Relazione 09/10/02 Il principio di funzionamento di un immunosensore si basa su un meccanismo di riconoscimento anticorpo-antigene. Quando ciò si verifica, viene emesso un segnale che verrà rivelato dal trasduttore. Quando una sostanza esterna all’organismo, come ad esempio una biomolecola, un composto chimico o un microrganismo (antigene) entra nell’organismo di un animale vertebrato, i linfociti si dividono, producendo plasmacellule. Queste, a loro volta, danno vita a molecole specifiche di anticorpo, aventi una struttura composta da due catene leggere (a bassa peso molecolare) e due pesanti (ad alto peso molecolare). Agli estremi delle catene c’è un gruppo carbossilico-terminale COO- che si lega al dominio in cui ha luogo l’attività biologica dell’anticorpo, o il gruppo terminale NH3+ che ha il compito di legarsi fortemente all’antigene specifico (sarà orientato i maniera diversa a secondo dell’antigene regione ipervariabile ), e, quindi, alla fine di una lunga sequenza di eventi biochimici, di provocarne la distruzione. Esistono cinque classi di anticorpi che appartengono alla categoria delle molecole proteiche dette immunoglobuline. Le reazioni immunochimiche sono caratterizzate da un’elevata specificità che dipende dalla specificità del legame antigene/anticorpo. Un dato anticorpo, infatti, è in grado si riconosce e legare l’antigene che ne ha provocato la produzione. Tale specificità può essere usata per realizzare test analitici molto selettivi. Per la realizzazione di un immunosensore è fondamentale lo sviluppo di reagenti immunologici: anticorpi monoclonali e policlonali specifici per erbicidi o contaminanti ambientali e coniugati antigene/anticorpo-enzima (o fluoroforo) per la rivelazione del segnale. Produrre anticorpi policlonali (forniscono reagenti con molteplice specificità) non è difficile: si immunizza l’animale; si aspetta il tempo di risposta del processo di immunizzazione (circa alcune settimane); si raccoglie il siero e si purifica l’immunoglobulina con tecniche cromatografiche. Più difficile è la produzione di anticorpi monoclonali (forniscono reagenti con una singola specificità in quantità potenzialmente illimitata). Generalmente si segue questa procedura. Si inietta l’antigene, per il quale si vuole creare l’anticorpo, in un topo A. Si prelevano da un topo B cellule tumorali del suo organo linfatico, che si riproducono velocemente e non producono anticorpi specifici. Si mettono a contatto con i linfociti del topo A. Circa una cellula tumorale su dieci si fonde con i linfociti dando origine ad una nuova cellula detta ibridoma e produce anticorpi monoclonali per l’antigene inizialmente iniettato nel topo A. Un immunosensore convenzionale utilizza il metodo ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay). In tale metodo si usa un supporto solido; si tratta comunemente di una micropiastra da titolazione in polistirene, formata da 96 pozzetti, ai quali vengono legati l’anticorpo o l’antigene (metodo diretto o indiretto). Il solido è connesso con una soluzione contenente, nel caso dell’ELISA diretto, l’antigene e un suo analogo marcato e, nel caso dell’ELISA indiretto, l’anticorpo marcato e l’antigene. In tutti e due i casi la quantità di sostanza marcata legata al solido è inversamente proporzionale alla concentrazione dell’analita in esame. Il tipo di rivelazione è scelto in base al tipo di marcatura utilizzata. Nelle tecniche ELISA il marcatore è un enzima. Commercialmente è disponibile una larga varietà di kit basati sul metodo diretto, che permettono il coating delle piastre a 96 pozzetti con l’anticorpo monoclinale specifico e la successiva determinazione quantitativa dell’analita mediante stadi d’incubazione (con il campione per ottenere la competizione tra antigene e antigene marcato; e con i reagenti opportuni per la reazione catalizzata dall’enzima). Nella realizzazione di un immunosensori, un’operazione molto importante è il ricoprimento di un supporto, in genere un vetrino, con silani. Poiché non è omogeneo, questo rivestimento viene integrato depositando della streptavidina. Questa proteina riempie le zone lasciate libere dai silani e crea legami stabili con la biotina, attaccata agli anticorpi. I vetrini così preparati sono inseriti in una cella di misura, nella quale si manda un flusso del campione da esaminare, contaminato con Escherichia coli. In seguito si fa fluire l’urea; dall’interazione dell’urea con il battere, si ha un incremento di pH che viene rilevato tramite un pHmetro, inserito nella cella di misura. il limite minimo che si riesce a rivelare è di 10 molecole/ml. La determinazione dell’interazione tra un biomediatore e un analita mediante variazioni di pH viene realizzata con uno strumento chiamato PAB (Potentiometric Alternating Biosensing). Poiché tale strumento dà risposte veloci ed efficaci viene usato per screening di massa. Attività sperimentali Abbiamo coperto, con una striscia d’isolante, gli elettrodi clorurati.