro vita. Questo può significare riconciliazione con la famiglia, ammissione ad un programma di disintossicazione, o anche un crescente interesse verso un’occupazione o professione. La formazione di professionisti non sia uno degli obiettivi educativi del programma di Cirque du Monde eppure alcuni dei giovani partecipanti al programma manifestano il desiderio di guadagnarsi la propria vita in campo circense, diventare artisti di strada, formare una propria compagnia, o continuare la formazione presso scuole professionali di arti circensi. Ma il programma è soprattutto un’opportunità per un’esperienza personale positiva che funzioni da catalizzatore in termini di autostima e identità culturale. La arti circensi richiedono solidarietà e confronto su risorse e talenti individuali, aiutando i giovani a sviluppare il senso di appartenenza ad un gruppo. Proprio perché richiedono libertà e creatività, e al tempo stesso perseveranza e disciplina, le arti circensi danno ai giovani a rischio la possibilità di sbocciare, di esprimere se stessi e di usare il loro status sociale come la base per creare nuovi legami in una società che li ha spesso rigettati». (http://www.jugglingmagazine.it/new/index.php?id=198) Bibliografia Attisani A., (a cura di) Enciclopedia del teatro del 900, Milano, Feltrinelli, 1980 Bernardi C., Teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Roma, Carrocci, 2005 Pitruzzella S., Persona e soglia. Fondamenti di drammaterapia, Roma, Armando, 2003 Pitruzzella S., Manuale di teatro creativo, Milano, Franco Angeli, 2006 RAGAZZI ED EDUCATORI DI ARESE, Teatro si può!, Leumann (To), Elle Di Ci, 1988 Rostagno R., Animazione, in ATTISANI, 1980 Schininà G., Augusto Boal. Storia critica del teatro dell’oppresso, Molfetta (Ba), La Meridiana, 1998 40 Scheda 1.d Orientamenti di Teatro-Terapeutico Mappa Scheda 1. d Orientamenti di Teatro terapeutico 1. Metodologia e Prassi AC Teatro e Disagio Scheda 1.a Scheda 1.b Teatro educativo Il gioco e la terapia del gioco Scheda 1.d Scheda 1.c Orientamenti di Teatro terapeutico Metodi di teatro creativo Contenuti: Teatro e prevenzione Il teatro come strumento di crescita personale 41 1 ora OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Approfondire gli aspetti in grado di fornire, a chi opera nel settore del disagio, la possibilità di dare un valido contributo sotto il profilo pedagogico e formativo alla progettazione di interventi che adoperano il teatro come strumento di sostegno alla crescita dell’adolescente e alla costruzione di una sua coerente identità. Teatro e Prevenzione L’impiego delle attività creative, (teatro, danza, musica, pittura, scultura) come supporti riabilitativi di diverse patologie, ha avuto negli ultimi dieci anni un grande sviluppo, come testimoniano le numerose ricerche sperimentali sull’argomento. Da tali sperimentazioni emerge, senza ombra di dubbio, che il teatro è un ottimo strumento di prevenzione al disagio adolescenziale: permette di riscoprire la spontaneità, la libera espressione, restituendo la valenza creativa necessaria a tutti gli individui soprattutto a quelli coinvolti in un processo di crescita personale. “La spontaneità precede l’atto creativo e lo rende possibile, è lo stato psichico che stimola l’individuo a rispondere 2 adeguatamente ad una situazione per lui nuova, oppure in modo nuovo ad una situazione a lui già nota” . Il laboratorio teatrale, dunque, è uno strumento assai utile per supportare i giovani nei loro compiti evolutivi, che comprendono molti fenomeni quali la responsabilizzazione, l’autonomia, la conoscenza e la gestione delle emozioni, degli umori e delle relazioni affettive. Attraverso le esperienze di laboratorio è possibile evidenziare meglio le modalità espressive di un adolescente che cerca di dare un senso a se stesso, ai suoi comportamenti, alle sue relazioni. In un gruppo che lavora secondo tali modalità, si esprimono le diverse facce dell’adolescenza, i suoi codici di comunicazione sempre alterni e diversificati, i linguaggi a volte ermetici e confusi, a volte trasgressivi e provocatori. Il laboratorio teatrale diventa occasione particolare, una risorsa per chi vuole promuovere l’“agio” in questa fase particolare della vita, non a caso uno degli obiettivi principale è quello di mettere in atto un processo di ridefinizione in termini positivi dell’identità personale dell’adolescente. In particolare, se il gruppo in questione è formato da ragazzi drop-out, l’abbandono della scuola o la mancata scolarizzazione viene quasi sempre vissuta in termini di auto-colpevolizzazione, incapacità personale e inadeguatezza rispetto alla situazione. La perdita di autostima, da parte di un adolescente, porta ad un conseguente calo degli investimenti sociali, fino “all’interiorizzazione della marginalità stessa come cultura” (Regoliosi L., La prevenzione nella scuola del disagio e dell’abbandono, in Liverta Sempio O., Confalonieri E., Scaratti G. (a cura di), L’abbandono scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi, Milano, Raffaello Cortina, 1999, 236). Una sorta di svantaggio sociale che indica la situazione di chi è esposto alla confluenza di più fattori, alcuni legati alla sua condizione nella società, altri ai risultati che ha conseguito nella scuola La “fuga” dell’adolescente, reale o psicologica che sia, si configura come reazione alla difficoltà di “essere”, di “stare” (come protagonista) all’interno del proprio percorso esistenziale, con i compiti di sviluppo che esso impone. L’assenza, o l’insufficiente presenza, di “self-efficacy”, di “locus of control” interno (“La percezione degli eventi come dipendenti anche dalla propria volontà”, Cfr Polacek K., Locus of control: concetti, risultati e misurazione, “Orientamenti pedagogici”, vol. 27, O. S., Firenze, 1980, 410-414), l’affermarsi di una sorta di “impotenza oppressa” o “learned helplessness” (Cfr. Gius E. Zamberini A., Testoni I., Psicologia sociale dei poteri: formazione della personalità e processi socio-riabilitativi, Studium 2 Moreno J., Il teatro come terapia, in Rosati O. (a cura di), Manuale di psicodramma, Roma, Astrolabio, 1985, 121. 42 educationis, n. 1, Rivista per la formazione nelle professioni educative, Trento, Erickson,2000, 67-68), l’assenza di protagonismo, sono variabili di ordine personale che si esplicano con l’assunzione di un atteggiamento di fondo passivo, generalmente orientato verso l’insuccesso di fronte agli eventi che contrassegnano la quotidianità, indotte spesso a praticare forme di aggressività, di tipo auto lesivo (disturbi alimentari, fughe da casa, suicidio, assunzione di sostanze). In altri casi si presenta, invece, uno malato di protagonismo spinto da un’illusione di invulnerabilità che lo conduce ad attuare in prevalenza forme di aggressività allo plastiche (violenza, vandalismo, microcriminalità), dirette in modo esplicite contro gli altri e il mondo (Cfr Vico G., Educazione e devianza, Brescia, La Scuola 1988). La rappresentazione di sé come persona non adatta a studiare, dunque, influenza negativamente qualsiasi ulteriore progetto. Il teatro può diventare quello strumento privilegiato in grado di aiutare a ricostruire un livello accettabile di auto-stima. Occorre, dunque, da parte degli operatori, creare le condizioni adatte per sperimentare concretamente situazioni di conferma e di successo. La possibilità di riconquistare progressivamente fiducia nelle proprie capacità permette a questi ragazzi di riuscire a mettere in atto strategie di volta in volta più elaborate per affrontare problemi nuovi, percepiti fino a quel momento come estranei alla propria esperienza di vita. L’uso di tecniche come la drammatizzazione, l’improvvisazione, la scrittura e la narrazione è uno dei punti di forza della metodologia utilizzata poiché molto diversificate, non ripetitive e poco “scolastiche”; in questo modo si ha la consapevolezza che una posizione svantaggiata non pregiudica necessariamente prospettive di realizzazione personale in nuovi contesti, interiorizzando un messaggio di recupero rispetto ad uno stato di motivazione e un livello di autostima molto basso. Il gruppo teatro, così, diventa esperienza positiva e divertente sia per i ragazzi meno espressivi e introversi sia per gli “attori nati”, l’uso delle attività drammatiche strutturate si rivela liberatorio per i partecipanti timidi e allo stesso tempo pone dei limiti utili per i componenti del gruppo più dominanti, inoltre il gruppo si rivela essere uno strumento prezioso per creare senso d’appartenenza nelle persone che partecipano in modo più riservato. La gratificazione, la soddisfazione, lo “stare bene con sè” fanno indubbiamente da argine al disagio tipico dell’adolescenza, il coinvolgimento di energie a fini positivi sottrae tempo, spazio, forza e voglia alla distruttività tipica di questa particolare fase della vita. Il Teatro, dunque, ha un serio valore preventivo perché agisce in maniera considerevole sul disagio conclamato. Il teatro come strumento di crescita personale «Il Teatro non ha categoria ma si occupa della vita. È il solo punto di partenza, l'unico veramente fondamentale. Il Teatro è la vita». (Peter Brook) Il teatro è la sola forma che permetta all'uomo la ricerca di se stesso in situazioni di vita vissuta. Esso permette di agire attraverso la fantasia e l'invenzione, ma anche di raggiungere la conoscenza insieme agli altri: superare insieme gli ostacoli, migliorare il proprio lavoro, avere una considerazione positiva di se stessi, arricchendo l'individuo e il gruppo intero. Il teatro, dunque, si fonda sui principi di integrazione e di benessere della persona, partendo dai presupposti suddetti e dalla convinzione che l’arte abbia la capacità di relazionarsi con ogni tipologia di individuo. La condivisione del gioco del teatro, inoltre, da parte di un gruppo prevede la naturale accettazione delle reciproche differenze, la restituzione del concetto di diversità al suo valore positivo; il gruppo laboratorio basato su tali concetti costituisce esso stesso un fondamentale elemento di riabilitazione. L’assegnazione di un ruolo da protagonisti e soggetti attivi ai giovani coinvolti nel laboratorio, all’interno degli obiettivi prefissati, è di per sé positivo, il percorso verso l’acquisizione del sé, 43 l’autonomia e l’autostima è molto arduo ed è per tali motivi che percorsi di questo genere devono avvalersi di figure professionali di varia tipologia (dai professionisti di teatro a psicologi, pedagogisti, educatori ecc.). Durante il percorso particolare attenzione deve essere posta allo spettacolo finale, esso è una forma di comunicazione che nasce, come ogni espressione artistica, dal bisogno o dalla ricerca di soddisfazione dell’attore che, utilizzando più codici comunicativi veicolati attraverso canali diversi, rivolge la sua attenzione al pubblico provocando una risposta di ritorno. All’interno dello spettacolo teatrale esistono due livelli di comunicazione: il primo è intra-spettacolare ed avviene tra gli stessi attori, mentre il secondo si definisce spettacolare e si instaura tra attori e pubblico. Le regole dello spettacolo dal vivo, la condivisione di gruppo, il rispetto della diversità dell'altro, il gioco e la relazione, l'analisi dei sentimenti e dei caratteri umani, hanno la capacità di rendere migliore sia l'artista che la persona. Attraverso un gesto, un’espressione verbale, un movimento, un suono, uno sguardo, l’attore crea uno spazio comunicativo con il pubblico per mezzo del quale gli trasmette un’emozione; ma lo spazio proiettivo della mente e la possibilità di trasmettere la propria affettività sono frutto di un intenso lavoro che egli effettua su se stesso e sul proprio corpo. Inoltre, il lavoro di gruppo che precede lo spettacolo, determina un’atmosfera educativa, ricca di stimoli, che consente e favorisce l’introspezione, la discussione, il confronto e la crescita di ogni componente. Per tutti questi motivi è importante credere che lo spettacolo a termine dell’esperienza teatrale possa costituire una importante possibilità di crescita. Progetti di questo genere vengono sempre sviluppati con successo, non solo nei casi estremi di comunità protette o istituzioni chiuse, (comunità per tossicodipendenti, centri di prima e seconda accoglienza, carceri ecc.), ma anche nelle scuole, nei centri di formazione e orientamento per la dispersione scolastica, nelle cooperative, associazioni ecc..; la finalità è sempre la stessa, rivolta soprattutto alla regolazione di emozioni e allo sviluppo di adeguate competenze sociali e interattive. L'utilizzo del gioco delle arti sceniche motiva e coinvolge, favorendo un approccio meno gravoso nei confronti del disagio ma anzi considerandolo come una risorsa che dà la possibilità di conoscere un mondo vasto fatto di uomini e di individui attivi e protagonisti. L’operatore che si appresta ad affrontare percorsi di questo genere deve imparare ad utilizzare delle specifiche metodologie di intervento in grado di individuare nel teatro quel significato profondo di coinvolgimento emotivo e sociale insieme, il rapporto con il sé, con il proprio e gli altri personaggi, con il pubblico, attivo fruitore di un messaggio di concreta integrazione e inclusione. Deve saper diffondere, inoltre, un’educazione a un nuovo concetto di cultura che conduca a riconoscere nell’altro la differenza e non la diversità. Trovare un livello di comunicazione che faccia vivere a tutti l’esperienza del teatro in modo completo, secondo le regole di una vera Compagnia, dando rilievo alle possibilità di socializzazione del lavoro teatrale. La cultura del gruppo altro non è che il normale lavoro di una Compagnia teatrale, dove una serie di individui diversi, unici, irripetibili si sentono parte integrante di una comunità adoperandosi per il raggiungimento di un unico scopo: la creazione di uno spettacolo che sappia comunicare tante diverse realtà ed emozioni. Naturalmente, la sperimentazione di progetti che vedono il teatro come strumento privilegiato di prevenzione al disagio, essendo ancora nel campo della verifica, non è possibile dare una precisa catalogazione degli esiti di tali terapie sull’individuo; né tanto meno siamo in grado di affermare che esse agiscano secondo schemi precisi e riconducibili ad una ben definita logica terapeutica. Tali incertezze sono dovute maggiormente al fatto che la terapia creativa agisce sulla psiche dell’individuo, che, con il suo bagaglio di esperienze e con la sua unicità, costituisce una variabile poco schematizzabile. E’ però pensiero comune che il teatro insieme all’esercizio creativo possano agire in maniera positiva e costruttiva, riuscendo ad arrivare dove le medicine e le terapie tradizionali non arrivano. 44 La creatività è una dote insita nell’individuo, che attraverso di essa esplica un’istanza positiva: tale istanza permette di produrre una serie di azioni mirate all’estrinsecazione della migliore parte del proprio mondo interiore. Inoltre teatro e creatività, che possiedono una forte componente ludica, consentono di giocare con l’immaginazione, permettendo un distacco, pur temporaneo, dalla realtà di tutti i giorni. Tali considerazioni assumono maggiore significato se si riflette sulla tipologia di utenti a cui sono destinati tali percorsi. Attraverso l’impiego delle arti si interviene sulla capacità di ogni individuo di ricrearsi, nel senso più pregnante del termine; ricreare per sé una nuova condizione di espressione, non più legata al quotidiano, ma trasportata in una sorta di nuova dimensione, consente all’individuo di staccarsi dalla propria condizione, consapevole o inconsapevole, per riscoprirsi altro da sé. Ed è proprio nella forza che tale scoperta ha, che risiede il segreto di tali terapie. Tanto maggiore è la consapevolezza di cambiamento che l’individuo avverte, tanto maggiore sarà il beneficio che egli potrà trarre dalla terapia. L’impiego del teatro può costituire un valido supporto di carattere psicologico e immaginativo per l’individuo, portandolo a raggiungere non solo buoni risultati di fluenza, ma anche e soprattutto a gestire meglio i suoi rapporti con la società, che tanta parte ha nel suo complicato mondo interiore. Il teatro, inteso come esperienza ricreativa, può costituire una via di fuga dalla quotidianità dell’individuo: il teatro ha una forte componente ludica che non può e non deve essere trascurata e che può essere considerata una vera e propria chiave di volta del nostro ragionamento. Sarà quindi la dimensione di gioco dell’esperienza teatrale ad essere alla base di ogni progetto. L’impostazione di tale lavoro sceglie in primo luogo di non differenziare il programma didattico in base al disturbo, al disagio o all’handicap che caratterizza i partecipanti; in secondo luogo stimola in essi un lavoro fortemente creativo, basato sul cambio di ruolo attraverso l’introspezione, l’improvvisazione e l’interpretazione. L’attività si svolge in situazione di gruppo. Con la pratica di esercizi d’introspezione, l’attenzione dell’allievo è inizialmente concentrata sui propri vissuti, per poi svincolarsi da essi e trovare un’espressione creativa e fortemente comica, che serve a sdrammatizzare qualsiasi sia il problema. Attraverso l’improvvisazione vengono ricreate le situazioni tipo in cui l’allievo riscontra maggiori difficoltà a costituire un rapporto; tali difficoltà vengono riproposte con leggerezza, andando ad individuarne la componente comica che nel quotidiano non viene mai osservata. Nella fase interpretativa, l’allievo può sperimentare il cambio di ruolo, riuscendo ad essere altro da sé e costituendo, nella propria interiorità, l’esperienza di questa diversità. Proprio in tale possibilità e nella capacità dell’individuo di trasferirla nella vita quotidiana, risiede la valenza dell’intervento terapeutico del teatro. Nell’esperienza terapeutica, l’attività teatrale costituisce un elemento di valore aggiunto nell’ambito dell’acquisizione dell’autostima. Il teatro è proposto come attività aggiuntiva senza dichiarati scopi terapeutici e ha come finalità la messa in scena di uno spettacolo teatrale. Il teatro è assunto in forma ludica e creativa senza differenziazioni di massima. La docenza dei corsi è affidata ad un addetto a lavori, un regista teatrale, che gestisce in autonomia il programma didattico, in assenza del terapeuta. Il programma didattico prevede lo studio delle materie tradizionali con particolare attenzione all’interpretazione; lo studio del copione, infatti, costituisce una parte importante del lavoro, in quanto tutti i partecipanti imparano le parti di tutti i personaggi, al fine di sperimentare ruoli diversi, per poi personalizzare quello che porteranno in scena. Il lavoro più importante è quello che si va a svolgere sul vissuto del soggetto, nella volontà di condurlo, attraverso la gratificazione del risultato, ad una coscienza delle proprie capacità e all’acquisizione di una profonda autostima. 45 In sintesi…. Tutti gli interventi sono realizzati in una dimensione di gruppo, al fine di promuovere una buona socialità e condivisione. Il programma didattico e l’impostazione tecnica non prevedono elementi di differenziazione rispetto ai corsi tradizionali di teatro. Ampio spazio è dato alla parte creativa dell’individuo, stimolandolo a mettere in campo immaginazione e fantasia. La comicità e il gioco sono utilizzati per sdrammatizzare. Grande valore è attribuito alla rappresentazione teatrale, come momento di valorizzazione dell’individuo. Attraverso il teatro viene compiuto un lavoro importante sulla personalità dell’allievo, che impara a guardarsi con occhi diversi. L’utilizzo delle tradizionali tecniche drammatiche serve altresì a correggere difetti e problematiche relative al linguaggio, a migliorare il governo del corpo in movimento, la sensorialità, l’arricchimento culturale, l’allenamento mnemonico. Non va dimenticato, però, che ogni intervento deve necessariamente essere effettuato con professionalità ed attenzione, al fine di interagire in maniera corretta con gli individui e focalizzare, insieme a loro, quali sono gli obiettivi della sperimentazione. Bibliografia Bartolucci G. (a cura di), Il teatro dei ragazzi, Firenze, Guaraldi, 1972 Bernardi C., La creazione scenica, in BERNARDI C., Il teatro sociale. L'arte tra disagio e cura, Roma, Carocci, 2004 Dolto F., I problemi degli adolescenti, Milano, Longanesi & C., 1991 GIUS E. ZAMBERINI A. TESTONI I., Psicologia sociale dei poteri: formazione della personalità e processi socio-riabilitativi, Studium educationis, n. 1, Rivista per la formazione nelle professioni educative, Trento, Erickson, 2000 Guccini G. (a cura di), La bottega dei narratori. Storie, laboratori e metodi di: Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino editore, 2005 Liverta Sempio O. Gonfalonieri E. Scaratti G., L’abbandono scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi, Milano, Cortina, 1999 Maggiolini A., Mal di scuola. ragioni affettive dell’insuccesso scolastico, Milano, Unicopli, 1990 Mantegazza R., L’educattore. Manuale di formazione teatrale per educatori, Molfetta-Bari, La Meridiana, 2006 Rossi Ghiglione A., Drammaturgia e teatro sociale. Fondamenti storici e linee metodologiche della scrittura scenica nel lavoro teatrale di comunità, in PONTREMOLI A., Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale, Torino, Utet Libreria, 2005 Rossi Ghiglione A., Pagliarino A. (a cura di), Fare teatro sociale. Esercizi e progetti, Roma, Dino Audino, in corso di pubblicazione Polacek K., Locus of control: concetti, risultati e misurazione, “Orientamenti pedagogici”, vol. 27, O. S., Firenze, 1980 Pilotto S., La drammaturgia nel teatro della scuola, Milano, Led, 2004 46 SEZIONE 2 DIDATTICA TEATRALE E TECNICHE DEL METODO WRITING THEATRE 47 2. AREE DELLA FORMAZIONE TEATRALE 2.1 Mappa 2. Aree della formazione teatrale Contenuti: 2.4 Interpretazione, 2.5 Movimento, 2.6 Voce, 2.7 Drammaturgia, 2.8 Regia, 2.9 Scenografia e Costume, 2.10 Tecnologia dello spettacolo 3. Tecniche sceniche e arte terapia AC Tecniche di Laboratorio 4. Tecniche di narrazione 5. Lezioni di scrittura Lo Storytelling AC AC Come diventare uno storyteller 48 Il Linguaggio e l'Autore teatrale 3 ore 2.2 OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Il Teatro è il gioco più bello del mondo perché ognuno di noi può essere altro da sé con la convenzionale accettazione di tutti, colleghi e pubblico. È come quando da piccoli giocavamo al dottore o a guardie e ladri. Con la differenza che quando quell’innocente gioco diventa il proprio lavoro, o meglio la propria vita, riusciamo anche a farci pagare (non sempre…). La battuta è solo un pretesto per spiegare meglio che il Teatro può diventare una ragione esistenziale forse più di un qualunque altro lavoro. Dicevamo il Teatro come gioco. Non è un caso, infatti, che i più bravi “attori” del mondo siano i bambini. Con la loro innocente spregiudicatezza, con la loro totale assenza di sovrastrutture psicologiche o sociali, essi riescono a “credere” a ciò che fanno o dicono. La verità dell’interpretazione è pura, ed è dentro di essi senza che ci sia bisogno di qualcuno che scriva loro le battute. L’obiettivo quindi di questo modulo è senz’altro quello di trasferire una serie di conoscenze a chi debba imparare a scrivere una storia, qualunque essa sia, recuperando quella creatività innocente che crescendo chiunque di noi ha stipato nell’angolo più recondito della propria anima. Dunque presentazione e successiva analisi degli elementi tecnici, emozionali e culturali che formano la struttura portante dell’evento teatrale al fine di fornire all’allievo drammaturgo le conoscenze basilari che gli consentiranno la scrittura di un testo; tragitto sintetico e guidato attraverso i vari passaggi creativi dell’Opera teatrale fornito come bagaglio di conoscenza generale e che consenta l’assimilazione tecnica dello scrivere drammatico; stimolo alla consapevolezza delle proprie potenzialità espressive con brevi esercizi a tema. Il Teatro, in quanto gioco, è socialità, comunione spirituale e terapia. Collegando quel famoso bambino che è in noi alla conoscenza delle tecniche e delle specifiche teatrali, lo scopo è quello di mettere su carta il momento ludico e saperlo rendere fruibile per chiunque voglia cimentarsi con esso. Attraverso una serie di esercizi di scrittura, anche i più elementari, l’allievo prenderà dimestichezza con la capacità di trasferire il proprio immaginario su carta trasformandolo in qualcosa di “drammaturgico”. La fascia di età, unitamente a quella socio-culturale, degli allievi cui si indirizza il writing theatre consente di trovare ancora qualcosa di non così nascosto nella loro anima. Raccontare se stessi, innanzitutto. La propria famiglia, i propri amori e i propri sogni. Raccontare un fatto specifico della propria vita (ma anche di quella di chiunque altro) e saperlo rendere “drammatico” apre le porte a rari momenti emozionali. Per riuscirci può essere utile sapere cosa vuol dire stare su un palcoscenico. …Magari anche solo raccontando una barzelletta. 2.3 INTRODUZIONE In un corso di writing theatre, indirizzato per lo più a chi possa avvalersi della scrittura come forma terapeutica e di apprendimento, la conoscenza, nel più vasto àmbito della didattica teatrale, degli elementi su cui si fonda il Teatro è il primo passo da compiere per ottenere validi risultati. Nello specifico, scrivere di Teatro non significa solo immaginare una storia, fatto già di per sé creativo e stimolante, ma anche mettere su carta qualcosa che altri rappresenteranno. È necessario, quindi, partire dalle basi che reggono l’intero impianto dell’evento teatrale, conoscerle, farle proprie e utilizzarle a tale scopo. Si tratta di basi tecniche e specifiche, conoscendo le quali la scrittura anche di una sola battuta assume una valenza fortemente drammaturgica. È chiaro, non si chiede a chi debba scrivere una scena di una commedia, di una tragedia o di qualsiasi altra forma teatrale di essere in grado anche di recitarla o di farne la regìa. Peraltro anche in modo credibile. È vero, molti commediografi o drammaturghi sono stati o sono oggi essi stessi attori (Molière, Shakespeare, Eduardo De Filippo). Ma questa non è affatto una conditio sine qua non per saper scrivere di Teatro. Ma sapere come usare il proprio corpo o la propria voce, avere consapevolezza dello spazio scenico e conoscere l’elemento emozionale e spirituale del momento scenico è 49 fondamentale per chi poi voglia scrivere di Teatro. Più avanti tratteremo, in modo il più possibile esemplificativo, di quello che viene comunemente chiamato “il bagaglio dell’attore”, ovverosia proprio di quelle basi cui accennavamo sopra. L’interpretazione come talento, emozione e gusto stilistico; il movimento, verità dell’azione scenica; la voce, strumento dell’interprete; la drammaturgia, incontro con l’Arte; e la regìa come momento creativo sono tutti elementi che chi si accinge a scrivere di Teatro incontrerà sul suo cammino e che dovrà conoscere e riconoscere. 2.4 INTERPRETAZIONE 2.4.1 L’interprete (attore, musicista, danzatore, cantante), medium tre Autore e spettatore L’Interprete è un tramite, un traghettatore sul fiume della Poesia. Egli trasporta l’emozione dell’Artista creatore, dalla sponda dell’immaginario a quella del realizzato, del concreto, della rappresentazione. Sul palcoscenico, ma anche in un qualunque altro luogo deputato all’esecuzione, l’Interprete dà vita all’idea originaria di chi l’ha pensata. L’Interprete è egli stesso “artista”, laddove il suo specifico stile, le sue psicofisiche peculiarità, lo rendono alto, poetico, toccante. Il grande Interprete è colui che fa sua l’idea originaria dell’Autore e la arricchisce con il proprio io. Il pubblico applaude chi riesce a far risuonare le corde più recondite della sua anima e che trasferisce il momento emozionale dalla sfera del narrato a quella del vissuto. L’Interprete è dunque la principale voce dell’Autore, ma anche la più variabile. In qualsivoglia campo dell’Arte, ogni Interprete ha dato e continua a dare la sua personale chiave di lettura dell’Opera o del Personaggio. Si tratti di una partitura musicale o di un eroe tragico, l’Interprete trasmette a chi lo ascolta anche molto di se stesso. Ecco perché un Amleto recitato da un attore A può essere molto diverso, in peggio o in meglio, da quello recitato da un attore B. Perché l’uomo-attore è egli stesso, banale dirlo, qualcuno e qualcosa di diverso da chiunque altro e porta in scena con sé, perciò, il proprio mondo e la propria vita. Il grande Interprete è quello che riesce a far trasalire il pubblico di sublime emozione. Ogni spettatore pensa: “Sì, è vero, è capitato anche a me” oppure “Mi sembra di vedere mio padre” o meglio ancora “Ma fa sul serio o sta recitando?”. Tanto che talvolta accade un paradosso: nel parlare comune l’Interprete oscura l’Autore. Nel caso di Herbert von Karajan ci si riferiva alle sue direzioni d’orchestra come se le avesse composte lui: “Sono andato all’auditorium ad ascoltare la Nona di Karajan”. Così come Lo Schiaccianoci diventa di Nurejev o l’Otello di Gassman e Randone. Insomma per assurdo Beethoven, Tchaikovsky e Shakespeare passano quasi in secondo piano… ( vol. II - E2.1 – Esercizi di interpretazione) 2.4.2 Esegesi della parola scritta In accordo con quanto enunciato sul lavoro dell’Interprete, lo studio e l’interpretazione di un testo è parte integrante della sua attività. Va da sé che niente di quanto creato dall’Autore dev’essere rappresentato seguendo canoni precostituiti. Anzi, l’analisi critica di un testo, anche alla luce delle personali caratteristiche sociali, politiche e culturali di chi lo metterà in scena, avverrà in maniera differenziata e soggettiva. I grandi classici “rivisitati”, il Teatro politico, le avanguardie sono state di volta in volta, nella storia del Teatro, pietre miliari nell’evoluzione del momento teatrale. Nella rappresentazione scenica di un testo di qualsivoglia natura, ogni Interprete, trasferendo se stesso come abbiamo già detto, dentro l’Opera, la renderà diversa da qualunque altra, la interpreterà, appunto, in maniera soggettiva. Anche nella rappresentazione di una semplice favola, genere drammaturgico per eccellenza che affonda le sue radici nel Mito e nella Storia, una approfondita analisi del testo consente all’Interprete di plasmare il proprio punto di vista che poi, trasferito sul palcoscenico, renderà il suo momento narrato unico e personalissimo. Ecco perché l’interpretazione di uno scritto, intesa anche e soprattutto come personale rilettura critica, dà luogo a differenti mise en scene, lavoro, questo, ampiamente più sviluppato dallo specifico compito del regista, egli stesso Interprete dell’Opera, che vedremo più avanti. 50 2.5 MOVIMENTO Il corpo e lo spazio. Ma anche il gesto, la parola e la pausa. Tutto sulla scena è movimento. Anche l’immobilità dà movimento all’azione scenica, così come la pausa lo dà alla battuta. La consapevolezza del proprio corpo sulla scena consente all’interprete di “essere” e non soltanto di apparire. L’Interprete si muove nello spazio scenico come se non ci fossero le limitazioni imposte dalla scenografia o le indicazioni interpretative dettate dalla regia, e questo trasferisce l’azione nel verosimile, nell’ineffabile mistero della finzione. Nelle scuole di Teatro si inizia proprio da qui, dal movimento. Si attraversa la scena tagliando il palcoscenico in diagonale. La richiesta dell’insegnante è di camminare con naturalezza, senza rigidità o apprensione. Bisogna attraversare la scena come andando al supermercato o percorrendo un corridoio. Naturalmente. Senza fretta, né troppo lentamente, camminando con la propria andatura abituale. Ebbene, sembra che ci sia stato chi, eseguendo questo semplicissimo esercizio, sia addirittura inciampato sui propri piedi! Cadendo quasi. La spiegazione è di psicologia spicciola ed è piuttosto banale. Se qualcuno ci osserva perdiamo naturalezza. E in tal caso ci riescono innaturali i gesti più spontanei. Quelli che altrimenti compiremmo senza neanche accorgercene, come appunto camminare. Il movimento è un elemento fondante della rappresentazione scenica. È l’estensione esteriore del pensiero interiore, è l’onda lunga dell’immaginazione che si trasforma in realtà. Senza la sua caratteristica zoppìa, unita alla sua orrenda deformità, Riccardo III non sarebbe così efferato. E il movimento, ancor prima dell’Interprete, è reso dall’Autore con ciò che dice. Il movimento, prima ancora di quello rappresentato, è quello pensato. Accompagnato dall’espressione di chi lo interpreta, il Personaggio prende movimento dalle parole scritte. Terzine, sestine, rime baciate, endecasillabi o versi sciolti sono la prima palestra in cui il movimento si allena prima di eruttare come lava dal vulcano dell’Interprete e trasferirsi sul palcoscenico. Ma non esiste solo il movimento fisico. C’è anche quello emotivo. L’Interprete si muove all’interno di uno spazio parallelo a quello dell’allestimento scenico, rappresentato dalle emozioni e dai sentimenti descritti dall’Autore. Ecco perché anche i silenzi, le pause, i momenti sospesi, sono movimento. Perché dietro di essi si legge il pensiero che li sostiene e che li riempie di significato intrinseco. Quell’attimo di vuoto musicale che un direttore d’orchestra impone ai suoi musicisti nel tenere una pausa un po’ più a lungo; quello staccare le mani dalla tastiera per un tempo breve ma lunghissimo che un pianista vive durante la sua esecuzione; quel silenzio inatteso durante il monologo di un attore; quello stare sulle punte durante un relevè che fa una ballerina rimanendo con le braccia tese verso il cielo. Sono tutti “movimenti” dell’azione scenica, peraltro imposti dal personale stile di chi li interpreta. Ecco, quindi, che movimento e interpretazione vanno a braccetto, così come vedremo accadere anche con gli altri argomenti specifici di questo modulo. Perché il momento teatrale è un insieme di tutti questi elementi, incatenati tra di essi in modo imprescindibile. ( vol. II - E2.2 – Esercizi di movimento) 2.6 VOCE “La voce dell'uomo è l’apologia della musica” (Friedrich Nietzsche). È lo strumento primordiale. La voce è la sublime lira sulle cui corde l’Interprete teatrale si destreggia, all’occorrenza con perizia e virtuosismo. Grazie alla voce l’Interprete comunica a chi lo sta ascoltando, gli trasferisce la Poesia e le emozioni che scaturiscono da essa. È una delle frecce nella faretra dell’attore o del cantante, una freccia acuminata che si conficca nel cuore dello spettatore. Già dall’antichità i primi poemi epici (l’Iliade o l’Odissea) nacquero solo come racconti orali per poi, solo in un secondo tempo, trasformarsi in qualcosa di scritto. Ancora oggi nelle società tribali il racconto orale rappresenta la primaria forma di cultura in cui convergono e si tramandano tradizioni, usi e religione. Dunque la voce, proprio come uno strumento musicale ben accordato, può far vibrare di sentimento l’anima dello spettatore portandogli la parola dell’Autore. Il movimento e l’interpretazione di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti 51 ben si sposano con la voce di cui sono fedeli servitori. Una buona conoscenza delle incredibili possibilità interpretative dell’uso della voce, consentono una notevole padronanza scenica mirata alla buona riuscita dell’evento drammaturgico. Ma la voce è anche “un processo naturale, regolato dall’udito e animato da attività fisiche, psichiche e volitive. (…) È il prodotto di due forze fra loro antagoniste: una data dalla colonna d’aria respiratoria diretta dal basso verso l’alto, e l’altra costituita dalle corde vocali che nei loro movimenti di adduzione e di tensione oppongono resistenza alla fuoriuscita della colonna respiratoria.” (R. Maragliano Mori). L’utilizzo, quindi, della voce è un fatto prettamente tecnico che sottintende un tirocinio e una preparazione specifica, fatta di costante abnegazione, cura ed esercizi. E chi scrive di Teatro, ma ancor di più chi sta imparando a farlo, deve oltretutto sapere che una battuta pensata o articolata nella sua struttura narrativa in un certo modo, avrà un effetto tanto più incisivo quanto più consentirà all’Interprete di “dirla” nel modo giusto. Ecco quindi che drammaturgia e vocalità percorrono strade parallele: la parola è compresa, soprattutto nel suo intrinseco significato poetico, quando viene “detta” come l’ha pensata l’Autore. Non è un caso che la maggior parte degli autori di Teatro, del passato o contemporanei, utilizzi la didascalia ad inizio frase per spiegare all’Interprete come dire la battuta, quale registri e quali intenzioni usare. Ecco dunque che a chi si accinge a scrivere un testo vengono in soccorso degli amici fidati indissolubilmente legati alla voce. Elementi molto specifici connessi all’uso della voce: la dizione, l’articolazione e la respirazione. Tutti utili a chi debba enunciare un testo o cantare una canzone. Ma anche, come nel caso della sola respirazione, indispensabili, per esempio, all’Interprete musicista che debba suonare il suo strumento o all’Interprete ballerino che esegua un particolare passo. Si dice infatti che un musicista “respiri” insieme al suono del suo strumento, come nel caso di un pianista o di un violinista, e che un ballerino “respiri” la musica che sta danzando. L’allievo che sta imparando a scrivere per il Teatro deve perciò saper scegliere le parole adatte alle sue intenzioni drammaturgiche sì, ma deve anche sapere come si possono dire, o se sia preferibile usare una parola piuttosto che un’altra. È un po’ ciò che accade nelle partiture musicali delle opere liriche. L’Autore del libretto sa che in quel preciso punto l’Interprete cantante dovrà prendere un fiato o che su quel movimento “pianissimo” dovrà dire una certa parola. Egli scriverà dunque un testo che sia possibile cantare, ma che al contempo sia comprensibile al pubblico e attinente al momento emozionale della narrazione drammatica. ( vol. II - E2.3 – Esercizi sulla voce) 2.7 DRAMMATURGIA La struttura del racconto scritto e narrato è articolata secondo parametri i più variabili. Questo argomento, di tutti quelli descritti finora in questo modulo, è forse quello più specifico e inerente il corso di writing theatre cui la presente sezione fa riferimento. Senz’altro una buona ed esaustiva definizione di drammaturgia si può facilmente trovare in qualunque vocabolario, ma qui intendiamo trovarne il significato più intrinseco, quello meno formale. Il compito non è facile, soprattutto perché la parola drammaturgia evoca un che di alto, serioso, importante, quasi sacro. Non necessariamente e non solo. In realtà è drammaturgia tutto ciò che, scritto attraverso una costruzione articolata secondo parametri ben precisi, ne permetta la rappresentazione. Una poesia non è di per sé drammaturgica finchè non la trasportiamo sulla scena e non la comunichiamo a qualcuno; ciò vale anche per un romanzo o per un breve racconto. Diciamo dunque che la drammaturgia, di tutte le forme letterarie, è quella che necessita di un qualcosa in più per essere compiuta: di un allestimento scenico. Una qualunque Opera di un autore teatrale, seppur pensata per la scena e quindi ricca di parola, musica, scene, costumi, movimento e ritmo, rimane ferma su carta se non le si dà una rappresentazione scenica. In buona sostanza tutto ciò che viene scritto può essere drammaturgia, purchè contenga in sé la possibilità dell’esecuzione scenica. Questo vale anche per un brano rap o per uno stralcio del dialogo di una chat line, se possono essere trasformati in qualcosa di rappresentabile. Uno dei tanti 52 esercizi di improvvisazione che si eseguono nelle scuole di Teatro è proprio quello di “mettere in scena” qualsiasi cosa, anche una canzone o un dialogo rubato al bar. Rendere dunque “drammaturgico” anche qualcosa pensato per altri scopi. Ma quali sono i parametri o, diciamo così, le regole (anche se non codificate) da applicare per scrivere qualcosa di drammaturgico? Innanzitutto l’idea, quella che Aristotele chiamava “il tema”. La descrizione che fa l’Autore di essa o di parte di essa accompagna lo spettatore nello svolgersi della trama, e intesse l’intero sviluppo del racconto drammatico. Ecco dunque la scelta di molti Autori di affrontare argomenti comuni ma trattati con Poesia: i sentimenti e le passioni dell’Uomo (l’amore innanzitutto, ma anche l’odio, la paura, la gelosia, ecc.), le questioni politiche e religiose, il potere e via dicendo. Ma anche contenuti assolutamente originali e imprevedibili che spiazzano le aspettative dello spettatore coinvolgendolo in un momento spazio-temporale inatteso e accattivante (per fare qualche esempio La Metamorfosi di Kafka, I Sei Personaggi in cerca d’Autore di Pirandello o Il Calapranzi di Pinter, ma nella storia della drammaturgia ve ne sono innumerevoli). Poi il ritmo. Quando si pensa qualcosa per il Teatro, bisogna sempre ricordare che la rappresentazione ha dei tempi da rispettare molto precisi cui è necessario attenersi per tenere viva l’attenzione di chi ascolta. Un film tratto da un romanzo, per fare un esempio, ha un ritmo narrativo decisamente diverso da quello del libro scritto. Certo, il Cinema è un linguaggio diverso: l’Amleto di Zeffirelli con Mel Gibson durava un paio d’ore. Il testo di Shakespeare da cui è tratto, se rappresentato integralmente, può arrivare a durare cinque ore. Ma proprio per lo stesso motivo molti registi preferiscono eseguire tagli al copione originale dell’Autore per lasciare viva l’attenzione del pubblico sul contenuto essenziale dell’Opera. La convenzione dell’azione scenica vuole che si racconti una vicenda, che a volte attraversa uno spazio temporale molto lungo, nell’arco di qualche ora. È necessario dunque che l’Autore descriva l’intera vicenda utilizzando accorgimenti narrativi che la sintetizzino senza snaturarla. Non dimentichiamo mai, poi, che uno dei personaggi della rappresentazione è il pubblico stesso che vi assiste. Esso è chiamato dall’Autore, con le sue parole, a partecipare emozionalmente all’azione ed è perciò necessario fornirgli tutti gli elementi necessari perché ciò accada. Così anche la musica e la scenografia danno ritmo all’azione drammaturgica. La musica accompagna e sottolinea i vari momenti della trama diventando essa stessa personaggio. Una specie di Virgilio sonoro che aiuta, sostiene e conduce il pubblico nello svolgersi dell’azione. La scenografia fa “vivere” il pubblico dentro la storia cui assiste, consentendogli con più agio di accettare la convenzione della finzione. Ancora, i personaggi. Colonna portante della trama, i personaggi devono avere connotazioni ben precise già dall’inizio del dramma. È compito dell’Autore perciò fornire al pubblico fin dalle prime scene gli elementi caratteristici di ognuno di essi, disegnandone da subito i tratti distintivi al fine di coinvolgere lo spettatore e consentendogli di scegliere “da quale parte stare” o per chi “fare il tifo”, per usare un’espressione grossolana. Tecniche ed elementi di drammaturgia sono comunque più ampiamente trattati in questo stesso progetto nel modulo 5.1 – Le fasi della creazione testuale. ( vol. II - E2.4 – Esercizi di drammaturgia) 2.8 REGIA L’intero impianto teatrale è in mano al regista che, attraverso l’analisi critica del testo da mettere in scena e a una sua successiva personale interpretazione dettata dal suo estro creativo e dalle sue cognizioni specifiche, “crea” lo spettacolo. Ovverosia aggiunge spettacolarità alla parola scritta. La regia è un insieme molto articolato di elementi tecnici, emozionali e di contenuto che “fanno” lo spettacolo teatrale. È forse il lavoro più creativo, insieme a quello iniziale dell’Autore, di tutta l’operazione di allestimento. Esso si avvale del sostanziale sostegno e della costante collaborazione dell’illuminotecnica, della 53 scenografia, della musica, della coreografia. In buona sostanza di tutte quelle aree dell’allestimento scenico che arricchiscono e completano lo spettacolo propriamente detto. Anche queste aree hanno in sé molto di creativo, ma tutte sono al servizio dell’idea del regista che ne stabilisce i confini entro cui muoversi, dando quindi la sua personale interpretazione del testo. Per questo motivo di uno stesso testo teatrale si possono realizzare allestimenti molto diversi tra loro, ognuno con tratti caratteristici e gusto scenico propri. Il lavoro del regista ruota sostanzialmente su due cardini, uno dei quali è il pubblico. Il regista mostra al pubblico la propria personale lettura dell’Opera, il proprio gusto stilistico e critico e lo accompagna per mano durante la rappresentazione. Non solo. Durante il suo lavoro di allestimento il regista si mette nei panni dello spettatore, a volte interpretandone i gusti e le tendenze, altre tradendo ogni possibile aspettativa offrendone una lettura interpretativa originale e personale, ma sempre considerando lo spettatore come un elemento dello spettacolo. In questo senso si può definire la regia come “l’occhio creativo del pubblico”, in quanto realizza praticamente ciò che il pubblico immagina solo. O a volte, invece, realizza ciò che il pubblico non ha neanche lontanamente pensato. Per questo motivo un bravo regista deve sempre avere rispetto dello spettatore cercando il più possibile di farlo “entrare” nello spettacolo e di farlo emozionare. Un allestimento poco comprensibile, una lettura non fluida del testo e soprattutto una lettura troppo decontestualizzata di esso non favoriscono la comprensione di chi assiste allo spettacolo. E un pubblico cui viene a mancare la comprensione di ciò che vede è un pubblico insoddisfatto, deluso. In una parola tradito. L’onestà del regista verso lo spettatore è condizione essenziale nella realizzazione dello spettacolo. Per rispettare questa condizione è sufficiente tenere a mente che il pubblico ha un’anima, sentimenti, gusti ed emozioni da stimolare. La percezione che il pubblico avrà dello spettacolo sarà tanto più completa quanto più il lavoro del regista sarà riuscito a far vibrare le corde della sua sensibilità. Questo risultato lo si può ottenere in mille modi, i più contrastanti tra loro. È vero, abbiamo detto che musica, danza, scene, luci e costumi aiutano il regista a “rappresentare” lo spettacolo. Questo però non significa che senza questi elementi, o senza qualcuno di essi, non si possa realizzare lo scopo che egli si è prefissato. Spettacoli memorabili hanno avuto scene spoglie o luci le più essenziali. Eppure hanno fatto vibrare il pubblico di vera emozione. Questo perché quegli elementi sono stati usati per la loro essenzialità funzionale: una luce che illuminava in un certo modo un punto della scena, un brano musicale suonato in un preciso momento, una battuta detta dall’attore in un dato modo hanno comunque “fatto” lo spettacolo. Ecco dunque la necessità da parte del regista di conoscere le potenzialità espressive e le peculiarità degli elementi tecnici di cui si avvale. Un breve cenno esplicativo dei quali verrà trattato più avanti. L’altro cardine su cui è fondato il lavoro del regista è l’attore. Il suo rapporto con l’elemento umano di cui dispone in scena è delicato e altrettanto sostanziale. L’onestà verso il pubblico di cui si parlava prima è la stessa che avrà anche verso di essi. L’attore in scena è l’interprete non solo del testo dell’Autore ma anche del punto vista e del gusto stilistico che il regista ha di esso. Il regista quindi dovrà avere un rapporto dialettico molto stretto con i suoi attori e spiegare loro la sua idea registica in modo completo ed esaustivo per farli “entrare” dentro di essa. Dovrà altresì sforzarsi di comprendere la natura umana di ogni suo singolo attore, nonché conoscerne le caratteristiche interpretative. Non è un compito facile. Ogni attore-interprete è innanzitutto un essere umano con le proprie peculiarità specifiche che, se valorizzate e sfruttate al meglio da parte di chi si occupa della messinscena, bene si accorderanno con l’idea e con la migliore realizzazione di essa. Il regista deve essere in fondo egli stesso attore. Deve sapere come dire una certa battuta per spiegarla al meglio ai suoi attori affinché essi possano interpretare lo spettacolo secondo le sue indicazioni, ovvero dare il proprio contributo stilistico alla pièce aggiungendo quanto di tecnico ed emozionale hanno dentro se stessi. Il rapporto con gli attori è dunque per il regista un 54 appuntamento pressoché fondamentale per la buona riuscita dello spettacolo secondo le sue intenzioni registiche. Un attore che ben si accorda col lavoro del suo regista lo aiuta a raggiungere presto e meglio il suo scopo. Un attore che, al contrario, entra in un conflitto stilistico-interpretativo con la regia o che non ne riesce a comprendere l’idea, per suoi stessi limiti o per quelli del regista, non riuscirà a renderla chiara sul palcoscenico. In conclusione si può ben dire che il regista, oltre ad essere il coordinatore dell’intero evento teatrale, è un intimo conoscitore della natura psicologica degli attori e una guida per il loro compito, oltreché un sapiente tecnico con solide basi di scenografia, illuminotecnica e sartoria. ( vol. II - E2.5 – Esercizi di regia) 2.9 SCENOGRAFIA E COSTUMI Come gli attori, anche lo scenografo e il costumista hanno un rapporto diretto e continuo con la regia. In accordo con il regista scelgono e realizzano le scene e i costumi, elementi portanti della rappresentazione scenica che esaltano l’aspetto visivo dello spettacolo sollecitando il coinvolgimento del pubblico. Il punto di partenza del loro lavoro è come sempre l’idea che il regista ha del testo da rappresentare. Sulla base di questa, di comune accordo col regista, essi decidono come rendere efficace l’ambientazione e i costumi che gli attori vestiranno in scena. Abbiamo già detto che di una stessa Opera se ne possono dare infinite letture. Se quindi il regista deciderà di mettere in scena un “Romeo e Giulietta” di Shakespeare ambientato in epoca moderna, lo scenografo immaginerà, per fare un esempio, il balcone di Giulietta in un anonimo condominio di periferia, e il costumista deciderà di vestire i due innamorati come ragazzi dei nostri giorni. È un po’ ciò che è fu realizzato nel 1996 al cinema col film interpretato da Leonardo Di Caprio. Al contrario, sempre per restare in ambito cinematografico, nel 1966 lo stesso testo scespiriano fu allestito da Franco Zeffirelli seguendo l’ambientazione classica immaginata dall’Autore. Un’approfondita conoscenza della Storia dell’Arte e di Architettura aiuterà senz’altro scenografo e costumista a realizzare l’idea che il regista ha dello spettacolo. Fin dall’antichità le scene e i costumi hanno rappresentato fattori fondamentali dell’arte drammatica. Si pensi per esempio a quanta importanza aveva nel teatro greco o romano l’uso della maschera o i coturni. La prima, per le sue caratteristiche drammaturgiche (raccontava con la sua espressione il “carattere” o lo stato d’animo del personaggio) e tecniche (aveva la funzione di amplificare il suono della voce dell’attore perché il pubblico ne potesse udire distintamente ogni parola), era un elemento imprescindibile alla rappresentazione scenica. Tanto che essa ha attraversato il corso dei secoli fino ad arrivare ai giorni nostri, anche se il suo uso è ormai limitato agli spettacoli di carattere allegorico o a quei classici in cui era stata prevista dall’Autore. Il coturno, invece, una calzatura dotata di un rialzo spropositato, dava all’attore che la indossava in scena un’immagine gigantesca che ne esaltava il ruolo e l’importanza. Ancora oggi ovunque nel mondo nelle feste di carattere religioso e non, i saltimbanchi o i giocolieri, abbigliati in maniera spesso grottesca, si esibiscono sopra alti trampoli o, come nel caso dei clowns, con ai piedi scarpe gigantesche. I costumi sono una specie di seconda pelle che “racconta” il personaggio dando allo spettatore le indicazioni sociali, psicologiche e narrative che lo riguardano. Hanno dunque un valore semantico oltreché sostanziale. Ecco perché il lavoro del costumista è estremamente specialistico e si sorregge su solide basi artistiche e su una approfondita conoscenza della Storia dell’Arte e del Costume. I costumi di scena sono per lo più creazioni originali, pezzi unici appositamente realizzati per un allestimento. Vere e proprie opere d’arte, molte delle quali conservate nei vari musei dei teatri lirici o di prosa di tutto il mondo. Le scene, poi, sono il “luogo” dove si svolge l’azione, presentando al pubblico e raccontandogli, spesso prima delle parole, la storia cui assisterà. All’alzarsi del sipario l’occhio dello spettatore è prima di ogni altra cosa attratto dal luogo che vi è 55 rappresentato. La scena è forse il primo contatto narrativo col pubblico, il primo “attore” che lo spettatore vede sul palcoscenico. Anche la scenografia di uno spettacolo è il prodotto della creatività di chi è chiamato a realizzarla, e quindi richiama i suoi gusti e il suo stile. Scene spoglie, essenziali o molto ricche, ingombre di elementi scenici; dai colori vivaci, a volte volutamente eccessivi, oppure scure e dalle tinte smorte; con sviluppi architettonici e planimetrici articolati, o semplici e lineari; arricchite da meccanismi complessi, o prive di qualunque complicazione. Tutte devono essere funzionali all’allestimento per il quale sono state pensate e tutte devono andare d’accordo con l’idea. Lo stesso dicasi per i costumi che, aggiungiamo a quanto detto prima, se vogliamo sono un’estensione e un complemento delle scene. Scenografo e costumista, insomma, al servizio dello spettacolo e dell’idea registica. Ma anche a servizio degli attori che devono potersi trovare a loro agio sia in scena che nei costumi dei personaggi che interpretano. Ma soprattutto, anche in questo caso, credibili al servizio del pubblico cui si rivolgono. 2.10 TECNOLOGIA DELLO SPETTACOLO Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia, in tutte le sue forme, è parte integrante della nostra vita quotidiana. Non poteva restarne esente la rappresentazione scenica che si avvale di essa per la realizzazione di tutto ciò che riguarda l’allestimento. La rappresentazione è di per se stessa spettacolare in quanto sollecita l’elemento visivo che proprio grazie alla tecnologia viene stimolato ed esaltato. Videoproiezioni, laser, luci, effetti speciali. Tutto ciò fa da supporto “attivo” alla narrazione drammaturgica e alla sua rappresentazione. Tutto inizia, come sempre, dall’antichità. Già nel teatro greco l’uso di macchinari spesso complessi forniti di carrucole e paranchi consentivano l’utilizzo di uno dei cardini drammaturgici sui cui ruotava il Teatro di quell’epoca: il deus ex machina. La funzione risolutiva della vicenda che esso aveva, consentendo l’intervento formale della divinità a sbrogliare e a concludere la trama, gli era in gran parte consentita proprio dalla tecnologia del tempo: grazie a una pedana, a volte un imbraco di tela che sorreggeva l’attore che impersonava Giove, la “apparizione” del dio era il momento più spettacolare della rappresentazione teatrale. Quindi la tecnologia veniva usata per un doppio scopo: drammaturgico e spettacolare-visivo. In fondo le cose non sono poi tanto cambiate. Anche oggi la tecnologia viene utilizzata con lo stesso fine, ed è la stessa, seppure più ampliata e complessa, di cui si avvalevano gli antichi. Questo vale anche per gli effetti speciali. Oggi possiamo disporre di impianti di riproduzione sonora e di amplificazione molto sofisticati. Ma gli antichi greci non erano da meno. Per riprodurre il suono dei tuoni, tanto per fare un esempio, essi agitavano in quinta dei grandi fogli di sottile lamiera che creavano esattamente il rumore di un temporale. La pioggia veniva ricreata ruotando con una manovella un bussolotto che conteneva ghiaia. Queste due “macchine teatrali” le abbiamo usate anche noi fino a pochi decenni orsono, quando l’avvento del computer e della tecnologia digitale hanno portato anche nel Teatro le innovazioni scientifiche. Eppure ancora oggi nel sottopalco del Teatro “La Pergola” di Firenze, uno dei templi della Prosa italiana, quelle macchine sono conservate e gelosamente custodite. Gli elementi tecnologici di cui si dispone oggi sono sostanzialmente in mano ai responsabili artisticotecnici dei vari settori che compongono lo spettacolo: lo scenografo, il datore luci (spesso sostituito dal regista), il fonico, il direttore di scena. Le scene create dagli scenografi, secondo le necessità dettate dalla regia, sono spesso molto complesse: palcoscenici articolati su pedane mobili comandate da verricelli e martinetti idraulici, nonché complicati da girevoli concentrici; quinte semoventi installate su carrelli che si muovono su binari; fondali a scomparsa; botole. Tutto contribuisce a “giocare” sul palcoscenico offrendo al regista innumerevoli possibilità creative e di inventiva. 56 Anche i costumi si avvalgono della moderna tecnologia. Recenti tessuti e materiali speciali permettono all’attore che li indossa di cambiarsi d’abito molto velocemente in quinta nei cambi scena, o di soffrire meno il caldo quando, per esigenze di copione, gli stessi debbano sembrare molto sofisticati e pesanti. Le luci sono proiettate da fari a movimento automatico che mutano la loro intensità e direzionalità premendo un solo pulsante, e dispongono di lampade molto sofisticate che consentono di illuminare la scena come si desidera. Ve ne sono di molti tipi, ognuno dei quali con la sua specifica funzione. Possono addirittura ricreare effetti cinematografici come la dissolvenza incrociata o, opportunamente indirizzati su fondali speciali, la trasparenza. Hanno caratteristiche tecniche molto complesse come il voltaggio che permette di “sparare” la luce creando effetti molto suggestivi. Anche le luci laser, con i loro tagli affilati e geometrici, completano e arricchiscono le possibilità creative di cui può disporre uno spettacolo teatrale. La fonica è un altro elemento fondamentale dell’allestimento scenico. Tracce audio digitali che riproducono qualunque tipo di suono o musica sono comandate da mixer audio programmabili e da computer che le riproducono fedelmente amplificandole e diffondendole in sala tramite casse che consentono effetti sempre più coinvolgenti come il surround. Lo scopo di tutta questa odierna tecnologia è lo stesso che avevano gli antichi greci che si occupavano di Teatro: stupire, impressionare e coinvolgere il pubblico nell’azione scenica. Farlo entrare dentro la storia che gli viene narrata e farlo emozionare. In fondo il deus ex machina che scendeva dal cielo provocava nel pubblico lo stesso effetto che oggi può provocare una videoproiezione, un taglio laser o un effetto sonoro mandato in sala a mille watt: sollecita l’immaginario dello spettatore avvolgendolo in un luogo spazio-temporale immaginario. In buona sostanza lo trasporta e lo culla nel mondo della Fantasia. 2.11 BIBLIOGRAFIA Alschitz, J., La grammatica dell’attore – il training, ed. Ubulibri 1998 D’Amico, M., Scena e parola in Shakespeare, ed. Einaudi 1974 De Monticelli, R., L’attore, ed. Garzanti 1988 Diderot, D., Paradosso sull’Attore (titolo originale Paradoxe sur le comédien), ed. Editori Riuniti 1972 Ejzenstejn, S., Lezioni di Regia (titolo originale Na wrokack režissury S.Ejzenstejn) –, ed. Einaudi 1964 Frye, N., Shakespeare (titolo originale Northorp Frye on Sakespeare), ed. Einaudi 1986 Gassman, V., Intervista sul teatro, ed. Sellerio 2002 Maragliano Mori, R., Coscienza della Voce, ed. Curci 1970 Moussinac, L., Il teatro dalle origini ai giorni nostri (titolo originale Le théàtre des origines à nos jours), ed. Laterza Nicoll, A., Lo spazio scenico (titolo originale The development of the Theatre), ed. Bulzoni 1971 Palombi, C., Il gergo del teatro, ed. Bulzoni 1986 Pezin, P., Il libro degli esercizi per attori (titolo originale Le livre des axercises à l’usage des acteurs), ed. Dino Audino 2003 Piscator, E., Il teatro politico (titolo originale Das politische Theater), ed. Einaudi 1960 Ripellino, A.M., Il trucco e l’anima, ed. Einaudi 1965 Szondi, P., Teoria del dramma moderno (titolo originale Theorie des modernen Dramas), ed. Einaudi 1962 57 3. TECNICHE SCENICHE E ARTE TERAPIA vedi anche Vol. II Approfondimenti 5. Counselling a mediazione artistica e video terapia a scuola 6. Riszard Cieslak: sull’improvvisazione 3.1 Mappa 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia Contenuti: 3.4 Warm up, AC 3.5 Video tecniche, Tecniche di Laboratorio 3.6 improvvisazione teatrale, 3.7 improvvisazioni musicali, 3.8 immaginazione collettiva, 3.9 Raccontare e raccontarsi, 3.10 Blog, facebbok, sms 3.11 racconto Rap - presentato 4. Tecniche di narrazione: 5. Lezioni di scrittura lo Storytelling AC AC Come diventare uno storyteller Il Linguaggio e l'Autore teatrale 58 5 ore 3.2 OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Tutte le tecniche puntano alla sperimentazione e alla socializzazione dei sentimenti e delle idee, cercando di formare una palestra emotiva volta al recupero della persona e della sua capacità creativa. Con la pratica di esercizi d’introspezione, l’attenzione dell’allievo è inizialmente concentrata sui propri vissuti, per poi svincolarsi da essi e trovarne un’espressione creativa. Attraverso l’improvvisazione vengono ricreate le situazioni tipo in cui l’allievo riscontra maggiori difficoltà a costituire un rapporto. Nella fase interpretativa, l’allievo può sperimentare il cambio di ruolo, riuscendo ad essere altro da sé e costituendo, nella propria interiorità, l’esperienza di questa diversità. Proprio in tale possibilità, nonchè nella capacità dell’individuo di trasferirla nella vita quotidiana, risiede la valenza dell’intervento terapeutico del teatro: attraverso il teatro viene compiuto un lavoro importante sulla personalità dell’allievo, che impara a guardarsi con occhi diversi. Il lavoro più importante è quello che si va a svolgere sul vissuto del soggetto, nella volontà di condurlo, attraverso la gratificazione del risultato, ad una coscienza delle proprie capacità e all’acquisizione di una profonda autostima. L’utilizzo delle tradizionali tecniche drammatiche serve altresì a correggere difetti e problematiche relative al linguaggio, a migliorare il governo del corpo in movimento, la sensorialità, l’arricchimento culturale, l’allenamento mnemonico. Tutti gli interventi sono realizzati in una dimensione di gruppo, per promuovere una buona socialità e condivisione. Concretamente, l’obiettivo consiste nel far acquisire ai discenti la capacità di giocare ruoli diversi rispetto a quelli rigidi della vita quotidiana, sperimentando nella finzione scenica ciò che si potrà mettere in pratica nella vita reale. Questo percorso conduce alla scoperta e allo sviluppo delle risorse creative del singolo, quelle risorse che possono aiutarlo a migliorare le proprie condizioni di vita e/o del gruppo di cui fa parte. Infine, l'utilizzo dei nuovi linguaggi multimediali, faciliteranno l'approccio conoscitivo e la spinta a raccontarsi scrivendo. 3.3 INTRODUZIONE Il Writing Theatre è una forma innovativa del Teatro che si basa sulla costruzione della persona e che agisce tramite l’uso intenzionale delle tecniche teatrali e rappresentative a scopi terapeutici, per incoraggiare la crescita personale, l’integrazione ed il benessere individuale e collettivo. È orientata all’estetica, al simbolico e al senso di appartenenza ad un gruppo. Le tecniche utilizzate fanno riferimento a diverse teorie e pratiche delle nuove arti terapie. Nella sezione saranno presi in esame metodi ed esercizi basati sulla capacità delle arti rappresentative di intervenire direttamente sulla persona, per sviluppare la creatività, aumentare l'autostima, fornire strumenti concreti e formativi. Ogni intervento proposto si fonda su un coinvolgimento diretto dei giovani capace di stimolarne la partecipazione attiva ed il protagonismo. L’impostazione di lavoro nella nostra metodologia stimola un lavoro fortemente creativo, basato sul cambio di ruolo attraverso l’introspezione, l’improvvisazione e l’interpretazione. L’attività si svolge in situazione di gruppo. Nella seconda parte della sezione, si farà un breve excursus tra i nuovi linguaggi comunicativi dei giovani e le loro possibili applicazioni 3.4 WARM UP 3.4.1 Preparazione al gioco dei ruoli Questa tecnica del “riscaldamento” è direttamente presa in prestito dalla Drammaterapia di Landy e si basa sul concetto di “ruolo” come punto cardine del concetto di personalità, “il contenitore – come definisce lo stesso Landy - dei pensieri e dei sentimenti che abbiamo di noi stessi e degli altri, dei nostri modi sociali e immaginari”. L’interpretazione del ruolo a livello drammatico, secondo questa ottica, dunque, sintetizza i naturali processi di assunzione di ruoli che attuiamo durante la nostra crescita evolutiva, ossia: imitazione, identificazione, proiezione e transfert; la rappresentazione scenica del ruolo, è il risultato 59 di un lavoro intrapsichico fatto su di sé ed esternato all’interno di un contesto di “gioco”. Proprio in questa cornice di “come se” il concetto di distanziamento usato da Landy trova il suo significato. Il warm up nella drammaterapia può essere comparato al riscaldamento di un artista o di un atleta prima di una performance. Nei termini del paradigma dei ruoli, il warm up è uno strumento che permette si soggetti di accedere al loro sistema di ruoli, è un modo per preparare i soggetti al gioco dei ruoli. Nella drammaterapia, così come nelle arti sceniche in genere, il warm up è un mezzo per attivare l’immaginazione. Il warm up può assumere una forma qualsiasi e applicarsi a molti aspetti dell’esperienza. Spesso è fisico e mira a rilassare i muscoli e la tensione corporea. Molti includono la respirazione profonda, la meditazione ed esercizi di rilassamento, non solo per riscaldare il corpo ma anche per porre la mente in uno stato creativo. A volte il warm up è basato sul lavoro di imagery piuttosto che sul movimento. Si può iniziare una seduta, chiedendo ai soggetti di chiudere gli occhi e immaginare una scena particolare, ad esempio, un campo aperto. Attraverso una serie di proiezioni nell’immaginario, il conduttore scioglie l’immaginazione dei soggetti, che può essere evocata tramite direttive verbali o stimoli sensoriali, per esempio con l’uso di suoni. I warm up psicodrammatici possono essere semplicemente verbali se ogni membro del gruppo parla delle proprie esperienze settimanali o dei propri sentimenti attuali. Un warm up verbale maggiormente proiettivo è quello in cui l’individuo A si riferisce al gruppo ponendosi nel ruolo della persona seduta accanto a lui – l’individuo B. A seguito di questa drammatizzazione, B assume il ruolo di A e interagisce col gruppo. Questa semplice inversione di ruolo rende consapevoli del modo in cui si vede l’altro e del modo in cui l’altro ci vede. Un altro tipo di warm-up consiste nella focalizzazione su un solo aspetto di un individuo, spesso una caratteristica esterna come una parte del vestiario. Il warm up, parte introduttiva di riscaldamento del clima affettivo, è spesso basato prevalentemente su esercizi fisici miranti a rilassare i muscoli e le tensioni corporee per preparare i partecipanti al gioco dei ruoli; ma può essere basato, piuttosto che sul movimento, sul lavoro di imagery (immaginazione) per esempio chiedendo di immaginare a occhi chiusi una certa scena, per porre la mente in uno stato creativo; o può anche essere verbale, quando per esempio ogni partecipante narra un evento recente della propria vita. In sintesi il warm up è un preludio all’azione, che avverrà nella fase successiva, quella di creazione scenica vera e propria (ma sotto certi aspetti è una distinzione artificiale poiché uno stadio confluisce nell’altro, vale a dire che nelle scene si estenderanno i ruoli e i sentimenti evocati nel warm up). Nella conclusione, di solito si chiede la rappresentazione delle impressioni su ciò che è stato fatto, di ciò che si prova, di come ci si sente, di cosa si auspica per il futuro, attraverso la parola o più semplicemente un’immagine o un movimento; questo, normalmente, seduti in cerchio, dando una forma di rituale di gruppo a questa fase di commiato. Non è superfluo far notare che anche il conduttore ha bisogno di una conclusione; è quindi opportuno che condivida col gruppo riflessioni sull’azione, sentimenti attuali e speranze per il futuro. Passato, presente e futuro sono rievocati prima della separazione: l’abilità del conduttore è quella di far cogliere nella chiusura gli elementi che offrono nuove prospettive alla vita quotidiana, che aprono a tutte le possibilità dei ruoli. Il warm-up psicodrammatico è innescato principalmente dallo sviluppo della spontaneità all’interno di tutti i partecipanti. Le condizioni necessarie sono le seguenti: un senso di fiducia e di sicurezza, norme che permettono l’inclusione di dimensioni irrazionali e intuitive, sentimenti di distanza variabile (componente essenziale del gioco), disponibilità verso l’assunzione di rischio e l’esplorazione della novità. ( vol. II - E3.1 – Esercizi sul warm up) 60 3.5 VIDEO TECNICHE (MARIKA MASSARA- Psicologa, Psicoterapeuta- Percorsi di videoterapia - “INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°7, settembre-ottobre 2006, pagg. 68-75, Roma). Nella drammaterapia la tecnologia video è uno strumento di auto-percezione e di autovalutazione: è un espediente che permette non solo di vedere l’immagine di se stesso ma anche di analizzare e parlare con questa immagine. L’uso delle immagini e del linguaggio non verbale si va affermando sempre di più, di generazione in generazione diventiamo sempre più sensibili al linguaggio audiovisivo di comunicazione di massa, al linguaggio del cinema e della televisione. Le immagini comunicano attraverso modalità diverse, a volte più dirette e creative, del canale verbale. L’immagine non ha bisogno di parole o di commenti, arriva a noi diretta, a volte prepotente e violenta, a volte commovente. L’utilizzo del video è riconosciuto in diverse aree della riabilitazione, dell’educazione, della formazione e della terapia, e si può inscrivere all’interno del contesto più ampio delle terapie espressive e delle arti-terapie, intese come paradigma a cui si riferiscono metodologie e tecniche terapeutiche molto diverse che condividano però l’utilizzo dei linguaggi artistici (Cavallo, 1995). La videoterapia nell’accezione che propone O. Rossi (2003) “è il momento culminante di un percorso di crescita che porta e sostiene la persona nell’incontro e nella re-visione di se stesso. La videoterapia dà vita ad un’interazione dell’io con il me: l’immagine diventa l’interlocutore del soggetto in un processo di facilitazione del confronto con se stessi.” (O.Rossi, pag. 30, 2003). Gli utilizzi del video sono molteplici e diversificati, dalla videoconfrontazione al video partecipativo, al counselling videoterapeutico, il video diventa un mezzo, un media che facilita un lavoro di consapevolezza personale a vari livelli. Nel caso specifico della videoconfrontazione il soggetto parla con la sua immagine e in questo senso non c’è bisogno di stimolare un processo di proiezione e identificazione perché l’altra parte è lì, parla, si muove ed è in qualche modo reale. L’immagine è un fenomeno percepibile direttamente senza necessità di mediazioni o facilitazioni. Come metodologia si userà il dialogo tra le due opposte polarità, il dialogo tra l’immagine di me che vedo sullo schermo e il me che parla. L’immagine diventa il contenitore delle mie proiezioni, dei miei contenuti interni. In questo senso nell’immagine proietto i miei contenuti interni e posso diventarne consapevole e renderli attuali e modificabili, posso instaurare un dialogo che mi porti ad una sintesi creativa. Con la videoterapia, il corpo non può nascondersi, l’immagine ce lo mostra in tutte le sue sfaccettature, la postura e i movimenti ci parlano e raccontano la nostra storia sia se vogliamo ascoltarla sia se cerchiamo di negarla. Rossi (2003) a tal proposito parla di “copione posturale”, lavorando sulle espressioni corporee lavoro anche sulla mia storia e sul mio copione di vita. L’immagine mi racconta e all’interno di una situazione di gruppo non sono solo io che guardo, ma anche gli altri partecipanti diventano testimoni di un confronto inevitabile. In tal modo ho la possibilità di riappropriarmi consapevolmente della mia identità mentale e corporea. L’immagine diventa una sorta di diario di sé, in cui posso rileggere/rivedere a distanza di tempo, grazie alla videoconfrontazione in differita, la mia immagine e le mie modalità relazionali. Il video ci viene in aiuto anche all’interno di modalità di lavoro meno dirette: si possono elaborare temi difficili come il rapporto genitori-figli, grazie alla possibilità di costruire storie, di realizzare un video. Questo è il caso del video partecipativo. Il gruppo diventa una vera e propria equipe di lavoro che coopera alla realizzazione del filmato. Psicoterapeuti della Gestalt, come Paolo Quattrini o Oliviero Rossi, utilizzano nelle drammatizzazioni la modalità del “fare la regia”: è il soggetto stesso che mette in scena e dirige gli altri partecipanti del gruppo nel rappresentare ciò di cui ha bisogno in quel momento. 61 Oliviero Rossi utilizza nel lavoro di costruzione di storie e counselling videoterapeutico con adolescenti un ulteriore forma di distanziamento (“Il teatro delle emozioni”, Rossi 2000-2001)[1]: il cambiare i riferimenti reali in fantastici, si cambiano i nomi e gli eventi, trasponendoli in un ambito di fantasia, di realtà metaforica. L’immagine evoca differenza e permette un confronto. La distanza che si crea nel caso del video partecipativo tra me e la storia filmata, nel caso della videoconfrontazione tra me e l’immagine di me che vedo, sia essa in diretta o in differita, produce uno spazio, un vuoto fertile all’interno del quale nascono nuove possibilità. 3.6 IMPROVVISAZIONE TEATRALE La storia dell'improvvisazione parte dai rituali primitivi per arrivare agli happening. Tutte le forme d'arte sono cominciate con l'improvvisazione: i primi poemi epici, come l'Odissea e l'Iliade, furono all'inizio racconti orali improvvisati, e il canto, la danza presero una forma definita solo dopo un lungo periodo di pura improvvisazione. La commedia greca e romana e la commedia dell'arte italiana furono dirette emanazioni dell'improvvisazione. Oggi l'improvvisazione è utilizzata in molte sfere della vita sociale, dal teatro vero e proprio, alla formazione professionale e imprenditoriale, fino alla psicoterapia e l'istruzione pubblica, dimostrandosi sempre molto valida. “L'improvvisazione insegna a pensare e mira a fornire un chiaro ambito mentale che permetta di esprimere idee e sentimenti in modo conciso e ordinato: e, sottintendendo sempre una situazione umana a cui partecipano più persone, costringe a elaborare il pensiero in modo estremamente rapido e qualche volta su differenti livelli nel medesimo tempo. L'individuo deve prendere le sue decisioni in rapporto con la situazione, ma poiché la situazione è sperimentale, può imparare dai suoi errori e utilizzare l'esperienza per il futuro” (J. Hodgson – E. Richards “L'improvvisazione teatrale” 1976). L'improvvisazione serve a percepire il nostro corpo in rapporto con la realtà circostante, ottenendo una auto-consapevolezza fisica. Analogamente l'improvvisazione aumenta, attraverso l'uso della parola, la capacità espressiva e contribuisce ad afferrare tutte le differenze tra messaggio scritto e messaggio parlato. “L'uso del linguaggio cambia a seconda delle situazioni e l'improvvisazione, attraverso una quantità di temi, ci permette di capire come il vocabolario, l'ordine delle parole e le immagini varino di circostanza in circostanza”. “L'improvvisazione comporta quasi sempre un'attività o un interesse rivolti ad altre persone e per necessità di cose il partecipante è indotto a guardare oltre se stesso, tanto da stupirsi molto spesso dei risultati personali che è riuscito a conseguire. Ogni individuo riesce quindi a valutare il proprio potenziale caratterologico, e a scoprire in sé capacità insospettate” (J. Hodgson – E. Richards “L'improvvisazione teatrale” 1976). Concentrazione ed immedesimazione dipendono in gran parte dalla spontaneità e più il gruppo si lascerà assorbire da quanto sta succedendo e più troverà facile affrontare con naturalezza e immediatezza la situazione. Per cominciare, è bene partire da un tema che riguardi la quotidianità dei partecipanti ma si può anche superare la fase di autocoscienza staccando i partecipanti da se stessi attraverso l'evocazione di un mondo immaginario. Tutto dipende dalla capacità, da parte del conduttore, di capire davanti a quale gruppo si trova e di saperlo indirizzare con grande disponibilità grande offerta di idee, temi e materiali, per lo più molto semplici. ( vol. II - E3.2 – Esercizi di improvvisazione teatrale) 62 3.6. 1 Esempio di seduta preliminare con un gruppo di adolescenti e ragazzi (J. Hodgson – E. Richards “L'improvvisazione teatrale” , pg.63) Tema Quotidiano L'istruttore potrà dare inizio alla seduta invitando i partecipanti a girare con disinvoltura per tutto il locale secondo uno schema di movimento che tenga conto del loro atteggiamento. Dopo aver camminato per un certo tempo mossi dai più diversi stati d'animo (dall'entusiasmo all'assoluta indifferenza), i ragazzi dovranno immaginare di arrivare a casa, entrare in camera e metter su un po' di musica. Questa stessa scena potrà essere ripetuta variando l'atteggiamento fisico o mentale dei partecipanti e introducendo altre occupazioni oltre l'ascolto. Esaurita la fase in cui tutti gli individui reagiranno insieme ma separatamente, si potrà procedere alla formazione di piccoli gruppi, di tre persone ciascuno, che improvviseranno su uno schema che prevede un venditore, un compratore e una terza persona con identità variabile. Come varianti, uno scambio di ruolo tra venditore e compratore e una vendita a credito. A questo punto, si possono operare scambi circolari nei gruppi, in modo che ogni individuo abbia la possibilità di lavorare a fianco di nuovi compagni e impostare una scena in cui i partecipanti siano accusati di aver rubato in un supermarket e un cliente di passaggio prenda le parti (a scelta) dell'accusato o dell'accusatore. Per rafforzare lo schema narrativo, si potrà introdurre la figura di un rappresentante della legge. Si darà ai partecipanti il tempo necessario per discutere i particolari e provare la scena . Tema Fantastico Un saloon del Vecchio West. I partecipanti dovranno immaginare di essere dei cowboys impegnati in varie attività (entrare nel saloon, legare i cavalli, bere al banco, giocare a carte, cantare al piano …). Una volta che i partecipanti avranno acquistato confidenza con i nuovi abiti, le pistole, le fondine, gli stivali, verrà introdotto un avvenimento che interrompa la vita del locale e provochi una scena violenta. Ad esempio, l'entrata di uno straniero a cui segua una sparatoria e l'arrivo dello sceriffo. Durante le improvvisazioni, sarà bene incoraggiare i partecipanti a parlare. I ragazzi amano costruire l'improvvisazione su momenti eccezionali della vita, come incidenti, fughe, incendi, uccisioni, rapine, naufragi … 3.7 IMPROVVISAZIONE MUSICALE La musica costituisce un mezzo stimolante e fantasioso per affacciarsi ad un mondo di infinite possibilità conoscitive e per dare libero sfogo alla propria espressività originale. L’attività musicale inoltre, è tra quelle artistiche una delle più complete poiché prevede lo sviluppo contemporaneo di capacità tecniche e sensoriali. Affrontare un percorso formativo di questo tipo attraverso attività essenzialmente basate sul divertimento e sull'improvvisazione, non potrà che rendere il lavoro più stimolante per tutti. Il gioco e l’apprendimento divengono così momenti strettamente connessi ed intercambiabili. L’obiettivo sarà quello di fornire un mezzo di espressione con il quale mettere a frutto la propria vena creativa ed, eventualmente, prendere la via di un livello più avanzato. Il laboratorio che si intende proporre si basa essenzialmente sull'estensione (teorica e pratica) del concetto di ritmo in musica. L'applicazione delle nuove tecnologie ha dato al ritmo,tradizionalmente uno degli elementi fondamentali di ogni applicazione musicale, una nuova forma e innumerevoli possibilità applicative. L'elemento ritmico è insito nel più comune mezzo dell'espressione artistica umana: la parola. Le significazioni che essa veicola sono scandite da accenti, pause, glissandi... quasi si trattasse dell'esecuzione strumentale di una partitura. Ed è proprio a partire da questa analogia che si vuole inserire l'elemento ritmico della parola all'interno di un contesto didattico-musicale, perchè produca a costituzione di un unico linguaggio. La parola, liberata da stretti vincoli di significazione e trasformata in suono 63 ritmico, può dare libertà al suo potenziale sovrapponendosi, intrecciandosi, fondendosi con il suono degli strumenti e dei linguaggi. Il principale obiettivo di una serie di attività connesse alla musica deve essere lo sviluppo di una consapevolezza del proprio ruolo attivo nella creazione nell’interpretazione e nell’ascolto, non solo per se stesso ma anche e soprattutto come elemento aggregante e di socializzazione. Il mondo dei suoni va esplorato attraverso il gioco, utilizzando diversi linguaggi: parlato (filastrocche, racconti, drammatizzazioni, etc...); manuale (costruzione di semplici strumenti musicali con materiali riciclati da casa) e naturalmente sonoro (canzoni, semplici melodie, ascolto etc...). Obiettivi Individuali Sviluppare il senso dell’ascolto di sé, degli altri e dell’ambiente circostante. Sviluppare il senso della percezione spaziale del suono. Riuscire a distinguere le caratteristiche e le differenze dei vari ritmi e suoni. Apprendere, attraverso la memorizzazione di ritmi, canzoni e semplici melodie, le basi delle tecniche di respirazione, vocalizzo e canto. Riprodurre per imitazione suoni, rumori, versi di animali. Analizzare le relazioni tra gesti e suoni e le caratteristiche prettamente “fisiche” dei suoni. Sviluppare le capacità di memorizzazione di ritmi, suoni e melodie. Inventare, drammatizzare e interpretare fiabe, storie e tradurle nei diversi linguaggi interpretativi (grafico, sonoro, mimico, ecc...). ( vol. II - E3.3 – Esercizi musicali) 3.8 IMMAGINAZIONE COLLETTIVA Alla base della scrittura creativa e del nostro Writing Theatre, c'è l'immaginazione collettiva che, attraverso una serie di esercizi di gruppo, contribuisce alla scoperta di noi stessi, la nostra visione del mondo e quella che il mondo esterno ha di noi. Affrontare, sviluppare e condividere la nostra capacità creativa, conduce a scoprire nuovi aspetti della nostra immaginazione che ci aiuteranno ad affrontare la vita quotidiana; a trovare più soluzioni alternative; sviluppare nuove forme e modalità di pensiero. La creatività aumenta la sensibilità ai problemi, ai bisogni, alle opportunità e la capacità di osservare con attenzione più pronta. Aiuta a vedere le cose da differenti angolazioni. Aiuta a liberarsi dagli stereotipi. Aiuta ad avere più fiducia in se stessi e più facilità a mobilitare la proprie risorse. Permette di sviluppare il proprio potenziale. Aumenta la curiosità e lo spirito di avventura. Invita a proiettarsi verso il futuro. Risveglia il desiderio di sperimentare e di giocare. Aiuta a riconquistare il senso del fantastico. Dà un senso di realizzazione e benessere. Se tutti avessimo il coraggio di usare l'immaginazione, potremmo affrontare meglio le circostanze negative. La capacità immaginativa è essenziale a livello umano, perchè ci consente la conoscenza dell'altro e dei rapporti che legano le persone alle cose. Lo schema generale di lavoro per le tecniche di immaginazione collettiva: attività immaginativa che si basa sull'osservazione di cose e persone reali (sia rendendole reali con l'immaginazione sia usandole immaginativamente); ricerca – basata su esperienza – di nuovi modi di usare gli elementi reali e quelli immaginari; realizzazione immaginativa – basata su esperienza e penetrazione di materiale conosciuto – di qualcosa di nuovo; attività immaginativa illimitata. ( vol. II - E3.4 – Esercizi di immaginazione collettiva) 64 3.9 BLOG, FACEBOOK, SMS In un’epoca in cui il rapporto con la creatività sembra esaurito a vantaggio di un approccio passivo con la realtà, favorito dall’uso-abuso della tivù, i linguaggi multimediali giovanili, internet e gli stessi telefonini cellulari, potranno spingere i ragazzi a confrontarsi con la scrittura. Caratteristica del blog è quella di essere uno spazio aperto e in continuo aggiornamento. Il blog è uno strumento semplice da utilizzare, che offre a tutti i partecipanti l’opportunità di comunicare il proprio punto di vista in modo nuovo, inviando “commenti” personali, ma soprattutto di assumere il ruolo di autore pubblicando “post” con racconti, poesie, pagine di diario, articoli, recensioni, illustrazioni, fotografie, video. Il focus del blog è la “scrittura creativa”. Nell'aggiornamento dello status di un twitter o un facebooker, una è la domanda fondamentale: “Cosa stai facendo in questo momento? A cosa stai pensando?” Si leggono spesso frasi ricercate o fantasiose o poetiche … il mezzo spinge a raccontare di noi, senza specificare gli eventi che ci sono occorsi, ma esprimendo sensazioni, emozioni, sentimenti, spesso in terza persona. Ministorie, segni di scrittura creativa. Per comunicare con l'altro, si scelgono pensieri, ma pensieri e stati provvisori. Il tempo reale con cui possiamo entrare in contatto con l'altro, ci consente di esprimere noi stessi nel proprio continuo cambiamento. Una sorta di diario che, seppur pubblico, non richiede la risposta altrui, ma ne cattura l'attenzione. Questa esigenza determina la scelta di un linguaggio, di un modo di esprimerci che è solo il nostro e come tale riconoscibile. Frasi brevi, ma continue. Un modo creativo di scrivere, di cui tutti, con diverse età e diverse estrazioni e formazioni, si servono. La consapevolezza che abbiamo nell'esporci agli altri attraverso questi mezzi del social network, può condurci ad una migliore conoscenza di sé. Proprio per questo, riteniamo che sia una buona formula per spingere ragazzi difficili, a parlare di sé, magari dietro qualche metafora o con qualche pseudonimo. D'altronde, stanno comparendo sul mercato e su internet opere letterarie e riviste concepite per essere realizzate e fruite attraverso piattaforme che offrono e pretendono una sintesi estrema, gli schermi dei cellulari e Twitter. “Le prime avvisaglie arrivano dal Giappone. Nel 2002 nessuno pensava a racconti e romanzi pensati per essere letti sullo schermo di un cellulare e, soprattutto, realizzati scrivendo direttamente sul cellulare, come se si stesse componendo un sms. Nel 2003 i romanzi mobili hanno generato introiti per 1,8 miliardi di Yen. Nel 2006 il mercato ha toccato quota 9.4 miliardi di Yen. Oggi molti provider di contenuti mobili offrono la possibilità di scaricare sul cellulare romanzi in abbonamento. Le storie sono divise in capitoli brevi, adatti per la lettura tra una fermata di metropolitana e l’altra. L’impressione è che anche il tempo di scrittura sia parcellizzato, frammentato tra viaggi sui mezzi pubblici, attese in fila e tutti gli altri momenti che si prestano alla composizione di un testo breve. I testi letterari seguono le stesse regole degli sms: frasi brevi, parole di pochi caratteri, molto dialogo e azione, poche descrizioni. Autori, ragazze per la maggior parte, e lettori sono giovani che raccontano e cercano storie contemporanee, metropolitane e tragiche, con grandi dosi di sesso e violenza. Anche su Twitter, piattaforma di microblogging che permette di inviare messaggi di massimo 140 caratteri,vengono condotti altri esperimenti letterari. @Thaumatrope è una rivista di fantascienza, fantasy e horror curata dallo staff del sito Green Tentacles. Gli articoli sono limitati a 140 caratteri e hanno già pubblicato testi (pagati alle tariffe della SFWA di 0.05 dollari a parola) di John Scalzi, Mary Robinette Kowal, Jeremiah Tolbert, Alethea Kontis e altri autori noti, oltre a quelli di semplici appassionati. Thaumatrope è sempre alla ricerca di articoli e autori. @Outshine si definisce una picowebzine. E’ emanazione di Shine, un’antologia che raccoglie racconti di fantascienza ottimistica, ovvero che presentano il nostro futuro sotto una luce positiva. Outshine segue lo stesso tema e pubblica “poemi in prosa di SF ottimistica sul futuro prossimo“. Questi poemi in prosa vengono pubblicati una volta a settimana. Anche Outshine accetta 65 proposte e paga i suoi collaboratori ben 5 dollari a testo, sempre limitati ai 140 caratteri permessi da Twitter. Ogni autore può proporre un testo a settimana. Twitter può essere facilmente consultato in mobilità, collegandosi alla pagina dedicata ai dispositivi mobili m.twitter.com. Ed esistono molti programmi per smartphone che rendono più facile l’accesso, la consultazione e la gestione del proprio account. Quindi Twitter può essere considerato una variante del fenomeno giapponese”. (“Microletteratura: racconti e romanzi via sms e Twitter” on lunedì, 6 aprile, 2009 at 15:38 - Magrathea Rivista di narrativa fantastica - www. Magrathea.it) 3.10 RACCONTARE E RACCONTARSI Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto o la propria storia. Naturalmente la narrazione può esprimersi attraverso la parola o la scrittura, ma anche attraverso l'immagine-video o figurativa che sia. Naturalmente, raccontiamo agli altri per raccontarci a noi stessi. Secondo D. Demetrio, professore di Pedagogia all'Università di Milano, che si interessa di "cura di sé" e di "educazione nella vita adulta", il pensiero e il lavoro autobiografico, rappresentano una importante modalità riabilitativa per la “cura di sè”. Inoltre, la narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Le esperienze che l’Io compie danno forma all’identità: narrarle dà loro un senso, le inserisce in un contesto, in un tempo e quindi in una storia già esistente. Narrare rappresenta, quindi, un’operazione di consapevolezza in quanto equivale a costruire una propria visione di se stessi e del mondo: sono io come narratore che, nel momento in cui racconto qualcosa, opero una selezione, un’organizzazione del materiale disponibile. L’attività narrante si completa e acquista senso solo se c’è un ascoltatore della narrazione. Non è sufficiente, infatti, che qualcuno narri se non c’è nessuno che ascolti ciò che sta narrando. All’intenzionalità di chi racconta, quindi, è sempre indispensabile si leghi l’intenzionalità di chi sta ascoltando quel racconto (un libro ha bisogno di un lettore per diventare narrazione, così come il diario ha bisogno del mio ascolto affinché mi narri qualcosa). Quello che narro, poi, è sempre influenzato da chi mi sta ascoltando o da chi immagino mi stia ascoltando. Probabilmente il mio stile cambierà anche in funzione del pubblico o di quello che immagino sia il mio pubblico. Nel momento in cui narro, compio una scelta: scelgo cosa narrare di me e cosa no, cosa far trasparire, organizzo i tempi, le intonazioni, le espressioni facciali, le parole, la voce, le pause… Questo è particolarmente evidente se racconto un fatto della mia vita a un amico, a un nemico, a una persona che mi sta antipatica, a una che mi sta simpatica, a una persona di cui mi vorrei innamorare o che odio. «Il segreto rimedio e l'inusitata terapia sono intrinseci al fatto, e via via si discoprono tali, di dar quasi forma alla vita di un'altra persona. Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo» (L'autobiografia come cura di sé - Duccio Demetrio -p. 12). Sempre secondo il prof. Demetrio, il lavoro autobiografico può supportarci nella rivisitazione del passato e quindi nella cura di sé, attraverso specifici fattori che sono veri e propri poteri ricostituenti del lavoro autobiografico: Dissolvenze: provare piacere nel ricordare. Le immagini ricompaiono sbiadite, crepuscolari, sfumate nei contorni: quasi inconsistenti e vaghe. Nulla è mai completamente "a fuoco" e nulla è mai chiassoso. Il potere curativo della dissolvenza alimenta così un sentimento di distacco, mentale ed emozionale, che è il primo requisito del benessere. Convivenze: corrisponde all'esibizione della nostra storia, disponibilità ad ascoltare e a essere ascoltati. Ricomposizioni: il ricordare o il raccontare ci danno la sensazione di "tenerci insieme". Un potere che Demetrio chiama ricompositivo. Scopriamo «che da un lato il gioco dei ricordi, come ogni gioco, ci "alleggerisce" e distende; inoltre, che 66 tutto questo vagare da uno spazio all'altro della nostra mente costruisce inter-spazi e corridoi che ci restituiscono la giovevole sensazione di sentirci molte, tante, tantissime dimensioni e di crearne di nuove» (p. 51). Invenzioni: la creatività scaturisce dai giochi connettivi che finiscono col dotarci di una rete immateriale, che contiene tutto ciò che siamo. Per "tenerci insieme" e godere del piacere di stare insieme con noi stessi, è indispensabile fare un ulteriore progresso che consiste nella transizione dal mero pensiero autobiografico al lavoro di scrittura in senso proprio della nostra storia. Spersonalizzazioni: scrivere autobiografie non è una pratica clinica in senso proprio, sembra però che la scrittura sia e sia stata un medicamento dell'anima per un numero sterminato di autori: medicamento non solo di natura artistica ma anche terapeutica. 3.11 RACCONTO RAP-PRESENTATO La cultura giovanile legata al mondo musicale, ci consente di utilizzare altre forme e tecniche per sollecitare la creatività e la scrittura. Il rap sicuramente consente di esprimersi attraverso un linguaggio attuale e musicale. Il senso del ritmo e del tempo rap consentono di trasformare un qualsiasi racconto in una vera e propria rappresentazione scenica. Ed è proprio la natura musicale di queste tipologie di racconto che riporta le parole all'antico valore dell'oralità e quindi anche del teatro. Questi racconti devono essere letti a voce alta, presupponendo un pubblico, anche se dietro un video. L'utilizzo di certe forme artistiche, consente di fare procedere in tandem la parola scritta con quella parlata, la narrazione con la musica della voce. Storie spesso anche drammatiche, si propongono all'ascolto dell'altro, attraverso un tempo musicale che ha la capacità di catturare l'attenzione e di sviluppare una ricerca sul linguaggio scritto, sviluppando assonanze, rime … versificando. La stessa poesia cambia rotta nei versi dei poeti di strada che, sempre sui ritmi rap, raccontano storie autobiografiche e fatti di cronaca, restando sempre a diretto contatto con i destinatari: una forma di poesia orale. Accanto, potremmo collocarci le parole pittoriche dei writers che sintetizzano fatti opinioni pensieri in espressioni grafiche, dove acquisiscono importanza i colori e le identità degli autori, le cui stesse firme sono manifestazioni del sé agli altri, racconti. E se il rap ci riporta in qualche modo all'antica tradizione e funzione orale della poesia e del teatro, così l'arte dei writers, ci riporta ai preistorici graffiti. Modi di comunicare, raccontare, mettersi a confronto con se stessi e con realtà contestuale, attuando un distaccamento emotivo attraverso la rappresentazione e contribuendo all'acquisizione di una consapevolezza. ( vol. II - E3.5 – Racconto POPROCKRAP) 3.12 BIBLIOGRAFIA BARKER, C., Giochi di teatro, Bulzoni, 2000. Bernardo, M., I magnifici otto, Ossuccio, 2002.(disponibile per e-mail su richiesta). BOAL , A., Il poliziotto e la maschera. La Meridiana, Molfetta, 1993. Cavallo, M. (1995), Pensare per immagini. Arti Terapie e immagini mentali, Arti Terapia n.4, anno 1. Demetrio, D., L'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1996, Milano. Pp. 229. Ferrara, A. (1999/2000), Il paziente si racconta. Formazione IN Psicologia, Psicoterapia, Psichiatria n. 38/39. Giusti, F. (1999), Videoterapia. Un ausilio al Counselling e alle Arti Terapie, Sovera, Roma. Landy, R.J. (1994), Drama Therapy: Concepts, Theories and Practices, Springfield: Thomas, Trad.It. (1999) “Drammaterapia. Concetti, teorie e pratica.”, Roma: Edizioni Universitarie Romane. Moreno, J.L. (1980), Manuale di psicodramma. Il teatro come terapia. Roma: Astrolabio,1985. 67 Perls, F. (1969), Ego, hunger and aggression, trad. it. “L’io, la fame e l’aggressività”, Milano: Franco Angeli, 1995. Perls, F. (1991), Qui & Ora Psicoterapia autobiografica, Sovera, Roma. Raudsepp – Hough jr, Giochi per sviluppare la creatività, Francoangeli 1994. Rossi, O., Botticelli K., Cardamoni, D., Rubechini, S. (2003), Counselling a mediazione artistica e videoterapia a scuola. Formazione IN Psicoterapia Counselling e Fenomenologia, vol. 2, ed. GRIN- Roma. Rossi, O. (2003), La videoterapia nella relazione d’aiuto, Formazione IN Psicoterapia Counselling Fenomenologia" n. 2, ed. IGF, Roma. Rossi, O. (2000-2001), Il teatro delle emozioni: un intervento di counseling scolastico. Formazione IN Psicologia Psicoterapia Psichiatria, vol.41-42, ed. GRIN- Roma. Thenot, J.P. (1989), Videotherapie. L’image qui fait renaitre, Paris: Ed. Greco. Hodgson, J. – Richards, E. L'improvvisazione teatrale 1976. Vopel, K., Giochi di interazione per adolescenti e giovani, vol. 1-2-3-4, Elledici, 1991. Winnicott, David W, Gioco e realtà. Armando, Roma, 1974. Rossi, O. (2000), Narrazione creativa e disagio scolastico. Formazione IN Psicologia Psicoterapia Psichiatria, vol.40, ed. GRINRoma. “Microletteratura: racconti e romanzi via sms e Twitter” on lunedì, 6 aprile, 2009 at 15:38 - Magrathea Rivista di narrativa fantastica - www. Magrathea.it 68 3. TECNICHE SCENICHE E ARTE TERAPIA (AC) ARGOMENTO CORRELATO Tecniche di Laboratorio vedi anche Vol. II Approfondimenti 7. Il Laboratorio Teatrale: una nuova Metodologia Mappa AC Tecniche di Laboratorio 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia AC Tecniche di Laboratorio Contenuti: Giochi di conoscenza, di fiducia, di contatto, di concentrazione, Improvvisazione corporea, emotiva, immaginativa, narrativa, Rilassamento, Giochi di ruolo. 4. Tecniche di narrazione: lo Storytelling 5. Lezioni di scrittura AC AC Come diventare uno storyteller Il Linguaggio e l'Autore teatrale 69 5 ore OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Fornire un bagaglio di tecniche, esercizi e giochi che permettano di agire in una situazione di stimolo costante della creatività. Il programma didattico deve tenere in ampia considerazione la necessità di sviluppare delle abilità in cui si può sviluppare la creatività di ciascuno; inoltre deve suggerire attività che si sintonizzino bene con quelle specifiche per il trattamento terapeutico di ciascuna persona. Esse sono: la pratica del rilassamento e delle tecniche respiratorie; la consapevolezza della posizione, nello spazio, del proprio corpo e di quello degli altri; la capacità di cogliere e analizzare ogni carattere degli stimoli in arrivo; la capacità di intraprendere e di variare rapidamente schemi di comportamento in relazione a sensazioni fisiche indotte o a situazioni immaginarie. INTRODUZIONE Il teatro è quello che si avvicina di più al gioco puro e semplice: “spielen” in tedesco, “to play” in inglese, “jouer” in francese, “igrat” in russo, significano “giocare” e “recitare”, nonché suonare uno strumento. Per questo abbiamo ritenuto di dover privilegiare nel nostro percorso tutte quelle espressioni del “gioco dello spettacolo”. Le tecniche teatrali proposte in forma di gioco e sperimentazione, si rivolgono ai ragazzi, puntando a renderli autonomi ed in grado di scegliere percorsi di costruzione della propria identità in senso positivo, valorizzando le loro capacità creative ed espressive. Più che di scuola teatrale, parliamo di un vero e proprio laboratorio, che costituisce un’occasione di incontro in cui è possibile favorire la comunicazione, esercitare abilità, praticare la manualità, sperimentare se stessi e nuove forme di linguaggio, vivere emozioni, apprendere norme e valori di comportamento. Tali attività, dunque, favoriscono la relazione e la formazione educativa attraverso la gestione di strumenti espressivi, in un "tempo" e in uno "spazio" in cui vengono offerte opportunità di apprendimento e di soddisfacimento di bisogni di appartenenza e di identità. Il laboratorio si configura come uno spazio di ricerca, in cui confluiscono l’attività del “fare” con quella del “pensare” e del “progettare" insieme agli altri, dove i ragazzi sperimentano occasioni di gioco, di dialogo, di un concreto esperire intorno ad attività stimolanti e aggreganti. Caratteristica fondamentale del laboratorio è la dimensione della “ricerca-scoperta”, attraverso la quale i ragazzi diventano i protagonisti principali di un’attività nella quale hanno modo di sperimentare le proprie capacità, di saggiare personalmente le soluzioni ottimali per risolvere un problema, di ripercorrere tutte le fasi di un’attività, dall’elaborazione dell’idea alla sua realizzazione e alla verifica. Il laboratorio è costituito da una serie di giochi che consentiranno di agire in una situazione di stimolo costante della creatività. Secondo le teoriche del Teatro dell'Oppresso, “i giochi-esercizi sono strumenti di preparazione teatrale per sciogliere le nostre rigidità corporee e percettive, comprendono tecniche di integrazione, fiducia, sensibilizzazione (dal toccare al sentire, dal guardare al vedere, dall'udire all'ascoltare) e de-meccanizzazione. Il gioco è un esercizio ricreativo singolo o collettivo che impegna la mente e l'abilità fisica, crea le condizioni di un'immersione in emozioni, ruoli e dinamiche che, prescindendo dal contenuto, possono essere analizzate "come se" fossero generate da situazioni reali. Sono strumenti di analisi e trasformazione della realtà oppressiva, non sono quindi solo mera preparazione ad altro ma strumenti di ricerca completi”. (cfr. www.lalbassociazione.com) 70 L'esercizio e' una riflessione fisica su se stessi. Un monologo. Una introversione. I giochi, in compenso, sono legati all'espressività del corpo che emette e riceve messaggi. I giochi sono un dialogo, esigono un interlocutore. Sono estroversione. I giochi aiuteranno a sviluppare ed approfondire di volta in volta un aspetto dell’arte teatrale ma tutti richiedono una grande apertura verso gli altri e verso sé stessi. Ogni gioco può essere eseguito in maniera elementare ma lo si può spingere ad un livello più alto. In questo senso sarà interessante ripetere lo stesso esercizio a distanza di tempo per verificare il livello di apertura che si è raggiunto. Spesso con lo stesso esercizio si lavora su due o più aspetti dell’arte teatrale, è bene che chi conduce il laboratorio li abbia tutti in mente ma che sappia per quale motivo ha proposto quel gioco. I giochi sono stati divisi per categorie. Queste categorie corrispondono ai principali aspetti del lavoro teatrale che, attraverso questi giochi, sono affrontati e sperimentati: il corpo, la voce, il ritmo, la concentrazione, la drammatizzazione. Naturalmente ogni esercizio tocca in realtà più aspetti contemporaneamente. Per esempio, un esercizio sulla voce può coinvolgere anche il corpo o l’improvvisazione, così come un esercizio sul ritmo è anche un esercizio di concentrazione, eccetera. GIOCHI DI CONOSCENZA Andando a lavorare in gruppo diventa basilare la conoscenza tra le varie entità che questo gruppo compongono. Bisogna conoscere i propri compagni e farsi conoscere da loro. Solo così si potranno capire le vere potenzialità del gruppo, le possibilità che il gruppo possiede, sino a dove il gruppo si può spingere. Conoscendosi ci si rende conto di quali sono i punti di forza e le debolezze di ognuno, forze che il gruppo può e deve sfruttare e debolezze che il gruppo deve saper incamerare. Nel concetto di conoscenza non va tralasciata la conoscenza di sé stessi. Il teatro aiuta a scoprire, padroneggiare, mettere in luce aspetti del nostro io che ancora non si conoscevano vol. II - G3.1 - Giochi di conoscenza GIOCHI DI FIDUCIA In qualsiasi campo in cui si lavora in gruppo ci si rende conto di quanto la fiducia sia importante. In particolar modo nel teatro le persone sono chiamate a mettere in gioco il proprio io più profondo, a mettere a nudo sé stesse. Per fare questo bisogna potersi fidare delle persone con cui si lavora, sapere che si può essere realmente sé stessi, non temere il giudizio degli altri. Ogni singola debolezza deve essere supportata dal gruppo, ogni singola forza si deve irradiare nel gruppo. E’ in questa condizione di fiducia reciproca che passo dopo passo si riesce a dare sempre di più e si raggiungono risultati inaspettati. I Giochi di fiducia sono indirizzati alla: fiducia in se stessi (non sempre conosciamo bene il nostro corpo. Esercitare questa conoscenza è importante); fiducia nell'altro (ciò che ti farà e non ti farà fare !!); fiducia nel gruppo (che deve garantire la sicurezza di ognuno). vol. II - G3.2- Giochi di fiducia GIOCHI DI CONTATTO Il gioco del teatro prevede che non ci siano vergogne e pudori tra i partecipanti, bisogna mettere tutto il proprio essere a disposizione del risultato finale. Il corpo è per molti fonte di imbarazzo, è per questo che diventa molto importante conoscere il proprio corpo, saperlo gestire e conoscere il corpo dei nostri compagni, non avere remore o blocchi quando bisogna entrare in contatto. A scuola generalmente non è previsto che i ragazzi entrino in rapporto tra di loro anche con il corpo. Se lo fanno di solito è per sbaglio, quando si urtano, oppure durante i litigi. Il teatro, attraverso esercizi specifici li aiuterà a stimolare ed 71 affinare il rapporto con gli altri, con il corpo degli altri. Questo non sarà utile solo ai fini dell’espressione teatrale ma aiuterà i ragazzi a crescere più sicuri e sereni, capaci di maggiore fiducia, rispetto e attenzione nei confronti degli altri. vol. II - G3.3- Giochi di contatto GIOCHI DI CONCENTRAZIONE Nel gioco del teatro viene richiesta l’attenzione a tanti elementi contemporaneamente. La concentrazione è fondamentale in ogni momento della creazione teatrale, creazione magica, e quando viene a mancare tutto perde significato e diventa banale o ridicolo. Credere in quello che si sta facendo e tenere la concentrazione per tutto il tempo è un aspetto che va tenuto sempre da conto. vol. II - G3.4- Giochi di concentrazione IMPROVVISAZIONE CORPOREA Abbiamo già sottolineato l’importanza dell’espressività corporea per interpretare un personaggio. Con il corpo parliamo, raccontiamo, mandiamo messaggi, esprimiamo sentimenti. Ecco degli esercizi che aiutano a cercare e scoprire nuove possibilità del proprio corpo e che mirano a stimolare il fisico nel provare nuove possibilità espressive. ( vol. II - E3.6 – Esercizi di improvvisazione corporea) IMPROVVISAZIONE EMOTIVA Tutto concorre all’espressività di un personaggio. Per interpretare un personaggio bisogna mettere a disposizione tutto il proprio essere. Detto questo è facile capire quanto sia importante riuscire a ricreare dei sentimenti per poter ridare al pubblico emozioni che il personaggio esprime e che l’attore deve provare. Se non ci crede chi lo sta facendo, nessuno in sala ci crederà. Bisogna quindi imparare a recuperare nella vastità del proprio io il sentimento che in quel momento serve al personaggio che si sta interpretando. ( vol. II - E3.7 – Esercizi di improvvisazione emotiva) IMPROVVISAZIONE IMMAGINATIVA La performance teatrale è terapeutica perché aiuta gli individui a negoziare i confini tra la realtà della vita quotidiana e la vita immaginativa, tra mondo interno e mondo esterno, aiuta a scoprire i modi per vivere positivamente le spinte contraddittorie. Per stimolare la spontaneità occorre evitare di censurare le proprie reazioni istintive derivanti da particolari stimoli e di prestabilire le proprie azioni; cioè più il soggetto si lascerà assorbire da quanto sta succedendo durante un’improvvisazione, tanto più troverà semplice affrontare con naturalezza e immediatezza la situazione che si sta delineando sul palcoscenico. Solo dopo aver raggiunto un buon livello di concentrazione e spontaneità, l’allievo é nelle condizioni ottimali per cercare di stimolare la propria immaginazione, partendo dalle analisi condotte precedentemente sui cinque sensi: dopo aver provato una sensazione, egli potrà riprodurla o descriverla, oppure collegarla ad altro, attraverso una libera associazione del momento. Per ampliare la propria attività immaginativa l’attore non può prescindere dall’osservazione di cose, eventi e persone reali per poi introdurvi elementi derivanti da un’attenta ricerca creativa, come ad esempio inventare nuovi modi di usare oggetti comuni in spazi e situazioni immaginarie per sconfinare, poi, nella creazione di vere e proprie situazioni neo-narrative. ( vol. II - E3.8 – Esercizi di improvvisazione immaginativa) IMPROVVISAZIONE NARRATIVA “…Un ulteriore requisito della cittadinanza si potrebbe definire “immaginazione narrativa”: la capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona, di capire la sua storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze. Questo non comporta la mancanza di senso critico, poiché nell’incontro con l’altro manteniamo comunque fermi la nostra identità e i 72 nostri giudizi… ma un primo passo verso la comprensione dell’altro è essenziale per ogni giudizio responsabile , dal momento che non possiamo ritenere di conoscere ciò che stiamo giudicando, finché non comprendiamo il significato che una determinata azione ha per la persona che la compie…” (Martha C. Nussbaum, tratto da “Coltivare l’umanità” Carocci Editore, 1999 Roma, pag. 25). ( vol. II - E3.9 – Esercizi di improvvisazione narrativa) RILASSAMENTO Il Training Autogeno è un modo di autodistensione e di rilassamento che consente la modificazione di situazioni psicologiche e somatiche; la tecnica è stata ideata e sviluppata da J. H. Schultz – psichiatra e ipnotista contemporaneo di Freud. La tecnica è creata per imparare a rilassarsi attraverso l'”autodistensione concentrativa” e l'”allenamento che si fa da sé raggiungendo la “commutazione” cioè lo stato psicofisico durante il quale si produce un abbassamento generalizzato del biotono dello stato di veglia. In pratica, vale questo principio: Io penso, mi concentro, il mio corpo si adegua, si distende, ed anche la mia mente si rilassa. E,' quindi, una ginnastica psichica applicabile da tutti e in tutti quei campi nei quali occorrono concentrazione, calma, distensione. In generale, il training autogeno tende a promuovere la tranquillità d'animo, l'armonia interiore e una visione ottimistica della vita. “Training” proprio perché il rilassamento e l'autodistensione si realizzano con l'allenamento, dovuto alla realizzazione dello stato di calma, distensione, passività. Il primo livello, attraverso esercizi somatici (peso, calore, cuore, respiro, plesso solare, fronte fresca) è finalizzato alla realizzazione dello stato di calma, distensione, passività. Il secondo livello, con esercizi psichici, raggiunge l'inconscio e ne fa emergere le produzioni a livello di immagini. Possiamo immaginare il T.A. come un edificio a sei piani con solide basi costituite dall'atteggiamento psicologico di calma e distensione; due piani più importanti, fondamentali: pesantezza e calore; quattro piani complementari: cuore, respiro, plesso solare, fronte fresca. ( vol. II - E3.10 – Esercizi di rilassamento) GIOCHI DI RUOLO - ROLE PLAYING Il Role playing (o "gioco di ruolo") consiste nella simulazione di una situazione reale attraverso l'identificazione e la recitazione dei diversi ruoli coinvolti. Proprio la modalità drammaturgica impiegata implica un coinvolgimento globale del soggetto, a livello cognitivo, sociale, emotivo. In una prospettiva di ricerca valutativa con tale strumento si intende esplorare i vissuti dei soggetti attraverso la loro "immersione" nel contesto indagato: in tal modo non si restringe l'analisi alla sola razionalizzazione di un determinato evento e si mira a far emergere il vissuto del soggetto riducendo i "filtri" comunicativi. vol. II - G3.5- Giochi di ruolo Bibliografia Benvenuti, P., Conati, D. Nuova guida di animazione teatrale Edizioni Sonda, Casale Monferrato (Al) 2006 Boal, A., Il teatro degli oppressi - teoria e tecnica del Teatro latinoamericano Cechov, M., La tecnica dell'attore, Dino Audino editore 2006 Cruciali, F., Falletti, C. Civiltà teatrale nel XX secolo Il mulino, Bologna 1986 Marnati, L., Il rilassamento, XENIA tascabili 1996 Nussbaum, Martha C., Coltivare l’umanità Carocci Editore, 1999 Roma, pag. 25 Vopel, K., Giochi di interazione per bambini e ragazzi, Editrice Elledici, Rivoli 1996 73 4. Tecniche di narrazione: Lo Storytelling 4.1 Mappa 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia AC Tecniche di Laboratorio 4. Tecniche di narrazione: 5. Lezioni di scrittura lo Storytelling AC Come diventare uno storyteller Contenuti: AC 4.4 Funzionamento delle storie, 4.5 Le storie e l'apprendimento inconscio, 4.6 Lo storytelling e la formazione, 4.7 Le nuove applicazioni dello Storytelling 74 Il Linguaggio e l'Autore teatrale 4 ore 4.2 OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Conoscere le tre principali funzioni dello storytelling (trasmettere le informazioni e la conoscenza; educare e incoraggiare il trasferimento della saggezza cumulativa da una generazione all' altra; incoraggiare la guarigione personale e il problem solving creativo). Come usare le storie e le metafore in qualità di strumento di formazione, per facilitare l'apprendimento in un contesto di training individuale e di gruppo e supportare lo sviluppo personale. Lo storytelling come processo interattivo e di condivisione per introiettare e dare un senso alle informazioni. Come utilizzare le storie e la pratica dello storytelling per aiutare le persone ad affrontare alcune problematiche come la definizione e il raggiungimento degli obiettivi, il problem solving, la programmazione dell'azione, la creazione di un rapporto con l'interlocutore/gli interlocutori. 4.3 INTRODUZIONE L'arte della narrazione ha sempre costituito una componente essenziale della natura umana: racconti, metafore, miti e leggende, sono stati usati sin dall'antichità per veicolare informazioni e conoscenza quali strumenti di comunicazione e insegnamento. Il raccontare, di fatto, è un'esperienza riservata unicamente agli esseri umani i quali, rispetto agli animali, hanno sviluppato la capacità di astrazione. Vale a dire che siamo in grado di comunicare non soltanto esperienze personali - vissute in prima persona - ma anche esperienze vissute da altri, fornendo, in questo modo, un patrimonio di saggezza molto vasto e cumulativo. Diversamente da quanto si ritiene, i racconti non erano riservati ai soli giovani o bambini, ma anche agli adulti: avendo la capacità, infatti, di catturare l'immaginazione degli ascoltatori, essi restavano impressi nella memoria a lungo consentendo che un ampio patrimonio di conoscenza divenisse parte integrante della cultura di un popolo, passando di generazione in generazione. Anche se in forme e stili diversi, ciò accade anche oggi: chiunque abbia il compito di trasferire informazioni, di promuovere l'apprendimento e lo sviluppo, di elaborare messaggi ad alto impatto, può essere considerato un "cantastorie". Per fare qualche esempio, i primi che incontriamo nella nostra vita sono i genitori, i parenti, gli insegnanti, gli stessi amici; poi i nostri colleghi di lavoro, "i capi", i consulenti, i formatori; e ancora i politici, i giornalisti, gli intrattenitori (teatro, televisione), i leader religiosi, ecc. Il fatto è che se siete coinvolti nell'attività di formare o educare altre persone o svolgere il ruolo di mentore puntando ad aiutarle a ottenere una performance ottimale, e se il vostro scopo è di fare queste cose in un modo che sia stimolante e memorabile, allora è probabile che voi stiate utilizzando alcune delle capacità che i narratori hanno elaborato centinaia di anni fa: educare e divertire i propri ascoltatori, dipingere quadri verbali per sviluppare la loro memoria, usare metafore e analogie per aggiungere colore e trasmettere la saggezza accumulata. La storia di qualsiasi società in ogni parte del mondo include la propria versione dello story-telling, e ancora oggi la maggior parte delle società continua ad avere le proprie attività di narrazione in qualche forma (basti pensare al modo in cui oggi affidiamo alla televisione, alla radio, ai giornali o a Internet la funzione di mantenerci aggiornati e aiutarci a comprendere il senso di ciò che accade nel mondo). L'arte del "raccontare storie" (Story - telling), all’origine consisteva in semplici canti che osannavano l’alba, la gioia di vivere, la natura e che venivano utilizzati per alleviare la fatica o la noia di compiti gravosi nel lavoro. In seguito, il "cantastorie" (story-teller) divenne "portavoce" della comunità, nonché "memoria" del gruppo, animando le storie e gli eventi (nascite, matrimoni, guerre, morti) con musica, canto, poesia: è in questa fase che nasce la figura dello storyteller professionista, che si svilupperà nell’arte dei trovatori e dei cantori di gesta. Alcuni narratori visitavano frequentemente le corti, ed erano riconosciuti di grande influenza 75 sul re o la regina del tempo; spesso il giullare era il solo che poteva permettersi di affermare la verità, anche se mascherata abilmente in forma di scherzo o di storia. L'utilizzo di animali bizzarri come protagonisti delle storie aiutò questi antichi narratori a satireggiare gli eventi politici del tempo: potevano rendere ridicoli i loro capi senza pericolo di una punizione. Ecco quindi come nacquero le favole, le allegorie e le metafore. In questo modo, gli appartenenti ad una comunità avrebbero parlato un linguaggio comune in cui erano rappresentati i valori culturali e la storia che condividevano e che li avrebbe aiutati a dare un senso al proprio mondo e alla propria parte in esso. I narratori originali erano anche coinvolti nell'educazione e nella trasmissione della saggezza accumulata, che assicurava la continuità dell'esperienza da una generazione alla successiva. In tutte le comunità del mondo è esistita, e ancora vive, la tradizione dei vecchi che educano i giovani. A tale proposito, Milbre Burch, una storyteller di Pasadena, California, afferma: Lo storytelling affonda le sue radici nelle tradizioni tribali delle culture orali dei tempi in cui la memoria era la biblioteca. I più vecchi trasmettevano la loro saggezza attraverso il mezzo della storia. Lo storytelling è ancora oggi intergenerazionale: si rivolge a un pubblico multietà. (Burch, 1977) 4.4 FUNZIONAMENTO DELLE STORIE 4.4.1 Come e perchè storie e metafore possono rafforzare apprendimento e memoria Gli antichi narratori, non conoscendo la scrittura, potevano preservare e trasferire le informazioni alle altre persone solo attraverso l'oralità. Il racconto è comparabile ad un archivio dati e informazioni di oggi. Non solo, la trasmissione orale doveva garantire che le informazioni venissero preservate nel tempo - di generazione in generazione - e divulgate da persona a persona. Per questo assumeva importanza la modalità con cui la trasmissione avveniva: le informazioni fornite dovevano essere accurate, interessanti e soprattutto degne di essere ricordate. Il semplice passaggio di informazioni non era la sola funzione rivestita dai narratori originali: essi ricoprivano anche un ruolo importante nella costruzione delle comunità e nel preservare e condividere i dati storici. Per questo motivo, nel trasmettere la propria saggezza in modo che altri potessero apprenderla e trarne beneficio, i narratori dovevano assicurarsi che la lezione sarebbe stata assimilata e compresa da chi la ascoltava. Questa esigenza implicava necessariamente due aspetti: da un lato chi narrava doveva ricordare le informazioni di cui era portatore e, quindi, utilizzare il proprio cervello in modo differente dai suoi contemporanei; dall'altro elaborare un modo di raccontare che carpisse l'attenzione dell'ascoltatore a tal punto da garantire l'apprendimento - e quindi l'assimilazione - dei contenuti trasmessi. Per rispondere alla necessità di ricordare, i narratori svilupparono capacità di ascolto e di parola altamente evolute, una comprensione profonda dell'attualità e, elemento più importante, una elevata capacità di memoria e visualizzazione. Nel tempo scoprirono che il miglior modo per ricordare e dare un senso alle informazioni era creare immagini fantastiche e vivide nelle loro menti e intesservi le informazioni; che le tecniche di visualizzazione per il potenziamento della memoria - che usavano su se stessi - funzionavano altrettanto bene per diffondere il messaggio tra i loro ascoltatori e assicurare che essi lo apprendessero. In effetti, in alcune culture, i narratori di diverse tribù competevano tra loro per inventare le storie più bizzarre e affascinanti, da cui la nascita, ad esempio, di "personaggi" quali streghe malvagie, draghi volanti e maiali parlanti. Ciò che gli antichi narratori facevano in modo istintivo è stato confermato dalle ricerche contemporanee sul cervello, secondo le quali, l'apprendimento e la memoria lavorano meglio quando: l'informazione è vista come parte di un contesto o quadro più ampio; vengono generate la novità e l'interesse; sono coinvolte le emozioni. 76 4.4.2 Apprendere attraverso il contesto o il quadro più ampio Il nostro cervello ricerca continuamente nel mondo il significato, il contesto e i modelli. La neo corteccia è la parte del cervello che presiede ai processi del pensiero e del linguaggio; la sua funzione primaria è prendere tutti i dati apparentemente privi di significato che entrano nella nostra testa e sistemarli in qualche tipo di modello o "mappa percettiva" che ci aiuti a comprendere. La neocorteccia è contemporaneamente creatrice e identificatrice di modelli; può ordinare e conservare informazioni utilizzando un sistema molto più complesso del computer più potente. Essa gioca un ruolo cruciale nel processo di apprendimento: quando impariamo qualcosa di nuovo, crea un'associazione con un modello esistente (assimilazione) o ne definisce uno nuovo (strutturazione), che in seguito archivia nel nostro inconscio per recuperarlo in un secondo tempo. Boller e Rovee-Collier (1992) scoprirono che quando gli studenti apprendevano una nozione come parte di un contesto attraverso una storia, una mappa o una prospettiva rilevante per l'argomento - l'apprendimento e la memoria aumentavano enormemente. Offrire un contesto o una cornice concettuale per l'apprendimento consente ai discenti di fare connessioni con ciò che considerano importante e potenzia il richiamo della memoria (questo è il motivo per cui i bambini preferiscono ascoltare storie con molte ripetizioni, note a volte come "racconti cumulativi"). Per fare un esempio pratico e attuale, in un contesto formativo e di apprendimento, trasferire semplicemente una nozione ai propri discenti non garantisce necessariamente risultati positivi: le informazioni così fornite possono, infatti, essere recepite e percepite come sterili e noiose e il sistema di insegnamento offerto risultare privo di "significato". Imparare aspetti specifici di un ruolo, o argomenti, utilizzando anche il medium di una storia, offrirebbe a chi impara o ascolta un quadro di riferimento più ampio e ricco, provocatorio e memorabile, vale a dire più interessante, degno di attenzione. Un proverbio molto noto dice "l'esperienza fa il buon maestro" e se le storie sono basate sull'esperienza - la vostra o quella di altri - esse devono essere la cosa più simile all'apprendere dalla vita reale. Le storie in linguaggio naturale (quando comprese da noi "empaticamente") coinvolgono in modo dimostrabile il nostro cervello: questo linguaggio, infatti, ricorda ed evoca nel nostro cervello la stessa risposta che sperimenteremmo se vivessimo realmente ciò che il narratore racconta (per contro, il linguaggio logicomatematico non funziona in modo evocativo - Bartter, Hilgartner e Stoneman, 1999). Le stesse storie possono contenere modelli e schemi che ci aiutano a inserire i fatti in un contesto. Questi modelli possono essere contenuti nelle storie delle nostre vite, o nelle storie o metafore di quelle di altri. Kaye e Jacobson (1999) affermano che se vediamo "i molti accadimenti delle nostre vite come parte essenziale di un modello, scopriamo valori nelle storie che creano il modello". In altre parole, scopriamo più facilmente un significato nelle nostre vite se vediamo gli eventi come parte di un quadro più ampio invece che come una serie di avventure o disavventure casuali. 4.4.3 Apprendere attraverso la novità e l'interesse Potrebbe sembrare una contraddizione con quanto affermato sopra, ma l'apprendimento e la memoria possono anche essere migliorati quando un'informazione viene presentata in modo nuovo o fuori dall'ordinario, che non si adatta ai modelli e agli schemi prestabiliti nel nostro cervello. McGaugh et al. (1990) sostengono che quando un'informazione non si adatta a un modello esistente e riconoscibile, viene immediatamente catalogata dalla neocorteccia come differente, i livelli di stress naturale si alzano e con essi l'attenzione. Se l'informazione viene percepita come una minaccia, il corpo può rilasciare cortisolo, se è sentita come positiva viene rilasciata adrenalina. Attraverso gli esperimenti effettuati, gli autori hanno scoperto che entrambi questi composti chimici agiscono come fissanti della memoria e che le persone possono ricordare più a lungo di quando tali composti non sono presenti. Questo è il modo in cui le metafore possono lavorare nella nostra mente. Una metafora può essere qualsiasi cosa, da una breve frase - "È un incubo", "Vive sulla corsia veloce", "È un orsacchiotto" - fino a 77 una storia completa, che spesso viene definita una "metafora estesa". Una metafora è un paragone tra due soggetti spesso privi di qualsiasi correlazione, ed è proprio questa profonda differenza che può creare quella tensione o dissonanza nella nostra mente che richiede una soluzione. Ascoltare una metafora serve come "segnale di interruzione" di un modello, ovvero, ci offre un'esperienza del tipo "Che cosa?" che, nel costringerci ad uscire dal nostro pensiero logico abituale, stimola la nostra attenzione e può predisporci in modo diverso rispetto a un problema o a un argomento. Per fare un esempio, una metafora, se ben utilizzata, può anche superare la nostra resistenza naturale al cambiamento (barriere protettive): l'offerta di una possibile soluzione attraverso il tramite di una metafora può essere da noi percepita come più accettabile e meno minacciosa. Affinché una metafora funzioni, la distanza tra i due soggetti, il concetto e il veicolo, deve essere tale da permettere all'ascoltatore di attuare alcune connessioni, ma non così piccola da essere ovvia, o così grande da apparire astrusa. Per esempio, "Vive sulla corsia veloce" funziona perché abbiamo tutti una qualche comprensione del concetto di corsia veloce sia essa su un'autostrada o su un campo di atletica - e di ciò che questo può significare in relazione alla vita di una persona; tuttavia affermare "sta vivendo come il football" non funzionerebbe, perché i termini sono troppo distanti ed esiste ben poco a cui relazionarci in termini di paragoni. Il linguaggio figurato, vivido e ricco di colore della metafora è ciò che ci aiuta a ricordare l'informazione e a espandere il nostro potenziale di apprendimento; il suo uso appropriato può condurre a una comprensione più profonda di noi stessi e degli altri. "La maggior parte dell'autoconoscenza è costituita dalla ricerca di appropriate metafore personali che diano senso alla nostra vita" (Lakoff e Johnson, 1980). Le storie, gli aneddoti e le analogie possono essere tutti visti come metafore estese. Il formato generale e la struttura di ogni storia, sia essa un breve aneddoto o una favola o un mito di maggiore lunghezza, sono essenzialmente gli stessi: il personaggio/i della storia (reale o immaginaria) incontra un certo problema, conflitto o sfida (la dissonanza), che deve affrontare, con successo o meno, raggiungendo quindi una soluzione di qualche tipo. Nigel Watts (1996) descrive questo format come una serie di punti o pietre miliari di un viaggio: 1. lo status quo, nel quale incontriamo l'eroe/eroina; 2. il "grilletto", qualcosa che accade e che implica che lo status quo non può continuare; 3. la ricerca, la risposta alla sfida; 4. la sorpresa, ciò che veramente ci colpisce in faccia; 5. la scelta critica, il dilemma; 6. il culmine, la scelta che dobbiamo fare; 7. il rovesciamento, il cambiamento che deriva dalla scelta che abbiamo fatto; 8. la soluzione, se il rovesciamento viene corroborato. Queste fasi della storia possono fornire un utile parallelo al discente (e quindi un utile strumento per il docente), qualsiasi "viaggio" formativo, professionale o di vita, stia intraprendendo, in particolare se esso comporta o implica una sfida o un problema (per esempio un cambiamento di lavoro o di ruolo, una scelta formativa, la definizione di nuovi obiettivi od orizzonti o il cambiamento di situazioni nella vita privata). L'uso delle storie come uno strumento per l'autotrasformazione è stato ampiamente sostenuto nel mondo terapeutico per diverso tempo: se il conflitto nella storia viene visto come simile a quello che il discente sta affrontando, allora il messaggio del racconto acquista un significato ulteriore e più rilevante. 78 4.4.4 Imparare con le emozioni Ricercatori come Ornstein, Sperry e Lakoff hanno dimostrato, attraverso ripetuti studi sul funzionamento del cervello, che l'apprendimento e la memoria sono potenziati dalla loro associazione con l'attività emotiva. Poiché il centro emotivo del cervello (il sistema limbico) è situato vicino alla parte responsabile della memoria a lungo termine, tutti noi ricordiamo più facilmente quando le nostre emozioni vengono sollecitate, indipendentemente dal fatto che si tratti di eccitazione, curiosità, suspense o rabbia. Inoltre, O'Keefe e Nadel (1978) hanno scoperto che sperimentare emozioni positive rende più facile costruire "mappe percettive", il che significa che possiamo richiamare e dare un senso ai nostri pensieri in modo più chiaro e accurato. Più recentemente, ricercatori come Daniel Goleman (1999) e Jack Canfield (1966), hanno rilevato che in un contesto lavorativo l'uso delle abilità tecniche e intellettuali non è più sufficiente a garantire il successo dei singoli all'interno delle organizzazioni moderne. Altre qualità e abilità "personali" è necessario sviluppare, quali iniziativa ed empatia, autostima e motivazione. In altre parole, abbiamo bisogno di essere coscienti e di gestire le nostre emozioni, e le storie possono aiutarci a farlo: una storia ben narrata può suscitare sentimenti positivi di curiosità, sorpresa o eccitazione, o sentimenti negativi di tristezza, depressione o rabbia molto di più di quanto non possa fare una colonna di numeri o una lista di fatti. Le storie possono anche scioccare: il terapista Milton Erickson era ben noto per il suo uso di racconti didattici, alcuni specificamente progettati per colpire i suoi pazienti e farli uscire dai modelli di comportamento abituali. Di per sé le storie non sono né positive né negative, dipende da come sono usate e per quale scopo. Peg Neuhauser (1993), nel suo libro "Corporate Legends and Lore", afferma che abbiamo bisogno di focalizzarci sul risultato voluto di una storia per determinare se produce un'emozione positiva o negativa. Per fare ciò, possiamo analizzare o valutare l'efficacia dell'ascolto di una storia con domande come queste: ascoltando la storia, le persone si sono sentite fiere di se stesse o di altri? la storia ha aiutato il narratore o gli ascoltatori a ridurre la pressione o lo stress? la storia ha scioccato o turbato le persone? L'uso di emozioni positive in un racconto, quando ben gestito, può essere molto contagioso e incoraggiante. Michael Hattersley (1997), in un articolo sull'arte manageriale di raccontare storie, sostiene: "Le storie possono essere il miglior modo per confezionare il significato e incoraggiare gli altri a comprenderlo. Al livello più elementare, lo storytelling può aiutare un manager a guadagnarsi l'attenzione del suo pubblico; ma se la storia è abbastanza buona, può anche incoraggiare gli individui e le organizzazioni ad assumersi quei rischi che fanno della vita un'avventura". 4.4.5 Apprendere con l'umorismo L'umorismo è un'emozione che merita una menzione speciale. Sebbene molto difficile da analizzare, esso si è dimostrato un partner potente ad esempio nelle questioni di business. Basti pensare ai molti video delle società tra gli anni '70 e '80 che sono stati realizzati sull'idea di utilizzare storie umoristiche per esporre argomenti aridi o accademici. Eric Iensen (1988) riferisce di alcuni lavori condotti alla Indiana University, nei quali i ricercatori hanno scoperto che quando gli studenti erano esposti allo humour si dimostravano più ricettivi alle informazioni e si creava un miglior rapporto tra loro e l'insegnante. Questi studi hanno anche dimostrato che quando agli studenti venivano forniti dei punti chiave per l'apprendimento seguiti da una storia umoristica, erano in grado di ricordarli molto meglio di quando non veniva narrata alcuna storia. Ogni volta che ridiamo, il nostro cervello viene stimolato a produrre catecolamina, un ormone della vigilanza, che a sua volta favorisce il rilascio di endorfine, gli analgesici naturali del corpo. Quindi, oltre ad avere un grande potenziale per il nostro benessere 79 generale e per la nostra guarigione fisica, il riso può avere sul cervello gli stessi effetti di un "tranquillante". L'umorismo può essere usato molto efficacemente in molti contesti formativi e non, sia individuali che di gruppo, sebbene sia necessario essere sicuri che il contenuto e l'atmosfera siano appropriati; in altre parole, deve essere condiviso e apprezzato da tutti in egual modo. Le persone che apprezzano una storia divertente e ridono insieme sono un gran modo per dissolvere qualsiasi tensione esista; inoltre, in una sessione di gruppo può aiutare a costruire un senso di comunità tra i membri. 4.5 LE STORIE E L'APPRENDIMENTO INCONSCIO Il poeta e filosofo tedesco Goethe disse: "La maturità dell'essere umano è ritornare alla serietà del gioco di un bimbo". Se avete osservato i bambini giocare, saprete che si tratta di una attività che richiede tutta la loro concentrazione. In quanto adulti, ascoltare ed essere totalmente presi da una storia, fatto che avviene abbastanza facilmente se è raccontata bene, può aiutare a ridurre lo stress e la tensione muscolare e a promuovere sentimenti di benessere e rilassamento. Quando sono rilassate, le persone sono naturalmente più ricettive, condizione che le aiuta a imparare e trattenere le informazioni più facilmente. Le immagini del cervello e le ricerche sulle differenti funzioni e attività hanno dimostrato che il nostro cervello funziona su quattro differenti lunghezze d'onda o frequenze: beta, il cervello conscio e completamente vigile; alfa, lo stato di rilassamento cosciente; theta, sul margine del sonno; delta, il sonno profondo. Sebbene si possa pensare che il nostro cervello conscio e completamente vigile sia lo stato migliore per apprendere, le ricerche hanno dimostrato che, in realtà, assorbiamo informazioni in modo più veloce ed efficiente quando ci troviamo al livello alfa, ovvero in uno stato di "rilassamento cosciente". Il potere della storia sta nel fatto che mentre le nostre menti coscienti sono assorbite, il subconscio è libero di assimilare la morale o il messaggio contenuti nel racconto. Questo assorbimento nella storia può anche produrre l'effetto che lo psicologo Mihaly Csikszentrnihalyi (1990) definisce "flusso". Si tratta di una sensazione che è possibile provare quando ci si trova così coinvolti in un'attività da perdere ogni nozione di tempo, spazio e sé, e si diventa un tutt'uno con essa. Chiunque stia imparando a usare Internet e improvvisamente si renda conto di aver trascorso tre ore a "navigare" comprenderà il concetto di "flusso". Possiamo accedere più in profondità ai livelli Alpha e Theta usando altre tecniche, come il rilassamento, la respirazione profonda, la meditazione e naturalmente la narrazione. Ascoltare una storia è un metodo assai naturale per rallentare la nostra attività cerebrale. Questo stato, sostiene lo psicologo, è l'optimum per l'apprendimento e viene raggiunto al .meglio quando si riscontrano le condizioni seguenti: sfide importanti, non troppo facili né troppo difficili, motivate intrinsecamente, e libertà di scelta; stress basso, non nessuno stress, ma un livello minimo e un sentimento generale di rilassamento; immersione in uno stato di "flusso", l'attenzione è puntata sull'apprendimento e l'azione, non sul sé o sulla valutazione del compito. Anche le ricerche originali portate avanti da Roger Sperry negli anni '60 sulle funzioni dei due emisferi cerebrali ci forniscono delle indicazioni sul valore dello storytelling nell'apprendimento inconscio. In termini semplici, riteniamo che l'emisfero sinistro sia responsabile del linguaggio, della logica e dell'ordine, mentre quello destro sia deputato alla musica, alle arti figurative e al sogno a occhi aperti, anche se in realtà non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra le due parti del cervello. 80 Ricerche più recenti hanno rivelato che, sebbene l'emisfero sinistro elabori le informazioni più velocemente del destro, entrambi sono coinvolti, in grado diverso, nella maggior parte delle attività umane, e in qualità di "formatori o mediatori di apprendimento" dobbiamo incoraggiare lo sviluppo di entrambi. Arthur Deikman (1982) nel suo libro The Observing Self suggerisce che il contenuto di una storia possa interessare tutti e due gli emisferi cerebrali: il sinistro che elabora le parole sequenzialmente e in modo analitico; il destro che ha a che fare con la visualizzazione e i modelli di apprendimento. Ciò significa che l'emisfero sinistro attenua il suo livello abituale di dominazione sul destro, consentendogli un maggior grado di creatività e di libertà. Ogni formatore, mentore, tutor o educatore dovrebbe utilizzare pienamente questa conoscenza e rendere i "discenti" in grado di avere accesso a entrambi gli emisferi, i quali di conseguenza funzioneranno in modo sempre più efficiente. 4.6 LO STORYTELLING E LA FORMAZIONE I personaggi e gli eventi delle favole personificano e illustrano i conflitti interiori, ma suggeriscono anche sempre in modo sottile come questi conflitti possono essere risolti, e quale potrebbe essere il prossimo passo nello sviluppo verso un'umanità più alta. (Bettelheim, 1991) La narrazione come forma di conoscenza della realtà e costruzione di significati trova la propria origine negli studi di psicologia sociale classica (K. Lewin), recente (Gergen), e nella psicologia cognitiva (Bruner). Secondo tale autore le strutture narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che consentono alle persone di interagire con il sistema di convenzioni culturali all’interno del quale esse vivono. Nel raccontare vi è una forma di conoscenza sociale, cognitiva, affettiva che correla il nuovo con l’esistente attribuendo ad esso un senso. Si impara ad affrontare l’incerto, il non conosciuto attraverso un modo già sperimentato, veicolato da altri che hanno già vissuto e costruito queste conoscenze. La forte valenza formativa della narrazione si trova soprattutto nel consentire al soggetto di riflettere sui vissuti cognitivi e affettivi. Nel selezionare e descrivere un evento, una situazione, ciascuno definisce quale importanza attribuire ai vari momenti della narrazione. Questo porta a elaborare varie strutture che comunicano di per se stesse il peso che è stato dato a ogni fatto raccontato. Allora non vi è solo un contenuto, ma anche una forma che veicola il contenuto. L’azione narrativa diviene consapevolmente o meno un’assegnazione di senso individuale. L’ascolto e la ripresa da parte di altri, la riformulazione, l’ampliamento divengono momenti di costruzione di significato intersoggettivo che va ad aumentare e modificare la precedente conoscenza soggettiva. La condivisione attraverso la narrazione favorisce inoltre la socializzazione delle conoscenze, nel senso che permette a ciascuno di rendere pubbliche le proprie competenze e di concertarle con altre per il raggiungimento degli obiettivi comuni. Le storie tradizionali spesso offrono una sorta di conforto per l'ascoltatore introducendo un "aiuto", una "guida" o altro genere di individuo protettivo, che appare sempre al momento giusto per aiutare il protagonista nel proprio viaggio. L'aiuto può assumere molte forme, una madrina fatata, un angelo custode, un buddha, o forse una qualche sorta di personificazione della coscienza che rimane sulle vostre spalle e vi suggerisce consigli nell' orecchio. Nel campo della terapia, questa tradizione è stata trasportata nella pratica contemporanea con pieno successo. I terapisti hanno accettato e utilizzato lo storytelling come uno strumento efficace e non invasivo di cura. Negli anni '60 e'70, Milton Erickson divenne famoso per il suo uso di "racconti di insegnamento" metaforici, che avrebbero divertito, sorpreso o addirittura scioccato i pazienti introducendo qualche cambiamento nella loro vita. 81 La programmazione neurolinguistica (PNL) e la scuola di terapia della Gestalt includono storie e metafore come parte del loro kit per il pensiero creativo e il problem solving. In definitiva queste erano, e rimangono, le tre principali funzioni dello storytelling: trasmettere le informazioni e la conoscenza; educare e incoraggiare il trasferimento della saggezza cumulativa da una generazione all' altra; incoraggiare la guarigione personale e il problem solving creativo. 4.6.1 Lo scopo delle storie Nella sua forma più semplice, la storia è il resoconto di uno o più eventi, reali o immaginari. L'eroe o l'eroina può essere chiunque – il manager di un'azienda, una divinità onnipotente o un gruppo di scaltri porcellini - ma la struttura della vicenda è sostanzialmente la stessa. Gli elementi necessari di una storia efficace sono: i personaggi; la trama; un conflitto; la soluzione. Tutte le storie propongono un'avventura in cui l'eroe o l'eroina è alle prese con un problema che tenta in tutti i modi di risolvere. È quando l'ascoltatore si immedesima nella storia e può tracciare un parallelismo tra quella vicenda e la sua vita, e quando trae qualche insegnamento dal messaggio sottostante, che si può parlare di metafora. Le storie sono state sempre usate per educare, ispirare, motivare e mettere in guardia e, specie prima dell'avvento della stampa, per tramandare informazioni importanti da una generazione all'altra. Ma perché il racconto è diventato la forma di comunicazione preferita in assoluto? Quando le informazioni si potevano trasmettere solo oralmente, dipendeva tutto dalla memoria, sia dei narratori che degli ascoltatori. Era uno strumento tecnico, non un concetto fantasioso, che assicurava la sopravvivenza di determinate culture. Come già evidenziato, i nostri antenati si resero conto che più si potevano legare le informazioni all'insolito o al fantastico, più era facile ricordarle. Tutte le moderne tecniche di memorizzazione e tutti i processi di pensiero creativo che riteniamo rivoluzionari si basano in realtà sulle stesse, antichissime idee e attingono agli stessi principi. Ma che rilevanza hanno le storie nella nostra epoca di alta tecnologia di alfabetizzazione (quasi) generalizzata, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione per comunicare i nostri fatti, i nostri pensieri e i nostri sentimenti agli altri, e soprattutto per promuovere l'apprendimento? Qual è la loro finalità nel mondo di oggi? Il loro scopo e la loro efficacia sono quelli di sempre, anche se lo stile, il contenuto e l'enfasi si sono ovviamente evoluti. Uno degli scopi principali dei racconti è stato, e continua a essere, quello di comunicare informazioni, di consolidare valori culturali, di educare e di assicurare all'ascoltatore quella maggiore sensibilità che ne faciliterà l'apprendimento, la crescita e lo sviluppo. La loro forza sta nel motivarci, nell'accendere le nostre emozioni, nello stimolare la nostra immaginazione e nel farci pensare e riflettere sulla nostra vita. Molti racconti si possono assimilare sotto certi aspetti a metafore della vita. In superficie ci assicurano rilassamento, distrazione e la possibilità di esercitare la nostra immaginazione e le nostre capacità mnemoniche; a un livello più profondo ci permettono di affrontare gli aspetti più difficili e più complessi dell' esistenza, offrendoci un elemento di confronto più semplice e più positivo, aiutandoci a riflettere e a imparare e lasciandoci più scelte nella soluzione dei nostri problemi. Che cos'è "Il brutto anatroccolo", se non una lezione di autostima? Che cos'è "La tartaruga e la lepre", se non una lezione di time management e di pianificazione? Un'altra ragione per cui usiamo e apprezziamo tanto, le storie è che hanno quasi tutte un lieto fine, che ci lascia 82 in uno stato d'animo più positivo rispetto all'inizio della narrazione. E anche se razionalmente possiamo renderci conto che la classica chiusura "e vissero per sempre felici e contenti" indica un traguardo irraggiungibile e non particolarmente realistico nella società di oggi, si tratta pur sempre di una condizione a cui molti di noi continuano ad aspirare, non solo per sé ma anche per gli altri. Certo, dobbiamo convivere con le realtà della vita, ma non è meglio trovare un equilibrio tra i due estremi? Betty Rosen parla dei legami e dei parallelismi tra la storia e la vita quotidiana: [Nelle storie] il reale e lo straordinario si scambiano, si fondono o si contrappongono costantemente. Ho la sensazione che questo processo sia più simile di quanto non crediamo al metodo che usiamo abitualmente per dare significato al mondo. [ ... C'è] una sorta di rapporto psicologico con la storia, perché essa se- gue l'andamento narrativo della normale meditazione umana. (Rosen, 1988) Tutte le storie a lieto fine ci stimolano in positivo - la leggenda della tradizione popolare, il racconto pieno di entusiasmo che vi fa vostra figlia al ritorno da scuola o l'exploit della forza vendita di cui si parla in azienda - e ci danno entusiasmo, coraggio e ottimismo per il futuro. Ci offrono qualcosa di cui essere orgogliosi, qualcosa in cui identificarci e qualcosa da sperare. 4.6.2 Lo scopo della metafora Tutte le volte che usiamo frasi come "Mi sento la testa di piombo", "Là fuori è un campo minato" o "La sua vita era un libro aperto" impieghiamo una metafora. Il significato etimologico di questa parola è "trasferire il significato", dal greco meta (fuori) e ferein (portare). La metafora è un paragone, un parallelismo, tra due termini, talvolta privi di qualunque relazione. Questi termini sono stati classificati così: il "soggetto" è il concetto originario; il "veicolo" è il suo equivalente metaforico; il "terreno" è ciò che le due cose hanno in comune; la "tensione" è la dissonanza tra le due cose. Per esempio, nella frase "Mi sento la testa di piombo", il "soggetto" è la mia testa; il "veicolo" è il piombo; il "terreno" è ciò che queste due entità hanno in comune, ossia un senso di pesantezza; la "tensione" è la dissonanza tra le due entità: la testa è fatta di carne, di ossa ecc., mentre il piombo è un metallo. È questa relazione tra la realtà e le due entità contrapposte che conferisce alla metafora la capacità di far pervenire un messaggio al destinatario. Noi usiamo le metafore in modo assolutamente naturale, spesso anche inconscio, nella vita quotidiana per descrivere certi eventi, certe situazioni o certi sentimenti. Conosciamo tutti le espressioni "è caduto al primo ostacolo", "hai davanti un mare di opportunità", ma forse non siamo sempre pienamente consapevoli del potente effetto che questo linguaggio metaforico, usato con gli altri e con noi stessi, può avere sui nostri pensieri e sui nostri comportamenti. In un contesto di apprendimento, le metafore possono costituire un mezzo efficace e innovativo per descrivere una situazione, un'esperienza o un problema; un mezzo che può offrire informazioni alternative, aiutare l'ascoltatore a "riconsiderare" la 83 situazione da un altro punto di vista e a fornirgli soluzioni aggiuntive, talvolta innovative. Chi ascolta il racconto metaforico dovrebbe riuscire a trovare un collegamento con la sua situazione personale, ma senza arrivare alla piena identificazione. Il linguaggio metaforico può essere molto più potente del linguaggio diretto e può avere un effetto più rilevante sull' ascoltatore. George Lakoff e Mark Johnson, due esperti di utilizzo delle metafore, dicono che mentre l'immagine è statica, la metafora è personale, dinamica e stimolante, e può costituire la base per progettare e realizzare dei cambiamenti nella nostra vita. La metafora è uno degli strumenti più importanti che abbiamo a disposizione per cercare di comprendere parzialmente ciò che non siamo in grado di comprendere totalmente: i nostri senti- menti, le esperienze estetiche, le pratiche morali e la consapevolezza spirituale. (Lakoff e Johnson, I980) 4.6.3 Storie e processo di apprendimento Oggi che le organizzazioni e gli individui sono alla ricerca di modalità più efficaci, più economiche, più durature e sempre più sofisticate per facilitare l'apprendimento, la narrazione è ancora una tecnica di insegnamento utile e pertinente? Lavorando con alcune grandi aziende americane, Peg Neuhauser ha scoperto che ciò che si impara da una storia ben raccontata, in modo formale o informale, si ricorda più facilmente e molto più a lungo di ciò che deriva da un elenco di fatti o di dati statistici. I racconti consentono alla persona di vedere e sentire le informazioni, oltre che di capirle in termini pratici [ ... ] perché se "sentite" le informazioni in chiave pratica, visuale ed emozionale, è più probabile che vi restino impresse in modo duraturo nel cervello, con uno sforzo minimo da parte vostra. (Neuhauser, 1993) Inoltre, gli insegnamenti contenuti in una storia tendono quasi sempre a produrre un "effetto onda" , perché chi la ascolta è molto più incline a raccontarla ai colleghi di quanto non farebbe con il contenuto di un rapporto ... Lo studioso Roger Sperry (1964) scoprì l'esistenza dei due emisferi cerebrali posti a lato della corteccia, ognuno dei quali è preposto a determinate attività fisiche e intellettuali. L'emisfero destro, oltre a controllare il lato sinistro del corpo, governa l'attività fantastica, la creatività e l'immaginazione, nonché il senso artistico, cromatico, musicale e del ritmo. L'emisfero sinistro controlla il lato destro del corpo e presiede alle funzioni intellettuali: l'espressione verbale, la logica razionale, il pensiero lineare e il ragionamento numerico. I due emisferi cerebrali non operano l'uno indipendentemente dall'altro: li collega un organo complesso, denominato corpo calloso, che movimenta milioni di informazioni in un tempo brevissimo. In ciascuno di noi prevale l'emisfero destro o l'emisfero sinistro e ci sono dei questionari - come l'Hermann Brain Dominance Instrument - che permettono di identificare il nostro orientamento prevalente, ma una strategia più utile - specie ai fini dell'apprendimento - è identificare delle soluzioni per svilupparli e utilizzarli nella stessa misura. Il cervello non è diverso da qualunque altro muscolo: se non si usa, si atrofizza. La narrazione richiede - sia al narratore sia all'ascoltatore - l'utilizzo di entrambi gli emisferi cerebrali: il sinistro gestisce la processazione delle parole e la sequenza narrativa, mentre il destro presiede all'immaginazione, alla visualizzazione e alla creatività. Roberta e Gerald Evans (1989) hanno studiato come accrescere l'efficacia dei racconti, delle metafore e delle analogie rispetto ai seguenti meccanismi cognitivi: a) concretizzazione; b) assimilazione; c) strutturazione. 84 a) Concretizzazione L'ascolto del racconto ci aiuta a dare significato pratico a quello che potrebbe apparire un tema astratto, tramite il collegamento con esempi tangibili o concreti. Ad esempio, per illustrare i concetti di fissazione degli obiettivi, problem solving o benchmarking si potrebbe raccontare una storia molto semplice che permette agli ascoltatori di rifarsi a una situazione estremamente "reale" e concreta, coerente con la loro esperienza. b) Assimilazione L'apprendimento è un processo continuo, mediante il quale si aggiungono nuove informazioni a quelle che sono già archiviate nella nostra memoria. L'uso di una storia, specie se appartiene alla tradizione popolare o se si tratta di una vicenda nota a cui tutti possono fare riferimento, richiama alla mente dell'ascoltatore delle vecchie informazioni che si potrebbero vedere in una prospettiva nuova. Le storie possono risultare particolarmente utili quando si presenta un nuovo argomento a un gruppo di ascoltatori che non ha conoscenze analoghe a cui appoggiarsi. La storia può offrire un utile punto di riferimento su cui lavorare. Per esempio, la scena di Alice nel paese delle meraviglie in cui la protagonista incontra lo stregatto è universalmente nota; nella nostra infanzia abbiamo vissuto quasi tutti un'esperienza analoga e allora l'abbiamo presa alla lettera. Ma quando ci viene riproposta in età adulta, nel contesto della fissazione degli obiettivi o del problem solving, diventa immediatamente un modello pertinente e pratico per affrontare i dilemmi dell'operatività di oggi. c) Strutturazione Coloro che imparano con l'ausilio della narrazione didattica possono applicare i concetti appresi ad altre situazioni, non direttamente legate a quella specifica in cui si è verificato l'apprendimento. In altre parole, stanno costruendo nuove strutture di conoscenza e sono in grado di effettuare una generalizzazione in altre aree, al di là del momento e del luogo dell'apprendimento iniziale. 4.6.4 Metafore e apprendimento Esaminiamo ora in dettaglio come si possa usare il linguaggio metaforico nel contesto dell'apprendimento. Questo linguaggio si sta affermando sempre di più come strumento per aiutare le persone ad acquisire nuove conoscenze e a trasferire l'apprendimento da ciò che è ben noto a ciò che è meno noto, in modo vivido e memorabile. Andrew Ortony (1993), che ha studiato approfonditamente i diversi utilizzi delle metafore, afferma che vi sono tre ragioni principali per ricorrere alla metafora nella vita quotidiana e in particolare in un contesto di apprendimento: a) ottenere compattezza nel nostro modo di comunicare; b) dare vivacità al nostro linguaggio; c) cercare di esprimere l'inesprimibile. a) Compattezza Usiamo la metafora perché è veloce, concisa ed efficace e si può impiegare per fornire una comprensione universale. Per esempio, se una donna vi dicesse: "Sono terrorizzata; tremo come una foglia", quella frase non reggerebbe all'analisi scientifica, ma è una frase che possiamo capire tutti e a cui possiamo facilmente riferirci. "Tremo come una foglia" non è che una versione sintetica di "sono ansiosa, tesa, nervosa, tremo dalla paura, sento che qualcuno mi sta preparando una trappola". 85 b) Vivacità Le metafore ci mettono a disposizione simboli e immagini pregnanti, che accendono molto spesso le nostre emozioni e rendono più facile da comprendere il contenuto che descrivono. Oltre a questo, le informazioni diventano più credibili e più facili da ricordare. Per esempio, la frase: "Quando incontrò il suo avversario, era un'autentica belva" suscita immediatamente una immagine mentale molto precisa e sicuramente più vivida di quella che si affaccerebbe alla nostra mente se ci avessero detto: "Appariva estremamente sicuro di sé". Ma c'è dell' altro: la vivacità di una metafora ci aiuta a sviluppare il pensiero e stimola la nostra immaginazione. Per fare un esempio, le metafore colorite ci aiutano a descrivere e a capire i diversi tipi di leader: "lo squalo", "il delfino", "la gatta morta" o "Attila l'unno". c) Inesprimibilità Le metafore ci permettono di dare chiarezza agli aspetti difficili da descrivere e di esprimerli succintamente in un linguaggio prosaico. Ricorriamo al "linguaggio metaforico" quando facciamo fatica a trasmettere un concetto. "Questo lavoro è abbondanza o carestia" o "Nel mio lavoro devo tenere una serie di piatti in equilibrio su dei bastoncini" sono metafore efficaci per descrivere la natura effimera e transeunte delle proprie mansioni. Sul piano dell'apprendimento, le metafore - sotto forma di frase sintetica o di racconto - rappresentano un modo innovativo per descrivere una situazione potenzialmente difficile e per prospettare nuove vie di uscita, modificando la relazione percepita tra il problema e la metafora. Possono servire quando inducono le persone ad analizzare, ed eventualmente a modificare, la loro visione di se stessi e il loro livello di autostima. Un esercizio può essere ad esempio di porre ai vostri discenti domande come le seguenti: Se fossi un personaggio dei cartoni animati, che personaggio saresti? Se fossi un regalo di Natale, che regalo saresti? Se fossi un odore, che odore saresti? Se fossi una bevanda, che bevanda saresti? Una precisazione: questi giochi sono simpatici e generalmente apprezzati, ma non si deve sottovalutare la profondità dell'esercizio: le persone mettono a nudo la propria anima - anche se in modo scherzoso - e si può notare che alcuni sono più disposti a farlo di altri. In genere, è consigliabile che sia il formatore a offrire per primo il proprio contributo, per dare un'idea di come funziona il gioco e dimostrare che non esita a dichiarare le proprie opinioni. Questi giochi basati sulle metafore si possono usare in modo analogo per aiutare le persone a ripensare le relazioni che intrattengono tra di loro, con altri soggetti in altre situazioni. Di fronte alla domanda "Se il tuo capo fosse una pietanza, che pietanza sarebbe?", il giovane manager rifletté un attimo e poi disse in tono estremamente serio e risoluto: "Sarebbe il pudding". "Perché proprio il pudding?", gli chiese uno dei suoi colleghi. "Beh, sai, a volte a volte piace e a volte no!". Quella risposta suscitò risate e applausi da parte dei colleghi, che conoscendo la persona in questione potevano apprezzare immediatamente la sua osservazione. E ai lettori che pensano "È un giudizio un po' pesante", devo ricordare che si trattava di un'organizzazione decisamente favorevole alla valutazione a 360 gradi e alla comunicazione aperta e che il capo oggetto di quel paragone poco lusinghiero faceva parte del gruppo e si era unito alle risate. (M. Parkin1998) L'utilizzo delle metafore nell'apprendimento può essere particolarmente utile anche quando si lavora con dei gruppi di persone che non condividono la stessa cultura, le stesse conoscenze o gli stessi valori, e che faticano a instaurare una comprensione 86 reciproca. Si va dal gruppo di apprendimento costituito dai rappresentanti di diverse funzioni della stessa azienda, che manca di valori comuni o di una visione comune, al gruppo di apprendimento costituito da persone di diversa origine etnica, religiosa o razziale. Lakoff e Johnson affermano che le metafore hanno un ruolo prezioso in tali situazioni, in quanto promuovono la comprensione reciproca attraverso la negoziazione del significato e l'apprezzamento della eterogeneità. L'immaginazione metaforica è una competenza fondamentale per creare un rapporto e per comunicare la natura di una esperienza non condivisa. Questa competenza consiste in larga misura nella capacità di modificare la vostra visione del mondo e di adattare il modo in cui categorizzate la vostra esperienza. (Lakoff e Johnson, 1980) 4.6.5 Miti e Apprendimento Adesso che ci siamo abituati all'idea di un'organizzazione che apprende (learning organization), possiamo cominciare a familiarizzare con il concetto di un'organizzazione che racconta (storytelling organization; Boje, 1991) e a riconoscere l'importanza dei miti organizzativi nella formazione della cultura e nell'apprendimento. Non tutte le storie che si raccontano all'interno delle organizzazioni diventano necessariamente dei miti: i miti sono racconti particolari che si sviluppano in un arco di tempo prolungato, che presentano personaggi eroici e gesta coraggiose e che vengono tramandati da una generazione all'altra entrando così a far parte della tradizione e della storia di una determinata organizzazione. I miti di oggi ci aiutano a: identificare l'identità e i valori dell'organizzazione; definirne la visione e gli obiettivi per il futuro; capire e adottare il comportamento ritenuto coerente con l'identità dell' organizzazione; apprenderne e accettarne le regole e i tabù; attuare il necessario cambiamento nelle persone e nella cultura. In ogni organizzazione, i componenti raccontano i loro miti, unici, che comportano l'identificazione di figure eroiche o leggendarie, autentici modelli di ruolo per chi vuole fare carriera. Questi personaggi sono presenti e operanti nella struttura sono cioè "leggende del loro tempo" - o appartengono alla storia. Possono essere amministratori delegati o direttori generali, ma anche sindacalisti, capi reparto, insegnanti, impiegati amministrativi o addetti alle pulizie. ...Quale che sia il loro ruolo, ciò che hanno in comune questi eroi dell'era moderna è la capacità di personificare qualche aspetto dell'identità dei valori o delle credenze dell'organizzazione: forniscono un esempio tangibile che gli altri possono studiare ed emulare. I miti possono essere positivi o negativi e, naturalmente, veri o falsi; ma una cosa è certa: se il comportamento che viene messo in atto all'interno dell'organizzazione non corrisponde alla storia che si racconta, quella storia, e probabilmente anche il narratore, non avranno alcuna credibilità: è la piena coerenza tra il mito e il comportamento osservato che insegna il principio. Il fattore più importante riguardo alla creazione e alla narrazione dei miti organizzativi è probabilmente la loro ineliminabilità. I componenti delle organizzazioni si racconteranno sempre delle storie analoghe; delle storie che li hanno particolarmente ispirati o commossi, in positivo o in negativo. Questo processo è una delle forme più efficaci e sottovalutate di comunicazione umana, e la sfida che si pone ai dipendenti delle organizzazioni è prenderne coscienza e utilizzarlo nel modo più produttivo. Allora che cosa potete fare, formatori e manager, per utilizzare a fini di apprendimento i miti che esistono nella vostra organizzazione? Dove e quando conviene impiegarli? Dove e quando sono già stati raccontati? Ascoltate con attenzione i miti che vengono raccontati e perpetuati nella vostra azienda/scuola/agenzia e cercate di scoprire dove e quando sono stati diffusi e tramandati. Sono miti positivi o negativi? Che cosa insegnano sull'organizzazione? Chi sono gli eroi? Chi sono i nemici? Una volta identificati, potete usarli all'interno di eventi di formazione, riunioni, eventi sociali che coinvolgano la struttura. 87 4.6.6 Il messaggio nascosto delle storie Un interrogativo critico riguardo all'utilizzo dei racconti, e in particolare dei racconti metaforici, nella formazione è: "Dirlo o non dirlo?". Manager e formatori, dovete esplicitare il messaggio insito nella storia che avete appena raccontato? O è meglio non dire niente e lasciare che gli ascoltatori sviluppino i loro pensieri e le loro interpretazioni? Date per scontato che abbiano recepito lo stesso messaggio che avete recepito voi? Tenete una discussione per stabilire quale potrebbe essere il messaggio? Non è facile rispondere a questa domanda e molti autori esprimono pareri contrastanti sull'argomento. Thomas Sticht (I993) afferma che i racconti popolari possono essere pericolosi in un ambiente didattico, perché potrebbero dare luogo a tante interpretazioni individuali da pregiudicare l'apprendimento; ritiene che il compito del narratore sia chiarificare, non creare una perplessità eccessiva nei discenti. Hugh Petrie e Rebecca Oshlag (I993) affermano per contro che la chiarezza emerge proprio dal dubbio e dall'incertezza interpretativa. Per loro, l'impatto della narrazione sull'apprendimento è il risultato di un processo in quattro fasi. 1. Fase della "anomalia" - Il discente vede la situazione in chiave problematica e si rende conto di dover fare qualcosa per migliorarla. 2. Presentazione della metafora - Il discente ascolta un racconto narrato, o lo legge. 3. Applicazione della metafora - Il discente assume il nuovo comportamento suggerito dal racconto e stabilisce se l'anomalia originaria è stata eliminata. 4. Correzione dell'attività - Alla luce dei risultati che ottiene dal suo nuovo comportamento, il discente apporta gli aggiustamenti eventualmente necessari per eliminare del tutto l'anomalia. In primis siete voi narratori a dover avere le idee chiare sulla finalità da dare alla storia e sull'importanza da attribuire all'univocità del messaggio. Se usate il racconto per chiudere in modo rilassato la giornata, probabilmente è il caso di lasciare i partecipanti in quella condizione di relax, e quindi liberi di riflettere autonomamente sul significato del racconto metaforico. Se il racconto è un aneddoto fulminante o una breve metafora "usa e getta", ha natura umoristica ed è caratterizzato da un messaggio piuttosto semplice, è consigliabile lasciare il messaggio inespresso. Ricamandoci sopra, si rischia di rovinare l'elemento di sorpresa e di umorismo; ed è facile inimicarsi gli ascoltatori dimostrando di non fidarsi delle loro capacità di comprensione. Potete capire dalla loro reazione verbale o non verbale - se "l'hanno capita" o no. Se la finalità del racconto è offrire un esempio tangibile della teoria che state presentando, conviene chiedere al vostro pubblico, in tono piuttosto allegro, "Che cosa diavolo c'entra questa storia con la fissazione degli obiettivi/la motivazione?", o "Che attinenza pensate che abbia con quello che abbiamo detto fin qui?" (Non fate la solita domanda "Avete capito?", non vi dice niente sulla comprensione del gruppo e può anche risultare offensiva!). Permettete ai componenti del gruppo di "leggere" autonomamente il messaggio e di tracciare dei collegamenti con la loro esperienza personale. Se il racconto serve a chiarire un argomento particolarmente vasto o complesso, è consigliabile spiegare il legame che voi vedete tra esso e l'argomento in discussione. Se utilizzate il racconto come base di riferimento per un caso di studio o per una discussione di gruppo, la domanda da porre ai partecipanti è: "Quale ritenete che sia il messaggio contenuto in questa storia, e come si applica al... team building quality management?". Quando i partecipanti avranno fornito le loro risposte potrete aprire il dibattito, 88 confrontare la loro interpretazione con la vostra, ed eliminare le anomalie. Vale la pena di ricordare che chiunque ascolti una storia ne darà sempre un'interpretazione personale e ci leggerà un suo messaggio specifico; lo fa anche il narratore e lo fa persino l'autore! Sarete voi, in quanto narratori, a decidere: a. quale ritenete che sia il messaggio; b. dove usare il racconto e a quale scopo; c. se esplicitarne o meno il messaggio. 4.6.7 La storia e la memoria Pur senza ignorare il dibattito in corso da tantissimi anni sul concetto di memoria, qui possiamo definirla semplicemente "la conservazione e il recupero dell'apprendimento pregresso". Gli psicologi hanno osservato che la nostra memoria sembra funzionare al meglio in queste condizioni: 1. se possiamo inquadrare le cose in un ordine riconoscibile o in un modello strutturato; 2. se la nostra immaginazione e le nostre emozioni vengono adeguatamente stimolate; 3. se possiamo fare delle associazioni spontanee tra un'idea e l'altra; 4. se le informazioni stimolano fortemente i nostri sensi: vista, udito, odorato, gusto e percezione fisica. Che ruolo può avere allora la narrazione nello sviluppo della nostra memoria? 1. Possiamo inquadrare le cose in un ordine riconoscibile o in un modello strutturato Il nostro cervello ricerca per natura ordine, continuità logica e completezza. Ciò spiega perché, quando qualcuno starnutisce, gli diciamo automaticamente "Salute!", e perché non riusciamo a sentire la frase "Una mela al giorno ... ", senza aggiungere d'impulso "leva il medico di torno". Spiega anche perché, per alcuni, è difficile resistere alla tentazione di completare la frase in sospeso al posto di chi parla. "Ho pensato che oggi potremmo ... ehm ... " E voi vi affrettate a proporre: "Andare al cinema? Restare a casa con un buon libro? Fare una gita?". La stessa dinamica si incontra nella narrazione. Per la tendenza naturale a ricercare continuità e completezza, ci viene facile ricordare le cosiddette "storie cumulative", caratterizzate dalla ripetizione e dall'enfatizzazione di certe parole o di certe frasi. Lo stesso processo si ritrova nei racconti per adulti; più si citano parole e frasi, e più si nomina un determinato personaggio (reale o immaginario), più il contenuto si imprimerà nella memoria e più agevole sarà il ricordo. Ma fate attenzione al messaggio che andate ripetendo: è positivo o negativo? E non abusate di questa tecnica. 2. La nostra immaginazione e le nostre emozioni vengono adeguatamente stimolate Gli scienziati hanno ormai dimostrato che, oltre ai due emisferi, il nostro cervello ha anche una struttura a tre livelli. La parte superiore o "corteccia" controlla i processi intellettuali, come il pensiero, la verbalizzazione ecc. La parte inferiore, o "rettiliana", controlla i comportamenti istintivi, come la respirazione; e la parte intermedia, il cosiddetto "sistema limbico", governa le emozioni. Gli scienziati hanno anche dimostrato che il sistema limbico si trova accanto alla parte del cervello che presiede alla conservazione dei ricordi, il che spiega perché tendiamo a ricordare più facilmente le informazioni se siamo 89 coinvolti sul piano emozionale. Perciò, quando si usa il racconto come strumento didattico, più il contenuto attiva l'immaginazione, attraverso l'inclusione di situazioni insolite, creature fantastiche o esseri mitologici, e più stimola le emozioni - buon umore, pathos, empatia - più è probabile che il messaggio venga ricordato. Un'altra teoria sull'uso didattico del racconto afferma che questo processo può indurre in noi una forma di regressione all'infanzia, e quindi suscitare quello stato emotivo di curiosità che è sempre presente nei bambini, ma che tende a venir meno con l'età adulta. Una volta ritornati a questo stato infantile, siamo più ricettivi e più interessati alle informazioni che ci vengono comunicate, e quindi ricordiamo di più. 3. Possiamo fare delle associazioni spontanee tra un'idea e l'altra Come sappiamo, il cervello è composto da miliardi di neuroni o cellule cerebrali, ognuna delle quali ha un nucleo centrale e delle ramificazioni, chiamate "dendriti", che si irradiano tutt'attorno. Ogni neurone immagazzina delle informazioni e le trasmette ai neuroni adiacenti attraverso una carica elettrochimica. Dunque, tutte le volte che dite: "Ho avuto un lampo di ispirazione!" o "L'idea mi è piovuta dal cielo!", siete perfettamente nel giusto. Ciò che definiamo banalmente "pensiero" è in realtà un network incredibilmente complicato di cariche elettrochimiche, che viaggiano quotidianamente da un neurone all'altro infinite volte. È per questo che i ricordi si recuperano più facilmente se riusciamo ad associarli a qualcos'altro. Quanti di noi, se ci chiedono di dire quanti giorni ha giugno, sarebbero in grado di rispondere senza ripetere mentalmente la filastrocca "Trenta giorni ha novembre ... "? Gli esercizi di brainstorming funzionano proprio così: l'idea espressa da una persona innesca un'associazione mentale in un'altra. E chi ha familiarità con le "mappe mentali" ideate da Tony Buzan (I993) vi riconoscerà la stessa dinamica. Tony suggerisce l'impiego dei colori, delle immagini visuali, dei simboli e dei codici per stimolare la funzione associativa del cervello. L'ascolto dei racconti può anche aiutare i nostri cervelli nell'attività - del tutto automatica e naturale - di creare associazioni. I racconti ci inducono ad associare una parola a un'altra parola, a un'immagine, a un suono o a un sentimento. Così come usiamo istintivamente le immagini visive nelle nostre mappe mentali, quando ascoltiamo una storia non possiamo fare a meno di crearci una rappresentazione visiva; solo che adesso lo facciamo all'interno, anziché all'esterno, della nostra mente. 4.Le informazioni stimolano fortemente il nostro senso preferito Gli studiosi di programmazione neuro-linguistica (PNL) sanno che gli esseri umani pensano, comunicano e imparano attraverso l'uso dei cinque sensi. Le percezioni sensoriali si possono classificare pertanto in: visive, uditive, cinestetiche, olfattive, gustative. E sanno che ognuno di noi tende ad avere un senso preferito, o un "sistema di rappresentazione" preferito: i più comuni sono la vista, l'udito e la percezione cinestetica. In termini di apprendimento, ciò significa che ognuno reagisce a un certo tipo di stimolo, a seconda del suo sistema di rappresentazione. I discenti visivi sono particolarmente disposti ad apprendere quando possono vedere un testo scritto, dei diagrammi o dei modelli. Il loro linguaggio è indicativo di quello che passa loro nel cervello: "Capisco il quadro", "Non ne vedo il senso" ecc. I discenti uditivi sono particolarmente disposti ad apprendere attraverso le conferenze, le discussioni di gruppo, le registrazioni 90 audio e naturalmente la narrazione. Le loro tipiche frasi sono: "Ti ascolto" o "Mi piace quel suono". I discenti cinestetici sono particolarmente disposti ad apprendere quando provano dei sentimenti o delle sensazioni, o sono coinvolti in qualche attività fisica; perciò il role playing, i "giochi" formativi e i corsi di sopravvivenza sono ideali per loro. Usano espressioni come "Mi va a genio" o "Sono veramente eccitato a questa prospettiva". Quando stimoliamo il senso preferito di un individuo, gli facilitiamo la processazione e il successivo recupero delle informazioni. Ovviamente è difficile sollecitare la corda giusta di ognuno; ma per fortuna c'è la narrazione didattica, che funziona con tutti e tre i sistemi di rappresentazione. Il discente visivo ricorderà il succo del vostro racconto se potrà costruirsi delle immagini mentali durante l'ascolto o se potrà scorrerne il testo. Il discente uditivo ricorderà concentrandosi principalmente sulla voce del narratore, "sentendo" tutti i suoni che figurano nel racconto, reagisce bene anche ai racconti registrati, alla discussione e alla lettura diretta. Il discente cinestetico ricorderà prevalentemente facendo dei collegamenti e delle associazioni tra il contenuto della storia, le sue emozioni e i suoi sentimenti. In alcuni casi, un racconto efficace potrebbe contenere tutti gli "attivatori" della memoria che abbiamo elencato prima. 5. LE NUOVE APPPLICAZIONI DELLO STORYTELLING In un famoso scritto intitolato The Storyteller, nel 1936, Walter Benjamin esprime una visione pessimistica del futuro dello storytelling: L'arte della narrazione sta giungendo al termine. Si incontrano sempre meno persone, e sempre meno frequentemente, in grado di raccontare una storia in modo adeguato. Sempre più spesso si manifesta imbarazzo quando viene espresso il desiderio di raccontare una storia. (Benjamin, citato in Rosen, 1987) Ciò potrebbe sembrare ancora più vero con l'avvento della radio, della televisione e del cinema, e oggi, ovviamente, dell'Information Technology e di tutto ciò che essa porta con sé. Si potrebbe affermare che nei tempi moderni il bisogno apparente di narrazione orale sia praticamente svanito, se non fosse che, paradossalmente, negli ultimi cinquant'anni l'attività di storytelling sia in realtà in aumento! Jack Zipes, professore alla University ofMinnesota e patrocinatore della Society for Storytelling, sostiene: Lo storytelling è ovunque, nelle scuole e nelle biblioteche, nelle case e nei televisori, nei pub e nei ristoranti, durante gli intervalli per il pranzo, negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, al telefono, nei teatri e nei cinema. Contrariamente a quanto credeva Benjamin, lo storytelling non stava per morire negli anni '30, e certamente non appare in procinto di esserlo oggi. (Zipes, 1996) In realtà, in particolare dagli anni '70 si è manifestato un aumento costante nel numero di narratori professionali e semiprofessionali in tutto il mondo, e di un numero equivalente di società e organizzazioni che li aiutano nella loro attività. C'è anche un numero sempre crescente di festival di storytelling, simposi e workshop in attività in tutto il mondo. 5.1 Digital Storytelling La digital tale è una narrazione che integra diversi linguaggi: la narrazione, la sceneggiatura e gli strumenti multimediali come video, colonna sonora, fotografie e altri materiali scannerizzabili. Vi sono principalmente due modalità di realizzazione di una digital tale: 91 Computer Based: consiste nel basare la creazione della storia sull’utilizzo del computer: immagini, musica, programmi come IMovie. Sfondo Verde: è il procedimento inverso dove la storia viene creata e narrata in maniera tradizionale e solo dopo integrata con elementi digitali. 5.2 Storytelling Management Lo Story telling management è una disciplina ampia e articolata che, basandosi sui principi della narrazione applicata all'impresa, genera un vasto assortimento di strumenti, cartacei, digitali e relazionali che possono essere applicati a diverse aree o funzioni aziendali, come per esempio: principi strategici - brand management - comunicazione integrata - advertising formazione - product design. In tal senso lo storytelling ha cominciato ad essere considerato una disciplina e un metodo di lavoro, da poter adottare in settori come le organizzazioni e la comunicazione politica. Questo ha portato le nostre vite personali e lavorative a divenire costantemente avvolte da una sorta di rete narrativa, che filtra le nostre percezioni, stimola i nostri pensieri ed evoca le nostre emozioni. 5.3 Gli audiolibri Un audiolibro è una registrazione audio di un libro letto ad alta voce, da uno o più attori, uno speaker (un lettore) oppure da un motore di sintesi vocale. Il testo letto registrato può essere la versione integrale o una riduzione di un libro o una sceneggiatura (originale o non) scritta appositamente per la registrazione audio. Gli audiolibri possono presentare anche musiche e ricostruzioni sonore (sound design), anche se generalmente l'audiolibro "classico" prevede la sola voce dello speaker che legge il testo. Gli audiolibri, oltre a permettere la lettura dei libri mentre si è occupati in altre attività, possono essere anche un valido aiuto per molte persone affette da particolari handicap visivi o motori. Gli audiolibri sono molto diffusi sul mercato anglosassone, in cui tutti i libri più importanti di norma escono contemporaneamente in versione cartacea e in versione audio (a volte anche in doppia versione audio: integrale e ridotta), ma stanno trovando favore anche in Italia. Un tempo gli audiolibri venivano registrati su musicassetta, oggi su CD audio, anche se il formato più diffuso ormai è l'MP3 (oppure l'Ogg Vorbis), grazie anche ai tanti negozi digitali che ne hanno semplificato enormemente la diffusione e l'acquisto. Esistono anche formati più specifici, come ad esempio il DTB (Digital Talking Book), che consentono di sincronizzare la visualizzazione del testo a schermo con l'audio. Molti audiolibri si possono anche scaricare, a pagamento, dai siti che vendono musica online, come iTunes Music Store. Un discorso a parte va fatto per i software di sintesi vocale, che tramite opportuni algoritmi, possono analizzare in tempo reale un testo e convertirlo in linguaggio verbale. Alcuni eBook reader li integrano nel loro software. In rete si stanno ampliando anche le risorse completamente gratuite, che devono però tenere conto dei limiti imposti dall'attuale legislazione sul copyright e che quindi, salvo disposizioni particolari degli autori, possono riguardare soltanto le opere scritte da autori scomparsi da 70 anni. La legge sul copyright tutela naturalmente anche chi ha effettuato la traduzione e le musiche eventualmente presenti nell'audiolibro. Gli audiolibri possono essere utilizzati per insegnare ai bambini a leggere e a sviluppare la comprensione del testo scritto. in particolare sono utili per l'insegnamento ai soggetti con disabilità visiva. Secondo il recente studio del National Endowment for the Arts "Reading at Risk", l'ascolto di un testo registrato è tra le modalità di "lettura" che stanno contribuendo e supportando una generale e più ampia alfabetizzazione. 92 A tale proposito, gli audiolibri assumono particolare rilevanza in termini di apprendimento anche in virtù del loro formato: diversamente, infatti, dai libri tradizionali o programmi supportati da video, è possibile apprendere ascoltando un audiolibro mentre vengono eseguiti altri compiti, fermo restando che tali compiti devono essere di natura pratica e non implicare particolare concentrazione. I vantaggi forniti dall'audiolibro sono sintetizzabili in due principali funzioni: Replaying (ripetizione/riascolto): secondo il personale grado di attenzione e interesse, è spesso necessario ascoltare i segmenti di un audio libro più volte, in modo tale da comprendere e assimilare le informazioni in modo soddisfacente. Il riascolto può anche essere reiterato nel tempo e dopo lunghi periodi. Learning (apprendimento): è possibile ascoltare un audio libro mentre lo si legge. Ciò facilita l'apprendimento di parole che potrebbero non essere correttamente imparate attraverso la loro sola lettura (ad esempio in termini di pronuncia o intonazione). Per questo, ad esempio, l'audiolibro è un ottimo supporto per l'apprendimento delle lingue. 6. BIBLIOGRAFIA BAKER A., GREENE E., Storytelling: Art and technique, RR Bowker and Company, NewYork, 1977. BANDLER R., GRINDER J., La struttura della magia, Astrolabio, Roma, 1981 (titolo orig. The Structure of Magic, I, California Science and Behaviour Books, 1975). BETIELHEIM B., Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano, 2000 (titolo orig. The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, Knopf, New York, 1991). BUZAN T., The Mind Map Book, BBC Books, Londra, 1993 (trad. it. 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INTRODUZIONE: GLI INGREDIENTI PER UNA BUONA STORIA Secondo lo studioso Peter Guber vi è un ingrediente essenziale per l’efficacia di una narrazione: la verità, intesa non come veridicità dei fatti ma autenticità del messaggio. Sinteticamente si possono definire le principali verità che devono essere contenute in una storia, come segue: La verità per il narratore. Una storia deve innanzitutto incorporare i valori profondi e le convinzioni di chi la racconta, e trasmetterli in modo congruente e genuino. La verità per il pubblico. C’è un patto implicito tra il narratore e il suo pubblico: le aspettative che il narratore genera nel pubblico devono essere esaudite. E per fare questo il narratore deve provare la propria storia, prima di raccontarla ad un pubblico, davanti a persone non direttamente coinvolte, in modo da valutare le loro reazioni e aggiustare man mano il tiro della narrazione, deve identificare le esigenze emotive del pubblico e soddisfarle con onestà, deve raccontare la storia in modo interattivo. Una grande storia, dice Guber, non è mai del tutto prevedibile con un’anticipazione logica, ma è accettabile con il senno di poi. Come dire, di fronte ad un finale ben riuscito: “Non ce lo saremmo mai aspettato, ma, una volta svelato, fila perfettamente”. La verità in quel momento. Il buon narratore non racconta mai la stessa storia nello stesso modo. La contestualizza, adattandola al momento. E per farlo sono necessarie da una parte una seria preparazione, dall’altra la capacità di improvvisare. E questo è soltanto apparentemente un paradosso. La verità per la mission. Una storia deve essere in grado di trasmettere la passione per qualcosa di superiore, per i valori in cui si crede e che si desidera che gli altri facciano propri. Anche nell’età odierna, così cinica e concentrata su se stessa, le persone vogliono disperatamente credere in qualcosa più grande di loro. Come trovare la propria Storia Il primo passo è trovare una storia, ma non una storia qualsiasi, la vostra storia, una che amate, che vi piaccia…perché dovrete ripeterla e ripeterla e ogni volta lo troverete piacevole e divertente. Una storia da raccontare potrebbe essere: a folktale (leggenda popolare), ovvero una storia che provenga dalla tradizione orale. Può essere una satira fantastica o una fiaba, una storia d’amore o di fantasmi, un mito o una leggenda; un racconto letterario, di un autore, che in origine doveva essere letto; una storia vera, una storia di vita, che si riferisca a un fatto storico accaduto o che riguardi una tua personale esperienza. Per i “principianti” in generale le folktales sono più facili, perchè sono state pensate e costruite per essere raccontate a voce. Sono semplici, dirette e facili da ricordare. Per questo, da ora in poi ci focalizzeremo su di esse. Innanzitutto, le leggende popolari (l'Italia è piena di storie, spesso in forma dialettale, che hanno origine in ogni Regione, città o paese), rivolte sia ad adulti che bambini, possono essere rintracciate facilmente in libri che le raccolgono, su Internet, o note perchè trasmesse di generazione in generazione. È consigliabile cominciare con storie brevi: da una a tre pagine al massimo o pochi minuti di registrazione (infatti alcune si trovano registrate). 96 Individuate per prime le storie caratterizzate da: linearità dell'azione, personaggi fortemente caratterizzati, struttura semplice. Se conoscete i vostri ascoltatori, selezionate un tipo di storia che li possa ammaliare o interessare, o modificatene una che si adatti al vostro obiettivo e alla vostra audience. Attenzione a citare le fonti originarie della storia, o l'autore, quando necessario. Come preparare la propria Storia Gli Storytellers imparano le loro storie in modi molto differenti: alcuni ci riflettono sopra, altri la scrivono, altri la schematizzano e, infine, altri ancora cominciano direttamente dal raccontarla. Qualsiasi sia il modo migliore per voi, dovete assimilarla e farla vostra fino a diventare "naturale" per voi il raccontarla. Alcune parti della storia potete memorizzarle "parola per parola" (ad esempio incipit e fine quando sono particolarmente belli ed espressivi, oppure dialoghi importanti, espressioni particolarmente colorite, rime o frasi che si ripetono), ma non provate a memorizzarla tutta in questo modo: perdendo in efficacia interpretativa, difficilmente verrete ascoltati dalla vostra audience. Al contrario, immaginatela: visualizzate nel modo più chiaro possibile nella vostra mente tutte le scene. Sono queste scene, infatti, che vi aiuteranno, in seguito, a ricreare la storia mentre la raccontate, sia che le richiamate alla vostra mente in modo conscio o no. Il passo successivo è esercitarvi con uno "specchio". Questo può essere uno specchio vero e proprio, o un registratore audio o video, o un amico....qualsiasi cosa possa aiutarvi a capire come state andando... Innanzitutto esercitatevi a ricordare la trama: la vostra versione della storia non deve necessariamente contenere tutti gli elementi di quella originaria, ma deve necessariamente avere senso, ovvero trasmettere quello che basta perché la storia abbia senso. Una volta che la trama è chiara nella vostra mente, cominciate a concentrarvi su come raccontarla. Usate le ripetizioni prestando particolar attenzione alle rime o alle frasi che si ripetono. Queste, infatti, non aiutano solo voi che raccontate, ma anche chi ascolta, perché le ripetizioni aiutano a restare "connessi" alla storia, diventando mano mano "familiari", punti di riferimento. Accanto alle ripetizioni, usate la varietà: variate timbro, tonalità, volume della voce, velocità, ritmo, articolazione (regolare o brusca). Usate i silenzi. ricordate che la varietà carpisce e trattiene l'attenzione di chi ascolta. Usate i gesti, ma solo quelli adatti a supportare la storia. Usateli per mimare un'azione o per enfatizzarla. i gesti devono essere ampi! Perché solo così gli occhi degli ascoltatori resteranno "incollati" a voi... Nella vostra storia, prestate particolare attenzione all'inizio e alla fine. Potete esercitarvi ad introdurre una storia e queste introduzione può raccontare qualcosa di voi o della storia...ma state attenti a non raccontare tutta la trama! La fine deve essere chiara, cosicché si capisca che la storia è terminata con il vostro raccontarla. Potete rendere la fine rallentando e aggiungendo enfasi: ad esempio molte storie terminano con frasi come "per sempre felici", "e questa è la fine", "e non lo videro mai più"... Fate particolare attenzione a come "rappresentate" i vostri personaggi: personaggi forti danno vita alla storia, quindi voi dovete dare a loro vita, usando il viso, la voce, i gesti, il corpo. Cercate di rendere i vostri personaggi differenti gli uni dagli altri quel tanto che basta per essere riconoscibili in modo immediato. Quando rappresentate due personaggi che dialogano, usate un trucco che si chiama "cross-focus": per rappresentare l'alternanza di ciascun personaggio assumete di volta in volta una posizione di profilo. Racconterete la vostra storia nel modo più efficace se preparate non solo la storia ma voi stessi: la voce e il corpo sono i vostri strumenti e aiuta spere come utilizzarli al meglio. Per emettere e sostenere la voce dovete usare il respiro, dovete respirare 97 profondamente e regolarmente. Per verificare, poggiate la vostra mano sul vostro stomaco: mentre inalate aria e i vostri polmoni si espandono, dovreste sentire il vostro stomaco spingere in fuori. Molte persone fanno esattamente l'opposto, ovvero trattengono lo stomaco e respirano solo con la parte superiore del petto. Inoltre, assicuratevi di tenere sempre la schiena dritta in modo tale che i polmoni possano espandersi del tutto. Non sforzate la voce e non usatela in modo innaturale (eccetto se questa dovesse essere una caratteristica di un personaggio). Per evitare sforzi, rilassate la gola e i muscoli della mascella e tutto il resto del corpo. Un ampio e sonoro respiro vi aiuterà. Potete provare lo "sbadiglio del leone": aprite la bocca più che potete e fate sporgere in fuori la lingua, senza però forzare. Pronunciate ogni suono di ogni parola distintamente. Gli scioglilingua sono utili per rendere la lingua più agile. Come raccontare la propria Storia Non pensiate nè pretendiate di essere perfetti la prima volta che racconterete la vostra storia. Non è verosimile! Ma se amate la vostra storia e la avete preparata bene, sarete gradevoli per i vostri ascoltatori e soddisfatti di voi stessi. ricordatevi che ogni volta che la racconterete, voi e la vostra storia migliorerete. Se vi è possibile raccontatela prima ai vostri amici, cominciando possibilmente da gruppi ristretti. Man mano che acquisite confidenza ampliate il numero di ascoltatori, includendo anche persone che non conoscete bene. Molto presto non desidererete altro che raccontare la vostra storia davanti ad un ampia sala gremita di ascoltatori a voi sconosciuti! Gli Storytellers hanno stili molto diversificati. Se qualche suggerimento fornito non ti convince, ignoralo, non temere di provare qualcosa di diverso se senti che possa funzionare meglio per te. Per quanto riguarda il "setting", lo spazio che più si addice ad una "storytelling session" deve essere confortevole, intimo al punto giusto, lontano da possibili elementi di disturbo o distrazione. Controllate il posto prima della vostra performance, in modo tale che possiate risolvere in anticipo e al meglio eventuali problemi. Dovete trovarvi a vostro agio in quello spazio. Soprattutto ricordatevi di isolarvi per un pò prima della performance, in modo tale da poter avere tempo per riscaldare voce e corpo e concentrarvi. Date agli ascoltatori tutto il meglio di voi, tutta la vostra energia. Fate sentire la vostra voce chiaramente, fino all'ultima fila. Fate suonare le vostre parole. Evitate versi di esitazione tipo "um". Da seduti o in piedi, affrontate apertamente la vostra audience, tenendo sempre la schiena dritta. Restate calmi, non tenete le mani in tasca, non ondeggiate con il corpo spostandovi prima su una gamba e poi sull'altra. La magia dello Storytelling sta, almeno in parte, nel fatto di essere personale, quindi, create un contatto personale con i vostri ascoltatori. Parlate a loro e per loro, non interloquite, non abbiate paura a parlare con loro. Guardateli negli occhi. Se sono troppi o non riuscite a vederli tutti, guardate almeno coloro che vi sono seduti di fronte. Se alcuni di loro non vi prestano attenzione, rivolgetevi a coloro che invece lo fanno. Mentre raccontate la vostra storia, usate tutto il tempo che avete, prendetevi tempo e datelo ai vostri ascoltatori: tempo per "visualizzare" la storia, tempo per ridere, per emozionarsi, per riflettere, tempo per esitare sulla loro poltrona in attesa di ciò che deve accadere. E' molto facile cadere nella tentazione di accelerare, è più difficile rallentare. Se state perdendo la loro attenzione, dovete rallentare! Finito il racconto, date loro il tempo di applaudirvi. Raccontare storie è un evento interattivo: mentre gli ascoltatori rispondono alla vostra storia, lasciate che la storia risponda loro. Rendete voce e gesti "più ampi" e "meno ampi". Allungate o abbreviate parti della storia. Fate attenzione a ciò che funziona e a ciò che non funziona, cosicché la prossima volta possiate modificare, aggiungere o sottrarre. 98 Ma più di tutto, credete in voi stessi, nella vostra audience, nella vostra storia. Ricordatevi che chiunque venga ad ascoltare uno storyteller, è già dalla sua parte. Il solo fatto di essere uno storyteller è magico, anche prima di pronunciare una sola parola. Suggerimenti finali Infine, alcune indicazioni per andare avanti nello storytelling. Andate a vedere ed ascoltare il maggior numero di bravi storytellers. Ne afferrerete le tecniche performative, nuove storie e la magia dello storytelling. I festivals sullo storytelling sono eventi meravigliosi che potete soprattutto trovare in Nord America e nel Regno Unito. Leggete le raccolte di leggende popolari, perché non solo troverete tante storie da raccontare ma anche perché svilupperete una sensibilità particolare per ciò che è una leggenda popolare e che la rende tale. Vi sarà di aiuto se vorrete modificare una storia o crearne una nuova. Seguite un corso. Molte università e organizzazioni li sponsorizzano, è un modo piuttosto sicuro di entrare nel mondo dello storytelling, beneficiando di supporto e commenti. Unitevi, laddove possibile, a un gruppo locale di storytelling: in molte comunità ci sono gruppi che si incontrano per provare le storie e organizzare performances. Ma più di ogni altra cosa raccontate, raccontate, raccontate quanto più spesso potete. È il modo migliore per imparare a "raccontare storie"! Bibliografia Parkin, M., Racconti per la formazione. 50 storie per facilitare l'apprendimento (titolo originale: Tales for trainers: using stories and metaphors to facilitate Learing), Etas, 2005 Parkin, M., Racconti per il coaching. 50 storie per allenare individui e piccoli gruppi (titolo originale: Tales for coaching. Using stories and metaphors with individuals and small groups), Etas, 2005 Shepard, A., Tell a Story! A Guide to Storytelling, Simple Productions, Arcata, California, 1990 99 5. LEZIONI DI SCRITTURA vedi anche Vol. II Approfondimenti 8. Sul Monologo di E. Erba 9. Racconto di S. Benni 5.1 Mappa 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia AC Tecniche di Laboratorio 4. Tecniche di narrazione: 5. Lezioni di scrittura lo Storytelling Contenuti: AC Come diventare uno storyteller 5.4 Come è fatta una storia, 5.5 Intervistare con le storie, 5.6 La scrittura creativa, 5.7 Scrittura drammaturgica e scenica, 5.8 ll proprio universo drammaturgico, 5.9 Dal racconto al monologo, 5.10 L'incipit, 5.11 La descrizione, 5.12 Il dialogo, 5.13 Lo stile. 100 AC Il Linguaggio e l'Autore teatrale 7 ore 5.2 OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO L’insegnante che si prepara a formare un gruppo di discenti alla scrittura teatrale deve possedere padronanza sulle tecniche e gli strumenti che offrono la possibilità di approcciarsi con la stesura di un testo, deve saper verificare le fasi e gli elementi che lo costituiscono. Il ricco apparato di esercizi aiuterà a cimentarsi fin dall’inizio con la creatività letteraria. Seguendo un percorso graduale, dunque, l’obiettivo è quello di far apprendere le tecniche di base della scrittura utili a condurre un programma di lavoro con gruppi di persone che vogliono avvicinarsi alla scrittura creativa e imparare a scrivere storie teatrali. 5.3 INTRODUZIONE Scrivere è senza ombra di dubbio un atto creativo, l’uomo, sin dall’antichità, ha sempre inventato e creato storie da raccontare anche prima che nascesse la scrittura. Secondo gli antichi, essa era addirittura un dono degli dei. I geroglifici, per esempio, erano ritenuti possedere una vita propria e un grande potere d’evocazione, l’esoterismo musulmano identifica i segni dell’alfabeto col corpo di Dio, in India le lettere dell’alfabeto simbolizzano le parti del corpo di Sarasvati, Shakti di Brahma, divinità che presiede anche alla parola (lipidevi); lo scrivere era considerato una vera e propria operazione magica, che ripeteva il gesto iniziale del Demiurgo. Il nome più potente di Dio gli ebrei lo rappresentano con quattro lettere (JHVH). L’alfabeto ebraico costituisce la base dell’Albero sefirotico. Ogni lettera dell’alfabeto rappresenta un numero che traccia rapporti sottili con l’intero creato. Le lettere-numeri, sacri presso i popoli dell’antichità, costituirono, come scrive Alexandrian nella sua "Storia della filosofia occulta": "una vasta corrente teorica nella quale, inizialmente, si fusero quattro fonti distinte: la filosofia greca, la Gnosi, la mistica ebraica, e in particolare la cabala con la sua concezione delle Sefirot, i dieci numeri considerati emanazioni dell’En-Sof (il Dio nascosto) e, infine, il cristianesimo". Per comprendere la definizione che vede la scrittura come atto creativo occorrerebbe anche andare ad analizzare l’aspetto psicologico dell’atto dello scrivere: attraverso la scrittura l’uomo non esprime soltanto i propri pensieri ma proietta sulla carta i propri elementi psichici non coscienti, i segni diventano simboli in grado di presentare al lettore il proprio mondo interiore. La scrittura, dunque, è la manifestazione visibile della parola che rappresenta il simbolo più puro della manifestazione dell’essere. Ania Teillard (Psicoterapeuta e grafologa tedesca), al proposito scrive: “Nel momento stesso in cui scriviamo, ci situiamo nello spazio, il foglio di carta rappresenta l’universo nel quale ci muoviamo e ogni movimento scrittorio è simbolo del nostro comportamento in questo mondo”. Scrivere per di più può significare soddisfare quei desideri di risposta alle domande sull’esistenza, il chi, il cosa, il dove, il quando, il perché e spesso, attraverso la scrittura, tali desideri vengono soddisfatti. Tutto ciò che la scrittura richiede e avere confidenza con le parole per renderle in grado di farle interagire con la fantasia. Come l’attore utilizza i gesti e la recitazione per esprimersi, come il pittore utilizza i colori per mostrare qualcosa, così lo scrittore deve saper utilizzare le parole per raccontare. «Tutto avviene solo grazie a questi piccoli simboli che chiamiamo lettere, che sono contenute nelle parole, che si moltiplicano per formare frasi e paragrafi. E per qualche processo magico queste parole interagiscono con l’immaginazione dei lettori in modo che i lettori stessi siano catturati nella realtà della storia – come Alice che attraversa lo specchio – e una volta catturati possano vivere e sentire e appassionarsi a questa realtà alternativa come fanno per le vicissitudini delle loro vite reali. Per noi umani questo processo è importantissimo. È come se avessimo un bisogno primario di storie, inventate o no, paragonabile al bisogno di cibo, di protezione, di compagnia». (Ghotam Writers’ Workshop, Lezioni di scrittura creativa. Un manuale di tecniche ed esercizi della più grande scuola di formazione americana, Roma, Dino Audino Editore, 2006, 6). 101 L’approccio alla scrittura, in conclusione, è personale e unico, alla base vi è sempre un percorso che attinge ai sentimenti, alle emozioni, a determinate dinamiche mentali, un percorso che segue anche la crescita e la maturazione di ciascuno legato ai gusti personali, attitudini ed aspirazioni. Ma la scelta di come esprimersi attraverso la scrittura non può essere casuale, allo scrittore occorre possedere organizzazione e come per qualunque altra disciplina artistica, anche per la scrittura, esistono metodi, tecniche che permettono di verificare e potenziare le proprie capacità. 5.4 COM’È FATTA UNA STORIA La storia è un episodio costruito che narra di un mondo (il mondo narrativo) in cui essa si svolge, storia e mondo nascono e crescono in un rapporto di stretta interdipendenza ed è proprio questo il fine di una storia: permettere di esplorare e di far conoscere mondi e allo stesso tempo sono i mondi che danno originalità e concretezza alle storie. Non c’è storia senza un 3 mondo e non c’è mondo senza una storia . Naturalmente, la storia è quasi sempre costruita e presentata per stimolare una reazione da parte di che legge. La storia può essere ispirata ad un episodio realmente accaduto o simulare un racconto di fantascienza, ispirarsi a un racconto fantastico che parla di mondi magici abitati da elfi e fate, alla base vi è sempre un’idea (per chi si accinge a scrivere la storia “una buona idea!”) fatta di personaggi, situazioni, scene e ambientazioni. L’idea, dunque, può essere ispirata da qualsiasi cosa: un nome, un luogo, da qualcosa sentita per caso, anche da un sentimento o da un’emozione. Victor Hugo, passeggiando in un angolo oscuro della cattedrale di Notre Dame, notò incisa sulla pietra una parola greca indicante “il fato” e immaginandosi che un’anima tormentata avesse inciso quella parola diede vita all’opera “Il Gobbo di Notre Dame” (Cfr. Ghotam Writers’ Workshop, 10). Le idee inoltre possono essere ispirate soprattutto dalla propria vita, non solo l’eccentrico e l’esotismo ma anche la normalità può essere un buonissimo spunto, tutto ciò che accade nella vita di una persona può trasformarsi in un’ottima storia senza però cadere nell’errore di scrivere solo di se stessi, di essere egocentrici. Occorre, dunque, ispirarsi ad un fatto personale ma dare l’opportunità al lettore di provare piacere e godere della storia rispecchiandosi in essa. Allo stesso modo deve accadere se la storia è ispirata ad un fatto che non ci appartiene, estraneo alla propria vita, naturalmente deve essere sempre qualcosa che ci interessa e che ci appassiona (Cfr. Ghotam Writers’ Workshop, 11-12). «Jess How, insegnante del GWW, si era in qualche modo appassionato al concetto di ecolocazione, la tecnica ad ultrasuoni usata dai pipistrelli per orientarsi. Benché non conoscesse molto sulla ecolocazione, gli piaceva l’idea e iniziò ad immaginare una donna che credeva di avere questo potere, che usava per seguire lo spirito di sua madre scomparsa. Seguendo questa idea bizzarra, Jess ha scritto il noto racconto Il segreto dei pipistrelli» (Ghotam Writers’ Workshop, 12). Ecco, dunque, come è fatta una storia: lo scrittore prende un frammento di realtà o qualcosa immaginata dalla sua fantasia, esamina il tutto in diversi modi finché non riesce a dargli un senso. ( vol. II - E5.1 - Com'è fatta una storia) 5.5 INTERVISTARE CON LE STORIE Un’altra tecnica in grado di far nascere una storia è quella “dell’intervista con le storie”, vale a dire, un intervistatore decide di intervistare una o più persone raccontando loro delle storie che devono, in qualche modo, suscitare reazioni, giudizi, immedesimandosi con i personaggi, condividere o meno scelte e comportamenti e, in fine, scoprire da loro come si sarebbero comportati in determinate situazioni, che tipo di scelte avrebbero fatto e, in molti casi, come avrebbero fatto concludere la storia. Tale tecnica, è un modo efficace per far emergere le scelte di valore delle persone o meglio quelle 3 (Cfr. PINARDI D. – DE ANGELIS P., Il mondo narrativo. Come costruire e come presentare l'ambiente e i personaggi di una storia, Torino, Lindau, 2008, 3-8) 102 convinzioni intorno ai giusti ruoli e comportamenti. Una vera e propria conversazione, dunque, a cui all’intervistato verranno raccontate delle storie, meglio se tratte da episodi realmente accaduti e perciò sollevanti problemi sociali, per conoscere alla fine le opinioni degli intervistati. Molti possono essere gli esempi di storia da sottoporre agli intervistati, tutti devono contenere narrazioni in cui è possibile dare le condizioni, a chi ascolta, di assumere una posizione e di fare delle scelte. Oltre a questa nuova tecnica, che dà la possibilità di scrivere delle storie analizzando il punto di vista della gente, vi è un’altra tecnica di intervista utile a chi ha il desiderio di scrivere la storia di avvenimenti accaduti o parlare di personaggi esistente o esistiti. Durante l’intervista il ricercatore deve ottenere informazioni quanto più dettagliate e approfondite possibili. L’obiettivo è di accedere alla prospettiva del soggetto intervistato cogliendole sue categorie concettuali, le sue interpretazioni della realtà e i motivi delle sue azioni, le domande che l’intervistatore pone sono finalizzate a spingere l’intervistato verso l’osservazione critica di sé e del proprio agire e a esplicitare gli esiti di questa riflessione. ( vol. II - E5.2 - Intervistare con le storie) 5.6 LA SCRITTURA CREATIVA “Scrivere ci permette di scoprire noi stessi, la nostra percezione del mondo e la percezione che il mondo ha di noi.” Così esordisce Robin Dynes nel suo libro “Scrittura creativa in gruppo”, suggerendo la possibilità che la scrittura possa aiutarci a ripensare a chi siamo e alla nostra storia; scrivere ci chiede una pausa, per guardare da una diversa angolatura un’esperienza passata, per entrare in contatto con la nostra realtà interiore, per trovare noi stessi, per riconoscere e risolvere conflitti personali. Così pensata la scrittura può essere gioco, incanto, conoscenza, per divenire ricerca, comprensione e cura di sé. Le attività di scrittura creativa, oltre ad avere scopi di svago e puro divertimento, possono aiutare le persone a stimolare l’immaginazione creativa e l’espressione personale, a sviluppare capacità di problem solving e accrescere quindi fiducia in se stessi, esplorare sentimenti ed emozioni, rompere l’isolamento sociale, avere consapevolezza di se stessi e degli altri. È chiaro che, come per ogni nuova attività che richiede un minimo di sforzo, si possono creare paure ed inibizioni, soprattutto quando ci si approccia alla scrittura. È per tali motivi che, chi si prepara a formare gruppi di scrittura creativa, deve tener presente alcune regole fondamentali nella conduzione: Preparare un ambiente rilassante e appropriato (libri e riviste in vista, carta e penne in abbondanza, schede di biblioteca consultabili, tavoli sufficienti per scrivere comodamente senza che il vicino riesca a leggere) Domandare ai partecipanti cosa pensano e cosa sperano di ottenere Cominciare con esercizi semplici Discutere insieme prima di iniziare a scrivere per stimolare l’immaginazione Allontanare atteggiamenti e pensieri negativi (Cfr. Dines R., Scrittura creativa in gruppo, Trento, Erickson, 2003, 10-14) Gli esercizi da proporre possono essere suddivisi in tre categorie: Esercizi facili (quelli con cui iniziare). Esercizi in cui usare il proprio punto di vista e la personale esperienza. Esercizi medi. Scrivere secondo il punto di vista di altre persone. Esercizi difficili. Scrivere creando pensieri e dialoghi per personaggi differenti da se stessi. Dines suddivide nel suo manuale 4 sessioni: 1. Temi generali; 2. Stimolare l’immaginazione; 3. Esplorare le relazioni umane; 4. Sviluppare la consapevolezza. Per ogni sessione di esercizi proposti da Dines i primi cinque risultano essere i più semplici. Di seguito vengono trascritti alcuni esempi. ( vol. II - E5.3 - La scrittura creativa) 103 5.6.1 Ghotam Writers’ Workshop La Ghotam Writers’ Workshop è la più importante scuola americana di scrittura creativa, dalle idee dei suoi esponenti principali emerge, indubbiamente, un dato di fatto rilevante: un numero impressionante di persone desidera creare storie, occorre, però, dare la possibilità a queste persone di acquisire gli strumenti in grado di farli esprimere attraverso la scrittura. Secondo la scuola americana l’acquisizione degli strumenti è realizzabile soltanto con la pratica. Oltre il talento e le abilità, una buona acquisizione delle tecniche e la loro pratica è quasi sempre indispensabile per realizzare una storia veramente buona. Il filo conduttore seguito dalla scuola americana parte con il descrivere e dare le linee guida sul come si crea un personaggio. I personaggi sono la forza propulsiva di un racconto, l’autore deve conoscerli intimamente e conoscere i loro desideri, questi ultimi sono la forza che muove la narrativa di un racconto ma, prima di dare vita ai personaggi di una storia bisogna avere ben chiara la storia stessa e, dunque, concentrarsi sulla trama. Una volta fatto questo, la scuola americana, passa in rassegna la varietà di tecniche per delineare dialoghi, descrizioni, spazio e tempi ecc. Sulla base del metodo descritto, di seguito troverete trascritti diversi esercizi proposti da questa scuola. ( vol. II - E5.3.1 - Ghotam Writers’ Workshop) 5.7 SCRITTURA DRAMMATURGICA E SCRITTURA SCENICA “Scrivere è una possibilità e un’enorme risorsa per chiunque voglia sperimentarsi, scoprirsi, sorprendersi delle proprie emozioni. Scrivere per il teatro comporta una responsabilità in più, perché le parole, i pensieri, non sono destinati solo alla carta, ma già devono prevedere l’interpretazione delle proprie parole, l’ascolto da parte di un pubblico dei propri pensieri. La scrittura da leggere, meditare, su cui riflettere con calma è completamente diversa dalla scrittura scenica che immediatamente deve far arrivare i propri messaggi tramite l’azione, il suono, le immagini che evoca. Il teatro non è il cinema: non dispone di mezzi visivi che ci permettono facilmente di capire luoghi, epoche, situazioni. Tutto sta alla parola. Per questo, la parola teatrale ha un’enorme responsabilità” (Barbara Sinicco). La scrittura scenica è una modalità di scrittura collettiva che nasce all’improvvisazione tra gli attori e il drammaturgo. La scrittura scenica presuppone di lavorare a fasi seguendo diversi percorsi. Gli strumenti sono gli stessi che per la scrittura a tavolino o di una modalità drammaturgica classica ma vengono usati assieme all’attore, rendendolo autore delle proprie azioni e parole. Un drammaturgo non è solo autore del testo ma fa nascere il copione in scena. Secondo uno studio di Oliviero Ponte di Pino sull'analisi di Lorenzo Mango, la nozione di scrittura scenica (la cui paternità è da attribuire a un brechtiano come Roger Planchon) ha due accezioni, o meglio può essere inserita in due contesti diversi. La prima è più ampia, e comprende in pratica tutta la storia del teatro del Novecento, quando la scena inizia a rivendicare ed esplorare la propria autonomia artistica, emancipandosi sia rispetto alla matrice letteraria (superando l’approccio che Mango sintetizza nell’equazione «teatro=parola») sia rispetto alla tutela del «grande attore». In questa prospettiva, tanto i grandi teorici d’inizio secolo (Gordon Craig, Appia) quanto le varie avanguardie (dai futuristi al Bauhaus), tanto i maestri della regia moderna (da Stanislavskij in poi, passando ovviamente per Brecht) quanto drammaturghi come Beckett, praticano tutti la scrittura scenica (contrapposta a una «scrittura drammaturgica», sbilanciata sul versante testuale), declinandola a seconda delle diverse poetiche e situazioni storiche. In quest’ottica, praticare la scrittura scenica significa essere consapevoli della specificità dell’arte teatrale, senza limitarsi alla «illustrazione» di un testo, ma utilizzando i diversi elementi che concorrono all’evento spettacolare (la scena e più in generale lo spazio, il suono ovvero parola, rumori e musica, il gesto, gli oggetti eccetera) valorizzandone l’autonoma forza poetica e significante, e le diverse materialità e linguaggi. 104 La seconda accezione è invece più specifica, e rimanda a un momento molto particolare della storia del teatro: gli anni Sessanta e Settanta, quando il concetto di scrittura scenica venne rilanciato in Italia in primo luogo da Giuseppe Bartolucci (e ripreso da Maurizio Grande), in contrapposizione proprio al teatro di regia. In quegli anni una variegata serie di esperienze ha obbligato a ridefinire lo statuto stesso del teatro: è difficile sottovalutare l’impatto – sugli spettatori ma anche sugli studiosi – dei lavori di Grotowski e dell’Odin, del Living Theatre e del Bread and Puppet, di Peter Brook e di Andrei Serban, ma anche dell’avanguardia americana di Wilson, Monk e Foreman, di Schechner e dei Mabou Mines, e in Italia l’irruzione di Carmelo Bene e di Leo De Berardinis, e la stagione delle cantine romane e il teatro immagine di Memè Perlini e Giuliano Vasilicò, fino alle provocazioni della nascente post-avanguardia di Carrozzone, Gaia Scienza e Falso Movimento... Questa pratica teatrale si è contrapposta alla tradizione della regia, con modalità articolate e differenziate ma con molti elementi comuni. Si ricollegava consapevolmente all’esperienza delle avanguardie (gli happening e le performance degli anni Sessanta, e risalendo all’indietro dada, surrealismo e futurismo), dopo essersi emancipata dalla dipendenza da un testo preesistente fino a rifiutarlo provocatoriamente (salvo in alcuni casi smembrarlo e decostruirlo). Ha impostato una riflessione analitica sulle ragioni, sugli elementi e sulle modalità del «fare teatro» – sullo «specifico» del teatro. Ha superato le distinzioni tra i generi e le arti e al tempo stesso ha cercato ogni occasione per contaminare arte e realtà. Beppe Bartolucci teorizzò il concetto di scrittura scenica in un volume, intitolato appunto "La scrittura scenica" (Lerici, Roma, 1968), e lo utilizzò come testata per la rivista che diresse tra il 1971 e il 1983. Anche se poi, a quella stagione di programmatica sovversione, è seguito – sia negli Usa sia in Italia – quello che a molti è apparso un «ritorno all’ordine», ovvero a forme spettacolari in apparenza più ancorate alla tradizione e a codici più consolidati, ristabilendo le abituali divisioni dei ruoli, a cominciare da quello del regista, e si recuperano il testo, il personaggio e i ruoli. (cfr ateatro 62.38, Il teatro tra rivoluzione e restaurazione - La scrittura scenica nell'analisi di Lorenzo Mango - di Oliviero Ponte di Pino). ( vol. II - E5.4 - scrittura drammaturgica e scrittura scenica) 5.8 IL PROPRIO UNIVERSO DRAMMATURGICO Secondo Franco Silvestri, responsabile di corsi di Drammaturgia alla Scuola Holden di Torino, ognuno di noi ha il proprio Universo drammaturgico, costituito da pianeti, costellazioni e ogni pianeta ha i suoi laghi, fiumi, monti, città abitate da personaggi. In una città può vivere Batman, nell’altra la Morte del Settimo Sigillo, entrambi ci appartengono. Questi universi drammaturgici che pochissimi di noi conoscono, ci permettono inconsciamente di apprezzare o meno il lavoro altrui. Un esempio: se un film piace a me e non al mio amico, significa che quella storia, quella situazione ha toccato corde che appartengono a me e non a lui. Allora è sempre bene conoscere il proprio Universo drammaturgico, soprattutto quando si affronta la scrittura di un testo. È importante per essere onesti con se stessi, per non mortificare la propria volontà a scrivere facendolo di cose che ci interessano poco. Per onorare sempre il desiderio di scrittura. Per questo qualsiasi autore deve tentare di rintracciare le proprie corde per poterne scrivere. Sono proprio queste corde che caratterizzano un autore dall’altro. Non significa di certo diventare monotematici, stare sempre sugli stessi argomenti. Se sei tu l’autore, significa aver chiare le tue chiavi di volta. Se sei il destinatario, dovresti essere in grado di rintracciare la cifra stilistica e immaginifica dell’autore. Importantissimo, quindi, leggere molto teatro (perché in questo caso parliamo di scrittura drammaturgica), entrare nel vivo della lingua dei nostri autori di riferimento, spaziare in generi diversi, dai classici a quelli dalla sperimentazione più estrema. Sono i temi, i luoghi, gli argomenti, lo stile a diversificare un immaginario dall’altro. Leggendo molto impareremo a riconoscere l’Universo drammaturgico di grandi autori e arricchiremo il nostro. Avremo più dimestichezza con l’uso teatrale della parola, con lo stretto legame tra il suono e il gesto. ( vol. II - E5.5 - Il proprio universo drammaturgico) 105 5.9 DAL RACCONTO AL MONOLOGO ( vol. II - E5.6.4 - Dal racconto al Monologo) 5.9.1 Il Racconto Il racconto è una narrazione in prosa di contenuto fantastico o realistico di minore estensione rispetto al romanzo. Chi si esprime nella dimensione del racconto normalmente ne compone una serie, e il suo mondo interiore si estrinseca in una costellazione di racconti: ciascun testo, per quanto in sé concluso (a differenza dei capitoli di un romanzo è portatore di una storia completa), va visto in collegamento unitario con gli altri appartenenti alla stessa raccolta. Se riferito ad una specifica persona, il racconto - di formato più o meno esteso - diventa biografico. Se il racconto è scritto in riferimento a sé stessi, si è davanti ad un racconto autobiografico. ( vol. II - E5.6.1 - Il racconto) 5.9.2 Il Racconto Comico Scritto da Davide Giansoldati – lunedì, 30 marzo 2009 – 00:054 commenti. “Il manager era mostruosamente in ritardo. Indossava il suo perfetto completo Zegna e ogni due secondi, guardava il Rolex d’oro imprecando. Finalmente il treno arrivò in stazione. Il manager si chinò, prese il suo porcellino rosa e salì in prima classe”. Il racconto comico nasce da una situazione buffa: prevede un salto dal mondo reale, che tutti conosciamo, al mondo comico, dove c’è un cambio, un vero e proprio salto nell’assurdo o nell’opposto. Tutti noi possiamo inventare situazioni comiche: basta pensare alla nostra vita di tutti i giorni, alle nostre esperienze e immaginare che all’improvviso qualcosa cambi direzione. Pensiamo ad esempio a: - uno iettatore che all’improvviso porta fortuna; - un mafioso che ha paura di sparare; - una ninfomane che non sa cosa sia il sesso; - un bambino che gestisce un’azienda; - un miliardario che si sveglia povero; - un dio greco senza poteri; - il sole che non sopporta il caldo. Tutti questi sono spunti per delle trame di possibili racconti comici. Scrivere un racconto comico, però, è prima di tutto una questione di “coraggio di osare”. Lasciamo un attimo da parte carta e penna e proviamo a pensare a quante volte abbiamo rinunciato a fare una battuta comica tra amici per paura di sembrare ridicoli o di non essere capiti. Paura: è questa il nemico numero uno della comicità e la Paura si fa aiutare dal nostro giudizio ipercritico. Paura e giudizio sono in agguato anche nella scrittura e non ci permettono di dare libero sfogo alla nostra creatività. ( vol. II - E5.6.2 - Il racconto comico) 106 5.9.3 Il Monologo Il monologo, dal greco monológos (composto di μόνος, mónos, "solo", "unico", e λόγος, lógos, "discorso"), è una composizione scenica, o parte di una composizione scenica, teatrale o di altro tipo, pensata per essere recitata da un solo attore, che è da solo in scena nel momento in cui parla. Il celebre “Essere o non essere” nell'Amleto di William Shakespeare è un monologo. Lunghi monologhi possono costituire composizioni sceniche complete, che prevedono diversi gradi di partecipazione del pubblico, come Novecento di Alessandro Baricco, o il Mistero Buffo di Dario Fo. Talvolta un monologo può essere un prologo o un epilogo, quando l'attore si ritrova da solo a recitare, all'apertura o alla conclusione della messa in scena, con intento esplicativo. In alcuni casi la funzione introduttiva o conclusiva di tali monologhi è esplicitata, come nel caso in cui l'attore impersona direttamente un personaggio che ha funzione narrativa, chiamato direttamente Prologo, come nelle commedie di Pietro Aretino. In altri casi la funzione è implicita alla scena, ad esempio quando, nel Riccardo III, è egli stesso un personaggio della storia, che introduce lo spettatore nelle vicende, con esplicazione degli antecedenti e dichiarazione degli intenti futuri. In altri casi un testo recitato da un solo attore ha diverse valenze, come nel caso del soliloquio finale di Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, che chiama in causa sia il suo personaggio di folletto, sia la figura dell'attore, che dà corpo all'ombra del personaggio, sia la visione del teatro come sogno. Il monologo rientra nella categoria delle convenzioni teatrali, ossia dei "trucchi" realizzati dal drammaturgo per rendere partecipe lo spettatore di un evento che non ha visto rappresentato (ad esempio un episodio avvenuto nel passato di uno dei personaggi o il resoconto di una morte avvenuta fuori scena) o ancora per esplicitare i pensieri interiori di un personaggio (riflessioni su un avvenimento): in molti casi, quindi, ha funzione didascalico-narrativa o illustrativa di episodi extradiegetici. Ciò che lo rende un artificio scenico è dunque il carattere di estraneità alle convenzioni dialogiche della realtà sensibile, dove difficilmente si potrebbe esporre un argomento interiore a voce alta, se fossimo sicuri di non essere ascoltati. Proprio per il suo carattere di innaturalità, il monologo venne quasi totalmente soppresso nei testi esemplificativi del teatro borghese, che tendeva a restituire in scena la dimensione della realtà sensibile: Čechov lo reintrodusse, forzando i caratteri propri del naturalismo borghese, per sottolineare il tumulto interiore dei suoi personaggi. Sempre l'innaturalità dello stesso lo porta spesso ad essere definito soliloquio, ossia il pensare ad alta voce rivolgendosi ad un pubblico immaginario: il monologo ha invece una funzione di reale agente della vicenda narrata quando un altro partecipante alla scena, nascosto da colui che lo sta agendo, lo ascolta. In questo caso, il monologo perde la caratteristica dell'attore solo in scena ma ha la funzione drammatica ben precisa di fungere da veicolo di informazione per gli altri personaggi del dramma. Il monologo consente di utilizzare il flusso di coscienza e il 'flash back' cioè l'apertura di una finestra sul passato. "Se lo raccontassi al primo che capita, ma così, come se fosse accaduto ad un altro?... Sono già del tutto pazzo... Che vado facendo così in giro? Che ci faccio per strada? - Già, ma dove dovrei andare? Non volevo andare da Leidinger? Ah! ah! sedermi tra la gente... credo che chiunque me lo leggerebbe in faccia... Sì, ma qualcosa dovrà pur accadere... Che dovrebbe accadere?... Nulla, nulla -nessuno ha udito nulla... nessuno sa nulla... Per il momento nessuno sa nulla... Se andassi ora a casa sua e lo scongiurassi di non raccontarlo a nessuno?... - Ah, meglio bruciarsi subito le cervella che compiere un atto simile!". (Arthur Schnitzler: 'Il sottotenente Gustl', Bur, Milano, 1989). E c'è anche chi racconta in seconda persona… ( vol. II - E5.6.3 - Il Monologo) 107 5.10 L'INCIPIT cfr. Roberto Cotroneo, “Manuale di scrittura creativa” - Castelvecchi Editore – 2008 Tutte le storie iniziano con “C'era una volta”. Ma soprattutto le fiabe iniziano con “C'era una volta”. E' l'inizio classico. Lineare. L'inizio per i bambini che non devono perdersi nel testo e nel racconto. Nell'ultimo secolo letterario, questo tipo di incipit non sono più accettabili perchè il lettore è diventato più consapevole e non chiede la storia nel modo lineare, ma chiede di essere avvolto nel testo. L'incipit non è un riassunto in poche righe di quello che scriverete in tutto il testo. Ovvero, non iniziate con una frase del genere: “Marco aveva appena compiuto 18 anni. E nulla avrebbe fatto pensare che la sua vita lo avrebbe portato ai mille successi che aveva sempre sognato. In pochi anni sarebbe diventato il più celebrato scrittore vivente”. In questo incipit c'è troppo. Per fare un paragone fotografico: per l'incipit non si utilizza il grandangolo, ma si utilizza sempre il teleobiettivo. Riscriveremo lo stesso incipit in uno stile più letterario: “Diciotto anni non sono nulla, si era detto Marco. Mentre sfogliava ancora quei trenta fogli scritti a mano soltanto in due notti. Li guardò ancora. Pensò a suo padre, che lo voleva ingegnere. Pensò a quel romanzo. E per la prima volta sognò di poter leggere un libro stampato. Che portava il suo nome”. Qui non si rivela subito cosa accadrà. Si crea un'attesa. L'incipit è seduttivo. Chiaramente dipende tutto da come deciderete di utilizzare il tempo nel racconto. Ovvero, se la storia è raccontata da qualcuno che la conosce già per intero (oggi racconto quello che mi è accaduto ieri), oppure se la storia è raccontata oggi e il tempo procederà con il procedere della storia. Esempio: “Non avrei mai creduto che Sofia mi avrebbe mai lasciato in quel modo. Pensavo che una storia d'amore nata in una giornata di sole non potesse mai morire” Seconda variabile: “Sofia sembrava felice di quel sole improvviso. Riapparso proprio per noi due, e per quel primo appuntamento. La vidi che sorrideva. Pensai che ormai ero certo che di appuntamenti così ne avremmo vissuti tanti”. L'inizio in media res è sempre il più efficace. Quando un film inizia e vedete un uomo pallido e angosciato seduto in metropolitana, pensate immediatamente che prima è accaduto qualcosa. Poi magari scoprirete che magari ha commesso un omicidio, o magari se ne è appena andato di casa per sempre dicendo che usciva a comprare un pacchetto di sigarette. Non vi stupite che il regista non abbia filmato la scena precedente, vi fate solo una domanda che catalizza completamente la vostra curiosità: cosa è accaduto prima? Quando c'è poca esperienza, è bene usare negli incipit la prima persona. E' più facile e più calda. 108 Esempio: Terza persona “Sofia arrivò quasi di corsa. Dalla parte del marciapiede dove c'era un po' d'ombra. Lui pensò che gli sarebbe piaciuto incontrarla in una giornata di pioggia” Prima persona “La vidi correre verso di me. Protetta dall'ombra del palazzo accanto. L'avevo immaginata sotto la pioggia, per tutto il giorno. E sorrisi a quel pensiero, come fosse un'idea indecente che non potevo permettermi” La prima persona è più naturale, la prima persona è il modo in cui avete sempre raccontato le vostre storie, la prima persona vi permette di raccontare anche i pensieri, i vostri, come fossero quelli del vostro personaggio. La prima persona non chiede astuzia e abilità per rendere più intime e meno impersonali le situazioni. La prima persona è come un diario e il diario è la prima forma di letteratura che avete mai praticato nella vostra vita. ( vol. II - E5.7 - L'Incipit) 5.11 LA DESCRIZIONE cfr. Roberto Cotroneo, “Manuale di scrittura creativa” - Castelvecchi Editore – 2008 La descrizione è il punto vero in cui si riconoscono le capacità dello scrittore. Il cinema ha cambiato radicalmente il modo di descrivere in letteratura: ha reso impossibile il modo di raccontare ottocentesco. La descrizione della macchina da presa, tuttavia, non ha sostituito quella scritta, ma vi si è sovrapposta. Nella descrizione cinematografica, il dettaglio si sostituisce alla panoramica. "....Probabilmente ci avrete messo tutto, sbagliando": la letteratura del Novecento vuole le descrizioni attraverso dei salti visivi, anziché attraverso una completezza assoluta della descrizione. Esempio Descrizione dettagliata: “Lo studio in cui Roberto scriveva non era grande, pensai che non fosse più di dodici metri quadrati. Il pavimento era chiaro, le pareti erano occupate da librerie. In fondo alla stanza una porta finestra dava su un piccolo balconcino. Quasi al centro della stanza, una scrivania inglese, di rovere, e un lume con la campana verde anni Trenta e due computer: uno portatile e uno da tavolo. Eccetto libri e scrivania, la stanza aveva solo una poltrona rossa. Avresti detto che quella era sicuramente la stanza di uno scrittore”. Questo esempio vi da l'idea precisa di come sia questa stanza, ma non significa nulla di più di quello che leggete. Provate adesso a leggere questa: “Se non fosse stato per l'ordine, quell'ordine dei libri, avrei detto che quella stanza poteva essere l'esempio perfetto di uno studio di uno scrittore. O meglio: di quello che io credevo dovesse essere lo studio di uno scrittore. E invece mi stupivo a guardare quei libri allineati, quella poltrona vuota, quella luce ordinata che arrivava dalla finestra, con un balcone un po' più in là che sembrava allungare ancora di più quella stanza lunga e stretta. Anche i dorsi dei volumi erano molto spesso di colore 109 chiaro, libri che davano a quella biblioteca bianca un aspetto, come potrei dire, moderno. Moderno come i computer della scrivania. Pensai che spesso si sarebbe seduto sulla poltrona rossa, guardai i titoli dei libri vicino alla poltrona. Ogni titolo mi suggeriva un percorso, un'idea di poesia che cercavo di far combaciare in qualche modo con lo scrittore che abitava in quella stanza”. Questa descrizione è completamente diversa dall'altra. Se non fosse stato per l'ordine, quell'ordine dei libri, avrei detto che quella stanza poteva essere l'esempio perfetto di uno studio di uno scrittore Inizio con un concetto di ordine che crea un'attesa.. E invece mi stupivo a guardare quei libri allineati, quella poltrona vuota, quella luce ordinata che arrivava dalla finestra, con un balcone un po' più in là che sembrava allungare ancora di più quella stanza lunga e stretta Gli elementi descritti contribuiscono a creare una narrazione e hanno un senso, non sono soltanto elementi visivi. Anche i dorsi dei volumi erano molto spesso di colore chiaro, libri che davano a quella biblioteca bianca un aspetto, come potrei dire, moderno... Qui c'è un ingrandimento, come se usassi uno zoom. Ingrandisco il dettaglio dei dorsi dei volumi, senza rinunciare a introdurre un elemento che produce senso: il concetto di modernità, al quale si aggiungono altri elementi: Moderno come i computer della scrivania. Gli elementi sono funzionali al racconto. Pensai che spesso si sarebbe seduto sulla poltrona rossa, guardai i titoli dei libri vicino alla poltrona. Un nuovo zoom, sui titoli dei libri. Cerco di capire una personalità attraverso i suoi libri, ma non lo faccio in modo didascalico, scelgo un punto di vista più preciso, i libri che tiene accanto alla poltrona. Sono libri di poesia: Ogni titolo mi suggeriva un percorso, un'idea di poesia che cercavo di far combaciare in qualche modo con lo scrittore che abitava in quella stanza Ecco il punto finale. Titoli e disposizione delle cose suggeriscono un racconto interno. Tutto contribuisce ad arricchire il lettore, a dargli elementi su cui si può spaziare. E il lettore è libero di fare le sue ipotesi sulla personalità dello scrittore, attraverso una descrizione che rimanda di continuo all'idea di narrazione. In ogni descrizione va trovata una chiave, un taglio che possa mettere in gioco tutti gli elementi, che possa restituire il clima del racconto, fondendosi con tutto il resto. Nei testi letterari, dialoghi, descrizioni, eventi devono essere legati insieme da una tinta omogenea e devono completarsi a vicenda. ( vol. II - E5.8 - La descrizione) 110 5.12 IL DIALOGO Ci sono molti modi diversi per scrivere un dialogo. Innanzitutto bisogna saper ascoltare i nostri personaggi, ma quando si va a trascrivere quello che ci hanno comunicato, ci accorgiamo che le dita non riescono a stare al passo dei pensieri. A questo punto conviene “parlare”, usare un piccolo registratore, per permettere al flusso di coscienza di fluire liberamente. Scrive Jeffrey Hatcher, drammaturgo e didatta statunitense: “Per Neddy – il protagonista del testo teatrale "Compleat Female Stage Beauty", divenuto poi un film – ho spesso dettato al registratore interi discorsi, a volte una scena intera. Ciò non significa che io poi non riscrivessi questi dialoghi o scene. Qualche volta la voce aiuta ad immedesimarsi nel personaggio o nella scena in un modo completamente libero da filtri …. non posso raccomandare questo metodo a tutti, ma in certi casi è utile, soprattutto per i monologhi”. Hatcher continua, nel suo saggio “Scrivere per il teatro”: “Ogni drammaturgo dovrebbe provare a recitare, anche solamente sedendosi e leggendo il copione. Recitare drammi del passato (Shaw, Shakespeare, Cechov, Williams), drammi contemporanei (Norman, Albee, Mamet), e drammi completamente nuovi che non sono ancora finiti. Si impara molto. Si impara cosa si prova a dover interpretare un discorso troppo scritto o una barzelletta strutturata male. Cosa si prova a leggere un dialogo che non mette in moto azioni. Cosa si prova a dire parole che non sembrano venire dal personaggio che sta parlando”. ( vol. II - E5.9 - Il dialogo) 5.13 LO STILE La stilizzazione nel dialogo è difficile da definire, ma uno stile vero, originale ed efficace è sempre riconoscibile. Lo stile si forma con le letture che facciamo, nello stile esiste l'influenza letteraria. Ma non si può scegliere uno stile nel dialogo. E' possibile migliorare il proprio, perfezionarlo nell'espressione drammatica o teatrale. Uno scrittore deve evitare di imitarne qualcun altro. Si può adottare un'idea, si può acquisire un linguaggio che sia un misto di altri scrittori; ma uno scrittore che imiti pedissequamente lo stile di un altro autore sarà un banale ladro. Altrettanto pericoloso: uno scrittore che inizi con uno stile riconoscibile e poi lo trasformi in qualcosa su cui fa eccessivo affidamento. Questo può accadere anche agli scrittori migliori. Gli scrittori che hanno saputo creare gli stili migliori – tra cui Pinter, Mamet e Shepard - hanno spesso dovuto controllarsi per evitare di diventare troppo indulgenti nei loro drammi. Come definire uno stile? A volte si usano termini che rimandano a un autore: proustiano, joyciano, … Sono termini molto generici, come pure altri termini: una scrittura asciutta, o ricercata, con un grande ritmo della frase. Termini che spiegano poco. Bisogna provarsi nei vari stili, per trovare il proprio modo, la propria lingua per raccontare una storia anziché un'altra. ( vol. II - E5.10 - Lo stile) 111 5.14 BIBLIOGRAFIA Bickham, Jack M., Come scrivere un racconto, Dino Audino Editore – 2008 Cotroneo, R., Manuale di scrittura creativa, Castelvecchi Editore - 2008 GHOTAM WRITERS’ WORKSHOP, Lezioni di scrittura creativa. Un manuale di tecniche ed esercizi della più grande scuola di formazione americana, Roma, Dino Audino Editore, 2006 Gooch, S., Scrivere per il teatro, Gremese Editore – 2004 Mango, L., La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento Bulzoni, Roma, 2003 Marradi A., Raccontar storie. Un nuovo metodo per indagare sui valori, Roma, Carocci, 2005 Merli, S., Fare l'attore, Gremese editore 1998 Pinardi D. – De Angelis P., Il mondo narrativo. Come costruire e come presentare l'ambiente e i personaggi di una storia, Torino, Lindau, 2008 112 5. Lezioni di scrittura (AC) ARGOMENTO CORRELATO IL LINGUAGGIO E L’AUTORE TEATRALE 113 Scheda 5.a Le funzioni del linguaggio Mappa scheda 5.a Le funzioni del Linguaggio 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia 4. Tecniche di narrazione: lo Storytelling 5. Lezioni di scrittura AC Il Linguaggio e l'Autore teatrale Scheda 5.a Le funzioni del linguaggio Contenuti: Roman Jakobson e le funzioni principali del linguaggio, Il linguaggio teatrale, Funzione di appello, espressiva e poetica. 114 Scheda 5. b Le fasi della creazione testuale 2 ore OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Nell’uso, che l’uomo fa del linguaggio, si esplicitano una serie di funzioni. Le funzioni rappresentano le diverse modalità del linguaggio nel suo dispiegarsi e si identificano con i diversi usi. Il linguaggio “comanda ed informa, descrive e fa poesia, giudica ed esprime, crea capolavori” (Bruner), svolge cioè diverse funzioni. Sul piano delle funzioni linguistiche, il linguaggio è un sistema di segni per conoscere, conservare e trasmettere informazioni. Attraverso l’acquisizione del linguaggio, l’uomo: 1. prende coscienza della sua capacità creatrice; 2. dà un nome alle cose; 3. distingue e classifica gli oggetti della sua esperienza; 4. accede al sapere, lo memorizza e lo tramanda. Chi si prepara a intraprendere la strada della scrittura teatrale deve sapere quanto sono importanti le parole, viste dall’autore stesso come una forza in grado di suscitare emozioni, sentimenti. Le parole di un autore si trasformano in testi orali tramite gli attori che le interpretano. Il linguaggio scritto dà vita a quello orale, l’autore deve tenere ben presente le sue dinamiche come tiene bene presente le dinamiche della scrittura, l’obiettivo, dunque, è arrivare ad esplicitare le proprie intenzioni comunicative e far diventare il linguaggio azione scenica. INTRODUZIONE "In principio era il Logos", cioè il Verbo, la Parola - recita il prologo di Giovanni. Il linguaggio è fra gli strumenti più importanti della comunicazione, è una predisposizione naturale, l’apprendimento della lingua comincia fin dalla più tenera età. Attraverso l’acquisizione di tale metodo l’uomo è in grado di comunicare idee, conoscenze, emozioni, sentimenti e desideri. Lo studio del linguaggio ha sempre avuto un posto di rilievo nell’analisi di molti ricercatori ma il suo peso inizia a farsi strada in Occidente quando, nell'ambito della filosofia idealistica post-hegeliana, si è pensato di poter uscire dalla crisi dell'idealismo affermando che ogni "senso" trova la sua ragion d'essere se messo in rapporto al modo linguistico in cui è stato espresso. Da quel momento molte sono state le teorie sviluppate nel corso degli anni dalla filosofia del linguaggio ma in questa sede di ricerca ne tralasciamo l’analisi, naturalmente tutte hanno studiato le relazioni tra linguaggio pensiero e realtà facendo spazio all’idea di un linguaggio che non può essere soltanto quello verbale-astratto-teorico. L'essere è infinitamente più complesso del linguaggio. Dunque il linguaggio è anche "gesto". Per essere capito un gesto non deve per forza formalizzarsi in un linguaggio orale o scritto. Quando si parla di linguaggio, dunque, occorre fare riferimento anche al linguaggio "segnico", cioè quello "gestuale significativo"; ma perché qualsiasi forma di linguaggio sia significativo occorre che il suo rimando sia vero, positivo, profondamente umano. Ed è proprio in questa accezione del linguaggio che entra in gioco il teatro che attraverso la scrittura è in grado di trasformare il linguaggio nella verità delle cose e all'umanità più profonda. Se si dà all’uomo la possibilità di esprimersi attraverso la scrittura si potrà anche far acquisire un’esperienza dell'essere per molti versi emozionante e unica poiché il linguaggio si esprime liberamente. Roman Jakobson e le funzioni principali del linguaggio Come già anticipato, le parole sono un elemento costitutivo del teatro, diventa necessario, dunque, affrontare una breve analisi delle funzioni del linguaggio e dell’importanza di questo strumento di comunicazione in grado di dar forma al pensiero 115 di modellarlo e indirizzarlo verso canali specifici. Roman Jakobson, studioso di linguistica comparata e di filologia, grande appassionato di poesia pone l'accento costantemente, in tutte le sue opere, sulla comunicazione e sulle funzioni del linguaggio. Jakobson assegna a ciascun elemento del processo comunicativo una particolare funzione comunicativa, che si manifesta nelle forme e nei contenuti del messaggio. Più precisamente, il rapporto tra elementi comunicativi e funzioni si articola secondo questo schema: Mittente Funzione Emotiva Contesto Funzione Referenziale Messaggio Funzione Poetica Contatto Funzione Fàtica Codice Funzione Metalinguistica Destinatario Funzione Conativa La funzione emotiva esprime l’atteggiamento dell’emittente riguardo ciò di cui sta parlando. La referenziale è relativa al contenuto, consiste nella trasmissione dei un sapere, di un contenuto mentale su ciò che si dice. La funzione poetica è relativa all'organizzazione interna del messaggio, e riguarda il modo in cui esso è realizzato e strutturato. Questa funzione è prevalente nei messaggi poetici, in cui viene dedicata la massima attenzione alla struttura formale ed all'organizzazione interna. Nella funzione fatica il linguaggio viene utilizzato per stabilire, mantenere o interrompere la comunicazione, esprime in un messaggio l'impegno a garantire il contatto (un classico esempio di messaggio con funzione fàtica è la formula «Pronto?» che si dice rispondendo al telefono). La funzione metalinguistica per l'esplicitazione o spiegazione del codice linguistico stesso, riguarda la presenza all'interno del messaggio di elementi orientati a definire il codice stesso, ed è prevalente in tutti quei casi in cui si chiedono e si forniscono chiarimenti sui termini, sulle parole e sulla grammatica di una lingua. Esempio: "Perché dici sempre Gianna e Margherita e mai Margherita e Gianna? Preferisci Gianna alla sua sorella gemella?" "Niente affatto, ma così suona più gradevolmente”. In una successione di due nomi coordinati, e quando non interferisca un problema di gerarchia, il parlante sente inconsciamente, nella precedenza data al nome più corto, la miglior configurazione possibile del messaggio. Una ragazza parlava sempre dell'"orribile Oreste". "Perché orribile?" "Perché lo detesto". "Ma perché non terribile, tremendo, insopportabile, disgustoso?" "Non so perché, ma orribile gli sta meglio”. 4 Analizziamo brevemente lo slogan politico I like Ike (/ay layk ayk/): nella sua struttura succinta è costituito da tre monosillabi e contiene tre dittonghi /ay/, ciascuno dei quali è seguito simmetricamente da un fonema consonantico, /...l...k...k/. La disposizione delle tre parole presenta una variazione: nessun fonema consonantico nella prima parola, due intorno al dittongo nella seconda, e una consonante finale nella terza. Hymes ha notato un analogo nucleo dominante /ay/ in alcuni sonetti di Keats. I due cola della forma trisillabica I like / Ike rimano fra loro, e la seconda delle due parole in rima è completamente inclusa nella prima (rima ad eco): /layk/ - /ayk/; immagine paronomastica d'un sentimento che inviluppa totalmente il suo oggetto. I due cola formano un'allitterazione, e la prima delle due parole allitteranti è inclusa nel secondo: 4 da: Jakobson, R., Essais de linguistique générale, Paris, Minuit; trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 190. 116 /ay/ - /ayk/, immagine paronomastica del soggetto amante involto nell'oggetto amato. La funzione poetica secondaria di 5 questa formula elettorale rafforza la sua espressività ed efficacia . La funzione conativa, infine, esprime in messaggio la tendenza ad avere degli effetti extralinguistici sull'emittente, effetti cioè che non si limitano alla pura comprensione linguistica; sono ad esempio messaggi conativi gli ordini, i consigli, le preghiere e le suppliche. Occorre tenere presente che queste funzioni non sono mai presenti allo stato puro, per così dire, in un messaggio. Ovvero, non esiste un messaggio che sia esclusivamente poetico, o esclusivamente referenziale. Anzi, in generale ogni messaggio svolge tutte le funzioni. Tuttavia in ciascun messaggio esiste sempre una funzione prevalente rispetto alle atre, ed essa determina il carattere funzionale complessivo del messaggio stesso. Ad esempio nella lingua quotidiana prevale la funzione referenziale, cioè la tendenza a parlare di qualche cosa. Ma allo stesso tempo si cerca sempre di comunicare i contenuti in modo formalmente curato, e spesso si esprime anche la propria posizione riguardo quei contenuti. Allo stesso modo, un componimento poetico è caratterizzato da una prevalente cura formale e linguistica, ma non è mai assolutamente privo di contenuto. Attraverso le sue analisi, Jakobson riesce a costruire un modello della comunicazione umana in grado di farci capire come e perché siamo in grado di parlare di qualcosa e di comprendere ciò che ci viene detto introducendo il codice ed il contesto. Il codice può essere definito come un insieme strutturato di segni e di regole che il mittente ed il destinatario devono condividere affinché il primo sia in grado di formulare messaggi ed il secondo di comprenderli. “Il secondo aspetto della comunicazione linguistica è il contesto. Infatti, per comunicare non è sufficiente avere in comune un codice: quando parliamo con qualcuno parliamo di qualche cosa, in una data situazione e in un dato momento temporale. Affinché la comunicazione sia efficace, è necessario che tutti questi elementi di contesto siano condivisibili mediante la lingua. Vediamo un caso esemplificativo: se A vuole comunicare a B che grazie ai suoi 140 cavalli potrà percorrere Roma-Milano in 5 ore, B deve comprendere che A non si riferisce a una mandria di cavalli, ma ad una potente autovettura. Quindi, la comprensione di un messaggio, anche banale, è un processo di enorme complessità. Infatti, B oltre che capire le parole dettegli da A e collegare i termini individuali ad oggetti reali, deve possedere un contesto cognitivo (una serie di conoscenze di base), composto dalle seguenti nozioni: la distanza approssimativa tra Roma e Milano; sapere che nessun cavallo si sposta a oltre 100 km/h; che il termine cavalli non è necessariamente riferito agli equini, ecc. Nel momento in cui A si rivolge a B presuppone che quest'ultimo possieda in qualche modo queste conoscenze. Se A si accorge che questo presupposto è falso, deve essere in grado di spiegare a B, mediante la lingua (o eventualmente con l'ausilio di messaggi visivi e filmati), almeno una parte di queste conoscenze di contesto, altrimenti non riusciranno a capirsi. E' facile convincersi che una perfetta coincidenza di competenze tra due persone è impossibile. Infatti tali nozioni sono il frutto della storia personale e sociale di ciascuno. Anche ammesso che ci sia un sufficiente accordo di competenze tra due interlocutori, il senso complessivo di un messaggio per un destinatario non sarebbe comunque determinato solo da tale accordo. Se ad esempio B è un appassionato centauro (nel senso di motociclista e non mitologico), il significato immediato della frase diventa a sua volta veicolo più ricco di significati: per esempio, con una reale o presunta asserzione inespressa (la mia macchina è più veloce della tua moto) entra in gioco l'ironia verso il nostro interlocutore. Ecco che la comunicazione linguistica, ed in generale ogni processo di comunicazione tra esseri intelligenti mediata da un codice di sufficiente complessità (si pensi alla pittura, o al cinema), non presenta mai una perfetta simmetria tra codifica e decodifica. La decodifica richiede sempre un lavoro di 5 da: Jakobson, R., Essais de linguistique générale, Paris, Minuit; trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 190 117 interpretazione, effettuata dal/dai destinatari alla luce di un insieme di competenze e di circostanze. Naturalmente 6 questa decodifica interpretativa non è sempre di pari complessità” . Occorre, inoltre, non dimenticare che, quando parliamo con qualcuno parliamo di qualche cosa, in una data situazione e in un dato momento temporale. Una volta che tutti gli elementi di contesto sono condivisi vuol dire che vi è una comunicazione, o, se non lo sono, che almeno siano condivisibili mediante la lingua. Ad esempio, per capire il senso della frase: «Ehi, hai visto che grande Roma ieri» occorre non solo sapere l’italiano ma sapere che “Roma” si riferisce alla squadra e non alla città, in altre parole, occorre afferrare in qualche modo l'"oggetto" del mondo di cui si sta parlando. Come questo afferrare il mondo mediante le parole avvenga è un problema su cui i filosofi si interrogano da secoli ma tale dibattito è lungo e non è possibile, ora, soffermarsi, è necessario però mettere in evidenza come la comprensione di un messaggio, anche banale, sia un processo di enorme complessità. Per comprendere realmente un messaggio occorre possedere una serie di conoscenze di base, una sorta di contesto cognitivo, in cui si è a conoscenza di certe nozioni come, prendendo in esame l’esempio di prima, sapere che da poco si è giocata una partita di calcio, che cosa è il calcio, che è in corso un torneo sportivo nazionale di calcio, che chi sta parlando è tifoso di una certa squadra, e così via. Se una persona si rivolge ad un’altra con una frase simile a quella del nostro esempio, vuol dire che la persona a cui ci si rivolge possieda in qualche modo tali conoscenze. Se ci si accorge che il mittente è ignaro dell’argomento, allora diventa necessario spiegare, mediante la lingua almeno una parte delle conoscenze di contesto, altrimenti il messaggio della comunicazione non potrebbe arrivare mai. Naturalmente una perfetta coincidenza di competenze tra due persone è impossibile, le nozioni sono il frutto della storia personale e sociale di ciascuno e un adeguato accordo di competenze tra due interlocutori non è necessario poiché per recepire il senso complessivo di un messaggio entrano in campo moltissime variabili per esempio l’interlocutore può essere tifoso di un’altra squadra e non afferrare immediatamente il senso della frase vista dal punto di vista di chi lo esprime, il messaggio può trasformarsi a sua volta come canale di un senso più ricco, in cui entra in gioco l'ironia e lo scherno verso il nostro interlocutore. “Ecco che la comunicazione linguistica, ed in generale ogni processo di comunicazione tra esseri intelligenti mediata da un codice di sufficiente complessità (si pensi alla pittura, o al cinema), non presenta mai una perfetta simmetria tra codifica e decodifica. La decodifica richiede sempre un lavoro di interpretazione, effettuata dal o dai destinatari alla luce di un insieme di competenze e di circostanze. Naturalmente questa decodifica interpretativa non è sempre di pari complessità. Ci sono dei messaggi che interpretiamo tutti in modo largamente simile e con sufficiente velocità (se così non fosse, d'altronde, il linguaggio non sarebbe stato quel formidabile strumento di sopravvivenza in un ambiente ostile che si è rivelato essere per la nostra specie, fisicamente debole ed impacciata). Ed anche nel caso di messaggi più complessi esiste in principio la possibilità di ricostruire un significato comune e condiviso. Ma questo spazio comune può sempre essere il punto di partenza di un percorso interpretativo irriducibilmente individuale”. 6 7 Vedi anche www.galenotech.org/comunicazione.htm 7 Cfr.http://www.mediamente.rai.it/mediamentetv/learning/ed_multimediale/lezioni/06/index.htm#Lo_schema_della_comunicazione_di_Jako bson. 118 Il linguaggio teatrale Le parole, elemento costitutivo del teatro, prima di essere interpretate oralmente su un palcoscenico sono scritte, la scrittura drammatica fa parte della storia del teatro dall’inizio dei tempi fino ad oggi. Il linguaggio teatrale, dunque, è un filtro, materiale essenziale per autori, attori e registi, è grazie alla lingua che essi danno forma a un pensiero lo modellano e lo indirizzano verso canali specifici. Occorre sottolineare che il linguaggio teatrale presenta vari aspetti: linguaggio della letteratura teatrale, linguaggio teatrale, che è costituito dal linguaggio scenico o della messa in scena e dal linguaggio della ricezione teatrale. Il linguaggio teatrale letterario si avvale di altri linguaggi (lingua o idioma, linguaggio scritto, dei segni, scenografico, spesso musicale). Il linguaggio scenico si avvale del linguaggio gestuale, mimico, coloristico, parlato. Il linguaggio di ricezione è dato dalla proiezione creativa e critica dello spettatore, il quale si presta alla deconnotazione semantica e diventa fruitore e fine ultimo della rappresentazione. Per “Linguaggio teatrale” si intende la somma del linguaggio scenico e di quello che percepisce lo spettatore con le conseguenti influenze reciproche. Possiamo dire che la specificità del linguaggio teatrale è dato dalla coesistenza, in uno stesso luogo, sia dell’emittente del messaggio teatrale (scena, attore) sia del ricevente (spettatore) e dalle possibili influenze tra le due parti: comunicazioni, partecipazioni, scambio delle parti. Per questi motivi il linguaggio teatrale è diverso da quello videoteatrale, ove non può esservi la cooperazione dell’attore e dello spettatore e non si possono determinare le conseguenze di questa duplice presenza e interazione. Per meglio comprendere la specificità del linguaggio teatrale, occorre esaminare i linguaggi delle arti ad esso vicine e notare le differenze. In un incontro di studiosi dello spettacolo, Billen ebbe a dire: “Il teatro è eloquenza, il cinema movimento, la radio evocazione, la televisione confidenza, confidenza nel tono, nell’abolizione delle distanze morali e materiali, nello stabilire un contatto diretto con lo spettatore”. La diretta televisiva possiede come il teatro, la contemporaneità di ascolto, ma non il contatto diretto. Televisione e cinema possono condividere l’uso selettivo della camera e il montaggio, ma presentano notevoli differenze sia nella composizione che nella fruizione del messaggio: infatti uno stesso filmato è connotato, da uno spettatore, diversamente dalla visione in un cinematografo, sul grande schermo, e viene recepito diversamente, dallo stesso spettatore, sul piccolo schermo, a casa, nel suo ambiente naturale. Televisione e radio condividono l’ intimità di ricezione, ma la presenza del visivo acquista un carattere realistico concreto opposto a quello lirico-evocativo del mezzo radiofonico. Le caratteristiche tecnico-espressive della TV convergono a definirne l’immediatezza, la spontaneità, l’attualità, l’intimità di comunicazione, la partecipazione e il coinvolgimento dello spettatore, diversamente dalla comunicazione scritta che con la sua uniforme e sequenziale linearità, induce il lettore ad atteggiamenti di distacco e di riflessione, pur potenziando l’attività fantastica. Perché molti preferiscono il linguaggio audiovisivo a quello letterario? Gli scrittori debbono usare molte parole per descrivere qualcosa, ad esempio l’autunno, l’arredamento di una stanza, i vestiti e le fattezze dei personaggi; invece, il linguaggio audiovisivo ha descrizioni immediate, inquadrature chiare e rapide, perché sono le immagini prima delle parole a raccontare. Anche il teatro si serve del linguaggio visivo e uditivo; esso è anche arte retrospettiva, infatti riproduce un’ azione passata presentificandola ad ogni recita. L’angolo visuale, in teatro, è unico. Il cinema e la televisione hanno la possibilità di usare , in funzione espressiva, campi e piani diversi e inoltre hanno il montaggio. Pur nella sua semplicità tecnica, il teatro ha tuttavia un fascino immenso, che gli deriva dalla sua lunga storia, ma ancor più dalla funzione sociale, politica, pedagogica che si 8 estrinseca con grande realismo, vivida suggestività e di grande pregnanza”. 8 http://www.gttempo.it/DizionarioTeatrale.htm 119 Concludendo si può affermare che l’unico materiale su cui chi scrive per il teatro fa affidamento per creare questo mondo particolare sono le parole. Le parole nel teatro, a differenza delle altre arti, devono essere concrete e specifiche avere grande capacità di comunicazione vera ed autentica con lo spettatore, essere interpretate facilmente da un attore trasformato in personaggio. “Le parole definiscono i personaggi in ogni momento dello sviluppo dell’azione drammatica: i conflitti, le mete, le emozioni, il rapporto con l’ambiente, la posizione sociale, i successi e i fallimenti e la manifestazione esterna come esseri umani”. (José Luis Alonso De Santos, L’ABC del teatro vol.2 Pratica dell’arte teatrale, Roma, Dino Audino Editore, 2009, 238) Funzione di appello, espressiva e poetica Dalle funzioni del linguaggio analizzate da Jakobson ed esposte nel paragrafo precedente, possiamo, ora, analizzare le funzioni del linguaggio che incidono direttamente sul linguaggio drammatico: di appello, espressiva e poetica. Appellare vuol dire ricorrere ad una persona o cosa per trovare un favore, una soluzione o un rimedio. La funzione di appello è estremamente importante nel linguaggio drammatico dei personaggi poiché il personaggio di un’opera teatrale ha bisogno di utilizzare il linguaggio come strategia, come arma, come mezzo per arrivare ad un fine e provocare una determinata reazione non solo per quanto riguarda gli altri personaggi della storia ma anche nei confronti dello spettatore che è coinvolto indirettamente nel dialogo scenico, in questo modo occorre considerare, nella funzione di appello, oltre all’attore che attraverso il personaggio parla agli altri protagonisti, anche l’autore che cerca di comunicare con il pubblico. (Cfr. José Luis Alonso De Santos, L’ABC del teatro vol.2 Pratica dell’arte teatrale, Roma, Dino Audino Editore, 2009, 234). A riflettere lo stato emozionale del messaggio è la funzione espressiva che permette di conoscere lo stato d’animo del parlante nel momento della comunicazione: l’autore attraverso lo stile personale del linguaggio mostra le emozioni che l’attore attraverso il personaggio esprime in scena. Il pubblico è il destinatario finale di tutto questo processo emotivo/comunicativo. (Cfr. José Luis Alonso De Santos, L’ABC del teatro vol.2 Pratica dell’arte teatrale, Roma, Dino Audino Editore, 2009, 235). La funzione poetica riguarda la funzione più propriamente estetica del linguaggio, l’attenzione è sul linguaggio stesso, sul modo dell’autore di comunicare le cose, di trasformare il linguaggio comune in linguaggio letterario, tale comunicazione risulterà essere di gusto soggettivo al pubblico ricevente che deciderà o no se assistere alla messa in scena. Una volta cominciato lo spettacolo l’autore teatrale insieme agli attori non possono tornare indietro modificando la forma e gli spettatori non possono relazionarsi nel discorso intervenendo, ci si trova di fronte a un “fatto chiuso”, un’opera finita, scritta precedentemente dall’autore con la consapevolezza di comunicare, attraverso il testo e il proprio gusto estetico, ad un pubblico anonimo di tipo universale. (Cfr. José Luis Alonso De Santos, L’ABC del teatro vol.2 Pratica dell’arte teatrale, Roma, Dino Audino Editore, 2009, 236). “Nel linguaggio c'è sempre uno scarto fra ciò che appare e il suo rimando concreto, effettivo. Se non fosse così, non sarebbe possibile interpretare in maniera opposta una stessa proposizione, un identico concetto. Persino gli stessi fatti possono essere visti in maniera completamente diversa, proprio perché chi li osserva proietta inevitabilmente su di essi il proprio "essere particolare" (con i suoi pregiudizi, le sue pre-comprensioni, ecc.). La verità è sempre l'esito a posteriori di un libero confronto tra posizioni diverse. Persino quando si è stabilita una verità scientifica dei fatti, taluni si ostinano a non vederla, ed è impossibile convincerli con la forza, poiché così si sentirebbero ancora più giustificati” (Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, e Il linguaggio, Torino, Einaudi, 1987, 73). 120 Scheda 5.b Le fasi della creazione testuale Mappa scheda 5.b Le fasi della creazione testuale 2. Aree della formazione teatrale 3. Tecniche sceniche e arte terapia 4. Tecniche di narrazione: lo Storytelling 5. Lezioni di scrittura AC Il Linguaggio e l'Autore teatrale Scheda 5.a Scheda 5. b Le funzioni del linguaggio Le fasi della creazione testuale Contenuti: ll punto di partenza, L'autore e i suoi personaggi, Percezione, immaginazione e memoria, Sentimenti, emozioni e creatività, Autore, pubblico e società, Il punto di vista. 121 4 ore OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO Analizzare gli elementi strutturali di un testo drammaturgico per acquisire la capacità di riconoscere i principi fondanti la drammaturgia; rendere propri e saper utilizzare gli strumenti necessari ad affrontare la scrittura di un testo teatrale. INTRODUZIONE Scrivere per il teatro presuppone la conoscenza del mezzo per cui si sta scrivendo poiché, pur avendo elementi in comune con le altre forme di scrittura, non bisogna mai scordare che gli autori di teatro scrivono per uno spazio tridimensionale, quale il palcoscenico, dove si svolgono azioni in tempo reale. Il drammaturgo, prima di elaborare il suo dramma, deve dare una struttura alle proprie idee, saperle riordinare per creare tre momenti fondamentali della scrittura teatrale: fase iniziale, fase centrale, finale. Nulla può essere lasciato al caso perché non si deve in alcun modo creare confusione nel pubblico ed ogni fase deve preferibilmente seguire uno sviluppo emozionale ben preciso per tenere sempre viva la concentrazione e l’attenzione dello spettatore. Per chi approccia alla scrittura teatrale è importante conoscere i sei elementi di Aristotele che vanno tenuti a mente mentre si scrive un’ opera teatrale e sono: azione, personaggio, idee, linguaggio, musica, spettacolarità. Anche se ciò che resterà più impresso nello spettatore è l’azione ovvero ciò che è accaduto durante la rappresentazione, lo scrittore deve sempre partire dal personaggio e dalle sue evoluzioni. Avere una buona idea per un testo teatrale non significa ottenere l’interesse di chi guarda lo spettacolo poiché tale interesse è dato più dallo “spettacolo” che dall’argomento. Le idee possono essere infinite e tratte dalla nostra esperienza personale, da quello che succede intorno a noi, da un fatto storico, da un evento che ci ha colpito, ma quello che le rende efficaci è il loro sviluppo; una buona idea deve suggerire un conflitto, una crescita per il personaggio che descrive e raggiungere una spettacolarità. Un’altra attenzione che lo scrittore teatrale deve avere è quella relativa al modo di parlare dei suoi personaggi poiché, così come nella vita reale, ciascuna persona ha un suo modo di esprimersi e un suo codice linguistico, anche nell’opera teatrale il personaggio deve avere una connotazione linguistica che aiuti lo spettatore ad identificare la sua personalità. L’abilità dello scrittore sta nel far arrivare al pubblico, in un arco di tempo concentrato, le emozioni, i pensieri, gli avvenimenti che riguardano la vita di un personaggio. Un ultimo ma fondamentale elemento che il drammaturgo non deve mai dimenticare, è l’onestà nei confronti del pubblico, poiché quest’ultimo, andando a teatro, è disposto a giocare, ad accettare lo svolgersi di avvenimenti in un tempo ridotto e in un luogo che accetta possa essere semplicemente evocato, descritto. L’abilità dello scrittore teatrale sta dunque nel ridurre le necessità in un tempo ridotto mantenendo la coerenza dell’argomento senza creare confusione nello spettatore. La percezione, il sentimento e l’immaginazione sono le radici della scrittura, ma non esiste alcun manuale per impararle: quello che si può apprendere è il modo più corretto per sviluppare e riordinare le idee. Nei paragrafi successivi verranno forniti degli elementi per poter approcciare ad un testo teatrale partendo dalle teorie Aristoteliche fino ad arrivare alle motivazioni che possono spingere lo scrittore ad affrontare uno specifico argomento. Il filo conduttore sarà comunque il rapporto di complicità che si deve instaurare tra l’autore e il pubblico passando per il ruolo del personaggio di finzione. 122 Il punto di partenza Per cominciare a scrivere un testo teatrale bisogna conoscere la distinzione tra DRAMMA, ovvero l’azione e TEATRO, luogo dove si svolge l’azione. In un dramma ogni azione è causa della successiva e risultato della precedente; il susseguirsi delle azioni crea la trama. Il dramma si può definire come un susseguirsi di azioni compiute da persone che devono essere in conflitto tra loro, lo scontro tra le loro idee, le loro emozioni, e i loro pensieri porterà ad una lotta tra forze che si contrastano e alla sua risoluzione finale. Alla base di ogni opera teatrale ci sono delle persone quindi l’autore deve sempre partire dai personaggi. A questo punto è necessario conoscere sommariamente la teoria di Aristotele sul dramma e analizzare i sei elementi che, secondo il filosofo greco, ne sono alla base: azione, personaggio, idee, linguaggio, musica, spettacolarità. L’aspetto su cui ci soffermeremo maggiormente sarà quello relativo alla funzione del personaggio. AZIONE: un’azione per essere definita tale deve suscitare una reazione. Pertanto un’azione drammatica è data dallo svolgersi di un atto da parte di un personaggio che di conseguenza provoca un’altra azione da parte di un altro personaggio. Il susseguirsi di queste azioni determina la trama di un dramma che porta all’evoluzione dei personaggi. A volte si presentano delle sotto trame, la cui funzione è quella di mandare avanti la trama principale, di esserne di supporto. Lo svolgersi delle azioni all’interno del dramma è sempre legato allo sviluppo del personaggio poiché, come abbiamo già detto, azioni suscitano altre azioni e di conseguenza un conflitto e la sua risoluzione. IDEE: L’idea per Aristotele è quella che noi più comunemente definiamo “tema”. L’aspetto più importante non è l’idea in sé ma come essa viene descritta. L’idea può essere dichiarata in maniera diretta dai personaggi oppure le azioni possono portare lo spettatore a capire l’idea alla base del dramma che si sta rappresentando. In ogni caso con il pubblico non bisogna essere troppo diretti, a lui piace assistere allo svolgere delle azioni dietro le quali possiamo “nascondere” le idee. L’autore di teatro non deve mai dimenticare che uno degli attori del dramma che sta scrivendo, è lo spettatore, che deve svolgere un ruolo attivo all’interno della rappresentazione. LINGUAGGIO: è ciò che viene detto in scena dagli attori. Dal linguaggio si può determinare il background di un personaggio. La concentrazione del tempo e dello spazio nella rappresentazione teatrale fa si che l’autore debba utilizzare alcuni espedienti (come il linguaggio) per aiutare lo spettatore a capire elementi della storia che sarebbero troppo lunghi da narrare. Ad esempio il tono del linguaggio può aiutarci a capire aspetti del personaggio oppure un dialogo può velocizzare la conoscenza di alcuni elementi della vita di questo personaggio. MUSICA: ha un impatto fondamentale per il pubblico sia dal punto di vista sensoriale, emozionale che da quello più pratico, poichè può aiutare lo spettatore a capire meglio un’ atmosfera, un’ ambientazione, un personaggio. Proprio per questo un autore teatrale, durante il momento della scrittura, non può non considerare il suo ruolo, sia essa usata in forma di commento sonoro, di canzone, di musica per danza o semplicemente intesa come suono. SPETTACOLARITA’: Così come la musica anche la spettacolarità agisce sui sensi dello spettatore e sulla sua comprensione degli aspetti del dramma. Per spettacolarità si intende l’elemento visivo, il vedere, gli effetti speciali, la sorpresa. PERSONAGGIO: Il ruolo relativo al personaggio è fondamentale e lo tratteremo nel prossimo paragrafo. Il primo stadio per un autore teatrale è quello di immaginarsi l’opera che andrà a scrivere, successivamente subentrano le conoscenze tecniche che permetteranno all’autore di trasferire il suo immaginario in un testo. Lo scrittore deve dare una struttura alle sue idee e dal momento che è l’azione a far crescere i personaggi e sviluppare il dramma l’autore deve stilare una lista di azioni per poi definire tre momenti cruciali di un dramma. La prima fase è quella costituita dal “punto di attacco” ovvero l’azione o l’insieme delle azioni da cui scaturisce tutta la storia e serve per catturare l’attenzione dello 123 spettatore e ci introduce nell’evento principale del dramma. Durante l’inizio del dramma gli spettatori devono conoscere i personaggi, l’azione centrale, il tono, lo stile ed è attraverso l’esposizione che si comunica al pubblico ciò che è accaduto e che sta per accadere. I mezzi per comunicare con il pubblico possono essere il dialogo, il monologo, l’azione oppure gli elementi scenici. L’esposizione può essere rappresentativa quando utilizza gli elementi stessi dello spettacolo per raccontarsi, presentativa quando si rivolge direttamente al pubblico. La seconda fase è la più lunga e caratterizzata da momenti di tensione e di rilassamento e durante la quale avviene la crescita e lo sviluppo del personaggio attraverso un momento di crisi. Questa parte centrale deve far sentire la tensione nel pubblico, creare in lui delle aspettative. La terza fase prevede la messa in scena di un conflitto che viene risolto dal climax ovvero l’insieme di azioni che portano alla risoluzione del conflitto. Durante questa fase si da risposta a tutte quelle domande che lo spettatore si è posto nella prima del dramma. Fondamentale per il finale di un dramma è che i personaggi abbiano raggiunto i loro obiettivi che per le loro sia stata mostrata una possibilità di redenzione, di sviluppo. L'autore e i suoi personaggi Lo scrittore teatrale non può elaborare il suo dramma se non tiene sempre a mente il personaggio. Sono proprio i personaggi che mantengono viva l’attenzione del pubblico. Tale attenzione deriva da quello che il personaggio fa, da come agisce. Un personaggio è azione poiché ciò che è, la sua identità, può essere dimostrata attraverso le sue azioni. Il personaggio deve inoltre essere interessante, poiché ciò che lo lega allo spettatore è l’identificazione. Bisogna pertanto lavorare sulla creazione di un personaggio che stimoli il pubblico a seguire le sue vicende, deve essere simile a noi ma allo stesso tempo avere la possibilità di elevarsi, di risolvere i propri conflitti, deve essere in evoluzione e mirare ad un cambiamento attraverso il raggiungimento dei suoi obiettivi. Essendo la rappresentazione teatrale piuttosto breve, sono necessari degli elementi introduttivi che conducano lo spettatore a conoscere il personaggio per potersi affezionare a lui. Tali elementi possono essere ciò che il personaggio dice di se stesso, ciò che gli altri dicono di lui e ciò che fa. Una volta conosciuto il personaggio bisogna dargli degli obiettivi, fargli affrontare delle difficoltà e donargli le capacità per poter superare gli ostacoli. Importante per stimolare l’evoluzione e lo sviluppo di un personaggio è mostrargli un antagonista poiché il contrasto tra esseri umani genera sempre un cambiamento. Ciò che lo scrittore non deve mai dimenticare è che lo spettatore rivive se stesso nel personaggio. Andare a teatro non è solo intrattenimento ma anche un modo per capire ciò che ci circonda attraverso la finzione, il gioco. La personalità di un personaggio all’interno del dramma prima si definisce poi si trasforma ed il tutto avviene davanti allo spettatore. Il personaggio attraverso le proprie azioni e le proprie parole ha il compito di raccontare e sviluppare la trama voluta dall’autore. Ogni personaggio ha una triplice relazione, quella con l’autore, quella con l’attore che lo interpreta e quella con il pubblico. L’autore deve creare degli esseri di finzione che abbiano un carattere ben definito al fine di poter giustificare ogni sua azione: pertanto il rapporto che si instaura tra lo scrittore e i suoi personaggi è molto profondo. Partendo da un essere comune l’autore deve generare un personaggio che sia unico, dotato di una sua personalità. Per trasferire al pubblico forti emozioni l’autore deve ricorrere alla sua esperienza personale, alla sua interiorità perché non si può descrivere un sentimento se non lo si è provato. Di conseguenza la memoria e gli affetti di un personaggio sono la proiezione della memoria e degli affetti del suo autore. Non si può costruire un personaggio se non si è degli attenti osservatori del mondo che ci circonda poiché solo prendendo spunto dalla realtà circostante, un essere di finzione può essere credibile e godere di una propria essenza. L’autore non può mai perdere di vista il suo personaggio, deve avere chiara ogni sua sfaccettatura affinchè il personaggio mantenga una sua coerenza comportamentale ed emozionale anche quando si passa dalla fase della creazione a quella dell’interpretazione. Lo scrittore 124 teatrale non deve dimenticare che il suo personaggio verrà poi messo in scena da un attore al quale andrà fornito il maggior numero di informazioni per poter entrare in sintonia con il personaggio e con quello che l’autore vuole che rappresenti. Nella creazione del personaggio importante è anche la connotazione linguistica che gli viene data: il suo modo di parlare lo caratterizza e lo inquadra in un contesto socio culturale, e quindi bisogna dargli il tono giusto. In conclusione un autore deve creare il suo personaggio a tutto tondo, deve avere chiaro cosa andrà a fare e in che modo, dargli una forte personalità, un linguaggio identificativo, metterlo alla prova attraverso azioni che porteranno alla sua evoluzione. Percezione, immaginazione e memoria La creatività dello scrittore ruota intorno alla percezione, all’immaginazione e alla memoria. La percezione è lo spirito di osservazione, che abbiamo e che ci permette di vedere aspetti del mondo che ci circonda, per poi concettualizzarli all’interno dell’opera drammatica. Alla percezione subentra poi l’immaginazione che permette all’autore di dare una sua interpretazione a ciò che ha precedentemente analizzato. È il momento più creativo dell’elaborazione di un testo e mette in contatto il mondo circostante con le nostre esperienze, il nostro vissuto e la nostra personalità. Infine c’è la memoria che fornisce ricordi, immagini ed aiuta a contestualizzare il percorso creativo dello scrittore. Sono momenti fondamentali nell’elaborazione di un testo ed ovviamente variano da scrittore a scrittore. La percezione artistica consiste nel modo in cui si osserva la realtà poiché essa viene percepita in base alle esperienze personali dell’autore; tale percezione è data da un’attenzione continua verso gli altri ma essa può subire l’influenza di una motivazione. Ovvero la nostra percezione varia in base agli stimoli che noi in quel momento otteniamo, alle esigenze che abbiamo e allo stato emozionale che in quel momento ci caratterizza. È importante avere un’ampia conoscenza delle cose per poterci estraniare e non essere dominati, durante il momento della percezione, da quelle che sono le nostre motivazioni personali. Solo una profonda conoscenza può permettere di andare oltre le apparenze ad avere lucidità nel descrivere le cose. È attraverso l’immaginazione che si può dare un senso creativo alla percezione. L’immaginazione può essere creativa quando mira ad una finalità estetica dell’opera drammaturgica oppure rappresentativa quando predilige l’aspetto più spontaneo e ludico del processo immaginativo. Alla base della percezione e dell’immaginazione c’è comunque la memoria e le emozioni ad essa connesse. La memoria serve a contestualizzare la creatività dell’autore. Attraverso la memoria entra in gioco l’esperienza personale del drammaturgo, le emozioni non si possono attribuire ad un personaggio se non sono state provate dall’autore e di conseguenza non possono essere trasmesse allo spettatore. Sentimenti, emozioni, creatività Il teatro parla di passioni, e, come abbiamo detto, è fortemente legato alla trasmissione delle emozioni; già per lo spettatore greco assistere ad una tragedia aveva una valenza terapeutica e tale funzione emozionale si è mantenuta nei secoli. Proprio per questo, sentimenti ed emozioni sono elementi fondamentali per il lavoro dello scrittore di teatro, non solo per la loro finalità più pratica di dare spessore ai personaggi ma anche perché agiscono sulla sensibilità dello spettatore. L’approccio emotivo viene fornito dall’autore ma a renderlo concreto sarà il ruolo del regista e di conseguenza dell’attore. Ragione ed emozione sono le forme con cui l’autore si mette in comunicazione con lo spettatore. L’universo creativo del drammaturgo può avvicinarsi all’universo emozionale del personaggio sia attraverso un approccio soggettivo che oggettivo. Nel primo caso l’autore deve scavare nel proprio mondo interiore per spiegare il mondo esterno, deve far leva su degli stimoli emotivi per far emergere l’intuizione. Nella circostanza in cui prevale l’elemento oggettivo, l’autore cerca di incanalare le emozioni in un sistema più razionale. Dalle emozioni si parte e alle emozioni si arriva poiché lo 125 scrittore deve sfruttare la sua memoria emozionale per dare forma ai personaggi e al tempo stesso il pubblico ricerca nella visione dello spettacolo una ricchezza di sentimenti. La fase intermedia di questo trasferimento è costituita dal ruolo dell’attore che, affinchè il personaggio di finzione prenda vita, si presta a donargli le sue emozioni. Questo passaggio può riuscire solo se l’autore e l’attore sono disposti a mettere a disposizione del personaggio la propria interiorità, il proprio sentire. Autore, pubblico e società Gli scrittori possono prendere spunto per le loro opere da fatti realmente accaduti, dalla loro esperienza personale, dalla società in cui vivono, da un episodio, da un ricordo, da una motivazione ideologica, culturale, da un’emozione vissuta. Ciò che conta non è il momento di partenza, ma la convinzione rispetto a quello che andranno a elaborare. Le idee possono derivare da numerose fonti e dalle loro combinazioni purchè sia qualcosa che interessi l’autore; la sua personalità è sempre all’interno del dramma che scrive. Lo scrittore deve credere fermamente nell’idea che sta portando avanti, deve esserci legato altrimenti sarà difficile ottenere l’interesse del pubblico. L’autore attraverso i suoi testi cerca di offrire delle risposte al mondo che lo circonda, mette a confronto le proprie esperienze con l’ambiente circostante e da questa riflessione nasce il suo dramma. Si tratta di un costante rapporto tra arte e vita che deve avere una duplice finalità; da una parte mantenere uno sviluppo teatrale e una ricerca estetica, dall’altra deve tentare di andare oltre ed offrire allo spettatore un momento di riflessione. L’opera teatrale è la risposta che l’autore fornisce agli stimoli che costantemente riceve dalla vita. Pertanto in un dramma ogni elemento ha un suo significato. La scelta di un linguaggio, di un personaggio, il suo modo di agire, i dialoghi sono mezzi con i quali l’autore comunica i suoi valori, i suoi pensieri. La formazione, le ideologie, la concezione culturale di un autore emergono dal suo testo; ciò che scrive è sempre una proiezione del suo modo di essere e del suo pensiero. Tale pensiero assume poi una valenza artistica ed estetica pur mantenendo un suo preciso significato. Lo scrittore di teatro si mette più in gioco degli autori televisivi o cinematografici dal momento che questi ultimi restano maggiormente nell’anonimato. La visibilità del drammaturgo e la conseguente critica a cui sarà sottoposto, fa in modo che l’autore debba dire sempre qualcosa di sorprendente proprio come se stesse parlando direttamente con il pubblico. Fare teatro vuol dire avere la consapevolezza della presenza attiva dello spettatore e della sua capacità di cogliere l’essenza di ciò che viene rappresentato. Il testo teatrale non ha una comunicazione diretta con l’interlocutore ma è mediata dalla rappresentazione quindi l’autore quando scrive deve pensare alla messa in scena di ciò che vuole esprimere e avere la coscienza che la sua è una forma di comunicazione collettiva e non individuale. Scrivere è decidere, è prendere una posizione che però deve essere espressa attraverso una serie di espedienti che mettano il pubblico nella condizione di apprezzare ciò che è andato a vedere. Se scrivere è decidere, teatro è finzione, ma è proprio tramite il gioco che si può imparare. La finzione ha infatti un ruolo fondamentale nella vita poiché attraverso il travestimento, il mettersi nei panni di qualcun altro, possiamo capire meglio la nostra società e quello che muove i comportamenti altrui e di conseguenza i nostri, è come se il teatro fosse lo spazio reale da cui poter comprendere la condizione umana. Sul palcoscenico viene mostrata l’identità umana poiché si recitano dei ruoli in un contesto più o meno familiare al pubblico dove tutto può accadere. Lo spettatore è consapevole della finzione del teatro ma ne accetta le regole e ne apprezza il valore possibilista che permette alla realtà rappresentata di essere, a volte, più vera di quella che viviamo. Autore, attori e pubblico partecipano attivamente alla rappresentazione teatrale e collaborano per ricreare sulla scena una realtà simile ma più piacevole di quella a cui sono costretti. Il drammaturgo, nel momento dell’ideazione di un testo, non solo non deve dimenticarsi della presenza del pubblico, ma non deve neanche mai sottovalutare la sua intelligenza e non può arrogarsi il diritto di considerare il grado di percezione dello 126 spettatore inferiore a quello di colui che scrive. L’autore deve utilizzare ogni espediente per rendere attiva la presenza del pubblico la cui partecipazione nei confronti della rappresentazione può essere di natura emotiva, morale, intellettuale. Come più volte abbiamo detto le azioni valgono maggiormente delle parole, quindi sulla scena deve sempre accadere qualcosa ed ogni azione che viene proposta dal drammaturgo al pubblico deve avere un senso ed essere interessante. Un dialogo non ha valore se non è seguito da un fatto, deve esserci coerenza e corrispondenza tra le azioni e le parole ed un autore deve pensare in primo luogo a ciò che accadrà o che farà il personaggio e successivamente alle parole che dirà. Per mantenere vivo l’interesse di chi va a teatro, il drammaturgo deve considerare le diverse motivazioni che ci spingono ad essere fruitori di teatro..... e queste possono essere legate alla ricerca di: puro divertimento; alla necessità di provare emozioni; ad un desiderio di comprensione dei comportamenti umani; ad una esigenza di relazioni sociali poiché il teatro da la possibilità di entrare in contatto con persone che hanno gusti simili ai nostri; alla personale crescita culturale; al voler partecipare alle mode e alle tendenze del momento. Il pubblico teatrale è variegato e un autore deve fare in modo che chiunque vada a teatro possa percepire il messaggio che egli vuole trasmettere fornendogli gli strumenti più adatti. Il punto di vista Nello scrivere, un autore sceglie quale è il personaggio destinato a rappresentarlo, quale è il portavoce del suo pensiero. All’interno dell’opera però non c’è solo il punto di vista del protagonista poiché è necessario dare allo spettatore la possibilità di scegliere da che parte stare. La questione relativa al punto di vista coinvolge vari campi. Da una parte il punto di vista inteso come autore nella sua libertà di poter esprimere un giudizio attraverso la sua opera, dall’altra il punto di vista di chi è il referente della nostra storia ovvero chi ci racconta quello che è accaduto o accadrà. Subentrano poi i punti di vista degli altri personaggi poiché, come nella vita, ognuno ha la propria opinione, il proprio modo di pensare ed, al di là del messaggio che si sta inviando, il pubblico ha il diritto di pensare diversamente dall’autore. Non si sta dunque mettendo in discussione il ruolo del drammaturgo come portavoce del proprio pensiero, dal momento che l’autore non è un semplice narratore ma l’ideatore della storia che ci sta raccontando. Il drammaturgo deve fare delle scelte libere perché, come abbiamo detto, scrivere è decidere ma deve pur sempre tenere in considerazione anche il pensiero opposto al suo. Il drammaturgo per delineare chiaramente l’argomento che vuole raccontare deve esplicitare da quale punto di vista verranno trattati gli avvenimenti. Solo con questa trasparenza potrà ottenere il coinvolgimento del pubblico. Spesso succede che lo spettatore, per via della familiarità che si instaura tra pubblico e personaggio, provi simpatia proprio per quel personaggio che invece l’autore vorrebbe fosse analizzato criticamente. Le affinità che si instaurano tra il pubblico e i personaggi nascono talvolta dal grado di conoscenza che lo spettatore ha nei confronti dell’individuo rappresentato sulla scena; più il personaggio si mette in mostra più chi lo osserva è disposto a comprenderne e accettarne gli aspetti che lo caratterizzano. All’interno di un dramma maggior spazio viene dato a un personaggio e più questo riesce a imporre il proprio punto di vista. Talvolta quindi la messa in scena può stravolgere le intenzioni dell’autore e metterne in discussione 127 le sue motivazioni; questo accade poiché tutto ciò che avviene sulla scena è sottoposto al giudizio di chi guarda e tale giudizio è determinato da una serie di varianti e soprattutto da come l’agire umano viene percepito socialmente. Nel rappresentare un’azione centrale, non si può prescindere dalle circostanze in cui viene messa in scena; uno stesso argomento può essere infatti guardato da diversi punti di vista. Il drammaturgo, nel momento della stesura, deve avere chiara l’ambientazione e il possibile coinvolgimento del pubblico, nulla può essere lasciato al caso e deve essere chiaro in che direzione voler orientare lo spettatore. Conclusioni Scrivere per il teatro è un vero e proprio mestiere, non basta l’intuizione o la genialità, tutto quello che si vuole argomentare deve seguire una linea ben precisa, deve essere organizzato e chiaro nella mente di chi scrive. La scrittura richiede una conoscenza approfondita dei fatti e dei mezzi che costituiscono la rappresentazione teatrale. Non si può scrivere un dramma teatrale se non conosciamo le regole della messa in scena, se non rispettiamo il ruolo dello spettatore, se non siamo disposti a seguire la struttura che permette al nostro testo di non perdere mai l’attenzione del pubblico. Quello che vogliamo scrivere è fondamentale, poiché rappresenta noi stessi e la nostra risposta alla società di appartenenza ma l’idea senza una forma ben precisa non darà mai buoni risultati. La riuscita di un testo teatrale dipende anche dal valore dei suoi personaggi, dalle loro capacità e dalle emozioni che riescono a trasmettere ma per ottenere questo l’autore deve avere ben chiaro che tipo di individuo vuole rappresentare. Un dramma ha la finalità di interessare, coinvolgere, soddisfare gli spettatori ma per farlo il drammaturgo deve seguire le regole della scrittura teatrale, mettere a disposizione della collettività il suo universo interiore e soprattutto non porsi in una condizione di superiorità intellettiva rispetto ai fruitori della propria opera altrimenti essa non potrà mai essere un’opera di successo. Bibliografia Aristotele, “Poetica” in Opere, vol 10, trad. it, - 1991 Biblioteca Universale Laterza Beccaria, G. Luigi, Il mare in un imbuto. Dove va la lingua italiana, Torino, Einaudi, 2010 Bourneuf R.; Ouellet R., L’universo del Romanzo, 1976 Giulio Einaudi Editore De Santos, J. L. Alonso, L’abc del teatro – volume 2 – – 2007 Dino Audino Editore Gooch, S., Scrivere per il teatro, Gremese Editore – 2004 Hatcher J., Scrivere per il teatro, 1996 Dino Audino Editore Louis Trolle Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio e Il linguaggio, Torino, Einaudi, 1987 Jakobson R., Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 2002 1958 (Essais de linguistique générale, Minuit, Paris) 128 La scrittura ha trasformato la mente umana, più di qualsiasi altra invenzione … è essenziale allo sviluppo più pieno dei potenziali umani, innalza il livello di consapevolezza di sé Walter J. Ong (Oralità e Scrittura. Le tecnologie della parola, 1982) Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione Europea. L'autore è il solo responsabile di questa pubblicazione e la Commissione declina ogni responsabilità sull'uso che potrà essere fatto delle informazioni in esso contenute. http://www.writingtheatre.eu/