I.I.S. “Giuseppe Veronese”
Venticinque anni
di Teatro Classico
a Chioggia
a cura di
Roberto Vianello e Maurizio Sfriso
Prefazione
La Fondazione della Comunità Clodiense, intendendo perseguire i suoi obiettivi primari
di incentivazione e sostegno di iniziative atte
allo sviluppo economico-sociale e culturale
della Comunità locale, finora ha sempre cercato di assecondare con particolare vicinanza
e interesse quelle iniziative nate dal mondo
dei giovani ed in particolare della scuola.
Nell’ambito dei bandi promossi dalla Fondazione per progetti di utilità sociale e culturale, numerosi sono stati i temi proposti da
scuole di diverso livello che sono stati giudicati di reale interesse, e pertanto gratificati
della nostra compartecipazione al progetto e,
pertanto, sostenuti con l’erogazione di contributi in misura compatibile con le risorse
disponibili.
Nel caso specifico della ricorrenza dei 25 anni
dedicati al teatro classico dal Liceo “Veronese” di Chioggia, il progetto di predisporre
la pubblicazione di un libro, che espressamente raccolga in immagini e scritti il senso
profondo dell’attività svolta nel corso degli
anni insieme da studenti e corpo insegnante,
non poteva che essere accolto con particolare
favore da me personalmente e dalla Fondazione della Comunità Clodiense tutta.
È indubbio che questa iniziativa va innanzi-
tutto a cogliere il meritorio obiettivo di crescita culturale e partecipativa dell’intera Comunità locale, in quanto dà continuità ed
attualità ad un teatro classico che per le sue
caratteristiche presenta peculiarità di linguaggio, espressione e tematiche che continuano ancor oggi ad essere considerate alla
base della cultura europea.
Inoltre appare sicuramente importante il carattere identitario del Liceo “Veronese” che
risulta emergere dalla scelta fatta ben 25 anni
fa di allestire ogni anno una rappresentazione
teatrale che, proprio per le complesse caratteristiche tematiche, sceniche ed organizzative,
non risulta sicuramente né di facile né di
semplice esecuzione.
Che questo specifico carattere identitario, peraltro largamente riconosciuto in città, trovi
un riscontro di analisi e sintesi in un libro
appositamente dedicato al teatro classico rappresentato dal Liceo “Veronese” non può che
essere per la Fondazione della Comunità Clodiense un’importante occasione per riaffermare la partecipazione e condivisione di un
evento destinato a consolidare e verificare
un’iniziativa che si presenta per la sua originalità come unica per Chioggia.
Il Presidente
Boscolo Angelo Sesillo
3
Presentazione
Proporre delle riflessioni che servano da presentazione a un libro come questo è impresa
assai ardua: sono qui raccolti venticinque
anni di impegno di docenti della scuola, di
tanti amici che ci hanno aiutato e soprattutto
di studenti, di venticinque annate di alunni
di terza classico che, anno dopo anno, hanno
impiegato il loro tempo per la rappresentazione della tragedia che stavano leggendo in
classe (tanto tempo, e soprattutto prezioso,
nel loro ultimo anno di scuola, con l’esame
alle porte).
Per questo abbiamo deciso di scriverla in due
questa prefazione (chi ha guidato la scuola
negli anni della nascita e poi della maturazione di questa impresa e chi la sta guidando
ora, negli anni di questo venticinquesimo anniversario), consapevoli della difficoltà di abbracciare e raccogliere con le nostre parole
tutta la ricchezza qui contenuta.
È ovvio che ciascuno di noi, sfogliando il volume ormai in bozze, avrebbe le sue proprie
riflessioni da proporre, i suoi propri ricordi:
gli anni dell’avvio del progetto, i protagonisti
di allora, gli attori di quelle prime rappresentazioni (alcune veramente memorabili), la
fatica di rendere stabile, annuale la rappresentazione teatrale (addirittura con l’idea di
dar vita a un “Centro Studi per il Teatro
Classico”) avrebbero bisogno di pagine e pagine per essere raccontati dal primo di noi;
necessiterebbero invece di minor spazio la
storia recente della celebrazione del venticinquesimo, le novità di questi ultimi anni e gli
interrogativi sul futuro che sono nel cuore del
secondo di noi.
Ma nello spazio breve di questa introduzione
ci limitiamo solo a esprimere la nostra soddisfazione nel vedere documentata in modo così
elegante questa parte di storia della nostra
scuola; siamo orgogliosi di questi venticinque
anni e di essere anche noi tra i protagonisti.
Ci auguriamo che questo serva da stimolo per
tutte le rappresentazioni teatrali che verranno e per tutti i nostri alunni che saliranno
sul palcoscenico: perché una scuola che
guarda al futuro deve avere solide radici nel
suo passato e nella sua storia.
Mentre facciamo nostri i ringraziamenti a istituzioni,
enti, banche già espressi nell’ultima sezione del volume, vogliamo manifestare la nostra gratitudine
anche ai due curatori, il prof. Roberto Vianello e il
prof. Maurizio Sfriso, senza il lungo lavoro e la paziente precisione dei quali quest’opera non sarebbe mai
stata pubblicata.
Francesco Galera (preside dal 1980 al 2000)
Luigi Zennaro (preside dal 2008 a oggi)
5
Venticinque anni di storia
Roberto Vianello
Il teatro antico – quello greco in particolare – ci ha lasciato un patrimonio di storie, di situazioni, di temi che ci parlano
ancora dopo venticinque secoli. Si tratta
di storie che « non avvennero mai, ma
sono sempre » – direbbe Calasso, prendendo a prestito le parole di un antico1:
storie, cioè, che hanno ancora qualcosa
da dirci, hanno sempre prospettive di riflessione da suggerirci.
Queste storie restano costitutive della
nostra civiltà. E sono ovviamente parte
importante degli studi nei Licei Classici.
Ma da un quarto di secolo sono diventate il centro di una attività speciale degli
studenti del nostro Classico, che non si
limitano a studiarle, ma le fanno rivivere
sulla scena e le offrono alla riflessione dei
compagni e della Città.
Venticinque anni fa – un Giovedì mattina –
andava in scena al teatro “Astra” di
Chioggia Edipo re, il dramma della sciagurata indagine del re di Tebe, quale ci è
stata tramandata da Sofocle. Erano le
dieci del 12 giugno 1986 e gli studenti del
triennio del Classico facevano rivivere il
parricidio e l’incesto del nuovo re di
Tebe e la terribile, lenta presa di coscienza della sua colpevolezza, come mai
s’era potuto vedere nella nostra città.
Quella mattina accadeva qualcosa di insolito per i nostri liceali. I versi greci,
prima confinati nelle pagine dei libri di
scuola, prendevano vita; la vicenda narrata da quel testo, antico e difficile, per la
prima volta si faceva davvero dramma,
azione scenica, nel contesto più simile a
quello per cui era stata pensata duemilacinquecento anni prima. Si realizzava fi-
nalmente un’iniziativa volenterosa, tante
volte accarezzata. Una novità assoluta
per gli studenti chioggiotti. L’inizio di
qualcosa di nuovo anche per la Città,
dove forse mai s’era potuto assistere alla
rappresentazione di una tragedia greca.
Il prof. Crocco, che aveva ideato questo
modo per noi nuovo di fare scuola, non
pensava – probabilmente – che la sua iniziativa si sarebbe imposta poi con l’evidenza di una necessità. Non immaginava
che gli studi classici a Chioggia avrebbero finito per identificarsi con questa
esperienza teatrale, per la quale anche ci
si iscrive oggi al Liceo Classico. Eppure
da allora ogni anno, per un anno intero,
si è costantemente ripetuta l’esperienza
faticosa ed esaltante del dar vita a quel
che si studia. Gli alunni hanno avuto il
coraggio – e la bravura – di portare in
scena la più difficile drammaturgia del
passato. Questa attività drammatica non
ha certo sostituito lo studio dei testi, che
già prima si approfondivano. Ma vi si è
affiancata, via via, come strumento euristico alternativo, come mezzo per individuare, per comprendere sul campo, il
senso vero delle parole, delle battute,
mettendone alla prova la pronunciabilità
e l’efficacia. Certo l’analisi, la considerazione attenta di testo e contesto, possono
bastare ad attingere quel significato.
Altra cosa, però, è dargli corpo in scena,
dargli vita. Lasciarlo emergere nel suo attuarsi drammatico, scoprirlo e renderlo
compatibile con la situazione. Sia qui lecito un solo esempio, tratto dall’esperienza dell’ultima rappresentazione.
Durante le prove dell’Agamennone di Se-
7
neca un’alunna ha improvvisamente
compreso da sola che l’intonazione, con
cui aveva sino ad allora pronunciato una
breve battuta, risultava fuori contesto. Il
modo sfrontato, con cui aveva detto fino
a quel momento « Concedimi di morire»
al suo antagonista Egisto, le è apparso
improvvisamente del tutto inadeguato
alla situazione, quale si stava sviluppando nell’interazione col compagno.
Quel che lo studio del testo, insomma,
non aveva permesso ancora di interiorizzare, veniva compreso a volo in situazione. Un risultato – ci pare – per nulla
trascurabile nella sua apparente naturalezza ed emblematico della nostra attività teatrale, fin dall’inizio intesa
all’intelligenza profonda dei testi antichi.
Eppure risultati del genere, costitutivi
della ragion d’essere del laboratorio teatrale, non esauriscono le sue molteplici
possibilità, rilevanti sul piano formativo
e culturale, risultate evidenti da subito e
ben individuate dal prof. don Giuliano Marangon nel libro dedicato al Cinquantenario del Liceo “Veronese” 2 . Il
professore, a lungo animatore dell’attività drammatica del Liceo, registra tra i
suoi frutti meritori l’abitudine alla fedeltà agli appuntamenti impegnativi,
l’impegno a concretizzare la complementarità nei ruoli della recitazione, l’acquisizione di un rigore mnemonico necessario
per il rispetto filologico del testo, lo sviluppo di potenzialità individuali (prodursi in pubblico, tornire il linguaggio,
diventare qualcuno interpretando un
personaggio); e ancora il piacere di lavorare con i propri pari, la cura e lo sviluppo di competenze trasversali, anche
non contemplate dalla normale attività
didattica (musica, danza, gestualità, ortoepia, manualità), la possibilità di temprare il carattere in prospettiva ottimistica.
Nell’interazione tra giovani e adulti, insomma, l’allestimento della tragedia
8
coinvolge abilità, sensibilità, creatività
diverse, protese insieme al conseguimento dell’obiettivo finale. È, da questo
punto di vista, una grande scuola di vita.
Gli studenti sono condotti a spendersi in
prima persona nella soluzione dei problemi più disparati e vedono in gioco
idee, proposte, ipotesi di soluzione, risultati, fallimenti, necessità di alternative…
Una macchina complessa di tentativi reiterati per un’attività di soluzione di problemi sul piano del fare. I giovani vi
partecipano efficacemente e originalmente, secondo le loro attitudini e la loro
disponibilità a esigere da se stessi rigore,
precisione, disciplina. Un esercizio per
nulla trascurabile nella loro formazione.
E una prima responsabilizzazione nei
confronti della collettività, una prima
vincente risposta alle attese del mondo
adulto, capace di consolidare l’autostima, la consapevolezza delle proprie
possibilità. Da quel 1986 ogni anno, per
un anno intero – come dimostra la ricostruzione purtroppo qua e là lacunosa
del presente libro – centinaia di studenti
del Liceo Classico hanno dedicato passione alla penetrazione, all’approfondimento dell’antico dramma studiato a
scuola e hanno profuso tutte le loro energie per renderlo godibile ai compagni e
all’intera Cittadinanza, al cui giudizio si
sono sottoposti con l’ovvia ansia, ma con
la fiducia nella bontà del lungo lavoro
svolto sotto la guida degli insegnanti e
dei molti amici che ne hanno accompagnato il percorso. Un lavoro faticoso. Ed
esigente. Che ha richiesto – e richiede –
l’investimento di un tempo destinabile
certo a più leggere e frivole occupazioni3.
A fine anno, però, nessuno degli studenti
ha rimpianto mai d’averlo donato al teatro. I più giovani tra loro si sono sempre
offerti di ripetere l’esperienza l’anno successivo, riconoscendo implicitamente il
contributo di comprensione, di crescita
umana, di collaborazione e solidarietà
realizzatosi nella lunga attività di un
anno intero. La soddisfazione, rilevabile
dopo anni in chi ha vissuto personalmente questa straordinaria possibilità, ne
è ulteriore attestazione. Sia qui consentito ricordare anche quella degli insegnanti, testimoni dell’impegno vero di
studenti via via sempre più motivati e
capaci di credere nell’attività promossa
da una scuola non subita, ma divenuta
propria. Né andrà taciuta la lungimiranza della scuola, che ha garantito loro
anche economicamente il privilegio di
impegnarsi nell’esaltante compito di tradurre integralmente, oltre che adattare, i
testi scelti per la scena. Una traduzione,
come comprende chiunque sappia di filologia, costituisce il fondamento di ogni
vera interpretazione del testo e il punto
di partenza per qualsiasi seria attività
esegetica da proporre ai discenti. Il Liceo
ha scelto di non considerarla discutibile
spreco di risorse, ma garanzia di una ricerca troppo spesso assente dalle nostre
scuole, capace di mostrare agli studenti
il coinvolgimento pieno e appassionato
degli insegnanti nelle attività che li riguardano.
Le considerazioni sin qui svolte segnalano il laboratorio teatrale come il luogo
di massima attuazione della didattica
dell’“Antico” di un Liceo Classico che,
all’interno della realtà di una messa in
scena, ha potuto realizzare nei fatti l’interdisciplinarità che la scuola va da sempre cercando, orientando a uno stesso
fine analisi dei testi, studio di intonazione e gestualità, riflessione sul movimento nello spazio scenico, ricerca di
musiche, indagine scenografica, ideazione di costumi, scelta di effetti luminosi e fonici.
La gestione efficace di un’operazione di
tale complessità da parte di una istituzione scolastica ha richiesto tempo, oltre
che coraggio, nonché l’aiuto di esperti
esterni per un affinamento progressivo.
È nata così la venticinquennale collaborazione con il “Piccolo Teatro Città di
Chioggia”, il più antico dei gruppi teatrali cittadini, nel quale il Liceo ha trovato l’esperienza e le energie di tanti
amici da affiancare agli insegnanti avvicendatisi alla guida del laboratorio. Imprescindibili quelle della sig.ra Franca
Ardizzon Rossi, l’anima stessa del Piccolo, del prof. Paolo Doria, allora docente
di educazione fisica nel Liceo, e di vari
membri della compagnia. Molte cose
sono così cambiate dalla prima, pionieristica, prova. L’esperienza si è vieppiù arricchita di nuovi contributi, di nuove
possibilità, fino a fare della rappresentazione di fine anno una produzione di livello artistico sempre elevato – sia lecito
affermarlo a chi la coordina da poco e
sente l’obbligo di riconoscere il merito di
chi lo ha preceduto. La realizzazione teatrale del Classico è divenuta nel tempo
esempio di una scuola che sa fare cultura
e proporla alla Città, alla quale ha fornito
non soltanto una formazione di rango,
ma anche l’occasione, altrimenti assente,
di spettacoli di alta valenza culturale in
precedenza offerti assai di rado, forse
mai. Grazie al Teatro Classico del Liceo
le radici della civiltà europea sono state
riportate all’attenzione di un pubblico
crescente, insieme ai grandi interrogativi
sulla libertà, la giustizia, l’agire umano
nel mondo in rapporto a un divino ora
presente, ora lontano e incomprensibile.
Sotto la dirigenza del preside prof. Francesco Galera la collaborazione amichevole col “Piccolo Teatro” si è andata
progressivamente consolidando. Il Liceo
non possiede tuttora strumenti di scena
propri e si è sempre avvalso dell’appoggio dell’associazione, che, con l’entusiasmo, è stata prodiga di luci, scenografie,
personale volontario capace di farsi ca-
9
rico degli aspetti tecnici della realizzazione. Andranno qui ricordati i nomi di
Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata,
Gianna Sambo, Laura Pagiola, Teresa Ardizzon, Francesco Bullo: amici preziosi
che hanno accompagnato negli anni le
ambizioni espressive del nostro laboratorio teatrale.
A partire dalla Medea dell’ a. s. ’88-’89 la
responsabilità della regia, taciuta nelle
locandine delle precedenti rappresentazioni, è stata assunta ufficialmente e stabilmente da quella che tutti hanno preso
a identificare come la sig.ra Franca.
L’esperienza della intera sua vita dedicata al teatro, la sapienza e la tenacia con
cui ha insegnato e insegna agli studenti
a intonare, a porgere le battute e a muoversi in scena sono state e sono il vero
segreto del “miracolo”, che ogni anno
permette a dei giovani dilettanti di fare
emergere insospettate doti di recitazione,
trasformandosi in efficaci interpreti delle
difficili parti assegnate.
Fondamentale per la riuscita dello spettacolo anche l’apporto del prof. Paolo
Doria, docente di Educazione fisica e attore del “Piccolo” clodiense. Da uomo di
teatro egli ha insegnato con l’esempio
agli studenti a unire la conoscenza teorica alla manualità – il sapere al saper
fare – coordinandone la ricerca scenografica e realizzando con loro – a volte anche
senza loro – gli allestimenti scenici indispensabili e i materiali di scena.
Del resto quello scenografico è solo uno
dei molti aspetti della complessità di un
allestimento teatrale, che – s’è detto –
coinvolge a vario titolo competenze, sensibilità, creatività diverse.
Tra le attitudini più necessarie va annoverata quella musicale, che negli anni si
è giovata dell’apporto degli studenti più
ferrati e ha raggiunto l’apice quando si è
potuto far ricorso al talento di giovani
impegnati nello studio al Conservatorio
10
o nella pratica musicale con gli strumenti
più diversi, accompagnando l’azione
scenica dal vivo.
Le rappresentazioni sono state portate
sulla scena di vari teatri cittadini. Dapprima al teatro “Astra”, in seguito anche
al “Vittoria”, al teatro “S. Martino”, al
“Kursaal” di Sottomarina, negli spazi del
Museo Civico “S. Francesco fuori le mura”.
Più spesso gli spettacoli sono stati applauditi al teatro “Don Bosco” e da ultimo anche presso il locale Museo
Diocesano. Ma già dal ’93 gli alunni
hanno calpestato i palcoscenici di altre
città, partecipando a rassegne, concorsi,
festival e conseguendo premi prestigiosi4.
Sono stati portati in scena prevalentemente drammi di Euripide. A seguire
quelli di Sofocle. Ma anche testi diversi:
classici a loro modo, o ai classici riconducibili, come quelli di Goldoni, di Shakespeare e di Raboni. Per l’a.s. 2010-2011 è
prevista la rappresentazione delle Coefore, il primo Eschilo della nostra storia.
Il preside Galera ha sostenuto l’attività
teatrale con la istituzione del Centro
Studi per il Teatro Classico, volta a coinvolgere nell’attività teatrale anche i corsi
scientifico e linguistico (anni scolastici
’90-’91, ’91-’92,-’93, ’98-’99), oltre che a
raccogliere per qualche tempo fondi regionali di fondamentale importanza per
la sua sopravvivenza.
Dopo la “stagione Crocco” ha assunto la
direzione del laboratorio il prof. don
Giuliano Marangon, che ha tenuto la cattedra di latino e greco nel Liceo dal 1998
al 2004, nel passaggio dalla dirigenza Galera a quella della dott.ssa Lalla Casetti.
Sotto la guida del professor Marangon il
Classico ha rappresentato anche testi
meno noti al pubblico, rendendo l’attività del laboratorio anche per questo più
preziosa. A lui si deve la scelta coraggiosa di portare in scena l’unica comme-
dia greca dei venticinque anni di attività
scenica: le Rane di Aristofane. Il risultato
del suo lavoro con gli studenti si è tradotto inoltre nella pubblicazione di alcuni testi preziosi 5 e nella vittoria di
premi prestigiosi in varie città italiane.
Memorabile la vittoria conseguita alla
Rassegna Internazionale del Teatro Classico Scolastico presso il Liceo “Cagnazzi”
di Altamura (BA) nel maggio 2003 proprio con le Rane di Aristofane. È da
quell’anno iniziata la tradizione di allestire una ulteriore rappresentazione “per
gli amici” presso il locale Museo Diocesano, già allora diretto dal professor Marangon, cui la istruzione classica nella
nostra città deve certamente, anche per
questo, molto.
Dal 2004-2005 il testimone è passato
nelle mani della prof.ssa Susi Boscarato,
lei pure docente di latino e greco, affiancata dalla dott.ssa Rita Zambon per la
realizzazione delle coreografie. Dal
2006-2007 il coordinamento delle attività
è stato assunto da chi scrive. Due gli
obiettivi immediati della nuova fase, tuttora in corso sotto la dirigenza del dott.
Luigi Zennaro: fornire a studenti e Città
un prodotto teatrale non indegno della
tradizione precedente, agevolarne la realizzazione alleggerendo per quanto possibile il peso economico a carico della
scuola, mediante il sostegno di Istituzioni ed Enti pubblici e privati ad essa
esterni. Il primo è stato perseguito, tra
l’altro, scegliendo di curare in modo particolare l’aspetto coreografico degli spettacoli, affidato dallo stesso anno
all’esperienza della prof.ssa Patrizia
Aricò, e mettendo il trucco di scena nelle
mani della dott.ssa Sara Scarpa. Il secondo è stato perseguito mediante
un’opera di sensibilizzazione, che a tutt’oggi ha ricevuto una risposta incoraggiante, garanzia di un riconoscimento
non formale nei confronti del nostro Tea-
tro Classico, confermato dal presente
libro stesso. Già in precedenza, si diceva,
il laboratorio aveva trovato saltuario patrocinio e sostegno economico6. Negli ultimi anni hanno sorretto il nostro lavoro
la Banca di Credito Cooperativo di Piove
di Sacco, i Lions di Chioggia, il Rotary
Club, il Centro Formazione Danza, la
ditta Zambonin. Il patrocinio dell’Amministrazione Comunale poi, non
più esclusivamente nominale, ha assicurato un sostegno fattivo e imprescindibile all’attività del laboratorio teatrale,
oltre che il pubblico riconoscimento del
suo valore culturale. Anche grazie a tale
appoggio gli studenti hanno potuto partecipare nel maggio del 2008 al XIV Festival Internazionale del Teatro Classico
dei Giovani di Palazzolo Acreide (SR).
Questa importante esperienza ha permesso loro di recitare l’Alcesti di Euripide all’interno di un vero teatro greco,
quello restaurato dell’antica Àkrai. Ma
ha anche fornito l’opportunità di assistere nel teatro antico di Siracusa all’Orestiade di Eschilo7. La rappresentazione di
Palazzolo ha in qualche modo determinato le scelte degli anni successivi e le
loro novità. È nata anche come naturale
approfondimento del lavoro sul dramma
euripideo la decisione di portare in scena
l’anno dopo l’omonima ma moderna Alcesti di Raboni8. Nasce dalla suggestione
dell’Agamennone eschileo la scelta di quest’anno di studiare e allestire quello senecano e di rappresentare nel 2011 le
Coefore.
L’avventura ovviamente continua. Studenti e docenti comprendono l’importanza di quanto sono chiamati a fare per
se stessi, per la scuola, per la Città e
sono determinati a realizzarlo. Il presente volume intende celebrare solo i
primi venticinque anni di una storia
che, ci auguriamo, saprà essere ancora
lunga e feconda. Con quali modalità?
11
Con quali novità? Sarà il futuro a dirlo.
Di certo il Classico potrà valersi del supporto di tanti, che, in vista o nell’ombra,
ma sempre con amore e passione, continueranno a sostenere questa sua avvincente avventura. I nomi di alcuni sono
stati già ricordati, altri appariranno nelle
pagine successive di questo volume, altri
certo si aggiungeranno nel tempo. Uno
soltanto vogliamo ancora qui ricordare:
quello dell’insostituibile prof. Dino
Memmo, docente di Storia dell’arte nell’indirizzo scientifico del “Veronese”, ma
fin dalla prima edizione già a fianco dei
protagonisti del laboratorio classico. Il
professore ha prestato talora la sua competenza per le scenografie, ma ha soprattutto predisposto ininterrottamente,
anche dopo la conclusione del suo insegnamento, i disegni per le locandine da
affiggere nella città. Grazie a lui la locandina non è mai stata un semplice avviso,
ma la riproduzione di una vera opera
d’arte, come si potrà vedere sfogliando
questo volume. La sua fedeltà al nostro
appuntamento annuale testimonia il suo
attaccamento esemplare al Liceo e una
simpatia per il nostro laboratorio che è al
tempo stesso riconoscimento prezioso di
artista e petizione di responsabilità a non
deludere le attese sue e di quanti guardano al progetto con accondiscendenza
critica.
*
*
*
Questo libro è il frutto della ricerca,
ardua ma ostinatamente tenace, intesa a
ricostruire una storia affidata finora alle
memorie dei singoli. Protagonisti o spettatori, molti ne fanno parte e ne conservano un ricordo parziale, personale, mai
consegnato se non a pochi. Quegli stessi,
che di recente hanno appassionatamente
condiviso l’esperienza teatrale, poco
sanno di quanto l’ha preceduta. I primi
12
giovani attori del nostro teatro sono infatti ormai gli adulti del loro mondo:
madri e padri di famiglia, insegnanti,
professionisti... Che portano in sé immagini e sensazioni di un evento lungamente preparato e consumatosi, però,
nel breve spazio di una rappresentazione, di fatto poco più di un’ora.
All’appressarsi dei venticinque anni
della nostra attività teatrale abbiamo voluto celebrare questa storia, significativa
per la sua stessa durevolezza, e sperato
soprattutto di raccoglierne gli sparsi
frammenti, per integrarli in un mosaico
il più possibile completo.
Il Liceo “Veronese” ha perciò organizzato il 15 maggio 2010 una giornata di
studio, testimonianza e spettacolo
presso il locale Auditorium di San Nicolò. Tutti gli studenti delle classi coinvolte nel laboratorio dal 1985-86 sono
stati invitati con lettera a collaborare alla
restituzione del nostro passato, recuperando per noi materiali e memorie.
Hanno risposto in molti: ex alunni e genitori, entusiasti dell’iniziativa. A loro si
deve la riuscita delle celebrazioni e l’esistenza stessa di questo libro, che vuole
esserne ideale prosecuzione.
La presente introduzione riprende infatti, ampliandolo, l’intervento che chi
scrive ha pronunciato in occasione delle
celebrazioni. Seguono nel libro una sezione dedicata alla giornata di studio
col testo della lezione ivi tenuta dal
prof. Alberti dell’Università di Venezia,
una sezione dedicata a testimonianze e
riflessioni di alcuni protagonisti dei venticinque anni di teatro e, infine, una sezione con le immagini, le informazioni,
i nomi di tutti i protagonisti delle venticinque rappresentazioni, così come è
stato possibile ricostruirli – in modo purtroppo non del tutto completo.
La struttura composita del volume ne costituisce insieme il limite e il pregio. La
sua natura di raccolta di materiali di
varia natura, infatti, ne fa un’opera non
omogenea, ma ne testimonia al contempo la volontà di realizzarsi quale
opera a più mani, spazio aperto alla collaborazione di quanti hanno gradito
prender parte a una ricostruzione collettiva guidata dall’affetto. A quanti hanno
1
2
3
4
5
6
7
8
voluto offrire il loro personale contributo, ritrovando e offrendo materiali gelosamente custoditi o, al contrario,
dimenticati da tempo dentro cassetti e
armadi; a quanti hanno redatto per noi
testimonianze e riflessioni, siano dichiarati già qui il debito e la riconoscenza di
chi scrive.
Cf. R. CALASSo, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, che in esergo riporta l’espressione citata, tratta
dal Περὶ θεῶν καὶ κὸσμου del neoplatonico Saturnino Secondo Salustio, del tempo dell’imperatore Giuliano (IV
sec. d.C.).
G. MARANGoN, Teatro classico a scuola. Un’esperienza dalle molteplici valenze formative, in 50 anni di “Veronese”, Chioggia
2004, pp. 165-172. Il libro può essere scaricato in formato pdf dalla sezione “Pubblicazioni” del sito della scuola
(www.giuseppeveronese.it).
Un’ora a settimana dapprincipio, il sabato. Due ore a settimana più recentemente, il martedì o il venerdì, con
qualche prova serale aggiuntiva su palcoscenico.
Partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con Il campiello di Goldoni nel 1992-1993;
partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza e alla Rassegna “Teatro dalla Scuola” di
Mirano Belvedere con le Troiane di Euripide del 1994-1995; primo premio alla regia nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Baruffe chiozzotte di Goldoni nel 1995-1996; primo premio per la migliore realizzazione nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Baccanti di Euripide nel 2001-2002;
primo premio nella Rassegna Internazionale di Teatro Classico ad Altamura (BA), premio per la migliore interpretazione collettiva e riconoscimento per l’interpretazione individuale di Stefano Angarano nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Rane di Aristofane nel 2002-2003.
G. MARANGoN, Dioniso, l’invincibile. Suggestioni dalle “Baccanti” di Euripide, Chioggia, Edizioni Nuova Scintilla,
aprile 2002, con schede degli alunni; Tremori di un dio, paure di un popolo. Note introduttive alle Rane di Aristofane con
interpretazione ritmica del testo poetico, Chioggia, Edizioni Nuova Scintilla, maggio 2003, con schede a cura degli
alunni.
A.s. 1989-1990: patrocinio del Comune di Chioggia e del Distretto scolastico 56, contributo economico di Banco
Ambrosiano Veneto, Banco San Marco, Cassa di Risparmio di Venezia, Regione del Veneto; a.s. 1990-1991: patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Regione Veneto, collaborazione del Banco Ambrosiano Veneto; a.s. 20012002: partecipazione di Salone New Style by Marika, onda Freetime Club Ginnico Sportivo, Attiva Cooperativa
S.C.A.R.L., SAI Assicurazioni.
XLIV Ciclo di Rappresentazioni Classiche, 8 maggio-22 giugno 2008, Agamennone, Coefore, Eumenidi di Eschilo,
traduzione di Pier Paolo Pasolini, regia di Pietro Carriglio.
Per la messa in scena dell’Alcesti nel teatro antico di Palazzolo Acreide è risultata indispensabile l’incisione delle
musiche su supporto magnetico, per la quale siamo ancora riconoscenti alla disponibilità del sig. Franco Storchi.
Gli studenti hanno potuto assistere alla proiezione di alcune sequenze del dramma in occasione di una lezione
dal titolo Alcesti nel Novecento letterario italiano, tenuta da chi scrive nell’ambito del progetto del Liceo “Volti, eventi,
idee del Novecento” (se ne legga il testo tra i materiali didattici del sito web del “Veronese”). Il video e l’autorizzazione alla proiezione sono stati concessi dal Centro Teatrale Bresciano (curatore della prima dell’opera), contattato grazie alla cortesia della prof.ssa Maria Pia Pattoni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ha curato la
pubblicazione del dramma di Raboni per conto dell’editrice Marsilio.
13
Celebrazioni
del
Venticinquesimo
La giornata di studio, testimonianza, spettacolo
Il 15 maggio 2010, una settimana dopo la
rappresentazione di Agamennone, il Liceo
“Veronese” ha celebrato presso l’Auditorium di Calle San Nicolò l’anniversario
della sua attività teatrale. Hanno partecipato alla cerimonia studenti e docenti
del Classico e di altri indirizzi del Liceo,
ex studenti ed ex docenti, autorità, cittadini interessati. Nell’occasione sono state
consegnate dal Dirigente, dott. Luigi
Zennaro, alcune targhe in segno di riconoscenza ai protagonisti della storia venticinquennale del laboratorio teatrale.
L’iniziativa non ha inteso tuttavia trasformare la mattinata in semplice occasione
commemorativa. Per celebrare cinque lustri di attività connessa al teatro antico è
sembrato più giusto ribadirne la valenza
culturale e l’eredità lasciata alle letterature e civiltà successive, in continuità
ideale con le più recenti scelte del laboratorio. È stato pertanto affidato alla disponibilità di uno studioso di teatro il
compito di ripercorrere alcune testimonianze significative di quella che oggi si
definisce la permanenza dell’Antico nella
cultura contemporanea. Si sono in tal
modo potute inquadrare in una prospettiva attualizzante le suggestioni provenienti dalla rivisitazione delle attività del
laboratorio. Esse sono state ripercorse
grazie a una piccola mostra di costumi e
locandine all’ingresso dell’Auditorium,
alla proiezione di immagini recuperate,
a una ricostruzione d’insieme del moderatore dell’incontro1, alla testimonianza
di un attore professionista, già studente
del Liceo. Ha coronato infine la mattinata
l’esecuzione al pianoforte delle Variazioni
su un tema di Schumann, op. 9 di Johannes
Brahms, e della Ciaccona in re minore
di Johann Sebastian Bach - Ferruccio
Busoni, da cui è stato tratto l’accompagnamento musicale rispettivamente
dell’ultima e della penultima rappresentazione teatrale.
Questo il programma della giornata:
La memoria del teatro antico nell’età
contemporanea tra enigma e mistero
(prof. CARMELo ALBERTI, Università
Ca’ Foscari)
Conversazione sull’esperienza
del laboratorio teatrale del Liceo
(con ANToNIo GIUSEPPE PELIGRA, della
Compagnia teatrale di Massimo Castri,
condotta dalla prof.ssa ALESSANDRA LIoNELLo, già studentessa del Liceo)
Concerto di musiche dalle
rappresentazioni
(al pianoforte ANDREA CHINAGLIA)
Di seguito l’intervento del prof. Alberti.
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L’intervento del moderatore costituisce ora, in versione riveduta, le pagine introduttive del presente volume a
firma Roberto Vianello.
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La memoria del teatro antico nell’età contemporanea tra enigma e mistero
Carmelo Alberti (Università Ca’ Foscari Venezia)
La scelta di ricordare i venticinque anni
di rappresentazioni promosse dal Liceo
“Veronese” di Chioggia costituisce l’occasione per porre l’accento sulle condizioni dell’umanità e sull’immaginazione
collettiva del nostro tempo. Interrogarsi
sul futuro del mondo spinge l’uomo contemporaneo a indagare più da presso il
significato delle civiltà. Il lettore di testi
letterari, lo spettatore di teatro, il visitatore dei musei tende a interpellare
un’azione artistica per riconoscersi in
essa, in un modo o nell’altro, spesso per
sottrazione. Eppure nessuno si chiede –
se non attraverso un procedimento più
complesso – su quali elementi distintivi
si fondi tale processo di simbiosi. È come
se si oltrepassasse una soglia densa di segreti e si entrasse in una dimensione
ignota.
Uno degli arcani che ossessiona ancora,
coscientemente e incoscientemente,
l’uomo contemporaneo è il senso dell’esistenza: da dove si proviene, perché
si sta al mondo, quale destino attende gli
esseri viventi; anche se, per lo più, tali
domande non si pongono in forma diretta, nelle azioni e nei gesti quotidiani
s’avverte lo smarrimento per le prove
traumatiche dell’esperienza. Forse si
rimpiange il tempo descritto, spesso in
maniera artificiale e imitativa, dalle
opere tragiche.
Attraverso i secoli è giunto, dunque, a
maturazione un procedimento che all’inizio s’affida al sistema della oralità,
basato sull’esaltazione della corporeità
della parola. Le parole non sono elementi
inerti, posseggono una loro fisicità che
permette di individuare gli spazi per
interpretarle. E sin dalle origini l’enunciazione del verbo rende esplicito il
potere di creare. Ecco perché nella mente
umana è rimasta una memoria nostalgica, un desiderio mimetico, dell’età in
cui il tempo è circolare, in cui ogni elemento fa parte del tutto.
La nostalgia è rimasta attiva nel voler
tornare con la mente alla struttura spazio-temporale del teatro greco, al luogo
nel quale si svolgono le cerimonie rituali.
Anche la fase delle gare drammaturgiche era preceduta da un passaggio liturgico e misterico. Ebbene, prima di quei
testi tragici che ancora s’ammirano e
s’amano, si diffonde una grande produzione orale che s’affida interamente alla
forza immaginativa della parola e alla capacità del cantore-narratore di condurre
l’ascoltatore dentro la tessitura del racconto. È come se i fili di un enorme tappeto si trasformassero in tanti sentieri da
percorrere; e mentre si ascolta, si partecipa a tal punto che è possibile domandare, interrogare, fino a cambiare la
traccia originaria e entrare nel merito
della trama. Sta, poi, all’abilità di colui
che conduce il gioco ricondurre la domanda al nucleo originario e al disegno
universale. È come il corso di un grande
fiume, che raccoglie nel proprio alveo
l’acqua degli affluenti, prima di sfociare
nell’immensità dei mari.
Le storie del mito non sembrano essere
mai avvenute, ma sussistono da sempre.
Dove sono state elaborate? Dove si
svolge il Prometeo incatenato di Eschilo?
Prometeo è “incatenato” lungo l’asse di
19
comunicazione tra il cielo e la terra, in
uno spazio-tempo ipotetico in cui avviene la rappresentazione della sofferenza del Titano e dell’incontro con Io, la
donna martoriata dall’amore per il re
degli dei. Ma, al di sotto del piano terrestre stanno gli inferi, il luogo dei morti,
il mondo del non ritorno. I pochi che
sono riusciti a tornare indietro hanno impresso nel corpo e nella mente un qualche segno del viaggio proibito.
Le civiltà, le religioni, i sistemi culturali
mantengono ferma la nostalgia dell’Eden, un ambito aureo e splendente in
cui gli uomini godono la vicinanza del
divino. La memoria del tempo edenico
provoca nostalgia, perché è subito seguito dal tempo della sofferenza.
A cosa serve tale struttura mutabile di
racconto? Che valore può avere ancora la
narrazione di avvenimenti paradossali e
irreali? Serve, forse a dare un segnale di
ritorno all’ordine, laddove si prefigura,
oppure è in atto, un disordine. Nell’Edipo
re, ad esempio, fin dall’inizio si assiste
allo stravolgimento profondo della vita
quotidiana dei cittadini di Tebe. La tragedia di Sofocle viaggia lungo il mito,
che parte da un connubio pericoloso tra
uomo e divinità; la prole generata dalle
nozze di Cadmo e Armonia reca l’impronta del divino e, pertanto, mette in
moto una discendenza problematica.
Fino a che punto la relazione uomo-dio
può sussistere senza degenerare? Tebe è
il posto critico nel quale la stirpe rimescola il proprio sangue, rendendo incerta
la concatenazione generativa.
Non c’è più chiarezza per uomini che
non possono distinguere il padre dal fratello e la madre dalla moglie. Il mito di
Edipo dimostra quanto sia importante
per la salvezza della polis il rispetto delle
regole, l’osservanza delle leggi. E per ricordarlo occorre ripercorrere il rituale di
un sacrificio necessario. Nel corso dei se-
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coli il desiderio della catarsi, con la possibilità di far decantare i tormenti collettivi
e soggettivi all’interno di un processo
collettivo, è restato un elemento costante
delle civiltà.
La contemporaneità occidentale continua a interrogarsi sul significato della
classicità e, in particolare, sul valore del
tragico, spesso sulla scia della volontà
dell’ordine, anche in campo letterario,
culturale, artistico. Cosa vuol dire “classico”? In genere appare come l’individuazione di un prototipo che si propone
alla stregua di forma assoluta, a cui occorre uniformarsi. Ma cos’è, allora, il
nuovo classicismo se non una copia dell’idea di perfezione assoluta. Insomma è
una copia del modello ideale, è una copia
della copia della copia, e così all’infinito,
sebbene di volta in volta s’aggiungano
specificazione di “nuovo”, “neo”, producendo, talvolta, nella storia della cultura
umana uno stato di scontro, o un dibattito interminabile sulla domanda: qual è
l’idea originale di classicità?
Ma non sempre è così: accade che il desiderio e la nostalgia dell’età perduta
possano essere descritti in situazioni che
chiamano in causa la realtà quotidiana.
Si esamini il sistema di Luigi Pirandello,
uno scrittore immenso che non smette
mai d’investigare la sfera della verità. Pirandello è un attento lettore dei Padri
della Chiesa, è un attento conoscitore dei
mistici. Per capire, allora, quanto sia attento all’idea del mito, anche dei nuovi
miti, bisogna leggere gli ultimi drammi
teatrali. Essi costituiscono una trilogia di
testi scarsamente realizzati, se si eccettua
l’ultimo, l’incompiuto I giganti della montagna. Ma in questi lavori Pirandello agisce sulla linea del recupero del mito
nell’età moderna.
Il primo, un mito sociale, s’interroga proprio sulla matrice di una società arcaica,
antica, primordiale, matriarcale, in cui la
madre è l’unica in grado di riscattare
l’umanità dal germe degenerativo e distruttivo, insito nella sfera del maschile.
Difatti, gli uomini presenti in scena si azzuffano, litigano, tentano di accoltellarsi;
è la madre la sola in grado di concepire
La nuova colonia, come recita il titolo. Si
tratta di una storia curiosa, che racconta
la colonizzazione di un’isola destinata a
sprofondare, a essere completamente divorata dalle onde del mare. Il nucleo di
derelitti è capeggiato da una prostitutamadre, che diventa l’iniziatrice di una
società del riscatto.
Il secondo è Lazzaro, un mito religioso, legato al mondo agricolo. Il dramma esamina la vocazione sacerdotale e la
relazione con l’immagine di Cristo. È
un’opera molto difficile, densa di pensiero, che riflette sul valore del ritorno
alle origini della spiritualità.
Il terzo, I giganti della montagna, rappresenta il mito dell’arte. I sopravvissuti di
una grande compagnia teatrale giungono in un luogo sperduto, nella villa del
mago Cotrone. Privi di risorse, si trascinano per le contrade in cerca di un luogo
dove l’attrice tragica, la contessa Ilse,
possa recitare la sublime opera di poesia,
che un autore innamorato le aveva dedicato, prima di uccidersi per sconforto.
Per un atto di riparazione Ilse decide di
declamare in ogni contrada un testo che
nessuno comprende, perché la civiltà
dell’industria non intende più la voce dei
poemi. Il mondo novecentesco non vuol
sentir parlare di poesia: l’ultima spiaggia
è il paese dei Giganti, dove sono state costruite immense fabbriche, dighe, opere
faraoniche, dove è stata sconfitta e sottomessa la natura selvaggia, dove gli abitanti vivono nel benessere e, forse, sono
disposti a ascoltare dei guitti. Pirandello,
che non ha concluso il dramma perché è
sopraggiunta la sua morte, non ha del
tutto risolto l’immagine del tramonto del
teatro. Giorgio Strehler, che ha curato
varie edizioni dei Giganti, aggiunge un
finale in cui si assiste alla morte della
rappresentazione tra fischi e schiamazzi.
Quando gli attori arrivano nella villa in
cui Prospero e gli Scalognati s’affidano
all’illusione e ai prodigi, il mago insiste
per convincerli a rimanere, perché la
grandezza della tragedia può rivivere
solo là, dove basta sognare perché i fantasmi evocati dicano le parole giuste e recitino a tempo. È il posto in cui ciò che è
immaginato, si proietta nella realtà, si
materializza. E ne offre degli esempi incredibili, ma convincenti. Così il racconto
della vecchia Sgricia che, durante un
viaggio notturno, è scortata e protetta
dalla schiera di cavalieri dell’Angelo
Centuno, rivela come per gli uomini sia
impossibile comprendere se si è davvero
vivi o si è morti.
LA SGRICIA – “Sgricia, sono l’angelo Centuno”,
mi disse, “e queste che t’hanno scortata fin qua
sono le anime del Purgatorio. Appena arrivata
mettiti in regola con Dio ché prima di mezzogiorno tu morrai”. E scomparve con la santa
scorta.
CoTRoNE – (subito) Ma ora viene il meglio!
Quando la sorella la vide arrivare, bianca, stralunata...
LA SGRICIA – “Che hai?”, mi gridò. E io: “Chiamami un confessore”. “Ti senti male?” –
“Prima di mezzogiorno, morirò”.
(Apre le braccia)
… E difatti…
(Si china a guardar negli occhi la Contessa e le domanda:)
Tu forse ti credi ancora viva? […]
ILSE – (… guarda Cotrone) Si crede morta?
CoTRoNE – In un altro mondo, Contessa, come
tutti noi… (scena II).
Nella casa dell’assoluto il respiro e la
pulsione del sangue creano uno slancio
esistenziale che oltrepassa la condizione
umana. L’ultimo Pirandello lascia filtrare
una straordinaria miriade di suggestioni
e di domande, proprio come accadeva
nella dimensione dell’arcaicità.
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Un’altra figura di intellettuale che ha
sondato la consistenza del mito nella società contemporanea è Pier Paolo Pasolini. Quando nel 1959 il poeta-testimone
affronta la scrittura teatrale sollecitato da
Vittorio Gassman ad approntare la traduzione dell’Orestiade di Eschilo, nella
relazione con il mondo degli antichi valorizza la parola. Il suo teatro si affida interamente alla forza comunicativa della
poesia, mentre chiude la porta al prevalere della spettacolarità.
Nel dopoguerra in Italia s’avverte una
particolare ansia nel progettare un teatro
pubblico, che abbia una matrice sociale,
come fanno Giorgio Strehler e Paolo
Grassi con la fondazione del Piccolo Teatro di Milano nel 1947, collegandolo alla
necessità di ritrovare l’identità civile di
una comunità che vuole uscire dal
dramma della guerra, voltando pagina,
ma mantenendo la propria matrice artistica e linguistica. Il teatro deve ridiventare uno strumento adatto non solo a
liberare gli spazi culturali che il fascismo
aveva compresso, soprattutto negando i
rapporti con gli ambiti europei e internazionali, ma anche a fare i conti fino in
fondo con la qualità della propria tradizione culturale.
Non a caso, fin da subito, il repertorio di
testi proposti da Giorgio Strehler comprende un dramma in milanese, El nost
milan di Carlo Bertolazzi, un lavoro straordinariamente palpitante che rivolge lo
sguardo verso la gente che vive ai margini della metropoli. Così avviene in altre
aree, compresa quella veneta, nel resto
d’Italia: ad esempio, si riscopre il teatro
di Ruzante, attraverso l’azione di ricerca
e di rappresentazione del Teatro Universitario di Padova diretto da Gianfranco
De Bosio.
In questa fase Pasolini va oltre, guarda al
cuore della civiltà contadina, della quale
gli uomini della modernità sono diretti di-
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scendenti, legati a tal punto da risentirne
le contraddizioni. Nelle sue opere cinematografiche, Edipo e Medea, due grandi capolavori filmici, Pasolini trascrive in
maniera diretta, senza nascondere neppure la provocazione, l’idea del ribaltamento mitologico. Nella società odierna il
mito ha un significato rovesciato: lo si
comprende bene in Affabulazione, il
dramma portato in scena in varie riprese
da Vittorio Gassman, un testo difficilissimo, persino atroce, nel quale la famiglia
borghese approda a un’esasperata crisi.
Sul filo di un impietoso ragionamento,
volto a trovare una possibile via di uscita
dalla trappola dell’esistenza, un padre
simbolico finisce per oltrepassare il limite dell’ordine, fino a diventare un assassino e sopprimere il figlio, l’oggetto
del desiderio. Nel corso di un viaggio
alla ricerca dell’identità perduta, il protagonista riceve la visita dall’ombra di
Sofocle. Il tragediografo greco, in maniera didascalica, rivela il significato profondo della vicenda di Edipo e le
corrispondenze con gli incubi del padre.
L’incalzare degli eventi ha sospinto verso
altre prove un giovane che è divenuto
uomo e re, convinto che tutto gli sia dovuto per la bravura dimostrata nell’aver
risolto l’enigma della Sfinge:
oMBRA DI SoFoCLE –
Non si può risolvere più di un enigma nella
vita.
Del resto, coloro che presero il suo posto al potere, se lo presero senza merito […].
Era la normalità. Che se dura a lungo, si decompone, e porta con sé nuovi mostri disgustosi, che pongono poi, nuovi enigmi da
risolvere… finché un nuovo giovane di belle
speranze non venga a risolverli.
E più oltre, aggiunge:
Dimmi tu! A che cosa è servito, al mio Edipo,
risolvere l’enigma? A prendere il potere?
L’ha preso e l’ha perduto.
E, questo io voglio sottolineare, l’ha perduto
senza aver saputo nulla del mistero. (VI episodio)
S’illude colui che pensa di determinare la propria esistenza, risolvendo un
enigma. oltre c’è l’impossibilità di violare il mistero dell’umanità. Pasolini, al
pari di Pirandello, riprende la questione
del mistero. Dietro Pirandello c’è la stagione letteraria e narrativa che lascia decantare i principi assoluti; un esempio è
offerto dal racconto Dialoghi tra il Gran
Me e il piccolo me, dove germoglia il compendio della filosofia pirandelliana.
Lo stesso avviene per Pasolini, che nelle
sue opere non smette di porre domande,
persuaso della controversa influenza
che ha la natura sul “nostro contemporaneo”. Così, ancora, Bestia da stile è un
dramma legato al mito del sacrificio,
all’eroismo senza volere e senza sapere,
al compimento di un gesto inconsulto.
È un oratorio da recitare in chiave liturgica, non declamandolo, ma enunciandolo come un canto.
Il terzo modello, temporalmente più recente, corrisponde efficacemente al bisogno di valorizzare la consistenza della
parola tragica nell’oggi. Nell’ambito
della Biennale di Venezia 1984 il musicista Luigi Nono ha realizzato un’opera intitolata Verso Prometeo, composta su un
testo di Massimo Cacciari, decorata con
le scene di Renzo Piano e le illustrazioni
di Emilio Vedova, eseguita sotto la direzione orchestrale di Claudio Abbado, e
con tanti straordinari artisti, cantanti,
musicisti.
La tecnica artistica di Nono è rivolta al
recupero del suono allo stato puro; la
musica e il canto prodotti dal vivo sono
catturati da una sorgente tecnologica e
immessi nello spazio della rappresentazione in maniera diversificata. Il musicista-operatore manipola a sua discrezione
i suoni e li diffonde in missaggio attraverso un procedimento di regia musicale, mentre i musicisti, i cantanti, gli
esecutori si spostano lungo i percorsi
della scena. In tal modo s’intende costruire un ambiente sonoro articolato e
mutevole all’infinito.
Perché la scelta è caduta sul personaggio
di Prometeo? Che cosa rappresenta la vicenda del Titano per l’uomo contemporaneo? Il sottotitolo dato da Massimo
Cacciari, La tragedia dell’ascolto, apre interrogativi sull’incidenza della concezione arcaica del mondo e del pensiero
antico, alla ricerca di una dimensione
scandita e condivisa. La ricerca di Nono
e Cacciari si muove in cerca dell’identità
sostanziale dell’uomo.
Renzo Piano costruisce per l’occasione
un’arca sospesa, una vera cassa armonica
in legno, e gli spettatori vengono fatti accomodare l’uno di fronte all’altro. La
partitura poetica di Cacciari è breve,
densa di simboli per esprimere il significato più profondo di un eterno viaggio
verso l’assoluto e l’incerto. Con una logica concatenante l’opera di Nono produce un effetto dirompente, come forse
doveva accadere con gli antichi riti,
quando si entra nel cerchio magico del
tempo. È un viaggio verso le sorgenti
della civiltà per recuperare l’arte di desiderare e di esistere.
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Testimonianze
Giannino Crocco, un prof forèsto icona del Liceo Classico
“Ho tradotto venti tragedie e poi ho distrutto i file. Ma, al risveglio dal coma, recitavo Medea”
Alessandra Lionello
Di intervistarlo non se ne parla nemmeno (le domande è abituato a farle lui),
ma ascoltarlo dà anche più soddisfazione. E poi Crocco appartiene a quella
rara specie di esseri umani che intuisce
cosa vuoi sapere. E te lo porge, a modo
suo.
Ci accoglie nel salotto di casa, a un passo
dal bel teatro di Cavarzere. Gli anni gli
hanno fatto un regalo: non teme più di
dirti che gli fa piacere vederti. Anche
prima – a scuola s’intende – era così, e lo
capivi che ci teneva ai suoi studenti, ma
non poteva rinunciare a quel mantra del
“a me non interessa niente, per me siete
dei numeri…” Non ci credeva, ma dirlo
serviva, a lui e anche a noi.
“Ho dato tanto a Chioggia – esordisce –
ma Chioggia mi ha anche tolto tanto”. E
intende la possibilità di trasferirsi al
“Tito Livio” o andare a dirigere il Museo
di Adria, e separarsi dalla maledizione
delle acque alte, della nebbia e di un
Liceo Classico nato per volontà delle “famiglie bene” e nel quale “chi lo aveva
voluto si sentiva in diritto di dirti quel
che dovevi fare e come. A Chioggia, se
non eri del posto, rimanevi per sempre
un forèsto”. Eppure qualcosa lo ha tenuto
lì. Sarà stato il mare (“Appena laureato
pensavo che avrei insegnato all’Istituto
Navale, già mi vedevo nelle navi da crociera!”), oppure quel sentire che in fondo
proprio forèsto non era. Fatto sta che
Giannino Crocco per il Liceo Classico di
Chioggia (nato come appendice del
“Franchetti” di Mestre) è stato un’istituzione. Dire “Classico” e dire “Crocco”
era la stessa cosa: nel bene e nel male.
Lui, che ama ricordare i suoi studi di
geografia e di quanto era “bravino” in
chimica, ha avuto e ha mantenuto, però,
un solo amore, assoluto e senza rivali: la
tragedia. Semplicemente la amava e tu,
che seguivi le lezioni, non potevi fare altrimenti che amarla allo stesso modo.
Cioè… ci provavi. Crocco usava il mito
per spiegarti il reale e tu imparavi a leggere con più lucidità grazie a quelle
icone meravigliose.
“È iniziato tutto cinque anni prima” e si
riferisce alla prima edizione del teatro
classico a scuola. “Era il 1980 e fui folgorato dall’Oedipus rex di Cocteau musicato
da Stravinskij. Lì ho realizzato che volevo provare a mettere in scena una tragedia con gli allievi dell’ultimo anno”. Il
primo allestimento, datato 1986, è infatti
l’Edipo re di Sofocle. Seguono le Baccanti
di Euripide, che secondo Crocco, “sono
state la tragedia meglio riuscita. Le ho
poi viste rappresentate al teatro di Epidauro… ma le nostre ragazze erano state
più brave!” Mai avrebbe pensato che da
quel 1986 si sarebbero susseguiti venticinque anni di rappresentazioni, ovvero
un’autentica tradizione. Ma il fatto che ci
siano stati dei festeggiamenti, che si sia
recuperato il materiale e pensato ad un
volume commemorativo non lo coinvolge più di tanto. È sempre stato schivo
e in qualche modo refrattario alle celebrazioni. Ma nel progetto ci crede.
“Spero che ogni anno si rappresenti una
nuova tragedia – dice senza esitare – non
solo per i ragazzi, che hanno modo di
sentire sulla propria pelle che cos’è il teatro tragico, ma anche per gli insegnanti,
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che possono vedere i loro allievi sotto
una luce diversa, esplorarne e valutare le
capacità di essere, di comprendere, di interpretare oltre che di imparare”. Insomma, la scuola di teatro classico è
scuola a tutti gli effetti. Dove a imparare
sono anche i docenti.
Poi i ricordi della sua scuola – le giornate
memorabili, i confronti (e gli scontri!) coi
colleghi, le marachelle degli allievi, le
grandi illuminazioni – si alternano con
quelli del presente. Crocco ci mostra i volumi rilegati che raccolgono il suo lavoro
dopo la pensione. “Nei primi tre anni ho
tradotto venti tragedie. Poi ho tradotto
tutti i lirici, tutto Gellio, Marziale e Catullo. Ho letto tutto omero e poi tutta
l’Eneide… e qui ho fatto fatica ad arrivare
alla fine, mentre omero non ti stanca
mai”. Stai già per obiettare dentro di te:
“Ma come, professore, lei non era uno
che non si metteva mai in mostra, che
minimizzava tutto, che… e adesso…?”
Lui lo sa e infatti non è finita. “Ho tradotto tutto questo e molto altro. E poi ho
cancellato tutto. I file non ci sono più. I
volumi li ho regalati e questi li regalerò.
Non voglio tenere niente. Questo lavoro
non conta niente, conta solo nel momento in cui lo fai. È lì il piacere. La conservazione, il cimelio, non è niente”.
Eccolo, è lui, fedele a sé stesso nel passare del tempo. Come le sue “frasi cele-
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bri” che ancora girano tra i tanti ex allievi, alcuni professori come lui, molti
professionisti, altri lavoratori generici,
perché “studiare il greco ti serve anche
se poi fai il lattaio”. Vero. E rappresentare
la tragedia che stai leggendo è un’esperienza che non dimentichi. Ti forma,
chiudendo il cerchio tra il sapere e l’essere.
“La mia preferita, però, non l’avete ancora rappresentata” e non capiamo se è
un rimprovero o un invito. La sua preferita, in realtà, è una commedia: Lisistrata,
che lui stesso ha tradotto e consegnato a
un ex allievo molto speciale. A questo
punto è un invito, è chiaro, quasi un ammonimento. E si fa il proposito di andare
a stanare il depositario del “tesoro” e
pensare a un allestimento speciale.
Un prof così va ascoltato. Uno che ha
amato talmente tanto il teatro greco da
potersene separare, senza tuttavia dimenticarlo mai. Al punto che “quando,
dopo un mese, mi sono risvegliato dal
coma – racconta, salutandoci – recitavo
Medea. Mia moglie era lì e io mi sono arrabbiato moltissimo con lei perché non
rispondeva alle mie battute”.
Ci lasciamo la porta alle spalle e rientriamo. La targa – quella del Venticinquesimo anno del Teatro Classico –
gliel’abbiamo consegnata. Lui ci ha dato
molto di più, anche stavolta.
Le Rane di Aristofane
Dallo studio dell’opera alla sua rappresentazione teatrale: a.s. 2002-03
Giuliano Marangon
Atene: anno 405 avanti Cristo. La paura
è palpabile in Città. Dura ormai da venticinque anni la lotta contro la rivale
Sparta. Da poco la flotta spartana è stata
battuta presso le isole Arginuse (407), ma
a caro prezzo per Atene: ha dovuto liberare gli schiavi, impegnandoli a remare
nelle sue triremi. Una vittoria di Pirro! Il
futuro si profila buio. Nella primavera
del 406 è toccato all’ultranovantenne Sofocle dare alla Città la triste notizia della
scomparsa di Euripide: si è presentato
sulla scena vestito a lutto, per interpretarne il dolore; lui stesso morirà di lì a
qualche mese. Sembra ormai che la musa
della poesia sia esaurita: ad Atene non ci
sono più “i grandi”, capaci di volare
come aquile sulle ali della poesia tragica;
restano soltanto poetastri a gracidare,
come ranocchi, in una palude.
Da queste situazioni muove Aristofane
nel comporre le Rane: vuol dire a tutti che
Atene ha il fiato corto non solo sul piano
militare, ma anche su quello politico e religioso, visto che la poesia è dono degli
dèi. E quando questo dono evapora, lo
spessore umano si assottiglia. Il poeta
vuol dire a tutti che occorre schierarsi
contro il bellicismo della democrazia radicale, propugnata dai demagoghi di
turno, perché la speranza della pace può
fiorire unicamente sul terreno di una democrazia moderata.
Ma come trasmettere tutto questo ai concittadini di Atene? Come far capire che
la Città ora è più a rischio che mai, perché essa, perdendo i suoi poeti, ha perso
i suoi veri maestri?
Aristofane inventa l’espediente di far
scendere all’Ade il patrono della poesia
drammatica, Dioniso, impegnandolo in
un’avventura rocambolesca: il dio andrà
a ripigliare uno dei grandi poeti tragici,
per ricondurlo – Plutone permettendo –
redivivo ad Atene.
Problematico sarà il viaggio, irto d’insidie inimmaginabili. Poi, problema più
grosso sarà la scelta del poeta da riportare in vita, visto che Euripide, da poco
arrivato all’Ade, vuol spodestare Eschilo
che siede sul trono della poesia: anche lì
s’ingaggia uno scontro furibondo. Si procede a un confronto tra i due: vengono
passati al vaglio i versi e le musiche, vengono esaminate le intelaiature delle tragedie. Il giudizio estetico verte anche sui
contenuti più degni di albergare ad
Atene. E soprattutto a questo proposito
si accende il conflitto di idee, l’attacco aggressivo, personale, con espedienti comici in sequenza.
Alla fine il commediografo dichiarerà a
sorpresa – per bocca di Dioniso – la sua
malcelata ostilità contro Euripide, troppo
“novatore” nelle tematiche licenziose,
nel linguaggio frivolo, nei moduli musicali canzonettistici; e aggiudicherà la
palma della vittoria a Eschilo, poeta dalla
grandiosità degli sfondi, dalla solennità
del linguaggio, dall’aristocrazia musicale, dalla sana eticità di pensiero.
Questo per Aristofane non è fuga nell’utopia, bensì attenzione appassionata
su un presente, gravido di paure da esorcizzare attraverso il riso: paure per gli imprevisti di una guerra quasi trentennale
ancora in atto, paura di ritorsioni divine
per la profanazione delle erme avvenuta
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ad Atene alcuni anni prima, paura per la
continua defezione delle città confederate
dalla Lega Delio-attica, paura per l’eventualità che s’interrompa per Atene il
flusso delle derrate alimentari provenienti
dall’Ellesponto, paura ancestrale della
vendetta dei morti alle Arginuse, in particolare degli strateghi ateniesi condannati da una democrazia impazzita. Paura
dello stesso riso, che non sia radice amara
di una profezia alla rovescia.
Tutte queste paure prendono corpo nel dio
della poesia drammatica, Dioniso, presentato quale caricatura del divino, che – nelle
spire dei pericoli e delle difficoltà – arriva
più di una volta a farsela sotto (Cf. G. MARANGoN, Tremori di un dio, paure di un popolo: note introduttive alle Rane di Aristofane,
Chioggia 2003, pp. 12-14).
A questo punto s’innesca la terapia del
teatro. Come far echeggiare queste paure
nella vita di giovani, incamminati all’Esame di Stato? Come renderli consapevoli (senza appesantirli) delle loro
paure: paure di fronte alle future scelte
di studio e di vita, di fronte alla prospettiva di un difficile impiego? Forse anche
di fronte al profilarsi di un impegno affettivo stabile?
L’insegnante traduce e attualizza il testo.
Fa capire che da sempre il cuore umano
è solcato anche dalla paura; che non si è
soli nella traversata; che c’è sempre uno
Xantia accanto al pavido Dioniso spaesato negli inferi; che la risata può lenire
il morso dell’inquietudine freudiana. Di
qui nasce lo stimolo alla posa capricciosa, al tono di voce inedito, al costume
fantasmagorico: tutto concorre a sciogliere timori e perplessità.
La regista dal canto suo trova l’espediente della “bilancia umana” su cui “pesare” i versi dei poeti, fa immaginare la
barca di Caronte, inventa strane portantine o cataletti da morto, fa volteggiare il
Coro di rane nelle figure più singolari: ora
30
su cadenze morbide, ora con ritmicità frenetica. È una sfida continua contro se
stessi: occorre far ridere, pur pensando in
filigrana a situazioni problematiche
(quelle di Atene e quelle personali). occorre far ridere, anche se è più facile far
piangere che ridere. occorre far ridere con
la parola, col gesto, con la musica, perché
questa è la regola della commedia; e tale
rimane il testo delle Rane.
Un’unica tregua è lasciata alla distensione
riflessiva – nel momento della “paràbasi”
– quando il Coro degli iniziati ai misteri
sfila davanti agli spettatori e gli grida in
faccia le malefatte di una democrazia mal
capita, di una gestione della cosa pubblica
guastata dagli interessi di parte, di un
prurito insano di novità, di una fiducia eccessiva concessa ai demagoghi.
Quindi riprende la temperie comica: il
riso è provocato dai colpi di scena, in un
crescendo che porta all’esito finale.
Eschilo è il prescelto: lui, non altri, dovrà
ritornare su, ad Atene, con i suoi consigli
di saggezza, mentre qualcuno gli guarderà nell’Ade il trono della poesia.
Al brindisi e all’augurio conclusivo partecipa anche Plutone, il dio dell’Ade.
Una sorta di catarsi in cui l’animo si distende sereno, dopo un viaggio tra paure
e un confronto tra alterchi e risate.
Rimane indimenticabile poi – a fine maggio 2003 – la lunga corsa in pullman fino
ad Altamura, per riproporre alla Rassegna
internazionale del Teatro Classico Scolastico
questa perla di Aristofane: la traversata
dello stivale fino in Puglia con le scenografie nel bagagliaio; una sosta d’arte a
Bari; soggiorno ad Altamura, presso i
padri Salesiani, anche per l’assessore alla
cultura dott.ssa Borella, per il prof. Gentilini e l’instancabile regista Franca Rossi,
ossequiati dal sindaco della cittadina.
Messa in scena dello spettacolo il giorno
27, e ritorno con la gioia di aver – oltretutto – allietato tanti altri studenti, venuti
da varie parti d’Italia per una gara d’interpretazione teatrale.
La passione e il talento profusi nello
spettacolo hanno dato pure qualche
frutto mediatico: I premio per la commedia al Liceo “Veronese” di Chioggia.
Quello spettacolo rimane nel cuore, come
restano nel cuore i versi di Aristofane e i
giovani interpreti, splendidi non solo
nella recitazione.
Le Rane dell’anno scolastico 2003-04 sono
state una palestra di collaborazione gioiosa, sulle tracce di un messaggio di moderazione; una proposta di saggezza
antica e sempre nuova; un grande vaccino contro le paure che si celano anche
sotto le pose scanzonate degli anni verdi.
In fondo, la paura si allea più d’una volta
alla speranza. E una paura vigile resta oltretutto madre della sicurezza.
31
Tradurre i classici greci e lasciarsene sedurre
Susi Boscarato
Mentre scrivo queste righe a margine
delle belle iniziative promosse dal nostro
Liceo per celebrare i venticinque anni di
attività del laboratorio di teatro classico
antico, già fervono i lavori per la messa
in scena di un altro testo tragico: le Coefore di Eschilo.
L’originale greco, su ampi brani del
quale i nostri studenti condurranno quest’anno in classe una lettura filologicamente corretta e criticamente fondata, è
uno dei pochi drammi rimastici del
primo e – a giudizio di Aristofane – del
più grande dei tre poeti tragici ateniesi
del V secolo a.C., ai quali si fa risalire la
nascita del teatro occidentale.
Di questo testo nel mese di maggio i nostri studenti proporranno alla cittadinanza e agli altri alunni del Liceo, una
rappresentazione che si basa sulla traduzione, riduzione e adattamento del testo
originale eschileo cui mi sono dedicata
durante i mesi estivi e la primissima
parte di questo nuovo anno scolastico.
Dopo la Medea, l’Ippolito, l’Alcesti di Euripide e l’Antigone di Sofocle, le Coefore
hanno rappresentato per me, non solo il
mio quinto impegno di traduzione di un
testo tragico greco, ma anche – su invito
dei curatori di questo libro – l’occasione
di fare un po’ il punto sulla non semplice questione del “come” tradurre un
testo greco; e soprattutto come tradurlo
quando si tratta di un testo teatrale destinato ad essere rappresentato ad un
pubblico di oggi, composto anche di non
specialisti e non classicisti.
La prima domanda cui trovare una risposta soddisfacente, è quindi sempre
32
stata per me, quella su quale modalità
linguistica usare per “ri-raccontare” a
gente di oggi, in un italiano di oggi, storie che io leggevo – innamorandomene –
in una lingua diversa, antica, certo straordinariamente viva e vitale, ma tuttavia
appartenente ad una cultura e portatrice
di una visione del mondo apparentemente distanti da noi e dal nostro tempo.
Traducendo da questa lingua, mi sono
sempre più chiaramente resa conto di
come sia profondamente sbagliato – oltre
che impossibile – passare direttamente
dalle parole dell’originale greco a quelle
italiane più o meno ad esse corrispondenti.
Mi sono anche resa conto che il mio
primo sforzo avrebbe dovuto avere
come obiettivo quello di risalire dalle
parole di volta in volta pronunciate dai
personaggi, alle situazioni, ai fatti, al significato d’insieme delle vicende raccontate dai testi originali, così da
arrivare a ridirle a gente di oggi nella
lingua di oggi: e così facendo, suscitare
nei nostri spettatori contemporanei, almeno un’eco dell’interesse, dei sentimenti, del coinvolgimento emotivo che
il testo originale era stato in grado di suscitare nei suoi originari spettatori. In
quegli uomini e (con tutta probabilità) in
quelle donne, che nel V secolo si radunavano sul declivio di una collina immersa
nell’aria e nella luce del cielo senza nubi
di Atene, per ascoltare e condividere il significato ultimo di parole di volta in
volta nette e taglienti, o ambiguamente
precise, intessute di metafore alate, di arditi neologismi, di simbolici richiami ai
miti e alla storia di un tempo lontano, parole che però hanno finito col diventare
paradigmi della fatica e della sofferenza,
ma anche della grandezza, dell’umana
esistenza, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi cielo.
Per questo, nel tradurre testi così fondamentali, dovevo anche essere disposta
all’occasionale tradimento della “lettera”
dell’originale, pur di salvaguardarne il
messaggio di insieme e di fondo.
Perché, se è vero quello che dice Virginia
Woolf, e cioè che “Il greco è […] la letteratura dei capolavori”, per la quale “non
ci sono scuole, predecessori o eredi”1, e
che quindi essa potrebbe essere gustata
– e forse neppure appieno – solo nella
lingua originale; è secondo me altret-
1
2
tanto vero, e prezioso per noi confusi
viaggiatori di questo tempo così povero
di guide e di maestri, ciò che invece dice
lo scrittore spagnolo Javier Marìas: “I
testi originali sono un po’ come le partiture musicali; le traduzioni sono un po’
come le esecuzioni o gli adattamenti di
ciò che senza di esse tace, e con il tempo
impallidisce o si trasforma in geroglifico
per i discendenti di chi scrisse l’irripetibile e intoccabile e inalterabile testo”2.
Continuiamo quindi a farle parlare e risuonare quelle antiche voci, e ad ascoltarle: perché solo se non smarriremo il
senso e il valore del nostro passato, potremo sperare di continuare a costruire
un presente e un futuro migliore per noi
e per i nostri figli.
Cf. V. WooLF, Sul fatto di non sapere il greco (traduzione di Livio Bacchi Wilcock), Milano, Il Saggiatore, 1963.
Dal discorso pronunciato da J. MARìAS a Dortmund il 7 dicembre 1997 per la consegna del premio “Nelly Sachs”.
33
L’Alcesti di Raboni: note di messa in scena
Patrizia Aricò
Alcesti o la recita dell’esilio vede la luce
negli “Elefanti Garzanti” nel settembre
20021. Il dramma è stato richiesto e pensato per il “Teatro olimpico” di Vicenza,
ma è destinato a non esservi rappresentato e Raboni, che ne ha scritto le ultime
scene a Yale nell’aprile dell’anno precedente, in occasione del suo primo viaggio negli Stati Uniti, dovrà aspettare altri
due anni prima di vederlo in scena.
La prima avrà luogo il 7 gennaio 2004
presso il Teatro “Santa Chiara” di Brescia,
ad opera del Centro Teatrale Bresciano,
per la regia di Cesare Lievi e l’interpretazione di Ester Galazzi, Roberto Trifirò,
Gianfranco Varetto, Francesco Vitale. In
concomitanza con l’iniziativa teatrale, si
tiene in Brescia un ciclo di Seminari promosso dalla sezione locale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dal titolo
“Sacrifici al femminile. Alcesti in scena
da Euripide a Raboni”. Al ciclo di seminari Raboni interviene il 12 dicembre
2003, parlando di “Alcesti” e i disastri del
Novecento e contribuendo a chiarire le
prospettive attualizzanti del suo ricorso
alla vicenda della mitica eroina.
Nell’anno scolastico 2008-09 il Liceo
Classico di Chioggia decide di mettere
in scena questo dramma allo scopo di
dare una visione altra della tragedia dell’eroina tessala, già rappresentata l’anno
precedente nella versione euripidea. Le
scelte nella messinscena per i ragazzi
prevedono – previo consenso della signora Patrizia Valduga, oggi vedova Raboni – l’inserimento di un coro assente
nel testo raboniano, di cui ho curato la
preparazione personalmente, seguendo
34
il metodo che Susanne Martinet descrive
nel suo libro La musica del corpo2 per
quanto riguarda il lavoro sul gesto e
sulla voce. L’inserzione di parti coreutiche nel testo di Raboni nasce in primo
luogo dall’esigenza didattica di coinvolgere nell’attività tutti gli studenti della
classe, ma viene ritenuta in fase di progettazione strumento interessante per
marcare l’intensità drammatica costitutiva del testo originale. Le battute attribuite al coro, infatti, nascono proprio dal
testo di Raboni, e mirano a segnare emotivamente ciò che succede in scena, realizzando una sorta di controscena che il
coro occupa senza mai interagire con i
personaggi, ma restando efficacemente
presente per segnare il momento drammatico. Tali inserzioni devono essere intese non a modificare il testo dell’autore,
quanto piuttosto a sottolinearne i passaggi più salienti. Nel percorso ispirato
al metodo della Martinet il clima di lavoro non è mai giudicante o competitivo,
ma rassicurante, affinché ciascun componente il gruppo-classe abbia la possibilità di potersi esprimere liberamente.
Lo scopo è far sì che si apprenda un metodo, non un contenuto; chi guida il
gruppo non deve dire a priori cosa fare
o non fare: i contenuti emergono dal
gruppo che è continuamente stimolato a
rinviare i propri feedback attraverso le
azioni, poiché l’aspetto discorsivo viene
escluso il più possibile. L’obiettivo non è
la rappresentazione, ma il fare, che diventa strumento logico e sensato: deve
esserci spazio anche per la libertà di sbagliare, dato che non vi è un modo “giu-
sto” o “sbagliato” in senso assoluto.
Anche un’azione sbagliata contiene al
suo interno la forma giusta, poiché ciascuno ha in sé il proprio “modo”, da cui
emerge questa forma. Lo spirito che
anima questo tipo di lavoro è aperto e
mobile, attratto dalle cose profonde e
sottili, un continuo assaporare il piacere
gratuito della ricerca per scoprire un percorso che si va allargando in profondità,
così da poter riflettere “sul significato di
un comportamento, di un atteggiamento, stabilendo dei paralleli con situazioni quotidiane; respirare un’atmosfera
di fiducia, di calore, affinché si apprezzino il confronto costruttivo e la qualità
della relazione”3. Lo scopo del lavoro è,
e resta, quello di comunicare un’esperienza. Il gruppo non deve ricercare una
performance tecnicamente perfetta,
anche se a volte nell’osservazione del
prodotto finale è possibile avvertire la
sensazione di un lavoro preparato. È
chiaro che un gruppo che condivide la
stessa passione può trasmettere l’immagine di un ingranaggio ben lubrificato;
l’abitudine di sentire l’altro e il fatto di
avere la capacità di ipotizzare le eventuali reazioni generano una complicità
che, quando si manifesta nel corso di
improvvisazioni collettive, sorprende
per la sua qualità.
Alcesti risponde alle esigenze di chi
vuole ripensare alla storia più recente, o
meglio alle sue lacerazioni, di cui appunto parla il testo di Raboni, attraverso
le vicende di tre personaggi in fuga sullo
sfondo di una persecuzione storica, non
definita temporalmente, ma che si inquadra nel secolo terribile che ci ha preceduto. Le lacerazioni storiche sono anche
quelle dell’animo dei tre protagonisti
che, cercando di gestire la folle situazione che stanno vivendo, trovano rifugio in un teatro.
La scena nel dramma di Raboni inizia
con un suono di sirena che in una notte
nebbiosa segna un inseguimento; in seguito entrano in scena i tre personaggi,
due uomini ed una donna. Nelle rappresentazioni del 2008 la nostra scelta privilegia in apertura di dramma l’entrata del
coro: la scena si apre su una folla di viaggiatori che attraversano il palco, ognuno
con la propria valigia di dimensione e
formato diverso, come a segnare il proprio vissuto. È uno stato d’animo quello
che si vuole sottolineare. Pian piano si
definisce un gruppo a proscenio, a sinistra del palco, con i protagonisti sulla destra dello stesso, posizionati di schiena.
Dopo essersi definito come gruppo, il
coro prende la parola al suono sordo
delle valigie che sbattono sul pavimento
e i suoi membri anticipano frammenti di
ciò che poi, a seguire, verrà detto dai personaggi. Questi frammenti di battuta, distribuiti tra i suoi componenti, vengono
pronunciati con velocità e colore della
voce differenti, eccetto l’ultimo, espresso
in forma corale a segnare l’importanza
del termine che in esso identifica il luogo
dell’azione: il teatro.
35
– Ecco, siete arrivati.
– Sistematevi come meglio potete.
– Ci saremmo certamente perduti/e questo
fa sperare / che nessuno …
– Qualcosa / […] ancora m’impedisce di capire
– se siamo in un rifugio o in una trappola.
– (Tutti) Siamo in un teatro4.
Un lavoro sulla voce, funzionale a ciò
che succede in scena, è stato presupposto
fondamentale in questo tipo di percorso.
La voce è senza dubbio il primo e più
originale strumento che la musica ci ha
dato. Ecco perché, durante il lavoro sul
corpo, è interessante partire da una lettura articolata, senza nessuna pretesa
specificamente musicale, ma come ulteriore mezzo a nostra disposizione per
esprimere, per esprimerci. “La voce ha
un posto specifico, è il riflesso della personalità, è lo specchio dell’anima. È lo
strumento più completo che si possa immaginare per sperimentare di persona e
senza intermediari il linguaggio musicale, effettuando nel contempo un lavoro
di evoluzione personale”5. In questo lavoro il ruolo della voce è considerato in
relazione al movimento, si pone come
elemento di dialogo, mezzo di espressione con la stessa valenza del corpo. La
voce può colorare, rafforzare o contrastare un movimento. Questo tipo di lavoro pone delle questioni soprattutto
quando si vuole che la voce contrasti il
movimento. In tal modo ci si concentra
sul contenuto, ma si rischia di perderne
l’accento. Quale deve essere l’energia
utilizzata? In alcuni momenti diventa interessante interrompere il movimento,
per conservare solo l’espressione vocale
e viceversa. La voce è infatti un mezzo
per entrare in comunicazione e per poter
interagire. Tre sono gli elementi della
voce che concorrono alla sua relazione
con il movimento: respirazione, rumore
e suono. Si tratta di dare qualità musicale
36
rispettando le leggi della composizione,
punti forti, silenzi, contrasti. All’inizio
vengono proposte delle soluzioni lavorando sul testo: ascolto del gruppo che
traduce vocalmente il tema con un testo
concreto, osservazione delle proposte di
gestualità individuate dallo stesso
gruppo. Una frase, una parola vengono
trattati sia nella loro totalità che frammentati. Il testo viene affrontato nei suoi
differenti aspetti e poi tradotto in modi
diversi. Ciò avviene lavorando su più livelli: sulla velocità, l’intensità, gli spostamenti, la comunicazione, lo scambio, il
controllo del volume. Questo permetterà
di arricchire il proprio bagaglio, di saper
gestire l’uso del linguaggio in maniera
non convenzionale, di apprezzare la
voce nel suo aspetto di strumento più
completo e originale che appartiene alla
musica.
La scelta di utilizzare le parole di Raboni
è voluta proprio per il senso che la presenza del coro rivendica sulla scena.
Dopo averle pronunciate, il coro indietreggia, lasciando in scena le valigie,
mentre i personaggi prendono vita e
forma in un alternarsi che riprende verbalmente quello che il coro in prima
istanza ha debitamente sottolineato.
L’azione drammatica è semplice e lineare. I personaggi sono quattro: un
uomo ancor giovane (Stefano-Admeto),
la moglie (Sara-Alcesti), il padre (SimoneFerete) e “un ulteriore intermittente tetragonista, il Custode (“traghettatore” o
“spedizioniere”), ambiguo […], fra il
ruolo di angelo della morte e di salvatore”6. Simone, il padre, lo definisce
come “quel tipo indecifrabile / che compare e scompare / come un orologio a
cucù / o come la figura della morte / in
certi campanili gotici …”7. Questo personaggio, nella nostra messa in scena,
viene tratteggiato diversamente da come
lo ha voluto Raboni. Si è lavorato sulla
fisicità, volutamente imponente, e sul
trucco, che ricorda tratti luciferini.
L’abito indossato si risolve in un cappotto lungo e scuro.
La nostra vicenda è ambientata in un teatro, in un’età che si inquadra a metà del
’900 in un clima segnato dall’oppressione
del regime, la cui natura non viene mai
dichiarata, ma si veste di persecuzione
politica e di intolleranza. I tre attendono
d’imbarcarsi per fuggire altrove, ma è
proprio il Custode a chiarire che è possibile solo per due di loro imbarcarsi e
dunque salvarsi. Quasi immediatamente
viene esclusa dai due uomini la possibi-
lità che sia Sara a non partire e da lì inizia
tra Stefano e Simone un conflitto drammatico su cui si centralizza tutto il
dramma. C’è un tentativo di soluzione
del problema da parte di Sara, che propone di restare nascosti lì fino a quando
la situazione cambi, cessi la persecuzione. Ma i due uomini non accettano e
ne nasce uno scontro molto forte, che è
volutamente di derivazione euripidea,
soprattutto nelle parole con cui Simone
rivendica il suo diritto a vivere: “Io ci
tengo / ancora, ci tengo forse di più, / ci
tengo for sen natamente / a quel po’
d’albe e di tramonti / che, chissà, potrei
ancora vedere …”8.
Ma, procedendo con ordine, vediamo il
coro rientrare in scena per segnare un
momento importante e cioè la definizione della personalità di Sara. Nel momento in cui lei esce per aggirarsi tra le
quinte per ritrovare “un po’ di passato”9,
un componente del coro apre le valigie,
da cui in successione altri coreuti estraggono una maschera, un copione, un costume di scena ed un velo nero, che
preannuncia il destino finale di Sara-Alcesti. Questi oggetti vengono in seguito
lasciati sul fondo del palco, dal lato opposto alle valigie: quando Sara rientrerà,
li troverà lì per “agirli” prima di tornare
nel vivo della scena, con un coro muto
che la osserverà e segnerà il momento
con il gesto.
I coreuti devono indispensabilmente recuperare il gesto come linguaggio, come
possibilità di comunicazione, come
modo per esprimere la propria personalità attraverso il corpo. Tale processo,
37
funzionale all’acquisizione della mimica,
della gestualità, della ritmicità, diviene
presupposto di tutte quelle successive attività in cui il ritmo è particolarmente
evidente. Per il coro la mimica e la gestualità, nel particolare caso della danza,
sono la forma più organizzata di educazione corporea, insieme di tanti elementi, che vanno dal movimento libero
a quello sempre più organizzato individuale e di gruppo, da forme semplici di
musica fino alla drammatizzazione.
Questo momento in controscena scorre
sul dialogo tra Simone e Stefano, quando
quest’ultimo comunica al padre il fatto
che a partire saranno solo due di loro.
Appena Sara rientra, comincia a correre
con la memoria al suo passato di attrice
ed è qui che l’archetipo euripideo affiora
con una splendida operazione metateatrale all’interno del dramma. Sara ricorda, ricorda di aver recitato proprio in
quel teatro la parte dell’ancella di Alcesti
e a furia d’ascoltare la tragedia della sua
regina l’ha fatta propria. Il momento è
segnato da un componente del coro che
raccoglie nel velo nero gli oggetti, per
consegnarli al Custode che, incrocian-
38
done lo sguardo, lo pone in cima al
monte di valigie in un passaggio dallo
scorrere lento ed inesorabile come il destino che attende Sara-Alcesti. C’è un
momento in cui il coro sembra scambiare
con Sara un pensiero, quando Sara racconta l’Alcesti euripidea attribuendo ai
cittadini di Fere la battuta: “Soltanto /
quando l’avrà perduta / saprà veramente cos’ha perduto”10 . Il nostro coro
la riprende insieme ad un movimento
circolare dei suoi componenti: è come se
in questo momento fosse la memoria di
Sara, che sta in scena in penombra, mentre esso rimane rigorosamente illuminato in controscena. Lo stesso si ripete in
un secondo momento, poco prima che
entri il Custode. Stavolta il verso, in un
ripetersi quasi ossessivo compulsivo,
sottolinea quello che, appena pronunciato da Sara, risulta inopinatamente significativo per ciò che accadrà dopo:
“Non esita un istante / dà, in cambio
della sua, la propria vita”11.
Poi il coro esce. Ne rimane un unico
componente, che sistema freneticamente
le valigie in scena.
Attraverso la ricostruzione del suo essere stata attrice, Sara tenta di colmare
l’incomunicabilità tra i due uomini, che,
come abbiamo visto, non sarà altro che
il modo di sostanziare il dramma, il
dramma delle loro vite, come una paradossale messinscena di quello che sono
realmente, adesso ad un passo dall’esilio.
Sara non accetta che ci sia una vittima
designata e sostiene che “se partire tutti
è impossibile / (e so bene, so bene che è
impossibile!) / non c’è che una cosa da
fare: / restare tutti qui”12.
L’ipotesi che il teatro possa essere il
luogo della salvezza è solo nella mente
di Sara. I più realisti Simone e Stefano
non credono che ci possa essere alternativa a che uno di loro rimanga. Il punto
è solo trovare un criterio di scelta, ed è
proprio Simone che propone un po’ sarcasticamente una specie di roulette russa.
Una vecchia pistola, carica di un sol
colpo, designerà il sacrificando: ma non
si sparerà alla tempia di uno di loro,
bensì ad un oggetto. Non un attacco alla
persona dunque, ma ai sentimenti e di
quelli più cari, cioè familiari. Sara, pronunciando amare parole, va via. Ha
capito che non riuscirà mai a farli ragionare. Nel momento in cui esce, il coro
rientra in scena in un iniziale gioco con
il passaggio di quel velo che raccoglie gli
oggetti a lei cari: il copione, la maschera,
l’abito da scena. È questo un momento
che segue alle parole di Simone, quando
si accorge che Sara esce e dice appunto:
“Ma dove va?”13. È come se la scena si
congelasse sui due uomini ed il coro
aprisse una parentesi, con il movimento
e un lavoro sulla voce accompagnato
dalla musica, come a segnare il destino
di Sara-Alcesti.
Una parentesi è d’obbligo sul ruolo che
ricopre la musica in questo percorso.
Essa esprime l’interiorità dell’animo
umano, offrendo un ulteriore linguaggio
adatto a dare forma e a comunicare i sentimenti, anche se in maniera meno definita di quanto accade con il linguaggio
parlato. Il movimento diventa la causa
dell’evento musicale. Utilizzando tutto il
corpo e spostandolo nello spazio, ha la
possibilità di diventare suono, fatto importante in un lavoro che mira a rendere
musicale il corpo. Solitamente buona
parte del lavoro sui ragazzi viene dedicata alla sensibilizzazione musicale attraverso l’ascolto di varie musiche, anche
dal vivo, che poi sfocia in un’analisi, oppure in un punto di partenza per il movimento: si cerca un dialogo tra musica
e movimento, affrontando questioni che
richiamino le sensazioni suscitate dall’ascolto e le possibili implicazioni drammatiche. La musica suscita immagini,
rende musicale il corpo, perché è la musicalità del movimento che dà respiro,
vita e sensibilità. La musica ha un suo
spazio in funzione di ciò che può dare al
movimento e i coreuti devono cercare comunque i propri ritmi, la propria melodia interiore con accenti, silenzi, fraseggi.
L’ultima scena descritta, peraltro, è stata
pensata per offrire al pubblico anche i risultati di una delle esperienze più significative dei ragazzi del laboratorio di
teatro. Mi riferisco al tentativo di utilizzo in essa della lingua dei segni, con
un lavoro simile a quello gestuale nell’esclusione di ogni aspetto verbale, ma
sostanzialmente diverso nei tratti specifici che lo caratterizzano. Anche se quella
dei segni è una forma di linguaggio sufficientemente simile ad una lingua vocale per le caratteristiche di arbitrarietà
che la contraddistinguono, è convinzione
autorevole che i segni vadano osservati
con occhi liberi dai condizionamenti
della linguistica14. Ho perciò cercato di
piegare alle esigenze corali i caratteri essenziali della struttura dei segni e del
loro funzionamento, concentrandomi su
39
centralità del rapporto corpo-linguaggio, individuazione
dell’ambito di articolazione dei segni
(spazio dal bacino del
segnante sino alla altezza del viso), e loro
caratteristiche articolatorie (luoghi sul corpo, configurazioni
e orientamento della mano, tipo di movimento)15. La mia scelta si è orientata
verso l’identificazione di tre “parole”
funzionali al momento teatrale in cui andavano inserite, per la loro espressione
gestuale e il loro significato: un verbo afferrare, reso efficace dal movimento della
mano nello spazio; un soggetto io, indicato dalla mano a pugno che preme al
centro del torace; l’aggettivo possessivo
mio, espresso da un indice che si muove
nello spazio dall’esterno verso il cuore.
Nell’alternanza dell’uso di questi segni
il coro si muove sul palco pronunciando
le battute “Potresti dirla viva/come potresti dirla morta” e “È allo stremo. Sta
spirando…”16, con un lavoro sulla voce
focalizzato sul controllo del volume
come del ritmo con cui quest’ultime vengono pronunciate. Le battute del coro euripideo, ricordate da Sara, diventano ora
rappresentative del suo destino, mentre
abbandona delusa il teatro per entrare
nella nebbia. La scena appare chiara al
pubblico che la osserva in tutta la sua
drammaticità: non occorre che conosca il
40
linguaggio dei segni,
perché è la forza
espressiva di questi
ult imi ch e cre a l e
condizioni emotive
necessarie al momento drammatico,
in cui la nuova Alcesti prende in mano il
proprio destino identificandosi con la antica.
Tornando alla nostra Sara-Alcesti, dopo
essere uscita, non rientra più in scena, se
non velata e comunque non più come
Sara. “E nel ruolo di Alcesti ella ora cala
se stessa: allontanandosi in silenzio, […]
mette i due uomini di fronte al fatto compiuto della sua scelta, costringendoli con
il suo sacrificio a vivere nel ricordo della
loro meschina grettezza”17. Dopo un debole tentativo di andare a cercare la
donna, i due sollecitati dal Custode che
ha ben volutamente scosso le loro coscienze, fanno prevalere la loro personale convenienza. ogni affetto viene così
sacrificato in nome del puro istinto di
conservazione.
Euripide ritorna nel finale. Una donna
velata e muta, che si va definendo attraverso una coreografia, compare sul
fondo della scena, per partire insieme ai
due uomini. È Sara, e come recita la didascalia è, “riconoscibile ma misteriosamente mutata e con il volto nascosto da
un velo”18. Ma l’epilogo di Raboni è si-
curamente più amaro di quello euripideo, dove si poteva prefigurare una sorta
di lieto fine. Qui invece il presunto riconoscimento rimanda al di fuori del
dramma. Stefano e Simone non solo non
conoscono l’identità della misteriosa
passeggera, ma, come li ammonisce il
Custode, non devono nemmeno rivolgerle la parola fino a che la nave non sarà
salpata: “Ma attenzione: le istruzioni che
ho avuto / e che devo trasmettervi /
sono assolutamente inderogabili: / fino
al momento dell’imbarco / o per meglio
dire finché la nave / non si sarà staccata
dalla riva / nessuno, né l’autista né voi
due / (anzi: tanto meno voi due) / le
potrà rivolgere la parola / né potrà parlare di lei. / Dovrete fare, insomma, /
come se non ci fosse”19. E conclude in
maniera minacciosa, come a prendere in
causa l’antico divieto del dio dei morti
ad orfeo: “E ricordatevi / che anche la
minima infrazione / a questi ordini dei
quali, ripeto,/ io sono soltanto il latore /
metterebbe seriamente in pericolo / sia
la sua vita che la vostra”20. Tutto in questo dramma rievoca un paesaggio infero,
ma l’Alcesti di Raboni non racconta di un
ritorno dall’aldilà, quanto di una fuga
dall’inferno delle coscienze e per i due
uomini nello specifico di un ingresso in
un loro purgatorio. Nella sua Alcesti Raboni sembra andare controcorrente rispetto ai molti che hanno ripreso la
vicenda dell’eroina, e lo fa scegliendo di
evidenziare quello che nelle altre rivisitazioni troviamo minimizzato, sceglie
cioè di drammatizzare quasi per l’intero
dramma l’attrito fra padre e figlio che ha
radici profonde: “Ti sei sempre comportato con me come con un debitore insolvente / o con un truffatore/ – come se ti
avessi defraudato / d’una felicità o spensieratezza / della quale, chissà perché, /
ti sentivi in diritto…”21.
Questo tema, come abbiamo visto, segna
tutto il dramma ed è alla base della scelta
di Sara di sacrificarsi al posto dei due uomini, che ama entrambi per motivi diffe-
41
renti: il marito, uomo pragmatico e razionale, le ha sempre dato sicurezza; con
il suocero condivide il suo amore per
l’arte, per il teatro. “Io vi amo uno nell’altro, / uno a causa dell’altro, qualche
volta / uno per rimpianto dell’altro, / indissolubilmente, / inestricabilmente…”22.
Specularmente vantaggiosa, questa nuova
situazione serve ad inasprire ulteriormente il rapporto già difficile tra i due.
operazione volutamente portata avanti
da Raboni per evidenziare la figura di
Alcesti. E qui riemerge Euripide. Nel suo
dramma la protagonista femminile è
posta su un piano di superiorità: a lei
Euripide assegna qualità e prerogative
proprie dell’eroe maschile e lo fa sottraendole volutamente proprio ad Admeto.
I drammaturghi successivi hanno fatto
un’operazione quasi di rivalutazione
42
della figura di Admeto, ovviamente a
scapito di Alcesti23. Raboni rimane invece volutamente in linea con il dramma
euripideo, restituendo ad Alcesti il posto
d’onore. La protagonista può compiere il
suo sacrificio sullo sfondo di una disputa
meschina tra i due uomini, che pensano
solo a salvare la propria di vita, ed il finale segna inequivocabilmente ciò nel
voler mantenere i due nella totale inconsapevolezza sull’identità della nuova
passeggera, la misteriosa donna velata,
ed è rimarcato da quell’ultima strana,
improponibile e ridicola domanda posta
da Stefano: “E così il terzo posto, / il
posto che ci era stato promesso / e poi,
di colpo, revocato, / il posto che ci siamo
disputati / fino a roderci il cuore, / era
per questa sconosciuta? / È per far partire lei, per salvarla, / che uno di noi tre
/ ha dovuto infine sacrificarsi?”24. Attraverso le parole di risposta del Custode,
Raboni denuncia l’ultimo tentativo da
parte dei due uomini di addossare a terzi
la responsabilità del sacrificio di Sara-Alcesti, “capace non solo di un più acuto
sentire ma anche, fin dall’inizio, di superiore consapevolezza: la vera e indiscussa eroina – a tutto tondo, come nel
modello antico – del dramma”25. La Sara
del nostro allestimento non indossa già
il velo. Come è avvenuto per tutta la rappresentazione, anche in quest’ultimo
momento l’oggetto scenico viene agito in
prima istanza dal coro. Un lungo velo
nero, che ricorda nel colore ma non nelle
dimensioni quello già presente in scena
– contenitore degli oggetti cari a Sara –
compare in scena. Come in un gioco di
rimandi, questo si ripropone come simbolo ricorrente per segnare l’inevitabile
destino della protagonista. Il velo viene
disposto lungo il fondale del palco dal
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coro, che in seguito lo solleva verso l’alto
come a creare una fitta nebbia che si alza
all’improvviso e dietro la quale Sara
danza il suo atto finale. La danza, sulle
note della Ciaccona di Bach, si conclude
con la resa di Sara al suo destino, suggerita dal suo entrare dentro il velo fino ad
esserne completamente ricoperta. Nell’ultima immagine dello spettacolo Sara
avanza a proscenio nel crescendo della
musica, come a imporre all’attenzione
del pubblico il suo trionfo sulle contraddizioni laceranti della recita nell’accettazione del suo destino.
G. RABoNI, Alcesti o La recita dell’esilio, Milano, Garzanti, 2002. La si legga anche in IDEM, L’opera poetica, Milano,
Mondadori, 2006 e in EURIPIDE, WIELAND, RILKE, YoURCENAR, RABoNI, Alcesti. Variazioni sul mito, a cura di M. P.
PATToNI, Venezia, Marsilio, 2006. A quest’ultima edizione fanno riferimento le citazioni seguenti.
S. MARTINET, La musica del corpo. Manuale di espressione corporea, Trento, Erickson, 1992.
S. MARTINET, La musica, cit., p. 16.
G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 207.
S. MARTINET, La musica, cit., p. 142.
M. P. PATToNI, Introduzione a Alcesti. Variazioni, cit., p. 41.
G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 236.
G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 243.
Ibidem, p. 213.
Ibidem, p. 231.
Ibidem.
Ibidem, p. 249.
Ibidem, p. 255.
Per le teorie dello SToKE sul concetto strutturalistico di arbitrarietà del linguaggio dei segni, per l’opinione dello
JoUISoN sulla necessità di non guardare ai segni condizionati dalla linguistica e per le caratteristiche articolatorie
di questo linguaggio ci limitiamo a fare riferimento qui a S. GENSINI, Manuale di semiotica, Roma, Carocci, 2004,
pp. 359-363.
Cf. ibidem.
G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 230.
M. P. PATToNI, Introduzione, cit., p. 43.
G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 264.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem, p. 218-219.
Ibidem, p. 228.
“Eliminando lo scontro di Admeto con il padre e togliendogli inoltre la responsabilità di lasciare consapevolmente
morire qualcun altro al posto suo, di certo si consegue l’obiettivo di rivalutare il debole marito di Alcesti, sottraendogli quelle componenti che potevano inficiare lo statuto di eroe positivo” (M. P. PATToNI, Introduzione, cit., p. 48).
G. RABoNI, 2006, p. 265.
G. PATToNI, Introduzione, cit., p. 48.
43
Un manifesto lungo 25... anni
Dino Memmo
Rare volte mi è capitato, nel raccogliere
l’invito ad illustrare un fascicolo monografico, una silloge poetica o la locandina
di una rappresentazione teatrale, di aver
avuto così pochi dubbi come davanti alla
richiesta e alla possibilità di poter affidare alla più libera creatività il compito
di immedesimarmi fin da subito nello
spirito e nella sacralità offerti, per felice
occasione, dalla tragedia greca. Per fissarne quasi un emblema, e potere, nel
contempo, tuffarmi per qualche attimo
nella magica atmosfera del mito e della
leggenda.
Ricordo l’entusiasmo con cui il collega
Giannino Crocco mi parlava, nell’ormai
lontano 1985, della prima “avventura”
teatrale della sezione classica del Liceo
“Veronese”, tutta impegnata nella drammatizzazione e nell’allestimento di Edipo
Re di Sofocle.
E ciò per guidare i giovani allievi ad una
consapevolezza più vitale e profonda del
patrimonio letterario antico, dei suoi valori eterni, presenti anche nella realtà
moderna e quotidiana, e perciò universali. Un’esperienza senza dubbio entusiasmante. La quale, nata come tentativo
didattico – forse quasi una sorta di scommessa – era destinata a prendere piede e
consistenza al punto di divenire una
prassi ordinaria nel progetto educativo
della sezione classica, una scadenza attesa e un impegno perseguito fino al traguardo di un quarto di secolo.
Attraverso esperienze di studio, di teatro
e di analisi storiche che hanno scandagliato la tragedia greca in lungo e in
largo, soffermandosi soprattutto su Eu-
44
ripide, considerato un autore molto vicino alla contemporaneità, con le Baccanti, l’Ippolito, la Medea, le Troiane, Alcesti
e tante altre anche di Aristofane e di altri
autori.
Ricordo il fervore con cui Giannino mi
parlava della tragedia appena finita di
tradurre: vi aveva scoperto, rese esplicite, alcune intuizioni che da tempo andavano rimescolando il suo spirito di
studioso e di artista-regista.
ormai non gli rimaneva che avventurarsi nell’impresa, e subito di trovare nel
sottoscritto, assieme ad altri colleghi,
dei collaboratori per una iniziativa che
avrebbe avuto dei risultati sicuramente
superiori ad ogni aspettativa.
Per quanto mi riguardava, non mi restava che metter mano al lavoro, e subito dover trovare con lui la via d’uscita
ad una necessaria traduzione graficoespressiva che sinteticamente potesse
manifestare, in un disegno inizialmente
monocromo, la più esplicita evocazione
del soggetto. Per individuare alcuni
“simboli”, per indicare qualche tratto od
“evento” atto a richiamare alcune “memorie” della problematica proposta.
Questioni e aspetti questi, che si sono poi
ripetuti nel corso degli anni successivi
con puntuali e immutati interessi e necessità nella collaborazione con gli amicicolleghi, che hanno raccolto l’eredità
preziosa e imperdibile di questa tradizione.
Sono così scaturiti nel corso degli anni
venticinque manifesti, venticinque storie, con inserimenti anche “estranei” alla
tradizione classica, come quelli relativi
alla commedia goldoniana, alla drammaturgia di Shakespeare, o a qualche rivisitazione del repertorio della tragedia
greca in chiave moderna. Venticinque
“immagini”, “storie” e altrettanti momenti di vita e di contingenze esistenziali. Vissute, sia nella scelta, sia nelle
rappresentazioni, con l’intensità spirituale e psicologica che il teatro, classico
o moderno, richiede; e presentate anche
attraverso le illustrazioni grafiche che
hanno puntualmente accompagnato le
varie esperienze. Perché il “racconto” potesse continuare e permettere di lasciare
una riflessione, un ricordo tangibile, oltre
ogni altra considerazione.
Ci sono elementi che accomunano queste
“avventure” letterarie e grafiche anche
diverse:
i protagonisti, uomini o donne, sono tutti
e sempre chiamati a grandi scelte.
Amano e si fanno amare, odiano o si
fanno odiare, esultano nella gioia o si
consumano nel dolore; più spesso suscitano compassione e pietà, nel bene e nel
male. Le immagini li colgono, spesso e
volutamente, in vissuti esistenziali i cui
tratti dominanti mi paiono essere i seguenti:
– i protagonisti sono ritratti nei momenti
più cruciali e drammatici della vicenda;
– conoscono e vivono “le cose intime e
segrete”: profondità e intimità di vita,
anche quando la loro vita è quella di
“danzatrici” come nelle Baccanti, o di
“petulanti”, come nelle Baruffe o nelle
Morbinose;
– la dimensione “misteriosa” dell’esistere.
Tutti stimoli intellettuali e curiosità culturali che ho cercato di esprimere attraverso i miei disegni e i miei colori,
trasformandoli nell’essenzialità del
segno, nell’efficacia del colore e condensati – mi auguro – in palesi simbologie.
Soprattutto nelle ultime locandine, ove il
colore, apparendo più generoso e coinvolgente, ha allargato la quinta da cui i
protagonisti emergono e si impongono,
fino a dominare la scena e a rendere all’istante l’intera complessità della vicenda vissuta. Come si verifica nel caso
dell’ultima fatica, affrontata per allestire
la tragedia narrata nell’Agamennone di
Seneca.
Vi sono, all’interno delle varie illustrazioni, elementi comuni che affiorano
anche in disegni di diversa ispirazione, e
la complessità delle composizioni credo
stia ad indicare, a bocce ferme, che nel
mio inconscio sono stati ben presenti i
momenti di una “storia” vissuta nelle
sue varie vicissitudini, e che l’intersecarsi
di tanti e diversi motivi possa bene esprimere il groviglio delle situazioni.
Che sono metafora della vita.
Credo anche, e mi auguro, che la ricorrenza di un venticinquesimo di esperienze didattiche, pedagogiche e
culturali come quelle vissute dal Liceo
“Veronese” non abbia chiuso il suo ciclo:
in primo luogo, perché questa vastissima
tematica non può ritenersi completamente esplorata ed esaurita; in secondo
luogo - e direi soprattutto - perché dato
il patrimonio di competenze, abilità e conoscenze acquisite e maturate sul campo,
c’è da pensare e da sperare, che altri ottimi frutti possano ancora maturare.
45
L’esperienza del Laboratorio teatrale al “Veronese”
Antonio Giuseppe Peligra
Ricordo che, senza
ben sapere quello
che stavo facendo,
ho esordito come
“re magio” con
una tunichetta
rossa...
Preparare uno
spettacolo, pensare a come il personaggio si sarebbe vestito o a come si
sarebbe comportato, mi emozionava
come fare il presepe a Natale o come
ascoltare le favole delle Mille e una notte
stando a letto col mio papà: una magia,
un incantesimo in cui mi sentivo libero
di giocare, trasformarmi e tornare bambino.
Da liceale già recitavo nella compagnia
locale “Piccolo Teatro Città di Chioggia”,
nella quale conobbi la storica regista del
laboratorio di teatro classico del “Veronese” Franca Ardizzon. Inoltre, grazie al
professor Marangon, fin dalla quarta
ginnasio presi parte all’annuale allestimento di uno spettacolo classico. Ecuba,
Ione, Elettra (Sofocle), Baccanti e Rane mi
hanno accompagnato di anno in anno
per tutto il Liceo. E sul finire di una
prova di Elettra dicevo a Franca: “Vorrei
vivere facendo questo…”.
Stare sul palco aveva la stessa magia di
quando ero bambino; ma ora diventava
anche una tra le tante ricerche di un
senso nella mia vita, un modo per ascoltare e confrontarmi (in solidale compagnia di messaggeri ed Ecube) anche con
ciò che mi faceva soffrire, un modo per
ritrovare il mio corpo, per imparare a conoscerlo e accettarlo.
46
Anche i miei insegnanti del Liceo (salvo
alcuni casi, va detto) non erano soliti leggere la lezione da antologie, ma, anzi, vivevano usando come strumento ciò che
amavano e insegnavano. Studiare greco
con la professoressa Susi Boscarato non
era solo grammatica, era la possibilità
per me di vedere come la nostra cultura,
la nostra etica, le nostre scelte hanno
un’origine e non sono sempre immutabili. Leggere Rimbaud con lei era cercare
attraverso quelle metafore, quelle parole,
la carne tormentata di quell’uomo con
domande e desideri non dissimili dai
miei e credo da quelli di molti, molti
altri. L’incontro col professor Gentilini e
la scoperta della filosofia è stata una liberazione da convinzioni precostituite e il
coraggio di cercare: è sempre stato possibile approfondire e condividere questa
ricerca, trovando in lui una persona
molto generosa. Stupendo è stato il “Progetto Shakespeare” ideato dal professor
Brunello Filippo, nella forma mentis di
trovare nel testo teatrale, oltre che il contesto storico e culturale in cui è inserito,
anche le figure nascoste dentro all’opera
stessa: psicologiche, narrative, tematiche.
E ancora la disponibilità del professor
Marangon, che seguiva il progetto del
Laboratorio di teatro classico e diventava
così un vero collega sul palco: cercando
con noi le scene e i costumi migliori, facendo un grande lavoro di ricerca e analisi sul testo e sulla sua traduzione. Con
lui ho partecipato a concorsi nazionali di
“Teatro classico nelle scuole”, “sperimentando” le mie prime rudimentali
tournées.
Dopo essermi diplomato alla “Accade-
mia di Arte Drammatica Paolo Grassi” di
Milano, ho iniziato a lavorare come attore con Massimo Castri, uno degli ultimi esponenti del grande teatro di regia.
Il maestro utilizza un metodo, attinto da
Stanislavskij, per cui, riconosciute le dinamiche comportamentali all’interno di
una scena, l’attore le agirà immaginando
con i suoi partner un corrispettivo comportamentale più concreto. Ad esempio,
se nella scena finale tra Dioniso e Penteo
nelle Baccanti avviene una persuasiva seduzione sul povero Penteo da parte di
Dioniso, gli attori non andranno ad agire
un generico e sconosciuto “Dioniso” e
“Penteo”, ma renderanno caldi, vividi i
personaggi, immaginando di essere,
mettiamo il caso, un medico nazista e
una sua vittima in un esperimento. Così
gli attori potranno attingere a immagini,
corpi, situazioni molto realistiche e non
cadranno in una recitazione ampollosa e
vuota di intenzioni.
Saper leggere queste dinamiche è certo
un percorso iniziato con i miei ottimi
professori e nell’esperienza del Laboratorio di Teatro Classico.
Grazie dunque di cuore a questi amici e
insegnanti, da Luciano Loffreda, che ha
creduto in me e mi ha permesso di iniziare il “mestiere” con la compagnia
“Piccolo Teatro di Chioggia”, a Paolo
Penzo, che mi ha insegnato la pazienza e
che in teatro serve anche saper montare
una scena, non solo far bene la parte; grazie alle scene di Paolo Doria, alle regie di
Franca Rossi, sempre disponibile alle
proposte degli attori. Grazie a Gianna e
alle sue luci, a Dino e ai suoi suoni, a
Laura Pagiola e al trucco delle mie cinque tragedie, ai miei insegnanti, ai miei
amici e compagni di viaggio in quella
preziosa esperienza, in particolare Stefano Angarano, Diletta Perini, Annamaria Gennaro. Grazie di cuore!
47
La Tragedia greca a Chioggia: un’esperienza indimenticabile
Stefano Angarano
È difficile riassumere in poche
righe le mie sensazioni sull’esperienza del teatro classico, ma ritengo quanto mai
opportuno celebrare con la
giusta risonanza i venticinque
anni della Tragedia greca a
Chioggia. Trovo che sia stata
un’occasione culturale e formativa di grande importanza
nel mio percorso personale. È
davvero significativo un approccio a pietre miliari della nostra cultura, non solo di tipo teorico e libresco,
ma vivido e sostanziale, attraverso il diretto coinvolgimento emotivo, dato dal
calarsi nelle vesti e nelle emozioni dei
personaggi. Ciò ha reso anche più feconda e duratura la memoria dei miei
studi classici, che così rimangono ancora
più indelebili nella mia formazione.
L’essere protagonisti nelle vicende degli
dèi e degli eroi pone a stretto contatto
con i princìpi dell’etica, della morale,
della filosofia. Peraltro, nel corso del mio
triennio (anni 2001-2003), sono stato interprete, nonché uno dei promotori,
dell’unica commedia classica rappresentata in venticinque anni, le Rane di Aristofane, che mi ha permesso di affrontare
tematiche storiche e socio-politiche diverse e peculiari rispetto a quelle tradizionalmente presenti nelle tragedie. Le
Rane si sono classificate prime nella Rassegna Scolastica Internazionale di Teatro
Classico ad Altamura (BA) e mi hanno
valso un riconoscimento per il ruolo di
Eschilo al concorso “Teatro dalla Scuola”
48
a Vicenza. Numerose sono
state nel corso degli anni le
partecipazioni a concorsi e
rassegne teatrali, riscuotendo
gradimento di pubblico e lusinghiere soddisfazioni.
Ricordo con piacere e nostalgia anche Elettra di Sofocle, il
mio debutto nella tragedia
greca, e le Baccanti di Euripide, interpretazione che mi
ha emozionato, in cui ho cercato di trasfondere grande pathos, allestimento premiato come miglior realizzazione
a Vicenza.
La mia partecipazione triennale alla tragedia, come attore e collaboratore ai costumi e alla scenografia, ha accresciuto il
mio interesse e la passione per il teatro,
tanto da entrare a far parte del “Piccolo
Teatro Città di Chioggia”, diretto da
Franca Rossi.
Nel corso degli anni, pregevoli innovazioni hanno impreziosito l’allestimento:
la colonna sonora dal vivo, che ha offerto
ai cultori di musica l’occasione di dimostrare il loro talento, le coreografie del
coro, sempre più articolate e virtuosistiche, le accattivanti contaminazioni letterarie in chiave contemporanea degli
ultimi anni.
Il venticinquesimo della tragedia è un
traguardo fondamentale per il Liceo e la
Città, per me è la meritata celebrazione
di un’iniziativa formativa completa, interessante sotto molteplici punti di vista,
uno dei ricordi più belli della mia esperienza liceale.
La mia tragedia greca
Francesca Rubin
L’attimo di tensione che precede lo spettacolo. È l’attimo
in cui le luci in sala si spengono, poco prima di sentire
il cigolio ed il fruscio del sipario che si apre con quel rumore così antico. L’attimo in
cui senti l’unica grande voce
del pubblico, fatta dai mille
bisbigli di ogni singolo spettatore, che si abbassa nello
stesso istante. E tu, dall’altro
lato del sipario, senti la vita
di ogni singolo spettatore
che si fonde con la vita di tutti gli altri e
crea un unico grande essere, che poi è il
pubblico, pronto a bere assetato tutto ciò
che puoi offrirgli tu, su quel palcoscenico. Senti la tua vita e quella di tutti gli
altri che scorre all’impazzata e si tende
come un’unica corda di violino pronta a
vibrare al più piccolo sussulto, immersa
in quella calma apparente.
La bonaccia prima della tempesta. A
prima vista si potrebbe dire che non c’è
nessuno. Solo tu, il buio e il silenzio. Ma
lo senti. Non puoi neanche sapere con
quali dei cinque sensi in realtà; perché il
sipario è ancora chiuso; l’udito più che
quel silenzio improvviso non può ascoltare; l’olfatto percepisce solo quell’odore
polveroso che intride tutti i palcoscenici
del mondo; il gusto... beh, il gusto avverte che non hai più una sola goccia di
saliva in bocca e il tatto, se sei fortunata,
può trovare appiglio in qualche altro attore lì con te, come quella sera successe
a me, o in te stessa, oppure in qualche
oggetto o parte del palcoscenico. Ma tu
senti, nonostante i tuoi sensi non c’entrino niente, o almeno non quei cinque comuni sensi che tutti abbiamo,
tu percepisci quell’unica grande
belva tesa e pronta ad incantarsi davanti alla vicenda che
hai da raccontarle, come un
gigantesco Polifemo ammaliato dalle storie meravigliose inventate di sana
pianta da un Nessuno qualunque. C’è quell’unicum, esiste. Ne accarezzi ogni singola
componente, in quell’attimo
prima della tempesta, come
se fosse la persona che ami
quando ci fai l’amore. E perdonatemi il paragone, ardito forse... ma
qualsiasi attore con cui parlerete vi dirà
che il Teatro è luogo d’Amore. Qualsiasi
attore che sia mai stato su un palcoscenico e ci abbia sputato l’anima in pasto
al suo pubblico potrà solo confermarvi
questa affermazione del grande, da poco
scomparso, Bosetti. In quella foga data
dal panico, visualizzi ogni singolo spettatore, dentro gli occhi che ti ostini a
tener chiusi, mentre l’adrenalina blocca
la gola, fa impazzire il cuore, non ti lascia
smettere di muovere nervosamente la
gamba. ogni singolo respiro, per quanto
silenzioso, ti rimbomba nell’orecchio;
ogni singolo sospiro, con il suo ritmo diverso da quello di tutti gli altri spettatori,
viene amplificato dal tuo che sembra impazzito e che cerchi di controllare come
meglio puoi.
Fu così anche quella sera. Era la prima
dell’Antigone.
Fu proprio Amore quello che iniziai a
provare io, vestita di blu, tremante e seduta su uno sgabello, mentre stringevo
le mani alla mia compagna di classe, che
mai come in quell’attimo ho sentito
davvero “sorella”, come la parte ci ri-
49
chiedeva (e stringendoci le mani nervose, ci facevamo forza a vicenda e ci
sostenevamo reciprocamente). Questa è
la grande magia del Teatro: rende possibile ciò che in qualsiasi altro contesto sarebbe persino inimmaginabile. E mi
dicevo: “Francesca, sii Antigone. Sii Antigone. Tu sei Antigone... Lo spettacolo si
aprì. L’incipit della tragedia che non mi
veniva finché il sipario era chiuso fece
capolino nella mia memoria al momento
giusto. La voce non fece strani scherzi, liberavo la tensione, che avevo accumulato e che continuava a crescere ogni
secondo di più sul palco, regalandola
sotto forma di emozioni da lasciare ai
miei benevoli spettatori, con tutta l’inesperienza di una ragazzina che si trovi a
recitare nella parte della protagonista a
diciannove anni. Feci sussultare la platea
quando la guardia mi gettò a terra dopo
avermi catturato (tanto rumore contro le
assi di legno ma nessun problema: io e la
guardia sapevamo come attutire il colpo
fino a renderlo inoffensivo e come simulare la forza di un soldato che getti ai
piedi del suo re una traditrice). Persino
il piccolo incidente causato da uno
scambio di battute sfalsato con Creonte
fu superato e, spero, passò abbastanza
inosservato. Le catene, che dovevo tenere alle braccia prima di essere segregata nella grotta e che in tutte le prove
tendevano a scivolare via dai polsi sottili,
mi fecero l’enorme cortesia di starsene
buone, ferme e fredde contro la mia
pelle, mentre guardavo la platea e questa
volta scrutavo sul serio ogni singolo viso
e vedevo davvero ogni sguardo puntato
addosso a me (non credete a chi vi dice
che dal palco, con i riflettori contro, non
si vede niente: non è assolutamente
vero!). Mi attaccavo all’uno o all’altro
sguardo, cercavo di più quello di persone non conosciute personalmente e
mi piace pensare, anche se forse è stata
un’impressione “alterata” dalle mie
emozioni, di aver visto qualche occhio
lucido. Dopo le mie ultime battute, urlate
per la rabbia di Antigone di essere trasci-
50
nata via, la tensione scese, anche se non
se ne andò fino alla fine della tragedia.
L’attenzione era puntata sui miei compagni di classe, da dietro le quinte tifavo
per loro e mi auguravo che tutto andasse
liscio. Fino all’ultima battuta del capo
coro. Fine. Scroscio di applausi! In un’ora
e mezza, forse meno, tutto era finito.
Ma sbaglia chi crede che la tragedia
greca sia solo una rappresentazione teatrale di una classe di Liceo. Sbagliano
anche certi genitori che dicono ai figli:
“Con tutte le volte che sei andato a provare, con tutto il tempo sottratto allo studio, tutto si è concluso in un’ora e
qualcosa...”.
La rappresentazione del Liceo Classico è
un evento.
Lo è per la classe interessata. Lo è per il
singolo studente che vi partecipa, anche
se non tutti si innamorano del teatro
dopo aver recitato sul palcoscenico. È un
evento anche per quegli studenti che accolgono l’esperienza con la tipica leggerezza ed allegria di ragazzi del Liceo,
come è giusto che sia, o con l’imbarazzo
di mettersi in gioco vestiti da antichi
greci, su un palcoscenico, con amici e parenti che li guardano mentre rischiano di
far la figura degli stupidi. La tragedia
greca ha un significato per tutte quelle
persone che si trovano a collaborare per
realizzarla, dagli studenti ai professori,
che magari avevano poco in comune
prima, come me e i miei compagni di
classe, ma che si ritrovano insieme per
uno sforzo comune, per qualcosa che si
realizza e si compie sotto i tuoi occhi e
che ti dà tutta la soddisfazione di dire:
questo lo abbiamo fatto NoI. È qualcosa
per cui ti senti di ringraziare sinceramente i professori: povero professor Vianello, che umile e bonario ci ha sempre
accompagnato, che mai voleva il suo
nome nei ringraziamenti e grazie al
quale invece si è potuta rappresentare
l’Antigone! Ci seguiva silenzioso, senza
osar mettere lingua nelle decisioni di regista e coreografa, con tutta l’attenzione
del timido corteggiatore del Teatro che
non proferisce parola, ma che guarda,
ascolta e segue ogni più piccolo particolare e l’ennesima prova di quella medesima battuta come fosse declamata per la
prima volta. Energica e creativa professoressa Aricò, che nell’impresa si è gettata con tutta se stessa, mettendoci
l’anima, trovandosi per la prima volta ad
essere coreografa della tragedia greca
proprio con l’Antigone. Grazie a lei e alle
sue grandi idee, il coro ha avuto una
svolta verso la danza contemporanea.
Grazie al suo entusiasmo anche il più imbranato degli studenti riusciva a trovare
una posizione sul palcoscenico. Grazie di
cuore all’incantevole Franca Ardizzon
Rossi, alla quale ormai voglio bene come
ad una “mamma”, alle volte severa, alle
volte affettuosa, la quale permette fin
dalle origini della tragedia classica a tanti
altri ragazzi e ragazze come me di innamorarsi del Teatro! La signora Ardizzon
Rossi presta la sua collaborazione professionale da sempre al Liceo Classico ed in
ogni rappresentazione mette tutta la passione che ha (vi assicuro, smisurata!) e
tutto il suo grande cuore (non lo dite a
nessuno, ma la signora Franca recita
dall’età di quattordici anni e, nonostante
questo, ad ogni rappresentazione la si
può trovare vicino al sipario, piccola,
magra ed incurvata sul copione, con una
lucina e gli occhialini a seguire ogni singola battuta e pronta a suggerire nella
difficoltà, più tremante del ragazzino o
della ragazzina che in quel momento si
trova al centro del palcoscenico da solo.
La signora Franca ad ogni rappresentazione vibra come vibra ogni singolo attore sul palco, solo che lei lo fa per venti
persone, invece che per una sola). A lei
devo la possibilità di aver approfondito
quello che nacque quel giorno al “Don
Bosco”, nonché l’immensa pazienza
verso noi piccoli “attori” e l’infinita passione che la contraddistinguono. Questo
è ciò in cui, credo, molti studenti che
hanno vissuto l’esperienza della tragedia
classica si riconosceranno. Antigone per
me però è stata molto di più.
Per me Antigone è stata crescita. Avevo,
su quel palcoscenico, niente altro che un
costume azzurro e la mia voce tremante
dietro cui nascondermi. Ero un’Antigone
ragazzina, dai capelli lunghi e ricci, gli
occhi verdi e, vi assicuro, spalancati di
paura, con il mio caratterino nervoso e
teso di quegli anni del Liceo e tutta
l’emotività un po’ bambina che avevo allora. Ero un’Antigone che non aveva
paura di Creonte, una giovanissima ragazzina che contrapponeva la sicurezza
e l’audacia un po’ sfrontata che hanno le
ragazzine quando contraddicono il
padre, sicure di aver ragione e di aver
contravvenuto alle regole per una giusta
causa. Non può che scapparmi un sorriso di tenerezza, ripensando a quella
piccola Antigone coraggiosa ed emotiva,
acqua e sapone e un po’ bambina. È la
rappresentazione di un periodo della
mia vita che mi ha portato ad essere
quella che sono ora, così diversa, direi
quasi opposta, dalla Francesca che nel
2007 calcava quel palcoscenico.
Antigone è stata innamorarsi del Teatro.
Non era la prima tragedia per me.
L’anno prima avevo recitato nella parte
della nutrice nell’Ippolito incoronato di
Euripide. Lì però ero ancora in fase di
“corteggiamento”, come quando giochi
e scherzi con la persona per cui incominci a provare un interesse, fai le scaramucce e vivi con leggerezza e in modo
scanzonato l’inizio di una simpatia. Ma
con Antigone mi sono innamorata. Come
in amore, così grazie ad Antigone io ho
percepito l’altro. Che poi questo altro invece che essere un uomo, fosse una platea di spettatori, un pubblico che soffre e
gioisce come un unico essere vivente; che
fosse l’odore polveroso dei palcoscenici
o la luce dei riflettori che ti scalda il viso;
oppure la tensione e le emozioni che
provi e fai provare a quella belva che ti
trovi ai piedi; o semplicemente nell’essere un personaggio diverso ogni volta,
nel far rivivere delle storie e dar giustizia
a quei personaggi più fortunati di quelli
di Pirandello, che un autore ce l’hanno e
51
aspettano solo di trovare qualcuno che
assuma il loro volto; che fosse giocare,
come certe lingue straniere ci ricordano,
usando lo stesso termine per giocare e recitare; che invece di essere un uomo,
fosse tutto ciò, questo non svilisce affatto
quell’Amore immenso. Amo quell’attimo ricco di tensione un istante prima
che si apra il sipario, che da quel 27 Maggio 2007 non è più riuscito ad uscirmi dal
52
cuore. Amo trasmettere e ricevere emozioni, farle uscire dal mio animo, riviverle ogni volta e mettermi in gioco su
un palcoscenico.
Amo il Teatro e le Emozioni. Lo amo grazie alla tragedia greca del Liceo Classico
che ha fatto le presentazioni. Lo amo grazie ad Antigone.
Cosa ha significato la tragedia greca del
Liceo Classico per me? Amore.
Le rappresentazioni
1985-86 Edipo re, Sofocle
Quale uomo mai, quale uomo, ha conosciuto altra felicità se non quella
che immagina, per cadere nella sventura dopo questa illusione?
A Tebe di Beozia scoppia la peste, che secondo
l’oracolo di Apollo cesserà solo quando sarà trovato l’assassino di Laio, il precedente re della
città. Edipo, nuovo sovrano, convoca per l’indagine l’indovino Tiresia, che lo incolpa del delitto.
La regina Giocasta, vedova di Laio e ora sposa di
Edipo, lo rassicura: un pastore infatti ha raccontato che la morte del re è avvenuta per mano di
briganti. Un nunzio di Corinto, venuto a portargli
la notizia della morte del padre Polibo, gli svela
che quest’ ultimo e la moglie Merope non erano
i suoi veri genitori. E il vecchio pastore rivela che
egli è nato da Laio e Giocasta, i quali lo hanno abbandonato sul monte Citerone: lui stesso ha ucciso Laio e poi sposato la regina sua madre. La
profezia che lo voleva uccisore del padre e sposo
della madre si è avverata. Per la disperazione
Giocasta, che già da tempo ha compreso la verità,
si impicca e Edipo si acceca. BV
Teatro “Astra”, 12 giugno 1986
Regia
Scenografia
Aiutante tecnico
Musica a cura di
Traduzione e
adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Edipo
Sacerdote
Creonte
Tiresia
Giocasta
Messo di Corinto
Servo di Laio
Servo di Corinto
Nunzio della casa
di Giocasta
Coro
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Classi I, II, III Classico
Paolo Doria, Dino Memmo
Laura Corazza
Isabella Longo
Giannino Crocco
Francesco Galera
Cristiano Gebbin
Enrico Ravagnan
Giovanni Breggion
Daniele Zennaro
Sandra Boscarato
Raffaele Tammeo
Riccardo Rossi
Mauro Gamba
Pierangelo Laurenti
Alunni delle classi I, II e III
55
56
1986-87 Baccanti, Euripide
Per questo dimostrerò di essere un dio a lui e a tutti i Tebani
Dioniso, figlio di Semele e Zeus, giunge a Tebe
per rivendicare la sua natura divina e imporvi il
proprio culto. Penteo, re della città, si oppone ai
culti dionisiaci, inflessibile anche quando il padre
Cadmo e l’indovino Tiresia si convincono di
dover venerare il dio. Mentre le Tebane si trovano
sul monte Citerone per i baccanali, Dioniso si
finge straniero mandato dal dio, viene catturato e
interrogato dal re. Ma miracolosamente si libera
e, tornato da Penteo, ascolta con lui la notizia dei
prodigi compiuti dalle baccanti sul monte. Stupito, Penteo vuole assistere al culto e travestito da
donna raggiunge il Citerone, dove il suo corpo
viene dilaniato dalle baccanti. La madre Agave
stessa, ancora invasata, ne riporta in città il capo
mozzo, credendolo di cerbiatto. Ritornata in sé,
comprende, disperata, con gli altri Tebani gli
enormi poteri del dio. BP
Teatro “Astra”, 13-14 maggio 1987
Regia degli stessi interpreti
Luci e allestimenti
Paolo Doria
Traduzione
e adattamento
Giannino Crocco
Preside
Francesco Galera
Sezione classica
Attori
Agave
Dioniso
Cadmo
Penteo
Tiresia
I Messaggero
II Messaggero
Guardie
Annalisa Nordio
Riccardo Rossi
Enrico Ravagnan
Giovanni Breggion
Pierangelo Laurenti
Sandro Bighin
Mauro Gamba
Riccardo Pozzato, Giuliano Veronese
Baccanti
Fabiana Zezza, Alessandra Lionello, Milena Ceci,
Tiziana Donà, Daniela Ballarin, M. Cristina Cavallarin, Maris Stella,
Cristina Napoleoni, Sandra Meneghini,
Elisabetta Tonello, Barbara Caielli, Rosaria De Rosa
57
58
59
1987-88 Ippolito, Euripide
Il giorno che uscì dalla casa di Pitteo e venne a vedere i misteri nella terra di Pandione, lo vide
e fu morsa dentro da un amore tremendo. E ora è qui la sventurata e geme e si consuma
Ippolito, figlio di Teseo, devoto ad Artemide, conduce vita casta, disprezzando amore e donne.
Afrodite decide di punirlo, innamorando di lui
Fedra, sua matrigna, la quale non rivela la passione al figlio per non disonorare Teseo suo sposo.
Ma la nutrice ne riferisce i sentimenti a Ippolito,
che maledice Fedra e tutte le donne. Per sfuggire
all’illecito amore, Fedra si uccide, lasciando
presso al cadavere un messaggio che accusa di
violenza l’innocente Ippolito. Teseo invoca allora
la punizione di Poseidone sul figlio, che, vincolato
da giuramento, non può discolparsi. Le onde del
mare in forma di mostro assalgono il carro di Ippolito, che rimane ferito a morte. Il padre, follemente compiaciuto, conosce da Artemide la verità
e cade nella disperazione, vedendo morire il figlio
tra le sue braccia. FB
Teatro “Astra”, 25 maggio 1988
Regia degli stessi interpreti
Luci e allestimenti
Paolo Doria
Traduzione
e adattamento
Giannino Crocco
Preside
Francesco Galera
Sezione classica
Attori
Afrodite
Ippolito
Servo
Nutrice
Fedra
Teseo
Messaggero
Artemide
Susi Pellizzeri
Giuliano Veronese
Raffaele Tammeo
Tiziana Donà
Daniela Ballarin
Riccardo Rossi
Sandro Bighin
Alberta Duse
Coro dei cacciatori
Renzo Cremona (capocoreuta), Gianluca Salvagno,
Riccardo Pozzato, Massimo Gebbin, Marco Pagan
Coro delle donne
M. Cristina Cavallarin (capocoreuta), Maris Stella, Roberta Pagan,
Francesca Fuiano, Barbara Caielli, Cristina Napoleoni,
Federica Boscolo, Francesca Graziano, Tiziana Passaler,
Elisabetta Tonello, Federica Zerbinato
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1988-89 Medea, Euripide
In tutti gli altri eventi la donna è piena di paure, e vile contro la forza e quando vede un ferro;
ma quando, invece, è offesa nel suo talamo, non c'è cuore più sanguinario del suo
Dopo anni di convivenza Giasone lascia la barbara Medea per unirsi in matrimonio con Glauce,
figlia del re di Corinto. Alla donna viene concesso
un giorno per lasciare per sempre la città. Giasone
le giustifica la decisione invocando il bene dei
figli, che cresceranno insieme a fratellastri nati da
donna greca. Ma Medea manda un peplo e una
corona imbevuti di veleno in dono a Glauce, che
ne muore tra strazio e dolore. Anche il padre Creonte, muore abbracciando il cadavere della figlia
e toccando il peplo avvelenato. Infine Medea esercita la sua terribile vendetta sui figli, che trafigge
di propria mano, sottraendone i corpi a Giasone,
mentre fugge sul carro del sole. MCDP
Teatro “Don Bosco”, 25 maggio 1989
Regia
Scenografia e luci
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Medea
Giasone
Nutrice
Pedagogo
Egeo
Creonte
Nunzio
Figli
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria, Dino Boscolo Nata,
Giampaolo Penzo
Giannino Crocco
Francesco Galera
Barbara Caielli
Giuliano Veronese
M. Cristina Cavallarin
Michele Tiozzo Sponton
Riccardo Pozzato
Gianluca Salvagno
Renzo Cremona
Iacopo Ravagnan, Franco Penzo
Coro delle donne
Alberta Duse, Maris Stella, Cristina Napoleoni, Sandra Sfriso,
Federica Zerbinato, Sandra Meneghini, Federica Boscolo, Barbara Luardi,
Barbara olante, Tiziana Passaler, Paola Penzo, Elisabetta Tonello,
Barbara Zattoni, Stefania Boscolo, Roberta Marangon, Emanuela Passaler
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1989-90 Le Troadi, Euripide
L’innocenza è la lancia più temibile, come la verità.
Per questo gli uomini la fuggono o tentano di annientarla.
Poseidone compiange Troia distrutta, annientata
dai Greci con l’aiuto di Atena. Ma proprio la dea
gli chiede di rovinare il ritorno in patria dei Greci,
colpevoli della violenza subita da Cassandra, rapita da Aiace nel suo tempio. Ecuba, disperata,
priva anche degli affetti familiari, apprende dall’araldo Taltibio il suo futuro di schiava di odis-
seo e l’uccisione del nipote Astianatte, cui dovrà
dare degna sepoltura. Accusa allora Elena di essere responsabile della fine di Troia. Dopo il rito
funebre, i Greci appiccano fuoco alla città ed
Ecuba assieme alle altre vedove, consumate da
lacrime e dolore, viene imbarcata in una nave diretta in Grecia. NP
Teatro “Don Bosco”, 31 maggio 1990
Regia
Scenografia, luci
e realizzazione
Direzione, luci
ed effetti speciali
Direzione audio
Tecnico audio
Trucco
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Ecuba
Cassandra
Andromaca
Elena
Taltibio
Menelao
Astianatte
Posidone
Atena
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo
Dino Boscolo Nata
Enrico Negro
Laura Pagiola
Giannino Crocco
Francesco Galera
Barbara Caielli
Elisabetta Tonello
Paola Penzo
Francesca Graziano
Renzo Cremona
Sandro Bighin
Riccardo Boscolo
Gianluca Salvagno
Tiziana Passaler
Coro delle donne
Roberta Antonucci, Marina Biazzi, Stefania Boscolo, Elisa Casson,
Isabella Cistulli, Jessica De Ambrosi, Stefania De Nevi, Barbara Luardi,
Roberta Marangon, Emanuela Passaler, Nicoletta Virdis, Barbara Zattoni,
Federica Zezza
65
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67
1990-91 Antigone, Sofocle
Solo la saggezza può condurre alla verità, ma ad essere saggi
si impara solo da vecchi e dopo aver molto sofferto
Creonte ha vietato la sepoltura di Polinice, il figlio
di Edipo che ha portato le armi contro Tebe. Antigone, sorella del defunto, infrange il decreto del
re, per portare a termine quello che ritiene il suo
dovere morale. Scoperto l'atto illegale, Creonte
condanna e rinchiude in una spelonca la povera
Antigone, perché vi muoia. Solo l’intervento del-
l'indovino Tiresia fa vacillare la sua ostinata difesa delle leggi della città, ma tardi. Antigone è
già morta. Emone, suo figlio, si toglie la vita, disperato per la perdita dell’amata, e la regina Euridice ne imita il gesto, sconvolta dalla morte del
figlio. Solo ora Creonte comprende il proprio errore. FBA
Teatro “Vittoria”, 14 giugno 1991
Collaborazione di
Scenografia, luci
e realizzazione
Direttore di scena
Direttore tecnico
Trucco
Costumi
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezioni varie
Attori
Antigone
Ismene
Creonte
Tiresia
Emone
Guardia
Nunzio
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo
Dino Boscolo Nata
Laura Pagiola
Centro Studi per il Teatro Classico
Giannino Crocco
Francesco Galera
Emanuela Passaler
Elisa Casson
Jacopo Ravagnan
Francesco Boscolo
Guerrino Brombo
Roberta Penzo
Diego Boscolo Scarmanati
Corifei
Jessica De Ambrosi, Anna Cerilli
Coro
Roberta Antonucci, Arianna Boscolo Palo, Marisa Boscolo, Silvia Boscolo,
Valeria Boscolo, Susanna Cavallarin, Maria Chiara Costa, Paola Grandis,
Tiziana Schioppa, Elena Ballarin, Gudrum Kirchberger
68
69
70
1991-92 Alcesti, Euripide
Ti ho preferito a me stessa, ti ho dato la vita, e morendo ti ho dato la luce.
Non ho voluto vivere senza di te
In cambio dell’ospitalità ricevuta, Apollo ha ottenuto dalle Moire che Admeto, re di Fere, possa
sfuggire alla morte, a patto che qualcuno si sacrifichi per lui. Ma nemmeno i genitori hanno accettato di farlo. Solo l'amata sposa Alcesti ha voluto
offrirsi. Il dio tenta invano di persuadere Thanatos a risparmiare la giovane donna. Un silenzio
angoscioso pervade la casa e un’ancella spiega ai
cittadini la commozione dell’eroica regina. Alcesti
entra in scena a vedere un’ultima volta la luce del
sole e chiedere ad Admeto eterna fedeltà. Poi
muore. Ma Eracle, ospite di Admeto, viene informato da un servo della morte della regina e riesce
a strapparla a Thanatos, restituendola velata allo
sposo, che non potrà parlarle prima del terzo
giorno. FD
Teatro “Don Bosco”, 8 giugno 1992
Regia:
Scenografia, luci
e realizzazione
Direttore di scena
Tecnico audio
Tecnico luci
Trucco
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezioni varie
Attori
Alcesti
Admeto
Ferete
Eracle
I ancella
II ancella
Figlio
Figlia
Thanatos
Apollo
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo
Dino Boscolo Nata
Gianna Sambo
Laura Pagiola
Giannino Crocco
Francesco Galera
Elisa Casson
Guerrino Brombo
Francesco Boscolo
M. Jacopo Ravagnan
Anna Cerilli
Jessica De Ambrosi
Martino Frizziero
Petra Frizziero
Arianna Boscolo
Ernesto Romano
Coro
Roberta Antonucci (capocoreuta), Fabiana Rossetto, Roberta Penzo,
Gianna Vido, Valeria Gianni, Genny Mantoan, Roberta Dolfin,
Valentina Bianchi, Tiziana Schioppa, Valeria Boscolo, Silvia Boscolo,
Mariachiara Costa, Luca Bacci
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1992-93 Il campiello, C. Goldoni
Bondì Venezia cara/ Bondì Venezia mia, / Venezziani zioria. / Bondì, caro Campielo: /
No dirò che ti zii brutto, né belo. / Ze brutto ti zé stà, mi me dezpiaze: /
No zé bel quel ch'è bel, ma quel che piaze.
In una piazzetta veneziana si svolge la vita quotidiana di un gruppo di famiglie popolane. Uomini e donne dirimpettai lavorano, giocano,
spettegolano, litigano, si corteggiano, mangiano
e bevono all'osteria, vivono una reciprocità fatta
di simpatie, gelosie, attriti caratteristici di un piccolo mondo circoscritto. Le giovani sognano un
marito, le madri vedove hanno fretta di sistemarle
per potersi risposare, i fidanzati gelosi si contrastano, disposti a riappacificarsi quando il cava-
liere Astolfi, Napoletano in Venezia per il Carnevale, offre loro di pranzare nella locanda al centro
della piazzetta. Il Cavaliere gode della compagnia
di questa umanità semplice e schietta e corteggia
Gasparina, che scopre figlia di un nobile sposato
a una Veneziana di rango ineguale. La sera la vicenda volge al termine: ogni contrasto si compone
e il cavaliere ottiene la mano e la dote di Gasparina, che saluta Venezia e il campiello prima di
partire con lui. SN
Teatro “Don Bosco”, 3 giugno 1993
Regia
Scenografia
Preside
Sezioni
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Francesco Galera
Varie
Attori
Gasparina
Donna Cate
Lucieta
Donna Pasqua
Gnese
orsola
Zorzetto
Anzoletto
Cavalier Astolfi
Fabrizio
Sansuga
Michla Alfiero
Michela Criscenti
Stefania Padoan
Francesca Cester
Arianna Saffayè
Abir Saffayè
Enrico Boscolo
Roberto Pilat
Samuele Gambaro
Massimo Fabris
Tiziana Boscolo
Partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza
74
75
1993-94 Ippolito, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 1 giugno 1994
Regia
Scenografia
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Ippolito
Teseo
Artemide
Afrodite
Fedra
Nutrice
Messaggero
Servo
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giannino Crocco
Francesco Galera
Ernesto Romano
Angelo Giambalvo
Monica Cavallarin
Adriana Romagnolo
Valeria Michelon
Valeria Gianni
Martino Frizziero
Marco Dal Maschio
Coro
Gianna Vido (capocoreuta), Valeria Agatea, Elide Boscolo,
Emanuela Bullo, Silvia Cavallarin, Roberta Dolfin, Chiara Manfrin,
Genny Mantoan, Annalisa Penzo, Federica Scarpa, Silvia Tiozzo,
Francesca Vianello
76
77
1994-95 Troiane, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 6 giugno 1995
Regia
Scenografia
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezione classica
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giannino Crocco
Francesco Galera
Partecipazione alla Rassegna Regionale
“Teatro dalla Scuola” di Vicenza e alla Rassegna
“Teatro Scuola” di Mirano Belvedere
78
1995-96 Le morbinose, C. Goldoni
So che m'avè burlà, frascone, stomegose / Lo so, siore spuzzette, che fe le morbinose
Un gruppo di donne veneziane, colpite nel periodo di carnevale dal “morbin”, provano a
prendersi gioco di un simpatico e benestante forestiero, il conte milanese Ferdinando, al quale
viene fatto sapere che una giovane si è innamorata di lui.
La giovane in questione è la bella Marinetta che,
con l’aiuto della fida cameriera Tonina, riuscirà a
compiere perfettamente lo scherzo. Ma Marinetta
finisce per innamorarsi per davvero… DV
Teatro “Don Bosco”, 7 maggio 1996
Regia
Scenografia
Preside
Sezioni varie
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Francesco Galera
79
1995-96 Le baruffe chiozzotte, C. Goldoni
Mì so, cossa ghe vorìa per giustarli.
Un pezzo de legno ghe vorìa. Ma averàve perso el divertimento
Gli uomini sono in mare. Le donne di famiglie vicine, prossime a imparentarsi, ne attendono l’arrivo, sedute per strada a ricamare e cucire.
Lucietta è gelosa nel sentire Checca chiedere del
suo fidanzato e Checca è indispettita da Toffolo
Marmotina, che offre a Lucietta zucca “barucca”.
Arrivano le barche e le donne vano incontro ai
mariti. Lucietta e Pasqua riferiscono a modo loro
l’accaduto. Monta la gelosia di Beppo, fidanzato
di orsetta. Le altre donne insinuano a Titta Nane
sospetti sul conto di Lucietta e Toffolo. Bersaglio
dei fidanzati gelosi, il povero Marmotina si di-
Teatro “Don Bosco”, 10 giugno 1996
Regia
Scenografia
Preside
Sezioni varie
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Francesco Galera
Primo premio alla regia alla Rassegna Regionale
“Teatro dalla Scuola” di Vicenza
80
fende a sassate e sporge denuncia contro gli assalitori. Isidoro, coadiutore del Cancelliere, interroga i testimoni separatamente: prima la
giovanissima Checca, poi orsetta, sicura e sveglia, infine donna Libera, che si finge sorda per
non dover dichiarare la propria età. Pasqua e Lucietta, convocate ma non interrogate, protestano,
sospettando un’ingiustizia. Gli animi non si placano: mentre Isidoro mette pace tra i fidanzati furiosi, una nuova “baruffa” scoppia tra le donne.
Solo l’autorità del coadiutore raccomoda infine
tutto. MS
1996-97 Alcesti, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 10 giugno 1997
Regia
Scenografia, luci,
realizzazione
Direttore di scena
Tecnico audio
Tecnico luci
Trucco
Costumi
Traduzione
e adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Alcesti
Admeto
Ancella
Eracle
Servo
Ferete
Apollo
Thanatos
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo
Dino Boscolo Nata
Gianna Sambo
Laura Pagiola, Teresa Ardizzon
Teresa Ardizzon
Giannino Crocco
Francesco Galera
Ilaria Padoan
Leonardo Romano
Annalisa Pelizza
Gino Adriani
Luca Fogo
Pietro Penzo
Simone Vianello
Elena De Ambrosi
Coro
Giovanna Boscolo (corifeo), Cristina Baccarin, Silvia Ferro, Evelin Felice,
Alessandra Fidelfatti, Cristiana Volpe, Roberta Tomasi, Laura Morelli,
Chiara Manfrin, Caterina Sambo, Miriam Vianello, Giovanna Bellemo
81
82
1997-98 Edipo re, Sofocle
Teatro del Museo Civico “S. Francesco fuori le mura”
12 giugno 1998
Regia
Scenografia, luci
e realizzazione
Tecnico di scena
Tecnici luci e suoni
Trucco
Traduzione e
adattamento
Preside
Sezione classica
Attori
Edipo
Giocasta
Creonte
Tiresia
Sacerdote
Servo
Nunzio
Messo
Cittadino
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo
Gianna Sambo, Dino Boscolo Nata
Laura Pagiola, Teresa Ardizzon
Giannino Crocco
Francesco Galera
Simone Vianello
Alessandra Fidelfatti
Luca Fogo
Pietro Penzo
Gino Adriani
Simone Boscolo
Luca Lunardi
Michele Daloiso
Alessio Padoan
Coro
Cristina Baccarin, Giovanna Bellemo, Cristina Bergamin, Paola Casadei,
Elisabetta Cattin, Beatrice Fabbri, Evelin Felice, Elena Gianni,
Laura Stefani, Miriam Vianello, Cristiana Volpe
83
84
1998-99 Sogno di una notte di mezza estate, Shakespeare
Ciò che il tuo occhio al risveglio vedrà, il tuo vero amore diventerà
Sullo sfondo della cornice del matrimonio di
Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle guerriere Amazzoni, si svolge l'amore di Lisandro e
Demetrio per Ermia, che ricambia il primo, ma
per volontà del padre deve sposare il secondo, di
cui è invece innamorata la bella Elena, sua amica.
Lisandro ed Ermia, innamorati, scappano nel
bosco e si perdono. oberon, re degli elfi, vuole punire la moglie Titania, regina delle fate, in seguito
a una disobbedienza: il folletto Puck deve spremerle sugli occhi il succo del fiore di Cupido, ma
l'incauto sbaglia e lo versa sugli occhi dell'addor-
mentato Lisandro, che si innamora di Elena. Intanto una scalcinata banda di artigiani vorrebbe
rappresentare la tragedia Piramo e Tisbe in occasione delle nozze di Teseo e Ippolita. Fra loro
spicca il simpatico Nick Bottom, di cui Titania si
innamora a causa del succo di Cupido. oberon,
realizzata la vendetta, rimette poi le cose a posto:
Lisandro e Demetrio si innamorano di nuovo rispettivamente di Ermia e di Elena. Si celebrano
così tre matrimoni e la tragedia di Piramo e Tisbe
viene simpaticamente rappresentata da Nick Bottom e i suoi amici. NZ
Teatro “Don Bosco”, 8-9 maggio 1999
Regia
Coordinamento
Preside
Sezioni varie
Franca Ardizzon Rossi
Nicoletta Gallimberti
Francesco Galera
85
1998-99 Ecuba, Euripide
Gli amici si riconoscono nei guai. Ce n’è fin troppi nella buona sorte
Ilio è crollata sotto le armi greche. Il re Priamo è
stato ucciso. La regina Ecuba e le donne troiane
sono ora schiave dei Greci, accampati sul Bosforo,
e Polissena, figlia di Ecuba, deve essere sgozzata
sulla tomba di Achille per propiziare un felice ritorno in patria. Straziata dalla perdita di tanti figli
maschi, Ecuba si vede sottrarre anche l’ultimo sostegno alla sua vecchiaia, quando viene a conoscenza di un’altra terribile sciagura: il giovane
figlio Polidoro è stato ucciso a tradimento per avidità dal re di Tracia Polimestore, che avrebbe dovuto ospitarlo lontano dalla guerra. Con l’aiuto
di Agamennone e delle schiave troiane, Ecuba,
esasperata, consuma la sua vendetta sui figli del
re tracio e su Polimestore stesso. La maledizione
sinistra di questi su Ecuba e Agamennone conclude il dramma. FDB
Teatro “Don Bosco”, 8-9 giugno 1999
Teatro “S. Martino”, 10 giugno 1999
Regia
Scenografia
Tecnici di scena
Musiche dal vivo
Strumentisti
Trucco
Costumi
Luci
Presentatrice
Adattamento
del testo
Preside
Sezione classica
Attori
Spettro di Polidoro
Ecuba
Polissena
odisseo
Taltibio
Ancella
Agamennone
Polimestore
Guardie del corpo
Figli di Polimestore
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata
Guida e arrangiamento musicale di Carlo oro
Silvio Camuffo (violino), Anna camuffo (flauto),
Serena de’ Perini (clarinetto),
Damiano Vianello (chitarra),
Carlo oro (violoncello)
Laura Pagiola
Alessandra Fidelfatti, Giovanna Bellemo
Monica Scarpa, Alessandro Gennaro
Stefania Zitta
Giuliano Marangon
Francesco Galera
Andrea Romagnolo
Paola Perrone
Paola Casadei
Simone Boscolo
Luca Lunardi
Elena Gianni
Michele Daloiso
Alessio Padoan
Alberto Perini, Daniele Mancuso
Antonio Peligra, Marco Bighin
Coro di prigioniere troiane
Laura Stefani, Stefania Ardizzon, Elena Boscolo Bielo, Giovanna Bellemo,
Cristina Bergamin, Miriam Vianello, Stefania Boscolo Zemello,
Melissa Boscolo Gallo, Anna Agatea, Angela Chiereghin, Cristina Caldin,
Lorenza Meneghello, Chiara Mantovan, Valeria Boscolo Bielo
86
87
1999-2000 Ione (“L’incontrato”), Euripide
Se la sventura piomba sulla casa, si trovi forza venerando il cielo:
al termine la sorte sarà buona per i buoni, maligna coi maligni
Creusa è figlia del re ateniese Erètteo. Sedotta da
Apollo, ha dato alla luce Ione, ma abbandonata dal
dio, ha esposto in una grotta il bimbo, portato a sua
insaputa all’oracolo di Delfi e allevatovi dalla Pizia.
Creusa ha poi sposato Xuto, nuovo re di Atene, al
quale non ha potuto dare figli. I due si recano a
Delfi, dove l’oracolo predice a Xuto che la prima
persona che incontrerà uscendo dal tempio sarà un
suo figlio. Egli incontra Ione e, convintolo di esserne il padre, lo conduce ad Atene per festeggiare.
Creusa lo crede frutto di un tradimento e decide di
avvelenarlo, ma il ragazzo, scoperto il piano, cerca
di uccidere la madre. Viene però fermato dalla
Pizia, che gli rivela d’averlo trovato nel tempio da
neonato e gli consegna il cesto e i gioielli con cui è
stato abbandonato e che Creusa riconosce, comprendendo di esserne la madre. Ione, dubbioso,
viene convinto da Atena, che, ex machina, gli rivela
la sua figliolanza divina e gli raccomanda di non
rivelare nulla a Xuto. La dea predice che dalla loro
famiglia avranno origine tutte le tribù ateniesi. PG
Teatro “Don Bosco”, 19-20 maggio 2000
Regia
Scenografia
Trucco
Luci
Tecnici di scena
Costumi
Presentatrice
Adattamento
del testo
Musiche dal vivo
Preside
Sezione classica
Attori
Ermete
Ione
Creusa
Xuto
Vecchio precettore
Servo di Creusa
Pizia
Atena
Servi del tempio di Delfi
Armigeri di Delfi
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Laura Pagiola
Gianna Sambo, Monica Scarpa
Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata
Giovanna Bellemo, Miriam Vianello
Lorenza Meneghello
Giuliano Marangon
Collaborazione degli “Amici della musica di Chioggia”
Enrico Varagnolo (flauto), Linda Varagnolo (Violoncello),
Ferdinando Aprile (clarinetto),
Federico Bazzarello (percussioni)
Francesco Galera
Alessio Padoan
Michele Daloiso
Giovanna Bellemo
Alessandro Gennaro
Andrea Romagnolo
Antonio Peligra
Cristina Bergamin
Paola Perrone
Daniele Boscolo, Massimiliano Tiozzo
Alberto Voltolina, Tommaso Signoretto
Coro di ancelle
Miriam Vianello (corifea), Elena Boscolo, Melissa Boscolo,
Stefania Boscolo, Cristina Caldin, Angela Chiereghin, Stefania Zitta
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2000-01 Elettra, Sofocle
Senza padre né madre mi consumo, senza l'aiuto di un amico: straniera, serva disprezzata,
vivo in casa di mio padre con logora veste; e in piedi mi cibo intorno a mense già vuote
oreste torna dopo molti anni a Micene con l'amico
Pilade e il Pedagogo, per vendicare, su ordine di
Apollo, la morte del padre Agamennone, ucciso
dalla moglie Clitemnestra e dall'amante Egisto. Il
Pedagogo diffonde la falsa notizia della sua morte
e Clitemnestra si crede al riparo dalla punizione
del suo tradimento. La figlia Elettra, al contrario,
si dispera: ha affidato oreste bambino al focese
Strofio, per sottrarlo al destino del padre, ed è vissuta per anni tra i soprusi, nella speranza di vederlo tornare a far giustizia. Si reca quindi a
piangere la sua sventura presso la tomba del padre,
dove il fratello le si appalesa e progetta con lei la
vendetta. Il giovane uccide senza pietà la madre
supplicante nel palazzo e trascina fuori scena l’accorso Egisto per eliminarlo. EZ
Teatro “Don Bosco”, 6-7 giugno 2001
Regia
Scenografia
Musica
Trucco
Luci
Tecnici di scena
Costumi
Presentatrice
Adattamento
del testo
Dirigente
Sezione classica
Attori
Pedagogo
oreste
Pilade
Elettra
Crisotemi
Clitemnestra
Egisto
Castore
Polluce
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria, Stefano Angarano, Antonio Peligra
Silvio Camuffo (violino), Anna Camuffo (clarinetto),
Enrico Varagnolo (flauto), Linda Varagnolo (violoncello)
Laura Pagiola
Gianna Sambo, Mitzi Trolese
Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata
Paola Perrone, Mirta Tresin
Gabriella Levantaci
Giuliano Marangon
Lalla Casetti
Stefano Angarano
Antonio Peligra
Giovanni Caruso
Paola Perrone
Stefania Zitta
Lorenza Meneghello
Alberto Voltolina
Samuele Busetto
Riccardo Vianello
Coro (donne di Micene)
Angela Chiereghin (corifeo), Fabiana Baldin, Cristina Caldin,
Chiara Mantovan, Anna Agatea, Diletta Perini, Annamaria Gennaro
Comparse
Ancella
di Clitemnestra
Valeria Boscolo
Servi di Oreste
Fabrizio Noto, Tommaso Signoretto
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2001-02 Baccanti, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 6-7 giugno 2002
Museo Diocesano, 10 giugno 2002
Kursaal, 13 dicembre 2002
Regia
Scenografia
Musica
Luci
Trucco
Costumi
Tecnici di scena
Adattamento
del testo
Presentazione
Dirigente
Sezione classica
Attori
Dioniso
Tiresia
Cadmo
Penteo
Guardia di Penteo
I messaggero
II messaggero
Agave
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria, Stefano Angarano
Anna Camuffo (clarinetto), Carlo M. Naccari,
Elisa Mazzotta (flauto), Ferdinando Aprile,
Mattia Palo, Serena De Perini (percussioni)
Gianna Sambo, Mitzi Trolese
Laura Pagiola, Salone New Style by Marika,
Annamaria Gennaro, Antonio Peligra, Diletta Perini
Dino Boscolo Nata, Giampaolo Penzo
Giuliano Marangon
Gabriella Levantaci
Lalla Casetti
Antonio Peligra
Alberto Voltolina
Andrea Venturini
Stefano Angarano
Riccardo Vianello
Diletta Perini
Daniele Boscolo
Fabiana Baldin
Coro delle Menadi d’Asia
Chiara Perini (corifea), Alessandra Ravagnan, Alessandra Uliana,
Annamaria Gennaro, Laura Perini, Laura Vido, Margherita Colombo,
Valentina Dascanio
Comparse
Guida di Tiresia
Guardia di Penteo
Servi di Cadmo
Giorgio Lunardi
Fabrizio Noto
Marco Bighin, Samuele Busetto
Primo premio per la migliore realizzazione alla
Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza
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2002-03 Rane, Aristofane
Non ha fatto vedere ruffiane, donne che partoriscono nei templi, che fanno l’amore coi fratelli,
che dicono che non è vita la vita? Ecco che la città è tutta piena di burocrati, che imbrogliano
ogni momento il popolo, e nessuno è più capace di fare la corsa delle fiaccole
I grandi tragici di Atene sono morti e Dioniso
scende nell’Ade per ridare un buon poeta a
un’Atene che ha bisogno di guide in un momento
tra i più cruciali della sua storia. Il dio varca la Palude Stigia con l’intenzione di riportare in vita il
grande Euripide e, dopo aver zittito un coro di rane
che gracidano un canto insopportabile in suo onore,
lo trova finalmente, intento a contendersi con
Eschilo il trono destinato al miglior tragediografo
di ogni tempo. Dioniso viene scelto quale giudice di
un agone poetico tra i due. Si contrappongono i contenuti e gli stili, si pesano con una bilancia i versi,
senza che uno dei due possa prevalere.
Finalmente si decide di premiare chi darà il consiglio politico più utile per Atene. Prevale Eschilo,
maestro di valori morali e civili. Dioniso sceglie perciò di far tornare tra i vivi lui, che lascia a Sofocle il
trono appena conquistato.
Liceo “Cagnazzi”, Altamura (BA), 27 maggio 2003
Teatro “Don Bosco”, 3-4 giugno 2003
Museo Diocesano, 10 giugno 2003
Teatro “S. Marco”, Vicenza, 27 settembre 2003
Regia
Scenografia
Musica
Trucco
Costumi
Tecnico luci
Tecnici di scena
Presentatrice
Interpretazione
e adattamento
Dirigente
Sezione classica
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria, Stefano Angarano, Antonio Peligra
Serena De Perini (sassofono), Elisa Mazzotta (flauto),
Mattia Boscolo Palo (percussioni)
Laura Pagiola
Annamaria Gennaro, Diletta Perini
Gianna Sambo
Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata
Ilaria Boscolo Gallo
Giuliano Marangon
Lalla Casetti
Attori
Xantia
Dioniso
Eracle
Un morto
Caronte
Eaco
Claudio Donaggio
Antonio Peligra
Stefano Bellemo
Tania Tommasin
Alberto Boscolo Zemelo
Riccardo Vianello
Serva di Proserpina
ostessa
Scodella
Serva di Plutone
Euripide
Eschilo
Plutone
Federica Penzo
Diletta Perini
Mitzi Trolese
Annamaria Gennaro
Alberto Voltolina
Stefano Angarano
Federico Resler
Coretto delle Rane
Melania Ballarin, Margherita Colombo, Paola Roberta Boscolo, Laura Vido
Coro degli Iniziati
Diletta Perini (corifea), Laura Perini, Erika Boscolo Cegion, Andrea Pregnolato,
Valeria Gentilini, Sofia Tiozzo Pezzoli, Angelo Mazzeo
Comparse
Servi dell’Ade
Suonatrice di nacchere
Bilancia
Ferdinando Aprile, Roberto Palini
Elisa Malusa
Marco Bighin
Primo premio alla Rassegna Internazionale di Teatro Classico di Altamura (BA)
Premio per la migliore interpretazione collettiva e riconoscimento per l’interpretazione individuale
di Stefano Angarano alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza
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2003-04 Ifigenia in Aulide, Euripide
“Padre, sono pronta, questo corpo l’offro per la mia patria, per la Grecia, in sacrificio all’ara
della dea, se è questo il volere divino”. Questo disse e stupì tutti a sentirla,
al suo coraggio e alla sua virtù…
La flotta greca è pronta a spiegare le vele alla volta
di Troia, ma Artemide non concede i venti necessari alle navi, bloccate in Aulide. L’indovino Calcante rivela ad Agamennone che la dea diverrà
benevola solo quando le sarà stata sacrificata Ifigenia, sua figlia. Il re invia allora un messaggero alla
moglie Clitemnestra, affinché porti in Aulide la figlia, col pretesto di darla in sposa ad Achille. Giun-
gono le donne, convinte di celebrare le nozze, ma
un incontro casuale con Achille svela alla madre
l’inganno. Per difendere la fanciulla, Achille è
pronto a schierarsi contro l’intero esercito greco,
ma Ifigenia decide di immolarsi. Al momento del
sacrificio Artemide accoglie la giovane tra gli dei e
la sostituisce con una cerva. L’esercito può finalmente salpare. FV
Teatro “Don Bosco”, 21-22 maggio 2004
Museo Diocesano, 3 giugno 2004
Regia
Scenografia
Musica
Trucco
e acconciatura
Costumi
Luci
Tecnico di scena
Presentatrice
Traduzione
e adattamento
Dirigente
Sezione classica
Attori
Agamennone
Vecchio servo
Menelao
Clitemnestra
Ifigenia
Achille
I messaggero
II messaggero
oreste
Franca Ardizzon Rossi
Paolo Doria
Elisa Malusa (tastiera), Stefanie Pittoni (violino),
Ferdinando Aprile (tromba),
Mattia Boscolo (percussioni)
Laura Pagiola
Margherita Colombo, Laura Vido,
Gabriella Forzato, Luca Mancin
Gianna Sambo
Giampaolo Penzo
Tania Tommasin
Giuliano Marangon
Lalla Casetti
Andrea Pregnolato
Stefano Bellemo
Alberto Boscolo
Laura Vido
Margherita Colombo
Claudio Donaggio
Elisa Mazzotta
Sofia Tiozzo
Pietro Boscolo
Coro di donne aulidensi
Martina Boscolo, Paola Roberta Boscolo, Valeria Gentilini, Bianca Ferrarese,
Francesca Siviero, Silvia Verì
Coro di Argivi
Ferdinando Aprile, Angelo Mazzeo, Federico Griguolo, Daniele Papa
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2004-05 Medea, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 9-10 giugno 2005
Museo Diocesano, 10 giugno 2005
Regia
Coreografia
Scenografia
Musica
Trucco
e acconciature
Costumi
Luci
Tecnico di scena
Collaborazione
Adattamento
del testo
Dirigente
Sezione classica
Attori
Nutrice
Pedagogo
Medea
Creonte
Giasone
Egeo
Nunzio
Figli di Medea
Figlia di Creonte
Franca Ardizzon Rossi
Rita Zambon
Paolo Doria
Martina Boscolo (pianola),
Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso),
Stefanie Pittoni (violino)
Laura Pagiola
Milva Lanza
Gianna Sambo
Gianpaolo Penzo
Aldo Bottaro, Francesca Rubin,
“Piccolo Teatro Città di Chioggia”
Susi Boscarato
Lalla Casetti
Paola Roberta Boscolo
Daniele Papa
Elisa Mazzotta
Mattia Boscolo
Federico Griguolo
Sebastian Bono
Francesca Siviero
Francesco Boscolo Lisetto, Francesco Voltolina
Anna Boscolo
Coro di donne corinzie
Federica Bassano, Marianna Bighin, Alessia De Stefani, Bianca Ferrarese,
Francesca Lanza, Francesca Padoan, Cristina Penzo, Valeria Rosteghin,
Eleonora Schittullo, Silvia Verì
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2005-06 Ippolito, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 25-26 maggio 2006
Museo Diocesano, 9 giugno 2006
Regia
Coreografia
Scenografia
Musiche dal vivo
Trucco
e acconciature
Costumi
Luci
Tecnico di scena
Presentatrici
Adattamento
del testo
Dirigente
Sezione classica
Attori
Afrodite
Ippolito
Servo
Nutrice
Fedra
Teseo
Messo
Artemide
Franca Ardizzon Rossi
Rita Zambon
Paolo Doria
Giacomo Bighin (chitarra),
Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso),
Stefanie Pittoni (violino)
Laura Pagiola
Milva Lanza
Gianna Sambo
Giampaolo Penzo
Sandra Boscarato, Alessandra Lionello
Susi Boscarato
Lalla Casetti
Francesca Padoan
Lorenzo Morini
Simone Cester
Francesca Rubin
Federica Bassano, Cristina Penzo
Lorenzo Soncin
Bianca Ferrarese
Marianna Bighin
Coro donne di Trezene
Alessia De Stefani (corifea), Valeria Rosteghin (corifea), Elena Bellemo,
Claudia Bighin, Anna Boscolo, Annalisa Boscolo, Veronica Cecchini,
Laura Mazzaro, Sara Naccari, Valentina Varagnolo
Coro di cacciatori di Trezene
Francesco Bullo, Matteo Colombo, Alessandro Donin, Giorgio Lunardi
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2006-07 Antigone, Sofocle
Teatro “Don Bosco”, 28-29 maggio 2007
Museo Diocesano, 8 giugno 2007
Regia
Coreografia
Scenografia
Musica
Acconciature
e trucco
Costumi
Luci
Traduzione
e adattamento
Coordinamento
Riprese e foto
Dirigente
Sezione classica
Attori
Antigone
Creonte
Ismene
Emone
Euridice
Guardia
Tiresia
Messaggero
Guardie
Fanciullo
Franca Ardizzon Rossi
Patrizia Aricò
Paolo Doria
Andrea Chinaglia (pianoforte),
Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso)
Laura Pagiola, Sara Scarpa
Cristina Boscolo
Luca Ballarin, Damiano Cavallarin
Susi Boscarato
Roberto Vianello
Marco Boscolo Anzoletti
Lalla Casetti
Francesca Rubin
Salvatore Liccardo
Giulia Elardo
Giovanni Zennaro
Veronica Cecchini
Francesco Bullo
Carlo Zennaro
Elena Bellemo
Carlo Alberto Soncin, Marco Zennaro
Anna Bellemo
Coro di vecchi Tebani
Claudia Bighin, Caterina Colombo, Alessandra Deotto, Ylenia Duse,
Laura Mazzaro, Micol Nordio, Valentina Naccari, Ludovico Scarpa,
Benedetta Trolese, Carlo Trolese, Valeria Tiozzo, Federico Voltolina
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2007-08 Alcesti, Euripide
Teatro “Don Bosco”, 29-30 aprile 2008
Teatro antico di Àkrai, Palazzolo Acreide (SR), 19 maggio 2008
Museo Diocesano, 6 giugno 2008
Regia
Coreografia
Scenografia
Musica
Trucco
e acconciature
Luci
Tecnici di scena
Costumi
Traduzione
e adattamento
Coordinamento
Riprese e foto
Dirigente
Sezione classica
Attori
Alcesti
Admeto
Apollo
Thanatos
Ancella di Alcesti
Eracle
Ferete
Servo
Servo di Ferete
Alcesti velata
Figli
Franca Ardizzon Rossi
Patrizia Aricò
Paolo Doria, alunne II e III Classico
Andrea Chinaglia (pianoforte)
Sara Scarpa
Patrizia Aricò
Giampaolo Penzo, Francesco Bullo
Patrizia Aricò
Susi Boscarato
Roberto Vianello
Marco Boscolo Anzoletti
Lalla Casetti
Inessa Baldin
Giovanni Zennaro
Claudia Bighin
Caterina Colombo
Laura Mazzaro
Carlo Trolese
Ludovico Scarpa
Damiano Cavallarin
Riccardo Trevisan
Laura Mazzaro
Marta Vianelli, Fiorenza Vianello
Coro dei cittadini di Fere
Benedetta Trolese (corifeo), Ilaria Dal Borgo, Lorenzo Rosteghin,
Carlo Alberto Soncin, Anna Maria Tiozzo, Beatrice Veronese, Monica Voltolina
Partecipazione al XIV Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani,
Palazzolo Acreide (SR)
Collaborazione del sig. Franco Storchi per l'incisione delle musiche eseguite nel
Teatro antico di Àkrai
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2008-09 Alcesti o La recita dell’esilio, Giovanni Raboni
Io sono vecchio, tu sei giovane, ma entrambi credo, siamo adulti e letterati quanto basta
per mutare con l’aiuto del tempo, in una specie di dolcezza, anche la più atroce delle colpe
Mentre aspettano di imbarcarsi su una nave per
fuggire dal loro paese, l’anziano Simone, suo figlio
Stefano e la nuora Sara si rifugiano in un teatro.
La città è controllata dai miliziani del regime e i tre
cercheranno altrove la libertà. I posti a bordo della
nave, però, sono solo due, ha comunicato un misterioso Custode. Mentre la donna, ignara, ritrova
le sue memorie perlustrando quel teatro, in cui ha
debuttato come Ancella nell'Alcesti di Euripide,
padre e figlio provano a decidere chi dovrà sacrificarsi, affrontandosi in una lite colma di antichi rancori. Una specie di roulette russa, stabiliscono,
sorteggerà tra i due chi debba partire con Sara. Ma
la donna, che li ama entrambi, preferisce abbandonare il rifugio per salvarli. Facilmente rassegnati, i
due partono con una Regina velata somigliante a
Sara, portando con sé il rimorso e la vergogna
d’avere potuto accettare il sacrificio di lei. DB
Teatro “Don Bosco”, 8-9 maggio 2009
Museo Diocesano, 5 giugno 2009
Regia
Coreografia
Musica
Trucco
e acconciature
Tecnico di scena
Luci
Adattamento
del testo
Coordinamento
Riprese
Foto
Dirigente
Sezione classica
Attori
Sara
Stefano
Simone
Custode
Franca Ardizzon Rossi
Patrizia Aricò
Andrea Chinaglia (pianoforte)
Sara Scarpa
Francesco Bullo
Patrizia Aricò
Franca Ardizzon Rossi, Patrizia Aricò,
Roberto Vianello
Roberto Vianello
Paolo Serafini
Giuseppe Doria, Marco Boscolo Anzoletti,
Sergio Piva, Roberto Vianello
Luigi Zennaro
Brigitta Casula
Damiano Cavallarin
Leonardo Fornaro
Federico Boscolo Soramio
Coro
Chiara Ravagnan (corifea), Luca Ballarin, Idil Besen, Elisa Boscolo, Giulia Boscolo,
Ilaria Conselvan, Cristina Dal Gesso, Giulia D’Arrigo, Benedetta Doria,
Ilaria Marcato, Alessandra Pescara, Giulia Ravagnan, Carlo Alberto Soncin
Autorizzazione alla messa in scena e all'inserimento di momenti coreutici di Patrizia
Valduga, vedova Raboni
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2009-10 Agamennone, Seneca
Tutto ciò che la Fortuna porta in alto, lo eleva per farlo precipitare
Agamennone sta per tornare vincitore, dopo aver
distrutto Troia, la più potente città dell’Asia. Ma la
sposa Clitemestra sta progettando la sua morte con
l’amante Egisto, figlio incestuoso di Tieste e della
figlia Pelopia. Dopo dieci anni di guerra e una disastrosa tempesta di mare, che ha ucciso tanti eroi,
la sua vittoria sta per essere definitivamente vanificata. Durante il banchetto, mentre indossa una
veste da cui fatica a liberare le braccia, viene colpito
al fianco con la spada da Egisto e riceve il colpo finale da un’ascia bipenne brandita dalla moglie Clitemestra. Cassandra, prigioniera troiana e
concubina del re, ne descrive l’uccisione dall’esterno del palazzo, in un momento di furore profetico. I destini si rovesciano. Troia risorge e la
vincitrice Micene conosce a sua volta la rovina. Ma
la vendetta si abbatterà presto sugli assassini. FLT
Teatro “Don Bosco” 7-8 maggio 2010
Museo Diocesano 5 giugno 2010
Regia
Coreografia
Scenografia
Musica
Trucco
Costumi
Traduzione, adattamento
e coordinamento
Riprese
Foto
Dirigente
Sezione classica
Attori
ombra di Tieste
Clitemestra
Nutrice
Egisto
Euribate
Cassandra
Agamennone
Elettra
Strofio
Guardie
oreste
Franca Ardizzon Rossi
Patrizia Aricò
Paolo Doria
Andrea Chinaglia (pianoforte)
Sara Scarpa
Patrizia Aricò, Genny Tiozzo
Roberto Vianello
Paolo Serafini
Marco Boscolo Anzoletti
Luigi Zennaro
Riccardo Fabris
Giorgia De Bellis
Maria Bellemo
Francesco Giuriato
Giuseppe Doria
Anna Baldin
Alberto Ranieri
Benedetta Fasolato
Lorenzo Zennaro
Davide Vianello, Niccolò Zampaolo
Francesco Maria Tiozzo
Coro delle donne di Micene
Elisa Dughiero, Gaia Naccari, Alessia Penzo, Giulia Spanio,
Giulia Verì, Benedetta Vianello
Coro delle donne di Troia
Francesca Donà, Barbara Penzo, Marta Salvagno, Francesca Venerucci, Eleonora Zucconi
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Mentre questo volume va in stampa,
si è già tenuta la prima delle Coefore di Eschilo.
Forniamo di seguito la locandina,
i dati e le immagini di questa ultima fatica.
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2010-11 Coefore, di Eschilo
Non si possono tradire i giuramenti. Meglio avere nemici gli uomini tutti, anziché gli dei
oreste torna ad Argo in compagnia del fido Pilade,
a vendicare per ordine di Apollo l’uccisione del
padre Agamennone e sopprimerne gli assassini: la
madre Clitemnestra e l’usurpatore Egisto. Alcune
donne in vesti scure, guidate dalla sorella Elettra,
portano alla sepoltura del sovrano recipienti per libagioni e corone di fiori: un sogno spaventoso ha
infatti indotto la regina a inviarle a libare sul tumulo, per acquietare con un rito lo sposo ucciso. Il
giovane si rivela alla sorella, pregandola di non tradirlo. Si finge straniero e annuncia falsamente la
morte di oreste lontano. Ricevuta ospitalità, uccide
con la spada Egisto, ingannato e disarmato. È poi
la volta della madre, che invano implora il figlio
d’aver pietà del seno che lo ha allattato: costretto a
fare giustizia dalla volontà di Apollo, il figlio la trascina nel palazzo e la uccide. I cittadini ne approvano il gesto, ma egli vede le Erinni della madre
che si accingono a perseguitarlo. Sono donne spaventose come Gorgoni, avvolte da serpi attorcigliate fino alle chiome. oreste, inseguito, deve
fuggire.
Teatro “Don Bosco” 6-7 Maggio 2011
Museo Diocesano 3 Giugno 2011
Regia
Coreografia
Scenografia
Traduzione
e adattamento
Musiche
Trucco
e acconciature
Pieghevoli di sala
Coordinamento
Foto
Dirigente
Sezione classica
Attori
oreste
Pilade
Elettra
Custode
Franca Ardizzon Rossi
Patrizia Aricò
Dino Memmo, Paolo Doria
Susi Boscarato
Francesco Bertotto
Sara Scarpa
Jacopo Ghirardon, Pietro Gradara
Roberto Vianello
Marco Boscolo Anzoletti
Luigi Zennaro
Barbara Penzo
Davide Vianello
Benedetta Vianello
Niccolò Zampaolo
Clitemnestra
Cilissa
Egisto
Francesca Venerucci
Eleonora Zucconi
Emilio Filippo Penzo
Coro di anziani di Argo
Filippo Boscolo Anzoletti, Andrea Nordio, Stefano Nordio, Niccolò Piu
Coro delle coefore
Daisy Boscolo, Francesca Donà, Marta Salvagno (corifee), Federica De Boni,
Maria Chiara De Perini, Sonia Donà, Francesca La Tanza, Francesca Pagan
Erinni
Alessia Camuffo, Benedetta Fornaro, Gloria Scarpa, Sara Zennaro
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Il Liceo Classico
“GIUSEPPE VERONESE”
presenta
VENERDÌ 6 MAGGIO 2011 - ore 21.00
Teatro “Don Bosco” - CHIOGGIA
di Eschilo
Oreste - Barbara Penzo
Pilade - Davide Vianello
Elettra - Benedetta Vianello
Custode - Niccolò Zampaolo
Clitemnestra - Francesca Venerucci
Cilissa - Eleonora Zucconi
Egisto - Emilio Filippo Penzo
Coro di anziani di Argo
Filippo Boscolo Anzoletti, Andrea Nordio,
Stefano Nordio, Niccolò Piu
Coro delle coefore
Daisy Boscolo Marchi, Francesca Donà,
Marta Salvagno (corifee), Federica De Boni,
Maria Chiara De Perini, Sonia Donà,
Francesca La Tanza, Francesca Pagan
Erinni:
Alessia Camuffo, Benedetta Fornaro,
Gloria Scarpa, Sara Zennaro
Regia - Franca Ardizzon Rossi
Coreografia - Patrizia Aricò
Scenografia - Dino Memmo, Paolo Doria
Traduzione e adattamento - Susi Boscarato
Musiche - Francesco Bertotto
Trucco e acconciature - Sara Scarpa
Pieghevoli di sala - Jacopo Ghirardon, Pietro Gradara
Coordinatore del progetto - Roberto Vianello
Lo spettacolo verrà replicato per gli amici
presso il Museo Diocesano
VENERDÌ 3 GIUGNO - ore 21.30
Nell’occasione della replica verrà presentato il volume
“25 anni di Teatro Classico a Chioggia”
pubblicato con il contributo di: Città di Chioggia, Provincia di Venezia, Fondazione della Comunità Clodiense, Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco, Cassa di Risparmio di Venezia, Lions Club di Chioggia-Sottomarina.
Città di
Chioggia
130
Provincia di
Venezia
LIONS
CLUB
CHIOGGIA
SOTTOMARINA
131
132
Ringraziamenti
Il Liceo “Veronese” ringrazia i molti
alunni, genitori e amici che, contattati in
occasione delle celebrazioni del Venticinquesimo, hanno collaborato con entusiasmo, fornendo materiali, testimonianze
e informazioni indispensabili per la ricostruzione della storia presentata in questo volume. Vogliamo ringraziare anche
i molti che, non più provvisti di materiali, hanno tuttavia guardato con interesse e simpatia alla nostra iniziativa
celebrativa, incoraggiando il non agevole
lavoro di restituzione.
Un grazie particolare al prof. Carmelo
Alberti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ci ha consentito di pubblicare
nel presente volume il suo intervento
nella giornata delle celebrazioni, tenutasi
il 15 maggio 2010 presso l’Auditorium di
Calle San Nicolò, aiutandoci così a leggere in prospettiva attualizzante l’eredità
del teatro antico.
La nostra gratitudine va doverosamente
estesa agli Enti che hanno patrocinato e
supportato economicamente la realizzazione di questo volume: in primo luogo la
Città di Chioggia, nelle persone dell’allora
Sindaco, dott. Romano Tiozzo, e dell’allora
Assessore Nicola Boscolo Pecchie; a seguire
la Provincia di Venezia, La Banca di Credito
Cooperativo di Piove di Sacco, la Cassa di
Risparmio di Venezia, il Lions Club, il Rotary Club, la Fondazione Clodiense.
Grazie ai docenti e agli ex docenti che
hanno collaborato in vario modo a questa ricostruzione della memoria teatrale
del Liceo Classico: i proff. Patrizia Aricò,
Susi Boscarato, olimpia Capodanno,
Giannino Crocco, Alessandra Lionello,
Giuliano Marangon, Dino Memmo.
Siamo riconoscenti a don Vincenzo Tosello, direttore di “Nuova Scintilla”, che
ci ha fornito alcune importanti informazioni dall'archivio del settimanale.
Grazie agli alunni della II Classico 20092010, che hanno riassunto le trame dei
drammi. I loro nomi, richiamati dalle
sole iniziali nel testo, sono nell’ordine:
Benedetta Vianello, Barbara Penzo, Francesco Bertotto, Maria Chiara De Perini,
Niccolò Piu, Filippo Boscolo Anzoletti,
Francesca Donà, Stefano Nordio, Davide
Vianello, Marta Salvagno, Niccolò Zampaolo, Federica De Boni, Pietro Gradara,
Eleonora Zucconi, Francesca Venerucci,
Daisy Boscolo, Francesca La Tanza.
Un ringraziamento sincero, infine, al
nostro Dirigente, dott. Luigi Zennaro,
che ha fortemente appoggiato l’iniziativa di questa pubblicazione, prodigandosi per sciogliere le molte difficoltà
economiche e organizzative che l’hanno
accompagnata.
135
Indice
Prefazione
pag.
3
Presentazione
”
5
Venticinque anni di storia
”
7
Celebrazione del Venticinquesimo
”
15
Testimonianze
”
25
Le rappresentazioni
”
53
Ringraziamenti
”
135
Provincia di Venezia
Città di Chioggia
Rotary Club Chioggia
Lions Club Chioggia
Finito di stampare nel mese di maggio 2011
da
in Piove di Sacco - tel. 049 9704497
per conto di