I.I.S. “Giuseppe Veronese” Venticinque anni di Teatro Classico a Chioggia a cura di Roberto Vianello e Maurizio Sfriso Prefazione La Fondazione della Comunità Clodiense, intendendo perseguire i suoi obiettivi primari di incentivazione e sostegno di iniziative atte allo sviluppo economico-sociale e culturale della Comunità locale, finora ha sempre cercato di assecondare con particolare vicinanza e interesse quelle iniziative nate dal mondo dei giovani ed in particolare della scuola. Nell’ambito dei bandi promossi dalla Fondazione per progetti di utilità sociale e culturale, numerosi sono stati i temi proposti da scuole di diverso livello che sono stati giudicati di reale interesse, e pertanto gratificati della nostra compartecipazione al progetto e, pertanto, sostenuti con l’erogazione di contributi in misura compatibile con le risorse disponibili. Nel caso specifico della ricorrenza dei 25 anni dedicati al teatro classico dal Liceo “Veronese” di Chioggia, il progetto di predisporre la pubblicazione di un libro, che espressamente raccolga in immagini e scritti il senso profondo dell’attività svolta nel corso degli anni insieme da studenti e corpo insegnante, non poteva che essere accolto con particolare favore da me personalmente e dalla Fondazione della Comunità Clodiense tutta. È indubbio che questa iniziativa va innanzi- tutto a cogliere il meritorio obiettivo di crescita culturale e partecipativa dell’intera Comunità locale, in quanto dà continuità ed attualità ad un teatro classico che per le sue caratteristiche presenta peculiarità di linguaggio, espressione e tematiche che continuano ancor oggi ad essere considerate alla base della cultura europea. Inoltre appare sicuramente importante il carattere identitario del Liceo “Veronese” che risulta emergere dalla scelta fatta ben 25 anni fa di allestire ogni anno una rappresentazione teatrale che, proprio per le complesse caratteristiche tematiche, sceniche ed organizzative, non risulta sicuramente né di facile né di semplice esecuzione. Che questo specifico carattere identitario, peraltro largamente riconosciuto in città, trovi un riscontro di analisi e sintesi in un libro appositamente dedicato al teatro classico rappresentato dal Liceo “Veronese” non può che essere per la Fondazione della Comunità Clodiense un’importante occasione per riaffermare la partecipazione e condivisione di un evento destinato a consolidare e verificare un’iniziativa che si presenta per la sua originalità come unica per Chioggia. Il Presidente Boscolo Angelo Sesillo 3 Presentazione Proporre delle riflessioni che servano da presentazione a un libro come questo è impresa assai ardua: sono qui raccolti venticinque anni di impegno di docenti della scuola, di tanti amici che ci hanno aiutato e soprattutto di studenti, di venticinque annate di alunni di terza classico che, anno dopo anno, hanno impiegato il loro tempo per la rappresentazione della tragedia che stavano leggendo in classe (tanto tempo, e soprattutto prezioso, nel loro ultimo anno di scuola, con l’esame alle porte). Per questo abbiamo deciso di scriverla in due questa prefazione (chi ha guidato la scuola negli anni della nascita e poi della maturazione di questa impresa e chi la sta guidando ora, negli anni di questo venticinquesimo anniversario), consapevoli della difficoltà di abbracciare e raccogliere con le nostre parole tutta la ricchezza qui contenuta. È ovvio che ciascuno di noi, sfogliando il volume ormai in bozze, avrebbe le sue proprie riflessioni da proporre, i suoi propri ricordi: gli anni dell’avvio del progetto, i protagonisti di allora, gli attori di quelle prime rappresentazioni (alcune veramente memorabili), la fatica di rendere stabile, annuale la rappresentazione teatrale (addirittura con l’idea di dar vita a un “Centro Studi per il Teatro Classico”) avrebbero bisogno di pagine e pagine per essere raccontati dal primo di noi; necessiterebbero invece di minor spazio la storia recente della celebrazione del venticinquesimo, le novità di questi ultimi anni e gli interrogativi sul futuro che sono nel cuore del secondo di noi. Ma nello spazio breve di questa introduzione ci limitiamo solo a esprimere la nostra soddisfazione nel vedere documentata in modo così elegante questa parte di storia della nostra scuola; siamo orgogliosi di questi venticinque anni e di essere anche noi tra i protagonisti. Ci auguriamo che questo serva da stimolo per tutte le rappresentazioni teatrali che verranno e per tutti i nostri alunni che saliranno sul palcoscenico: perché una scuola che guarda al futuro deve avere solide radici nel suo passato e nella sua storia. Mentre facciamo nostri i ringraziamenti a istituzioni, enti, banche già espressi nell’ultima sezione del volume, vogliamo manifestare la nostra gratitudine anche ai due curatori, il prof. Roberto Vianello e il prof. Maurizio Sfriso, senza il lungo lavoro e la paziente precisione dei quali quest’opera non sarebbe mai stata pubblicata. Francesco Galera (preside dal 1980 al 2000) Luigi Zennaro (preside dal 2008 a oggi) 5 Venticinque anni di storia Roberto Vianello Il teatro antico – quello greco in particolare – ci ha lasciato un patrimonio di storie, di situazioni, di temi che ci parlano ancora dopo venticinque secoli. Si tratta di storie che « non avvennero mai, ma sono sempre » – direbbe Calasso, prendendo a prestito le parole di un antico1: storie, cioè, che hanno ancora qualcosa da dirci, hanno sempre prospettive di riflessione da suggerirci. Queste storie restano costitutive della nostra civiltà. E sono ovviamente parte importante degli studi nei Licei Classici. Ma da un quarto di secolo sono diventate il centro di una attività speciale degli studenti del nostro Classico, che non si limitano a studiarle, ma le fanno rivivere sulla scena e le offrono alla riflessione dei compagni e della Città. Venticinque anni fa – un Giovedì mattina – andava in scena al teatro “Astra” di Chioggia Edipo re, il dramma della sciagurata indagine del re di Tebe, quale ci è stata tramandata da Sofocle. Erano le dieci del 12 giugno 1986 e gli studenti del triennio del Classico facevano rivivere il parricidio e l’incesto del nuovo re di Tebe e la terribile, lenta presa di coscienza della sua colpevolezza, come mai s’era potuto vedere nella nostra città. Quella mattina accadeva qualcosa di insolito per i nostri liceali. I versi greci, prima confinati nelle pagine dei libri di scuola, prendevano vita; la vicenda narrata da quel testo, antico e difficile, per la prima volta si faceva davvero dramma, azione scenica, nel contesto più simile a quello per cui era stata pensata duemilacinquecento anni prima. Si realizzava fi- nalmente un’iniziativa volenterosa, tante volte accarezzata. Una novità assoluta per gli studenti chioggiotti. L’inizio di qualcosa di nuovo anche per la Città, dove forse mai s’era potuto assistere alla rappresentazione di una tragedia greca. Il prof. Crocco, che aveva ideato questo modo per noi nuovo di fare scuola, non pensava – probabilmente – che la sua iniziativa si sarebbe imposta poi con l’evidenza di una necessità. Non immaginava che gli studi classici a Chioggia avrebbero finito per identificarsi con questa esperienza teatrale, per la quale anche ci si iscrive oggi al Liceo Classico. Eppure da allora ogni anno, per un anno intero, si è costantemente ripetuta l’esperienza faticosa ed esaltante del dar vita a quel che si studia. Gli alunni hanno avuto il coraggio – e la bravura – di portare in scena la più difficile drammaturgia del passato. Questa attività drammatica non ha certo sostituito lo studio dei testi, che già prima si approfondivano. Ma vi si è affiancata, via via, come strumento euristico alternativo, come mezzo per individuare, per comprendere sul campo, il senso vero delle parole, delle battute, mettendone alla prova la pronunciabilità e l’efficacia. Certo l’analisi, la considerazione attenta di testo e contesto, possono bastare ad attingere quel significato. Altra cosa, però, è dargli corpo in scena, dargli vita. Lasciarlo emergere nel suo attuarsi drammatico, scoprirlo e renderlo compatibile con la situazione. Sia qui lecito un solo esempio, tratto dall’esperienza dell’ultima rappresentazione. Durante le prove dell’Agamennone di Se- 7 neca un’alunna ha improvvisamente compreso da sola che l’intonazione, con cui aveva sino ad allora pronunciato una breve battuta, risultava fuori contesto. Il modo sfrontato, con cui aveva detto fino a quel momento « Concedimi di morire» al suo antagonista Egisto, le è apparso improvvisamente del tutto inadeguato alla situazione, quale si stava sviluppando nell’interazione col compagno. Quel che lo studio del testo, insomma, non aveva permesso ancora di interiorizzare, veniva compreso a volo in situazione. Un risultato – ci pare – per nulla trascurabile nella sua apparente naturalezza ed emblematico della nostra attività teatrale, fin dall’inizio intesa all’intelligenza profonda dei testi antichi. Eppure risultati del genere, costitutivi della ragion d’essere del laboratorio teatrale, non esauriscono le sue molteplici possibilità, rilevanti sul piano formativo e culturale, risultate evidenti da subito e ben individuate dal prof. don Giuliano Marangon nel libro dedicato al Cinquantenario del Liceo “Veronese” 2 . Il professore, a lungo animatore dell’attività drammatica del Liceo, registra tra i suoi frutti meritori l’abitudine alla fedeltà agli appuntamenti impegnativi, l’impegno a concretizzare la complementarità nei ruoli della recitazione, l’acquisizione di un rigore mnemonico necessario per il rispetto filologico del testo, lo sviluppo di potenzialità individuali (prodursi in pubblico, tornire il linguaggio, diventare qualcuno interpretando un personaggio); e ancora il piacere di lavorare con i propri pari, la cura e lo sviluppo di competenze trasversali, anche non contemplate dalla normale attività didattica (musica, danza, gestualità, ortoepia, manualità), la possibilità di temprare il carattere in prospettiva ottimistica. Nell’interazione tra giovani e adulti, insomma, l’allestimento della tragedia 8 coinvolge abilità, sensibilità, creatività diverse, protese insieme al conseguimento dell’obiettivo finale. È, da questo punto di vista, una grande scuola di vita. Gli studenti sono condotti a spendersi in prima persona nella soluzione dei problemi più disparati e vedono in gioco idee, proposte, ipotesi di soluzione, risultati, fallimenti, necessità di alternative… Una macchina complessa di tentativi reiterati per un’attività di soluzione di problemi sul piano del fare. I giovani vi partecipano efficacemente e originalmente, secondo le loro attitudini e la loro disponibilità a esigere da se stessi rigore, precisione, disciplina. Un esercizio per nulla trascurabile nella loro formazione. E una prima responsabilizzazione nei confronti della collettività, una prima vincente risposta alle attese del mondo adulto, capace di consolidare l’autostima, la consapevolezza delle proprie possibilità. Da quel 1986 ogni anno, per un anno intero – come dimostra la ricostruzione purtroppo qua e là lacunosa del presente libro – centinaia di studenti del Liceo Classico hanno dedicato passione alla penetrazione, all’approfondimento dell’antico dramma studiato a scuola e hanno profuso tutte le loro energie per renderlo godibile ai compagni e all’intera Cittadinanza, al cui giudizio si sono sottoposti con l’ovvia ansia, ma con la fiducia nella bontà del lungo lavoro svolto sotto la guida degli insegnanti e dei molti amici che ne hanno accompagnato il percorso. Un lavoro faticoso. Ed esigente. Che ha richiesto – e richiede – l’investimento di un tempo destinabile certo a più leggere e frivole occupazioni3. A fine anno, però, nessuno degli studenti ha rimpianto mai d’averlo donato al teatro. I più giovani tra loro si sono sempre offerti di ripetere l’esperienza l’anno successivo, riconoscendo implicitamente il contributo di comprensione, di crescita umana, di collaborazione e solidarietà realizzatosi nella lunga attività di un anno intero. La soddisfazione, rilevabile dopo anni in chi ha vissuto personalmente questa straordinaria possibilità, ne è ulteriore attestazione. Sia qui consentito ricordare anche quella degli insegnanti, testimoni dell’impegno vero di studenti via via sempre più motivati e capaci di credere nell’attività promossa da una scuola non subita, ma divenuta propria. Né andrà taciuta la lungimiranza della scuola, che ha garantito loro anche economicamente il privilegio di impegnarsi nell’esaltante compito di tradurre integralmente, oltre che adattare, i testi scelti per la scena. Una traduzione, come comprende chiunque sappia di filologia, costituisce il fondamento di ogni vera interpretazione del testo e il punto di partenza per qualsiasi seria attività esegetica da proporre ai discenti. Il Liceo ha scelto di non considerarla discutibile spreco di risorse, ma garanzia di una ricerca troppo spesso assente dalle nostre scuole, capace di mostrare agli studenti il coinvolgimento pieno e appassionato degli insegnanti nelle attività che li riguardano. Le considerazioni sin qui svolte segnalano il laboratorio teatrale come il luogo di massima attuazione della didattica dell’“Antico” di un Liceo Classico che, all’interno della realtà di una messa in scena, ha potuto realizzare nei fatti l’interdisciplinarità che la scuola va da sempre cercando, orientando a uno stesso fine analisi dei testi, studio di intonazione e gestualità, riflessione sul movimento nello spazio scenico, ricerca di musiche, indagine scenografica, ideazione di costumi, scelta di effetti luminosi e fonici. La gestione efficace di un’operazione di tale complessità da parte di una istituzione scolastica ha richiesto tempo, oltre che coraggio, nonché l’aiuto di esperti esterni per un affinamento progressivo. È nata così la venticinquennale collaborazione con il “Piccolo Teatro Città di Chioggia”, il più antico dei gruppi teatrali cittadini, nel quale il Liceo ha trovato l’esperienza e le energie di tanti amici da affiancare agli insegnanti avvicendatisi alla guida del laboratorio. Imprescindibili quelle della sig.ra Franca Ardizzon Rossi, l’anima stessa del Piccolo, del prof. Paolo Doria, allora docente di educazione fisica nel Liceo, e di vari membri della compagnia. Molte cose sono così cambiate dalla prima, pionieristica, prova. L’esperienza si è vieppiù arricchita di nuovi contributi, di nuove possibilità, fino a fare della rappresentazione di fine anno una produzione di livello artistico sempre elevato – sia lecito affermarlo a chi la coordina da poco e sente l’obbligo di riconoscere il merito di chi lo ha preceduto. La realizzazione teatrale del Classico è divenuta nel tempo esempio di una scuola che sa fare cultura e proporla alla Città, alla quale ha fornito non soltanto una formazione di rango, ma anche l’occasione, altrimenti assente, di spettacoli di alta valenza culturale in precedenza offerti assai di rado, forse mai. Grazie al Teatro Classico del Liceo le radici della civiltà europea sono state riportate all’attenzione di un pubblico crescente, insieme ai grandi interrogativi sulla libertà, la giustizia, l’agire umano nel mondo in rapporto a un divino ora presente, ora lontano e incomprensibile. Sotto la dirigenza del preside prof. Francesco Galera la collaborazione amichevole col “Piccolo Teatro” si è andata progressivamente consolidando. Il Liceo non possiede tuttora strumenti di scena propri e si è sempre avvalso dell’appoggio dell’associazione, che, con l’entusiasmo, è stata prodiga di luci, scenografie, personale volontario capace di farsi ca- 9 rico degli aspetti tecnici della realizzazione. Andranno qui ricordati i nomi di Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata, Gianna Sambo, Laura Pagiola, Teresa Ardizzon, Francesco Bullo: amici preziosi che hanno accompagnato negli anni le ambizioni espressive del nostro laboratorio teatrale. A partire dalla Medea dell’ a. s. ’88-’89 la responsabilità della regia, taciuta nelle locandine delle precedenti rappresentazioni, è stata assunta ufficialmente e stabilmente da quella che tutti hanno preso a identificare come la sig.ra Franca. L’esperienza della intera sua vita dedicata al teatro, la sapienza e la tenacia con cui ha insegnato e insegna agli studenti a intonare, a porgere le battute e a muoversi in scena sono state e sono il vero segreto del “miracolo”, che ogni anno permette a dei giovani dilettanti di fare emergere insospettate doti di recitazione, trasformandosi in efficaci interpreti delle difficili parti assegnate. Fondamentale per la riuscita dello spettacolo anche l’apporto del prof. Paolo Doria, docente di Educazione fisica e attore del “Piccolo” clodiense. Da uomo di teatro egli ha insegnato con l’esempio agli studenti a unire la conoscenza teorica alla manualità – il sapere al saper fare – coordinandone la ricerca scenografica e realizzando con loro – a volte anche senza loro – gli allestimenti scenici indispensabili e i materiali di scena. Del resto quello scenografico è solo uno dei molti aspetti della complessità di un allestimento teatrale, che – s’è detto – coinvolge a vario titolo competenze, sensibilità, creatività diverse. Tra le attitudini più necessarie va annoverata quella musicale, che negli anni si è giovata dell’apporto degli studenti più ferrati e ha raggiunto l’apice quando si è potuto far ricorso al talento di giovani impegnati nello studio al Conservatorio 10 o nella pratica musicale con gli strumenti più diversi, accompagnando l’azione scenica dal vivo. Le rappresentazioni sono state portate sulla scena di vari teatri cittadini. Dapprima al teatro “Astra”, in seguito anche al “Vittoria”, al teatro “S. Martino”, al “Kursaal” di Sottomarina, negli spazi del Museo Civico “S. Francesco fuori le mura”. Più spesso gli spettacoli sono stati applauditi al teatro “Don Bosco” e da ultimo anche presso il locale Museo Diocesano. Ma già dal ’93 gli alunni hanno calpestato i palcoscenici di altre città, partecipando a rassegne, concorsi, festival e conseguendo premi prestigiosi4. Sono stati portati in scena prevalentemente drammi di Euripide. A seguire quelli di Sofocle. Ma anche testi diversi: classici a loro modo, o ai classici riconducibili, come quelli di Goldoni, di Shakespeare e di Raboni. Per l’a.s. 2010-2011 è prevista la rappresentazione delle Coefore, il primo Eschilo della nostra storia. Il preside Galera ha sostenuto l’attività teatrale con la istituzione del Centro Studi per il Teatro Classico, volta a coinvolgere nell’attività teatrale anche i corsi scientifico e linguistico (anni scolastici ’90-’91, ’91-’92,-’93, ’98-’99), oltre che a raccogliere per qualche tempo fondi regionali di fondamentale importanza per la sua sopravvivenza. Dopo la “stagione Crocco” ha assunto la direzione del laboratorio il prof. don Giuliano Marangon, che ha tenuto la cattedra di latino e greco nel Liceo dal 1998 al 2004, nel passaggio dalla dirigenza Galera a quella della dott.ssa Lalla Casetti. Sotto la guida del professor Marangon il Classico ha rappresentato anche testi meno noti al pubblico, rendendo l’attività del laboratorio anche per questo più preziosa. A lui si deve la scelta coraggiosa di portare in scena l’unica comme- dia greca dei venticinque anni di attività scenica: le Rane di Aristofane. Il risultato del suo lavoro con gli studenti si è tradotto inoltre nella pubblicazione di alcuni testi preziosi 5 e nella vittoria di premi prestigiosi in varie città italiane. Memorabile la vittoria conseguita alla Rassegna Internazionale del Teatro Classico Scolastico presso il Liceo “Cagnazzi” di Altamura (BA) nel maggio 2003 proprio con le Rane di Aristofane. È da quell’anno iniziata la tradizione di allestire una ulteriore rappresentazione “per gli amici” presso il locale Museo Diocesano, già allora diretto dal professor Marangon, cui la istruzione classica nella nostra città deve certamente, anche per questo, molto. Dal 2004-2005 il testimone è passato nelle mani della prof.ssa Susi Boscarato, lei pure docente di latino e greco, affiancata dalla dott.ssa Rita Zambon per la realizzazione delle coreografie. Dal 2006-2007 il coordinamento delle attività è stato assunto da chi scrive. Due gli obiettivi immediati della nuova fase, tuttora in corso sotto la dirigenza del dott. Luigi Zennaro: fornire a studenti e Città un prodotto teatrale non indegno della tradizione precedente, agevolarne la realizzazione alleggerendo per quanto possibile il peso economico a carico della scuola, mediante il sostegno di Istituzioni ed Enti pubblici e privati ad essa esterni. Il primo è stato perseguito, tra l’altro, scegliendo di curare in modo particolare l’aspetto coreografico degli spettacoli, affidato dallo stesso anno all’esperienza della prof.ssa Patrizia Aricò, e mettendo il trucco di scena nelle mani della dott.ssa Sara Scarpa. Il secondo è stato perseguito mediante un’opera di sensibilizzazione, che a tutt’oggi ha ricevuto una risposta incoraggiante, garanzia di un riconoscimento non formale nei confronti del nostro Tea- tro Classico, confermato dal presente libro stesso. Già in precedenza, si diceva, il laboratorio aveva trovato saltuario patrocinio e sostegno economico6. Negli ultimi anni hanno sorretto il nostro lavoro la Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco, i Lions di Chioggia, il Rotary Club, il Centro Formazione Danza, la ditta Zambonin. Il patrocinio dell’Amministrazione Comunale poi, non più esclusivamente nominale, ha assicurato un sostegno fattivo e imprescindibile all’attività del laboratorio teatrale, oltre che il pubblico riconoscimento del suo valore culturale. Anche grazie a tale appoggio gli studenti hanno potuto partecipare nel maggio del 2008 al XIV Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani di Palazzolo Acreide (SR). Questa importante esperienza ha permesso loro di recitare l’Alcesti di Euripide all’interno di un vero teatro greco, quello restaurato dell’antica Àkrai. Ma ha anche fornito l’opportunità di assistere nel teatro antico di Siracusa all’Orestiade di Eschilo7. La rappresentazione di Palazzolo ha in qualche modo determinato le scelte degli anni successivi e le loro novità. È nata anche come naturale approfondimento del lavoro sul dramma euripideo la decisione di portare in scena l’anno dopo l’omonima ma moderna Alcesti di Raboni8. Nasce dalla suggestione dell’Agamennone eschileo la scelta di quest’anno di studiare e allestire quello senecano e di rappresentare nel 2011 le Coefore. L’avventura ovviamente continua. Studenti e docenti comprendono l’importanza di quanto sono chiamati a fare per se stessi, per la scuola, per la Città e sono determinati a realizzarlo. Il presente volume intende celebrare solo i primi venticinque anni di una storia che, ci auguriamo, saprà essere ancora lunga e feconda. Con quali modalità? 11 Con quali novità? Sarà il futuro a dirlo. Di certo il Classico potrà valersi del supporto di tanti, che, in vista o nell’ombra, ma sempre con amore e passione, continueranno a sostenere questa sua avvincente avventura. I nomi di alcuni sono stati già ricordati, altri appariranno nelle pagine successive di questo volume, altri certo si aggiungeranno nel tempo. Uno soltanto vogliamo ancora qui ricordare: quello dell’insostituibile prof. Dino Memmo, docente di Storia dell’arte nell’indirizzo scientifico del “Veronese”, ma fin dalla prima edizione già a fianco dei protagonisti del laboratorio classico. Il professore ha prestato talora la sua competenza per le scenografie, ma ha soprattutto predisposto ininterrottamente, anche dopo la conclusione del suo insegnamento, i disegni per le locandine da affiggere nella città. Grazie a lui la locandina non è mai stata un semplice avviso, ma la riproduzione di una vera opera d’arte, come si potrà vedere sfogliando questo volume. La sua fedeltà al nostro appuntamento annuale testimonia il suo attaccamento esemplare al Liceo e una simpatia per il nostro laboratorio che è al tempo stesso riconoscimento prezioso di artista e petizione di responsabilità a non deludere le attese sue e di quanti guardano al progetto con accondiscendenza critica. * * * Questo libro è il frutto della ricerca, ardua ma ostinatamente tenace, intesa a ricostruire una storia affidata finora alle memorie dei singoli. Protagonisti o spettatori, molti ne fanno parte e ne conservano un ricordo parziale, personale, mai consegnato se non a pochi. Quegli stessi, che di recente hanno appassionatamente condiviso l’esperienza teatrale, poco sanno di quanto l’ha preceduta. I primi 12 giovani attori del nostro teatro sono infatti ormai gli adulti del loro mondo: madri e padri di famiglia, insegnanti, professionisti... Che portano in sé immagini e sensazioni di un evento lungamente preparato e consumatosi, però, nel breve spazio di una rappresentazione, di fatto poco più di un’ora. All’appressarsi dei venticinque anni della nostra attività teatrale abbiamo voluto celebrare questa storia, significativa per la sua stessa durevolezza, e sperato soprattutto di raccoglierne gli sparsi frammenti, per integrarli in un mosaico il più possibile completo. Il Liceo “Veronese” ha perciò organizzato il 15 maggio 2010 una giornata di studio, testimonianza e spettacolo presso il locale Auditorium di San Nicolò. Tutti gli studenti delle classi coinvolte nel laboratorio dal 1985-86 sono stati invitati con lettera a collaborare alla restituzione del nostro passato, recuperando per noi materiali e memorie. Hanno risposto in molti: ex alunni e genitori, entusiasti dell’iniziativa. A loro si deve la riuscita delle celebrazioni e l’esistenza stessa di questo libro, che vuole esserne ideale prosecuzione. La presente introduzione riprende infatti, ampliandolo, l’intervento che chi scrive ha pronunciato in occasione delle celebrazioni. Seguono nel libro una sezione dedicata alla giornata di studio col testo della lezione ivi tenuta dal prof. Alberti dell’Università di Venezia, una sezione dedicata a testimonianze e riflessioni di alcuni protagonisti dei venticinque anni di teatro e, infine, una sezione con le immagini, le informazioni, i nomi di tutti i protagonisti delle venticinque rappresentazioni, così come è stato possibile ricostruirli – in modo purtroppo non del tutto completo. La struttura composita del volume ne costituisce insieme il limite e il pregio. La sua natura di raccolta di materiali di varia natura, infatti, ne fa un’opera non omogenea, ma ne testimonia al contempo la volontà di realizzarsi quale opera a più mani, spazio aperto alla collaborazione di quanti hanno gradito prender parte a una ricostruzione collettiva guidata dall’affetto. A quanti hanno 1 2 3 4 5 6 7 8 voluto offrire il loro personale contributo, ritrovando e offrendo materiali gelosamente custoditi o, al contrario, dimenticati da tempo dentro cassetti e armadi; a quanti hanno redatto per noi testimonianze e riflessioni, siano dichiarati già qui il debito e la riconoscenza di chi scrive. Cf. R. CALASSo, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, che in esergo riporta l’espressione citata, tratta dal Περὶ θεῶν καὶ κὸσμου del neoplatonico Saturnino Secondo Salustio, del tempo dell’imperatore Giuliano (IV sec. d.C.). G. MARANGoN, Teatro classico a scuola. Un’esperienza dalle molteplici valenze formative, in 50 anni di “Veronese”, Chioggia 2004, pp. 165-172. Il libro può essere scaricato in formato pdf dalla sezione “Pubblicazioni” del sito della scuola (www.giuseppeveronese.it). Un’ora a settimana dapprincipio, il sabato. Due ore a settimana più recentemente, il martedì o il venerdì, con qualche prova serale aggiuntiva su palcoscenico. Partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con Il campiello di Goldoni nel 1992-1993; partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza e alla Rassegna “Teatro dalla Scuola” di Mirano Belvedere con le Troiane di Euripide del 1994-1995; primo premio alla regia nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Baruffe chiozzotte di Goldoni nel 1995-1996; primo premio per la migliore realizzazione nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Baccanti di Euripide nel 2001-2002; primo premio nella Rassegna Internazionale di Teatro Classico ad Altamura (BA), premio per la migliore interpretazione collettiva e riconoscimento per l’interpretazione individuale di Stefano Angarano nella Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza con le Rane di Aristofane nel 2002-2003. G. MARANGoN, Dioniso, l’invincibile. Suggestioni dalle “Baccanti” di Euripide, Chioggia, Edizioni Nuova Scintilla, aprile 2002, con schede degli alunni; Tremori di un dio, paure di un popolo. Note introduttive alle Rane di Aristofane con interpretazione ritmica del testo poetico, Chioggia, Edizioni Nuova Scintilla, maggio 2003, con schede a cura degli alunni. A.s. 1989-1990: patrocinio del Comune di Chioggia e del Distretto scolastico 56, contributo economico di Banco Ambrosiano Veneto, Banco San Marco, Cassa di Risparmio di Venezia, Regione del Veneto; a.s. 1990-1991: patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Regione Veneto, collaborazione del Banco Ambrosiano Veneto; a.s. 20012002: partecipazione di Salone New Style by Marika, onda Freetime Club Ginnico Sportivo, Attiva Cooperativa S.C.A.R.L., SAI Assicurazioni. XLIV Ciclo di Rappresentazioni Classiche, 8 maggio-22 giugno 2008, Agamennone, Coefore, Eumenidi di Eschilo, traduzione di Pier Paolo Pasolini, regia di Pietro Carriglio. Per la messa in scena dell’Alcesti nel teatro antico di Palazzolo Acreide è risultata indispensabile l’incisione delle musiche su supporto magnetico, per la quale siamo ancora riconoscenti alla disponibilità del sig. Franco Storchi. Gli studenti hanno potuto assistere alla proiezione di alcune sequenze del dramma in occasione di una lezione dal titolo Alcesti nel Novecento letterario italiano, tenuta da chi scrive nell’ambito del progetto del Liceo “Volti, eventi, idee del Novecento” (se ne legga il testo tra i materiali didattici del sito web del “Veronese”). Il video e l’autorizzazione alla proiezione sono stati concessi dal Centro Teatrale Bresciano (curatore della prima dell’opera), contattato grazie alla cortesia della prof.ssa Maria Pia Pattoni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ha curato la pubblicazione del dramma di Raboni per conto dell’editrice Marsilio. 13 Celebrazioni del Venticinquesimo La giornata di studio, testimonianza, spettacolo Il 15 maggio 2010, una settimana dopo la rappresentazione di Agamennone, il Liceo “Veronese” ha celebrato presso l’Auditorium di Calle San Nicolò l’anniversario della sua attività teatrale. Hanno partecipato alla cerimonia studenti e docenti del Classico e di altri indirizzi del Liceo, ex studenti ed ex docenti, autorità, cittadini interessati. Nell’occasione sono state consegnate dal Dirigente, dott. Luigi Zennaro, alcune targhe in segno di riconoscenza ai protagonisti della storia venticinquennale del laboratorio teatrale. L’iniziativa non ha inteso tuttavia trasformare la mattinata in semplice occasione commemorativa. Per celebrare cinque lustri di attività connessa al teatro antico è sembrato più giusto ribadirne la valenza culturale e l’eredità lasciata alle letterature e civiltà successive, in continuità ideale con le più recenti scelte del laboratorio. È stato pertanto affidato alla disponibilità di uno studioso di teatro il compito di ripercorrere alcune testimonianze significative di quella che oggi si definisce la permanenza dell’Antico nella cultura contemporanea. Si sono in tal modo potute inquadrare in una prospettiva attualizzante le suggestioni provenienti dalla rivisitazione delle attività del laboratorio. Esse sono state ripercorse grazie a una piccola mostra di costumi e locandine all’ingresso dell’Auditorium, alla proiezione di immagini recuperate, a una ricostruzione d’insieme del moderatore dell’incontro1, alla testimonianza di un attore professionista, già studente del Liceo. Ha coronato infine la mattinata l’esecuzione al pianoforte delle Variazioni su un tema di Schumann, op. 9 di Johannes Brahms, e della Ciaccona in re minore di Johann Sebastian Bach - Ferruccio Busoni, da cui è stato tratto l’accompagnamento musicale rispettivamente dell’ultima e della penultima rappresentazione teatrale. Questo il programma della giornata: La memoria del teatro antico nell’età contemporanea tra enigma e mistero (prof. CARMELo ALBERTI, Università Ca’ Foscari) Conversazione sull’esperienza del laboratorio teatrale del Liceo (con ANToNIo GIUSEPPE PELIGRA, della Compagnia teatrale di Massimo Castri, condotta dalla prof.ssa ALESSANDRA LIoNELLo, già studentessa del Liceo) Concerto di musiche dalle rappresentazioni (al pianoforte ANDREA CHINAGLIA) Di seguito l’intervento del prof. Alberti. 1 L’intervento del moderatore costituisce ora, in versione riveduta, le pagine introduttive del presente volume a firma Roberto Vianello. 16 17 18 La memoria del teatro antico nell’età contemporanea tra enigma e mistero Carmelo Alberti (Università Ca’ Foscari Venezia) La scelta di ricordare i venticinque anni di rappresentazioni promosse dal Liceo “Veronese” di Chioggia costituisce l’occasione per porre l’accento sulle condizioni dell’umanità e sull’immaginazione collettiva del nostro tempo. Interrogarsi sul futuro del mondo spinge l’uomo contemporaneo a indagare più da presso il significato delle civiltà. Il lettore di testi letterari, lo spettatore di teatro, il visitatore dei musei tende a interpellare un’azione artistica per riconoscersi in essa, in un modo o nell’altro, spesso per sottrazione. Eppure nessuno si chiede – se non attraverso un procedimento più complesso – su quali elementi distintivi si fondi tale processo di simbiosi. È come se si oltrepassasse una soglia densa di segreti e si entrasse in una dimensione ignota. Uno degli arcani che ossessiona ancora, coscientemente e incoscientemente, l’uomo contemporaneo è il senso dell’esistenza: da dove si proviene, perché si sta al mondo, quale destino attende gli esseri viventi; anche se, per lo più, tali domande non si pongono in forma diretta, nelle azioni e nei gesti quotidiani s’avverte lo smarrimento per le prove traumatiche dell’esperienza. Forse si rimpiange il tempo descritto, spesso in maniera artificiale e imitativa, dalle opere tragiche. Attraverso i secoli è giunto, dunque, a maturazione un procedimento che all’inizio s’affida al sistema della oralità, basato sull’esaltazione della corporeità della parola. Le parole non sono elementi inerti, posseggono una loro fisicità che permette di individuare gli spazi per interpretarle. E sin dalle origini l’enunciazione del verbo rende esplicito il potere di creare. Ecco perché nella mente umana è rimasta una memoria nostalgica, un desiderio mimetico, dell’età in cui il tempo è circolare, in cui ogni elemento fa parte del tutto. La nostalgia è rimasta attiva nel voler tornare con la mente alla struttura spazio-temporale del teatro greco, al luogo nel quale si svolgono le cerimonie rituali. Anche la fase delle gare drammaturgiche era preceduta da un passaggio liturgico e misterico. Ebbene, prima di quei testi tragici che ancora s’ammirano e s’amano, si diffonde una grande produzione orale che s’affida interamente alla forza immaginativa della parola e alla capacità del cantore-narratore di condurre l’ascoltatore dentro la tessitura del racconto. È come se i fili di un enorme tappeto si trasformassero in tanti sentieri da percorrere; e mentre si ascolta, si partecipa a tal punto che è possibile domandare, interrogare, fino a cambiare la traccia originaria e entrare nel merito della trama. Sta, poi, all’abilità di colui che conduce il gioco ricondurre la domanda al nucleo originario e al disegno universale. È come il corso di un grande fiume, che raccoglie nel proprio alveo l’acqua degli affluenti, prima di sfociare nell’immensità dei mari. Le storie del mito non sembrano essere mai avvenute, ma sussistono da sempre. Dove sono state elaborate? Dove si svolge il Prometeo incatenato di Eschilo? Prometeo è “incatenato” lungo l’asse di 19 comunicazione tra il cielo e la terra, in uno spazio-tempo ipotetico in cui avviene la rappresentazione della sofferenza del Titano e dell’incontro con Io, la donna martoriata dall’amore per il re degli dei. Ma, al di sotto del piano terrestre stanno gli inferi, il luogo dei morti, il mondo del non ritorno. I pochi che sono riusciti a tornare indietro hanno impresso nel corpo e nella mente un qualche segno del viaggio proibito. Le civiltà, le religioni, i sistemi culturali mantengono ferma la nostalgia dell’Eden, un ambito aureo e splendente in cui gli uomini godono la vicinanza del divino. La memoria del tempo edenico provoca nostalgia, perché è subito seguito dal tempo della sofferenza. A cosa serve tale struttura mutabile di racconto? Che valore può avere ancora la narrazione di avvenimenti paradossali e irreali? Serve, forse a dare un segnale di ritorno all’ordine, laddove si prefigura, oppure è in atto, un disordine. Nell’Edipo re, ad esempio, fin dall’inizio si assiste allo stravolgimento profondo della vita quotidiana dei cittadini di Tebe. La tragedia di Sofocle viaggia lungo il mito, che parte da un connubio pericoloso tra uomo e divinità; la prole generata dalle nozze di Cadmo e Armonia reca l’impronta del divino e, pertanto, mette in moto una discendenza problematica. Fino a che punto la relazione uomo-dio può sussistere senza degenerare? Tebe è il posto critico nel quale la stirpe rimescola il proprio sangue, rendendo incerta la concatenazione generativa. Non c’è più chiarezza per uomini che non possono distinguere il padre dal fratello e la madre dalla moglie. Il mito di Edipo dimostra quanto sia importante per la salvezza della polis il rispetto delle regole, l’osservanza delle leggi. E per ricordarlo occorre ripercorrere il rituale di un sacrificio necessario. Nel corso dei se- 20 coli il desiderio della catarsi, con la possibilità di far decantare i tormenti collettivi e soggettivi all’interno di un processo collettivo, è restato un elemento costante delle civiltà. La contemporaneità occidentale continua a interrogarsi sul significato della classicità e, in particolare, sul valore del tragico, spesso sulla scia della volontà dell’ordine, anche in campo letterario, culturale, artistico. Cosa vuol dire “classico”? In genere appare come l’individuazione di un prototipo che si propone alla stregua di forma assoluta, a cui occorre uniformarsi. Ma cos’è, allora, il nuovo classicismo se non una copia dell’idea di perfezione assoluta. Insomma è una copia del modello ideale, è una copia della copia della copia, e così all’infinito, sebbene di volta in volta s’aggiungano specificazione di “nuovo”, “neo”, producendo, talvolta, nella storia della cultura umana uno stato di scontro, o un dibattito interminabile sulla domanda: qual è l’idea originale di classicità? Ma non sempre è così: accade che il desiderio e la nostalgia dell’età perduta possano essere descritti in situazioni che chiamano in causa la realtà quotidiana. Si esamini il sistema di Luigi Pirandello, uno scrittore immenso che non smette mai d’investigare la sfera della verità. Pirandello è un attento lettore dei Padri della Chiesa, è un attento conoscitore dei mistici. Per capire, allora, quanto sia attento all’idea del mito, anche dei nuovi miti, bisogna leggere gli ultimi drammi teatrali. Essi costituiscono una trilogia di testi scarsamente realizzati, se si eccettua l’ultimo, l’incompiuto I giganti della montagna. Ma in questi lavori Pirandello agisce sulla linea del recupero del mito nell’età moderna. Il primo, un mito sociale, s’interroga proprio sulla matrice di una società arcaica, antica, primordiale, matriarcale, in cui la madre è l’unica in grado di riscattare l’umanità dal germe degenerativo e distruttivo, insito nella sfera del maschile. Difatti, gli uomini presenti in scena si azzuffano, litigano, tentano di accoltellarsi; è la madre la sola in grado di concepire La nuova colonia, come recita il titolo. Si tratta di una storia curiosa, che racconta la colonizzazione di un’isola destinata a sprofondare, a essere completamente divorata dalle onde del mare. Il nucleo di derelitti è capeggiato da una prostitutamadre, che diventa l’iniziatrice di una società del riscatto. Il secondo è Lazzaro, un mito religioso, legato al mondo agricolo. Il dramma esamina la vocazione sacerdotale e la relazione con l’immagine di Cristo. È un’opera molto difficile, densa di pensiero, che riflette sul valore del ritorno alle origini della spiritualità. Il terzo, I giganti della montagna, rappresenta il mito dell’arte. I sopravvissuti di una grande compagnia teatrale giungono in un luogo sperduto, nella villa del mago Cotrone. Privi di risorse, si trascinano per le contrade in cerca di un luogo dove l’attrice tragica, la contessa Ilse, possa recitare la sublime opera di poesia, che un autore innamorato le aveva dedicato, prima di uccidersi per sconforto. Per un atto di riparazione Ilse decide di declamare in ogni contrada un testo che nessuno comprende, perché la civiltà dell’industria non intende più la voce dei poemi. Il mondo novecentesco non vuol sentir parlare di poesia: l’ultima spiaggia è il paese dei Giganti, dove sono state costruite immense fabbriche, dighe, opere faraoniche, dove è stata sconfitta e sottomessa la natura selvaggia, dove gli abitanti vivono nel benessere e, forse, sono disposti a ascoltare dei guitti. Pirandello, che non ha concluso il dramma perché è sopraggiunta la sua morte, non ha del tutto risolto l’immagine del tramonto del teatro. Giorgio Strehler, che ha curato varie edizioni dei Giganti, aggiunge un finale in cui si assiste alla morte della rappresentazione tra fischi e schiamazzi. Quando gli attori arrivano nella villa in cui Prospero e gli Scalognati s’affidano all’illusione e ai prodigi, il mago insiste per convincerli a rimanere, perché la grandezza della tragedia può rivivere solo là, dove basta sognare perché i fantasmi evocati dicano le parole giuste e recitino a tempo. È il posto in cui ciò che è immaginato, si proietta nella realtà, si materializza. E ne offre degli esempi incredibili, ma convincenti. Così il racconto della vecchia Sgricia che, durante un viaggio notturno, è scortata e protetta dalla schiera di cavalieri dell’Angelo Centuno, rivela come per gli uomini sia impossibile comprendere se si è davvero vivi o si è morti. LA SGRICIA – “Sgricia, sono l’angelo Centuno”, mi disse, “e queste che t’hanno scortata fin qua sono le anime del Purgatorio. Appena arrivata mettiti in regola con Dio ché prima di mezzogiorno tu morrai”. E scomparve con la santa scorta. CoTRoNE – (subito) Ma ora viene il meglio! Quando la sorella la vide arrivare, bianca, stralunata... LA SGRICIA – “Che hai?”, mi gridò. E io: “Chiamami un confessore”. “Ti senti male?” – “Prima di mezzogiorno, morirò”. (Apre le braccia) … E difatti… (Si china a guardar negli occhi la Contessa e le domanda:) Tu forse ti credi ancora viva? […] ILSE – (… guarda Cotrone) Si crede morta? CoTRoNE – In un altro mondo, Contessa, come tutti noi… (scena II). Nella casa dell’assoluto il respiro e la pulsione del sangue creano uno slancio esistenziale che oltrepassa la condizione umana. L’ultimo Pirandello lascia filtrare una straordinaria miriade di suggestioni e di domande, proprio come accadeva nella dimensione dell’arcaicità. 21 Un’altra figura di intellettuale che ha sondato la consistenza del mito nella società contemporanea è Pier Paolo Pasolini. Quando nel 1959 il poeta-testimone affronta la scrittura teatrale sollecitato da Vittorio Gassman ad approntare la traduzione dell’Orestiade di Eschilo, nella relazione con il mondo degli antichi valorizza la parola. Il suo teatro si affida interamente alla forza comunicativa della poesia, mentre chiude la porta al prevalere della spettacolarità. Nel dopoguerra in Italia s’avverte una particolare ansia nel progettare un teatro pubblico, che abbia una matrice sociale, come fanno Giorgio Strehler e Paolo Grassi con la fondazione del Piccolo Teatro di Milano nel 1947, collegandolo alla necessità di ritrovare l’identità civile di una comunità che vuole uscire dal dramma della guerra, voltando pagina, ma mantenendo la propria matrice artistica e linguistica. Il teatro deve ridiventare uno strumento adatto non solo a liberare gli spazi culturali che il fascismo aveva compresso, soprattutto negando i rapporti con gli ambiti europei e internazionali, ma anche a fare i conti fino in fondo con la qualità della propria tradizione culturale. Non a caso, fin da subito, il repertorio di testi proposti da Giorgio Strehler comprende un dramma in milanese, El nost milan di Carlo Bertolazzi, un lavoro straordinariamente palpitante che rivolge lo sguardo verso la gente che vive ai margini della metropoli. Così avviene in altre aree, compresa quella veneta, nel resto d’Italia: ad esempio, si riscopre il teatro di Ruzante, attraverso l’azione di ricerca e di rappresentazione del Teatro Universitario di Padova diretto da Gianfranco De Bosio. In questa fase Pasolini va oltre, guarda al cuore della civiltà contadina, della quale gli uomini della modernità sono diretti di- 22 scendenti, legati a tal punto da risentirne le contraddizioni. Nelle sue opere cinematografiche, Edipo e Medea, due grandi capolavori filmici, Pasolini trascrive in maniera diretta, senza nascondere neppure la provocazione, l’idea del ribaltamento mitologico. Nella società odierna il mito ha un significato rovesciato: lo si comprende bene in Affabulazione, il dramma portato in scena in varie riprese da Vittorio Gassman, un testo difficilissimo, persino atroce, nel quale la famiglia borghese approda a un’esasperata crisi. Sul filo di un impietoso ragionamento, volto a trovare una possibile via di uscita dalla trappola dell’esistenza, un padre simbolico finisce per oltrepassare il limite dell’ordine, fino a diventare un assassino e sopprimere il figlio, l’oggetto del desiderio. Nel corso di un viaggio alla ricerca dell’identità perduta, il protagonista riceve la visita dall’ombra di Sofocle. Il tragediografo greco, in maniera didascalica, rivela il significato profondo della vicenda di Edipo e le corrispondenze con gli incubi del padre. L’incalzare degli eventi ha sospinto verso altre prove un giovane che è divenuto uomo e re, convinto che tutto gli sia dovuto per la bravura dimostrata nell’aver risolto l’enigma della Sfinge: oMBRA DI SoFoCLE – Non si può risolvere più di un enigma nella vita. Del resto, coloro che presero il suo posto al potere, se lo presero senza merito […]. Era la normalità. Che se dura a lungo, si decompone, e porta con sé nuovi mostri disgustosi, che pongono poi, nuovi enigmi da risolvere… finché un nuovo giovane di belle speranze non venga a risolverli. E più oltre, aggiunge: Dimmi tu! A che cosa è servito, al mio Edipo, risolvere l’enigma? A prendere il potere? L’ha preso e l’ha perduto. E, questo io voglio sottolineare, l’ha perduto senza aver saputo nulla del mistero. (VI episodio) S’illude colui che pensa di determinare la propria esistenza, risolvendo un enigma. oltre c’è l’impossibilità di violare il mistero dell’umanità. Pasolini, al pari di Pirandello, riprende la questione del mistero. Dietro Pirandello c’è la stagione letteraria e narrativa che lascia decantare i principi assoluti; un esempio è offerto dal racconto Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, dove germoglia il compendio della filosofia pirandelliana. Lo stesso avviene per Pasolini, che nelle sue opere non smette di porre domande, persuaso della controversa influenza che ha la natura sul “nostro contemporaneo”. Così, ancora, Bestia da stile è un dramma legato al mito del sacrificio, all’eroismo senza volere e senza sapere, al compimento di un gesto inconsulto. È un oratorio da recitare in chiave liturgica, non declamandolo, ma enunciandolo come un canto. Il terzo modello, temporalmente più recente, corrisponde efficacemente al bisogno di valorizzare la consistenza della parola tragica nell’oggi. Nell’ambito della Biennale di Venezia 1984 il musicista Luigi Nono ha realizzato un’opera intitolata Verso Prometeo, composta su un testo di Massimo Cacciari, decorata con le scene di Renzo Piano e le illustrazioni di Emilio Vedova, eseguita sotto la direzione orchestrale di Claudio Abbado, e con tanti straordinari artisti, cantanti, musicisti. La tecnica artistica di Nono è rivolta al recupero del suono allo stato puro; la musica e il canto prodotti dal vivo sono catturati da una sorgente tecnologica e immessi nello spazio della rappresentazione in maniera diversificata. Il musicista-operatore manipola a sua discrezione i suoni e li diffonde in missaggio attraverso un procedimento di regia musicale, mentre i musicisti, i cantanti, gli esecutori si spostano lungo i percorsi della scena. In tal modo s’intende costruire un ambiente sonoro articolato e mutevole all’infinito. Perché la scelta è caduta sul personaggio di Prometeo? Che cosa rappresenta la vicenda del Titano per l’uomo contemporaneo? Il sottotitolo dato da Massimo Cacciari, La tragedia dell’ascolto, apre interrogativi sull’incidenza della concezione arcaica del mondo e del pensiero antico, alla ricerca di una dimensione scandita e condivisa. La ricerca di Nono e Cacciari si muove in cerca dell’identità sostanziale dell’uomo. Renzo Piano costruisce per l’occasione un’arca sospesa, una vera cassa armonica in legno, e gli spettatori vengono fatti accomodare l’uno di fronte all’altro. La partitura poetica di Cacciari è breve, densa di simboli per esprimere il significato più profondo di un eterno viaggio verso l’assoluto e l’incerto. Con una logica concatenante l’opera di Nono produce un effetto dirompente, come forse doveva accadere con gli antichi riti, quando si entra nel cerchio magico del tempo. È un viaggio verso le sorgenti della civiltà per recuperare l’arte di desiderare e di esistere. 23 Testimonianze Giannino Crocco, un prof forèsto icona del Liceo Classico “Ho tradotto venti tragedie e poi ho distrutto i file. Ma, al risveglio dal coma, recitavo Medea” Alessandra Lionello Di intervistarlo non se ne parla nemmeno (le domande è abituato a farle lui), ma ascoltarlo dà anche più soddisfazione. E poi Crocco appartiene a quella rara specie di esseri umani che intuisce cosa vuoi sapere. E te lo porge, a modo suo. Ci accoglie nel salotto di casa, a un passo dal bel teatro di Cavarzere. Gli anni gli hanno fatto un regalo: non teme più di dirti che gli fa piacere vederti. Anche prima – a scuola s’intende – era così, e lo capivi che ci teneva ai suoi studenti, ma non poteva rinunciare a quel mantra del “a me non interessa niente, per me siete dei numeri…” Non ci credeva, ma dirlo serviva, a lui e anche a noi. “Ho dato tanto a Chioggia – esordisce – ma Chioggia mi ha anche tolto tanto”. E intende la possibilità di trasferirsi al “Tito Livio” o andare a dirigere il Museo di Adria, e separarsi dalla maledizione delle acque alte, della nebbia e di un Liceo Classico nato per volontà delle “famiglie bene” e nel quale “chi lo aveva voluto si sentiva in diritto di dirti quel che dovevi fare e come. A Chioggia, se non eri del posto, rimanevi per sempre un forèsto”. Eppure qualcosa lo ha tenuto lì. Sarà stato il mare (“Appena laureato pensavo che avrei insegnato all’Istituto Navale, già mi vedevo nelle navi da crociera!”), oppure quel sentire che in fondo proprio forèsto non era. Fatto sta che Giannino Crocco per il Liceo Classico di Chioggia (nato come appendice del “Franchetti” di Mestre) è stato un’istituzione. Dire “Classico” e dire “Crocco” era la stessa cosa: nel bene e nel male. Lui, che ama ricordare i suoi studi di geografia e di quanto era “bravino” in chimica, ha avuto e ha mantenuto, però, un solo amore, assoluto e senza rivali: la tragedia. Semplicemente la amava e tu, che seguivi le lezioni, non potevi fare altrimenti che amarla allo stesso modo. Cioè… ci provavi. Crocco usava il mito per spiegarti il reale e tu imparavi a leggere con più lucidità grazie a quelle icone meravigliose. “È iniziato tutto cinque anni prima” e si riferisce alla prima edizione del teatro classico a scuola. “Era il 1980 e fui folgorato dall’Oedipus rex di Cocteau musicato da Stravinskij. Lì ho realizzato che volevo provare a mettere in scena una tragedia con gli allievi dell’ultimo anno”. Il primo allestimento, datato 1986, è infatti l’Edipo re di Sofocle. Seguono le Baccanti di Euripide, che secondo Crocco, “sono state la tragedia meglio riuscita. Le ho poi viste rappresentate al teatro di Epidauro… ma le nostre ragazze erano state più brave!” Mai avrebbe pensato che da quel 1986 si sarebbero susseguiti venticinque anni di rappresentazioni, ovvero un’autentica tradizione. Ma il fatto che ci siano stati dei festeggiamenti, che si sia recuperato il materiale e pensato ad un volume commemorativo non lo coinvolge più di tanto. È sempre stato schivo e in qualche modo refrattario alle celebrazioni. Ma nel progetto ci crede. “Spero che ogni anno si rappresenti una nuova tragedia – dice senza esitare – non solo per i ragazzi, che hanno modo di sentire sulla propria pelle che cos’è il teatro tragico, ma anche per gli insegnanti, 27 che possono vedere i loro allievi sotto una luce diversa, esplorarne e valutare le capacità di essere, di comprendere, di interpretare oltre che di imparare”. Insomma, la scuola di teatro classico è scuola a tutti gli effetti. Dove a imparare sono anche i docenti. Poi i ricordi della sua scuola – le giornate memorabili, i confronti (e gli scontri!) coi colleghi, le marachelle degli allievi, le grandi illuminazioni – si alternano con quelli del presente. Crocco ci mostra i volumi rilegati che raccolgono il suo lavoro dopo la pensione. “Nei primi tre anni ho tradotto venti tragedie. Poi ho tradotto tutti i lirici, tutto Gellio, Marziale e Catullo. Ho letto tutto omero e poi tutta l’Eneide… e qui ho fatto fatica ad arrivare alla fine, mentre omero non ti stanca mai”. Stai già per obiettare dentro di te: “Ma come, professore, lei non era uno che non si metteva mai in mostra, che minimizzava tutto, che… e adesso…?” Lui lo sa e infatti non è finita. “Ho tradotto tutto questo e molto altro. E poi ho cancellato tutto. I file non ci sono più. I volumi li ho regalati e questi li regalerò. Non voglio tenere niente. Questo lavoro non conta niente, conta solo nel momento in cui lo fai. È lì il piacere. La conservazione, il cimelio, non è niente”. Eccolo, è lui, fedele a sé stesso nel passare del tempo. Come le sue “frasi cele- 28 bri” che ancora girano tra i tanti ex allievi, alcuni professori come lui, molti professionisti, altri lavoratori generici, perché “studiare il greco ti serve anche se poi fai il lattaio”. Vero. E rappresentare la tragedia che stai leggendo è un’esperienza che non dimentichi. Ti forma, chiudendo il cerchio tra il sapere e l’essere. “La mia preferita, però, non l’avete ancora rappresentata” e non capiamo se è un rimprovero o un invito. La sua preferita, in realtà, è una commedia: Lisistrata, che lui stesso ha tradotto e consegnato a un ex allievo molto speciale. A questo punto è un invito, è chiaro, quasi un ammonimento. E si fa il proposito di andare a stanare il depositario del “tesoro” e pensare a un allestimento speciale. Un prof così va ascoltato. Uno che ha amato talmente tanto il teatro greco da potersene separare, senza tuttavia dimenticarlo mai. Al punto che “quando, dopo un mese, mi sono risvegliato dal coma – racconta, salutandoci – recitavo Medea. Mia moglie era lì e io mi sono arrabbiato moltissimo con lei perché non rispondeva alle mie battute”. Ci lasciamo la porta alle spalle e rientriamo. La targa – quella del Venticinquesimo anno del Teatro Classico – gliel’abbiamo consegnata. Lui ci ha dato molto di più, anche stavolta. Le Rane di Aristofane Dallo studio dell’opera alla sua rappresentazione teatrale: a.s. 2002-03 Giuliano Marangon Atene: anno 405 avanti Cristo. La paura è palpabile in Città. Dura ormai da venticinque anni la lotta contro la rivale Sparta. Da poco la flotta spartana è stata battuta presso le isole Arginuse (407), ma a caro prezzo per Atene: ha dovuto liberare gli schiavi, impegnandoli a remare nelle sue triremi. Una vittoria di Pirro! Il futuro si profila buio. Nella primavera del 406 è toccato all’ultranovantenne Sofocle dare alla Città la triste notizia della scomparsa di Euripide: si è presentato sulla scena vestito a lutto, per interpretarne il dolore; lui stesso morirà di lì a qualche mese. Sembra ormai che la musa della poesia sia esaurita: ad Atene non ci sono più “i grandi”, capaci di volare come aquile sulle ali della poesia tragica; restano soltanto poetastri a gracidare, come ranocchi, in una palude. Da queste situazioni muove Aristofane nel comporre le Rane: vuol dire a tutti che Atene ha il fiato corto non solo sul piano militare, ma anche su quello politico e religioso, visto che la poesia è dono degli dèi. E quando questo dono evapora, lo spessore umano si assottiglia. Il poeta vuol dire a tutti che occorre schierarsi contro il bellicismo della democrazia radicale, propugnata dai demagoghi di turno, perché la speranza della pace può fiorire unicamente sul terreno di una democrazia moderata. Ma come trasmettere tutto questo ai concittadini di Atene? Come far capire che la Città ora è più a rischio che mai, perché essa, perdendo i suoi poeti, ha perso i suoi veri maestri? Aristofane inventa l’espediente di far scendere all’Ade il patrono della poesia drammatica, Dioniso, impegnandolo in un’avventura rocambolesca: il dio andrà a ripigliare uno dei grandi poeti tragici, per ricondurlo – Plutone permettendo – redivivo ad Atene. Problematico sarà il viaggio, irto d’insidie inimmaginabili. Poi, problema più grosso sarà la scelta del poeta da riportare in vita, visto che Euripide, da poco arrivato all’Ade, vuol spodestare Eschilo che siede sul trono della poesia: anche lì s’ingaggia uno scontro furibondo. Si procede a un confronto tra i due: vengono passati al vaglio i versi e le musiche, vengono esaminate le intelaiature delle tragedie. Il giudizio estetico verte anche sui contenuti più degni di albergare ad Atene. E soprattutto a questo proposito si accende il conflitto di idee, l’attacco aggressivo, personale, con espedienti comici in sequenza. Alla fine il commediografo dichiarerà a sorpresa – per bocca di Dioniso – la sua malcelata ostilità contro Euripide, troppo “novatore” nelle tematiche licenziose, nel linguaggio frivolo, nei moduli musicali canzonettistici; e aggiudicherà la palma della vittoria a Eschilo, poeta dalla grandiosità degli sfondi, dalla solennità del linguaggio, dall’aristocrazia musicale, dalla sana eticità di pensiero. Questo per Aristofane non è fuga nell’utopia, bensì attenzione appassionata su un presente, gravido di paure da esorcizzare attraverso il riso: paure per gli imprevisti di una guerra quasi trentennale ancora in atto, paura di ritorsioni divine per la profanazione delle erme avvenuta 29 ad Atene alcuni anni prima, paura per la continua defezione delle città confederate dalla Lega Delio-attica, paura per l’eventualità che s’interrompa per Atene il flusso delle derrate alimentari provenienti dall’Ellesponto, paura ancestrale della vendetta dei morti alle Arginuse, in particolare degli strateghi ateniesi condannati da una democrazia impazzita. Paura dello stesso riso, che non sia radice amara di una profezia alla rovescia. Tutte queste paure prendono corpo nel dio della poesia drammatica, Dioniso, presentato quale caricatura del divino, che – nelle spire dei pericoli e delle difficoltà – arriva più di una volta a farsela sotto (Cf. G. MARANGoN, Tremori di un dio, paure di un popolo: note introduttive alle Rane di Aristofane, Chioggia 2003, pp. 12-14). A questo punto s’innesca la terapia del teatro. Come far echeggiare queste paure nella vita di giovani, incamminati all’Esame di Stato? Come renderli consapevoli (senza appesantirli) delle loro paure: paure di fronte alle future scelte di studio e di vita, di fronte alla prospettiva di un difficile impiego? Forse anche di fronte al profilarsi di un impegno affettivo stabile? L’insegnante traduce e attualizza il testo. Fa capire che da sempre il cuore umano è solcato anche dalla paura; che non si è soli nella traversata; che c’è sempre uno Xantia accanto al pavido Dioniso spaesato negli inferi; che la risata può lenire il morso dell’inquietudine freudiana. Di qui nasce lo stimolo alla posa capricciosa, al tono di voce inedito, al costume fantasmagorico: tutto concorre a sciogliere timori e perplessità. La regista dal canto suo trova l’espediente della “bilancia umana” su cui “pesare” i versi dei poeti, fa immaginare la barca di Caronte, inventa strane portantine o cataletti da morto, fa volteggiare il Coro di rane nelle figure più singolari: ora 30 su cadenze morbide, ora con ritmicità frenetica. È una sfida continua contro se stessi: occorre far ridere, pur pensando in filigrana a situazioni problematiche (quelle di Atene e quelle personali). occorre far ridere, anche se è più facile far piangere che ridere. occorre far ridere con la parola, col gesto, con la musica, perché questa è la regola della commedia; e tale rimane il testo delle Rane. Un’unica tregua è lasciata alla distensione riflessiva – nel momento della “paràbasi” – quando il Coro degli iniziati ai misteri sfila davanti agli spettatori e gli grida in faccia le malefatte di una democrazia mal capita, di una gestione della cosa pubblica guastata dagli interessi di parte, di un prurito insano di novità, di una fiducia eccessiva concessa ai demagoghi. Quindi riprende la temperie comica: il riso è provocato dai colpi di scena, in un crescendo che porta all’esito finale. Eschilo è il prescelto: lui, non altri, dovrà ritornare su, ad Atene, con i suoi consigli di saggezza, mentre qualcuno gli guarderà nell’Ade il trono della poesia. Al brindisi e all’augurio conclusivo partecipa anche Plutone, il dio dell’Ade. Una sorta di catarsi in cui l’animo si distende sereno, dopo un viaggio tra paure e un confronto tra alterchi e risate. Rimane indimenticabile poi – a fine maggio 2003 – la lunga corsa in pullman fino ad Altamura, per riproporre alla Rassegna internazionale del Teatro Classico Scolastico questa perla di Aristofane: la traversata dello stivale fino in Puglia con le scenografie nel bagagliaio; una sosta d’arte a Bari; soggiorno ad Altamura, presso i padri Salesiani, anche per l’assessore alla cultura dott.ssa Borella, per il prof. Gentilini e l’instancabile regista Franca Rossi, ossequiati dal sindaco della cittadina. Messa in scena dello spettacolo il giorno 27, e ritorno con la gioia di aver – oltretutto – allietato tanti altri studenti, venuti da varie parti d’Italia per una gara d’interpretazione teatrale. La passione e il talento profusi nello spettacolo hanno dato pure qualche frutto mediatico: I premio per la commedia al Liceo “Veronese” di Chioggia. Quello spettacolo rimane nel cuore, come restano nel cuore i versi di Aristofane e i giovani interpreti, splendidi non solo nella recitazione. Le Rane dell’anno scolastico 2003-04 sono state una palestra di collaborazione gioiosa, sulle tracce di un messaggio di moderazione; una proposta di saggezza antica e sempre nuova; un grande vaccino contro le paure che si celano anche sotto le pose scanzonate degli anni verdi. In fondo, la paura si allea più d’una volta alla speranza. E una paura vigile resta oltretutto madre della sicurezza. 31 Tradurre i classici greci e lasciarsene sedurre Susi Boscarato Mentre scrivo queste righe a margine delle belle iniziative promosse dal nostro Liceo per celebrare i venticinque anni di attività del laboratorio di teatro classico antico, già fervono i lavori per la messa in scena di un altro testo tragico: le Coefore di Eschilo. L’originale greco, su ampi brani del quale i nostri studenti condurranno quest’anno in classe una lettura filologicamente corretta e criticamente fondata, è uno dei pochi drammi rimastici del primo e – a giudizio di Aristofane – del più grande dei tre poeti tragici ateniesi del V secolo a.C., ai quali si fa risalire la nascita del teatro occidentale. Di questo testo nel mese di maggio i nostri studenti proporranno alla cittadinanza e agli altri alunni del Liceo, una rappresentazione che si basa sulla traduzione, riduzione e adattamento del testo originale eschileo cui mi sono dedicata durante i mesi estivi e la primissima parte di questo nuovo anno scolastico. Dopo la Medea, l’Ippolito, l’Alcesti di Euripide e l’Antigone di Sofocle, le Coefore hanno rappresentato per me, non solo il mio quinto impegno di traduzione di un testo tragico greco, ma anche – su invito dei curatori di questo libro – l’occasione di fare un po’ il punto sulla non semplice questione del “come” tradurre un testo greco; e soprattutto come tradurlo quando si tratta di un testo teatrale destinato ad essere rappresentato ad un pubblico di oggi, composto anche di non specialisti e non classicisti. La prima domanda cui trovare una risposta soddisfacente, è quindi sempre 32 stata per me, quella su quale modalità linguistica usare per “ri-raccontare” a gente di oggi, in un italiano di oggi, storie che io leggevo – innamorandomene – in una lingua diversa, antica, certo straordinariamente viva e vitale, ma tuttavia appartenente ad una cultura e portatrice di una visione del mondo apparentemente distanti da noi e dal nostro tempo. Traducendo da questa lingua, mi sono sempre più chiaramente resa conto di come sia profondamente sbagliato – oltre che impossibile – passare direttamente dalle parole dell’originale greco a quelle italiane più o meno ad esse corrispondenti. Mi sono anche resa conto che il mio primo sforzo avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di risalire dalle parole di volta in volta pronunciate dai personaggi, alle situazioni, ai fatti, al significato d’insieme delle vicende raccontate dai testi originali, così da arrivare a ridirle a gente di oggi nella lingua di oggi: e così facendo, suscitare nei nostri spettatori contemporanei, almeno un’eco dell’interesse, dei sentimenti, del coinvolgimento emotivo che il testo originale era stato in grado di suscitare nei suoi originari spettatori. In quegli uomini e (con tutta probabilità) in quelle donne, che nel V secolo si radunavano sul declivio di una collina immersa nell’aria e nella luce del cielo senza nubi di Atene, per ascoltare e condividere il significato ultimo di parole di volta in volta nette e taglienti, o ambiguamente precise, intessute di metafore alate, di arditi neologismi, di simbolici richiami ai miti e alla storia di un tempo lontano, parole che però hanno finito col diventare paradigmi della fatica e della sofferenza, ma anche della grandezza, dell’umana esistenza, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi cielo. Per questo, nel tradurre testi così fondamentali, dovevo anche essere disposta all’occasionale tradimento della “lettera” dell’originale, pur di salvaguardarne il messaggio di insieme e di fondo. Perché, se è vero quello che dice Virginia Woolf, e cioè che “Il greco è […] la letteratura dei capolavori”, per la quale “non ci sono scuole, predecessori o eredi”1, e che quindi essa potrebbe essere gustata – e forse neppure appieno – solo nella lingua originale; è secondo me altret- 1 2 tanto vero, e prezioso per noi confusi viaggiatori di questo tempo così povero di guide e di maestri, ciò che invece dice lo scrittore spagnolo Javier Marìas: “I testi originali sono un po’ come le partiture musicali; le traduzioni sono un po’ come le esecuzioni o gli adattamenti di ciò che senza di esse tace, e con il tempo impallidisce o si trasforma in geroglifico per i discendenti di chi scrisse l’irripetibile e intoccabile e inalterabile testo”2. Continuiamo quindi a farle parlare e risuonare quelle antiche voci, e ad ascoltarle: perché solo se non smarriremo il senso e il valore del nostro passato, potremo sperare di continuare a costruire un presente e un futuro migliore per noi e per i nostri figli. Cf. V. WooLF, Sul fatto di non sapere il greco (traduzione di Livio Bacchi Wilcock), Milano, Il Saggiatore, 1963. Dal discorso pronunciato da J. MARìAS a Dortmund il 7 dicembre 1997 per la consegna del premio “Nelly Sachs”. 33 L’Alcesti di Raboni: note di messa in scena Patrizia Aricò Alcesti o la recita dell’esilio vede la luce negli “Elefanti Garzanti” nel settembre 20021. Il dramma è stato richiesto e pensato per il “Teatro olimpico” di Vicenza, ma è destinato a non esservi rappresentato e Raboni, che ne ha scritto le ultime scene a Yale nell’aprile dell’anno precedente, in occasione del suo primo viaggio negli Stati Uniti, dovrà aspettare altri due anni prima di vederlo in scena. La prima avrà luogo il 7 gennaio 2004 presso il Teatro “Santa Chiara” di Brescia, ad opera del Centro Teatrale Bresciano, per la regia di Cesare Lievi e l’interpretazione di Ester Galazzi, Roberto Trifirò, Gianfranco Varetto, Francesco Vitale. In concomitanza con l’iniziativa teatrale, si tiene in Brescia un ciclo di Seminari promosso dalla sezione locale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dal titolo “Sacrifici al femminile. Alcesti in scena da Euripide a Raboni”. Al ciclo di seminari Raboni interviene il 12 dicembre 2003, parlando di “Alcesti” e i disastri del Novecento e contribuendo a chiarire le prospettive attualizzanti del suo ricorso alla vicenda della mitica eroina. Nell’anno scolastico 2008-09 il Liceo Classico di Chioggia decide di mettere in scena questo dramma allo scopo di dare una visione altra della tragedia dell’eroina tessala, già rappresentata l’anno precedente nella versione euripidea. Le scelte nella messinscena per i ragazzi prevedono – previo consenso della signora Patrizia Valduga, oggi vedova Raboni – l’inserimento di un coro assente nel testo raboniano, di cui ho curato la preparazione personalmente, seguendo 34 il metodo che Susanne Martinet descrive nel suo libro La musica del corpo2 per quanto riguarda il lavoro sul gesto e sulla voce. L’inserzione di parti coreutiche nel testo di Raboni nasce in primo luogo dall’esigenza didattica di coinvolgere nell’attività tutti gli studenti della classe, ma viene ritenuta in fase di progettazione strumento interessante per marcare l’intensità drammatica costitutiva del testo originale. Le battute attribuite al coro, infatti, nascono proprio dal testo di Raboni, e mirano a segnare emotivamente ciò che succede in scena, realizzando una sorta di controscena che il coro occupa senza mai interagire con i personaggi, ma restando efficacemente presente per segnare il momento drammatico. Tali inserzioni devono essere intese non a modificare il testo dell’autore, quanto piuttosto a sottolinearne i passaggi più salienti. Nel percorso ispirato al metodo della Martinet il clima di lavoro non è mai giudicante o competitivo, ma rassicurante, affinché ciascun componente il gruppo-classe abbia la possibilità di potersi esprimere liberamente. Lo scopo è far sì che si apprenda un metodo, non un contenuto; chi guida il gruppo non deve dire a priori cosa fare o non fare: i contenuti emergono dal gruppo che è continuamente stimolato a rinviare i propri feedback attraverso le azioni, poiché l’aspetto discorsivo viene escluso il più possibile. L’obiettivo non è la rappresentazione, ma il fare, che diventa strumento logico e sensato: deve esserci spazio anche per la libertà di sbagliare, dato che non vi è un modo “giu- sto” o “sbagliato” in senso assoluto. Anche un’azione sbagliata contiene al suo interno la forma giusta, poiché ciascuno ha in sé il proprio “modo”, da cui emerge questa forma. Lo spirito che anima questo tipo di lavoro è aperto e mobile, attratto dalle cose profonde e sottili, un continuo assaporare il piacere gratuito della ricerca per scoprire un percorso che si va allargando in profondità, così da poter riflettere “sul significato di un comportamento, di un atteggiamento, stabilendo dei paralleli con situazioni quotidiane; respirare un’atmosfera di fiducia, di calore, affinché si apprezzino il confronto costruttivo e la qualità della relazione”3. Lo scopo del lavoro è, e resta, quello di comunicare un’esperienza. Il gruppo non deve ricercare una performance tecnicamente perfetta, anche se a volte nell’osservazione del prodotto finale è possibile avvertire la sensazione di un lavoro preparato. È chiaro che un gruppo che condivide la stessa passione può trasmettere l’immagine di un ingranaggio ben lubrificato; l’abitudine di sentire l’altro e il fatto di avere la capacità di ipotizzare le eventuali reazioni generano una complicità che, quando si manifesta nel corso di improvvisazioni collettive, sorprende per la sua qualità. Alcesti risponde alle esigenze di chi vuole ripensare alla storia più recente, o meglio alle sue lacerazioni, di cui appunto parla il testo di Raboni, attraverso le vicende di tre personaggi in fuga sullo sfondo di una persecuzione storica, non definita temporalmente, ma che si inquadra nel secolo terribile che ci ha preceduto. Le lacerazioni storiche sono anche quelle dell’animo dei tre protagonisti che, cercando di gestire la folle situazione che stanno vivendo, trovano rifugio in un teatro. La scena nel dramma di Raboni inizia con un suono di sirena che in una notte nebbiosa segna un inseguimento; in seguito entrano in scena i tre personaggi, due uomini ed una donna. Nelle rappresentazioni del 2008 la nostra scelta privilegia in apertura di dramma l’entrata del coro: la scena si apre su una folla di viaggiatori che attraversano il palco, ognuno con la propria valigia di dimensione e formato diverso, come a segnare il proprio vissuto. È uno stato d’animo quello che si vuole sottolineare. Pian piano si definisce un gruppo a proscenio, a sinistra del palco, con i protagonisti sulla destra dello stesso, posizionati di schiena. Dopo essersi definito come gruppo, il coro prende la parola al suono sordo delle valigie che sbattono sul pavimento e i suoi membri anticipano frammenti di ciò che poi, a seguire, verrà detto dai personaggi. Questi frammenti di battuta, distribuiti tra i suoi componenti, vengono pronunciati con velocità e colore della voce differenti, eccetto l’ultimo, espresso in forma corale a segnare l’importanza del termine che in esso identifica il luogo dell’azione: il teatro. 35 – Ecco, siete arrivati. – Sistematevi come meglio potete. – Ci saremmo certamente perduti/e questo fa sperare / che nessuno … – Qualcosa / […] ancora m’impedisce di capire – se siamo in un rifugio o in una trappola. – (Tutti) Siamo in un teatro4. Un lavoro sulla voce, funzionale a ciò che succede in scena, è stato presupposto fondamentale in questo tipo di percorso. La voce è senza dubbio il primo e più originale strumento che la musica ci ha dato. Ecco perché, durante il lavoro sul corpo, è interessante partire da una lettura articolata, senza nessuna pretesa specificamente musicale, ma come ulteriore mezzo a nostra disposizione per esprimere, per esprimerci. “La voce ha un posto specifico, è il riflesso della personalità, è lo specchio dell’anima. È lo strumento più completo che si possa immaginare per sperimentare di persona e senza intermediari il linguaggio musicale, effettuando nel contempo un lavoro di evoluzione personale”5. In questo lavoro il ruolo della voce è considerato in relazione al movimento, si pone come elemento di dialogo, mezzo di espressione con la stessa valenza del corpo. La voce può colorare, rafforzare o contrastare un movimento. Questo tipo di lavoro pone delle questioni soprattutto quando si vuole che la voce contrasti il movimento. In tal modo ci si concentra sul contenuto, ma si rischia di perderne l’accento. Quale deve essere l’energia utilizzata? In alcuni momenti diventa interessante interrompere il movimento, per conservare solo l’espressione vocale e viceversa. La voce è infatti un mezzo per entrare in comunicazione e per poter interagire. Tre sono gli elementi della voce che concorrono alla sua relazione con il movimento: respirazione, rumore e suono. Si tratta di dare qualità musicale 36 rispettando le leggi della composizione, punti forti, silenzi, contrasti. All’inizio vengono proposte delle soluzioni lavorando sul testo: ascolto del gruppo che traduce vocalmente il tema con un testo concreto, osservazione delle proposte di gestualità individuate dallo stesso gruppo. Una frase, una parola vengono trattati sia nella loro totalità che frammentati. Il testo viene affrontato nei suoi differenti aspetti e poi tradotto in modi diversi. Ciò avviene lavorando su più livelli: sulla velocità, l’intensità, gli spostamenti, la comunicazione, lo scambio, il controllo del volume. Questo permetterà di arricchire il proprio bagaglio, di saper gestire l’uso del linguaggio in maniera non convenzionale, di apprezzare la voce nel suo aspetto di strumento più completo e originale che appartiene alla musica. La scelta di utilizzare le parole di Raboni è voluta proprio per il senso che la presenza del coro rivendica sulla scena. Dopo averle pronunciate, il coro indietreggia, lasciando in scena le valigie, mentre i personaggi prendono vita e forma in un alternarsi che riprende verbalmente quello che il coro in prima istanza ha debitamente sottolineato. L’azione drammatica è semplice e lineare. I personaggi sono quattro: un uomo ancor giovane (Stefano-Admeto), la moglie (Sara-Alcesti), il padre (SimoneFerete) e “un ulteriore intermittente tetragonista, il Custode (“traghettatore” o “spedizioniere”), ambiguo […], fra il ruolo di angelo della morte e di salvatore”6. Simone, il padre, lo definisce come “quel tipo indecifrabile / che compare e scompare / come un orologio a cucù / o come la figura della morte / in certi campanili gotici …”7. Questo personaggio, nella nostra messa in scena, viene tratteggiato diversamente da come lo ha voluto Raboni. Si è lavorato sulla fisicità, volutamente imponente, e sul trucco, che ricorda tratti luciferini. L’abito indossato si risolve in un cappotto lungo e scuro. La nostra vicenda è ambientata in un teatro, in un’età che si inquadra a metà del ’900 in un clima segnato dall’oppressione del regime, la cui natura non viene mai dichiarata, ma si veste di persecuzione politica e di intolleranza. I tre attendono d’imbarcarsi per fuggire altrove, ma è proprio il Custode a chiarire che è possibile solo per due di loro imbarcarsi e dunque salvarsi. Quasi immediatamente viene esclusa dai due uomini la possibi- lità che sia Sara a non partire e da lì inizia tra Stefano e Simone un conflitto drammatico su cui si centralizza tutto il dramma. C’è un tentativo di soluzione del problema da parte di Sara, che propone di restare nascosti lì fino a quando la situazione cambi, cessi la persecuzione. Ma i due uomini non accettano e ne nasce uno scontro molto forte, che è volutamente di derivazione euripidea, soprattutto nelle parole con cui Simone rivendica il suo diritto a vivere: “Io ci tengo / ancora, ci tengo forse di più, / ci tengo for sen natamente / a quel po’ d’albe e di tramonti / che, chissà, potrei ancora vedere …”8. Ma, procedendo con ordine, vediamo il coro rientrare in scena per segnare un momento importante e cioè la definizione della personalità di Sara. Nel momento in cui lei esce per aggirarsi tra le quinte per ritrovare “un po’ di passato”9, un componente del coro apre le valigie, da cui in successione altri coreuti estraggono una maschera, un copione, un costume di scena ed un velo nero, che preannuncia il destino finale di Sara-Alcesti. Questi oggetti vengono in seguito lasciati sul fondo del palco, dal lato opposto alle valigie: quando Sara rientrerà, li troverà lì per “agirli” prima di tornare nel vivo della scena, con un coro muto che la osserverà e segnerà il momento con il gesto. I coreuti devono indispensabilmente recuperare il gesto come linguaggio, come possibilità di comunicazione, come modo per esprimere la propria personalità attraverso il corpo. Tale processo, 37 funzionale all’acquisizione della mimica, della gestualità, della ritmicità, diviene presupposto di tutte quelle successive attività in cui il ritmo è particolarmente evidente. Per il coro la mimica e la gestualità, nel particolare caso della danza, sono la forma più organizzata di educazione corporea, insieme di tanti elementi, che vanno dal movimento libero a quello sempre più organizzato individuale e di gruppo, da forme semplici di musica fino alla drammatizzazione. Questo momento in controscena scorre sul dialogo tra Simone e Stefano, quando quest’ultimo comunica al padre il fatto che a partire saranno solo due di loro. Appena Sara rientra, comincia a correre con la memoria al suo passato di attrice ed è qui che l’archetipo euripideo affiora con una splendida operazione metateatrale all’interno del dramma. Sara ricorda, ricorda di aver recitato proprio in quel teatro la parte dell’ancella di Alcesti e a furia d’ascoltare la tragedia della sua regina l’ha fatta propria. Il momento è segnato da un componente del coro che raccoglie nel velo nero gli oggetti, per consegnarli al Custode che, incrocian- 38 done lo sguardo, lo pone in cima al monte di valigie in un passaggio dallo scorrere lento ed inesorabile come il destino che attende Sara-Alcesti. C’è un momento in cui il coro sembra scambiare con Sara un pensiero, quando Sara racconta l’Alcesti euripidea attribuendo ai cittadini di Fere la battuta: “Soltanto / quando l’avrà perduta / saprà veramente cos’ha perduto”10 . Il nostro coro la riprende insieme ad un movimento circolare dei suoi componenti: è come se in questo momento fosse la memoria di Sara, che sta in scena in penombra, mentre esso rimane rigorosamente illuminato in controscena. Lo stesso si ripete in un secondo momento, poco prima che entri il Custode. Stavolta il verso, in un ripetersi quasi ossessivo compulsivo, sottolinea quello che, appena pronunciato da Sara, risulta inopinatamente significativo per ciò che accadrà dopo: “Non esita un istante / dà, in cambio della sua, la propria vita”11. Poi il coro esce. Ne rimane un unico componente, che sistema freneticamente le valigie in scena. Attraverso la ricostruzione del suo essere stata attrice, Sara tenta di colmare l’incomunicabilità tra i due uomini, che, come abbiamo visto, non sarà altro che il modo di sostanziare il dramma, il dramma delle loro vite, come una paradossale messinscena di quello che sono realmente, adesso ad un passo dall’esilio. Sara non accetta che ci sia una vittima designata e sostiene che “se partire tutti è impossibile / (e so bene, so bene che è impossibile!) / non c’è che una cosa da fare: / restare tutti qui”12. L’ipotesi che il teatro possa essere il luogo della salvezza è solo nella mente di Sara. I più realisti Simone e Stefano non credono che ci possa essere alternativa a che uno di loro rimanga. Il punto è solo trovare un criterio di scelta, ed è proprio Simone che propone un po’ sarcasticamente una specie di roulette russa. Una vecchia pistola, carica di un sol colpo, designerà il sacrificando: ma non si sparerà alla tempia di uno di loro, bensì ad un oggetto. Non un attacco alla persona dunque, ma ai sentimenti e di quelli più cari, cioè familiari. Sara, pronunciando amare parole, va via. Ha capito che non riuscirà mai a farli ragionare. Nel momento in cui esce, il coro rientra in scena in un iniziale gioco con il passaggio di quel velo che raccoglie gli oggetti a lei cari: il copione, la maschera, l’abito da scena. È questo un momento che segue alle parole di Simone, quando si accorge che Sara esce e dice appunto: “Ma dove va?”13. È come se la scena si congelasse sui due uomini ed il coro aprisse una parentesi, con il movimento e un lavoro sulla voce accompagnato dalla musica, come a segnare il destino di Sara-Alcesti. Una parentesi è d’obbligo sul ruolo che ricopre la musica in questo percorso. Essa esprime l’interiorità dell’animo umano, offrendo un ulteriore linguaggio adatto a dare forma e a comunicare i sentimenti, anche se in maniera meno definita di quanto accade con il linguaggio parlato. Il movimento diventa la causa dell’evento musicale. Utilizzando tutto il corpo e spostandolo nello spazio, ha la possibilità di diventare suono, fatto importante in un lavoro che mira a rendere musicale il corpo. Solitamente buona parte del lavoro sui ragazzi viene dedicata alla sensibilizzazione musicale attraverso l’ascolto di varie musiche, anche dal vivo, che poi sfocia in un’analisi, oppure in un punto di partenza per il movimento: si cerca un dialogo tra musica e movimento, affrontando questioni che richiamino le sensazioni suscitate dall’ascolto e le possibili implicazioni drammatiche. La musica suscita immagini, rende musicale il corpo, perché è la musicalità del movimento che dà respiro, vita e sensibilità. La musica ha un suo spazio in funzione di ciò che può dare al movimento e i coreuti devono cercare comunque i propri ritmi, la propria melodia interiore con accenti, silenzi, fraseggi. L’ultima scena descritta, peraltro, è stata pensata per offrire al pubblico anche i risultati di una delle esperienze più significative dei ragazzi del laboratorio di teatro. Mi riferisco al tentativo di utilizzo in essa della lingua dei segni, con un lavoro simile a quello gestuale nell’esclusione di ogni aspetto verbale, ma sostanzialmente diverso nei tratti specifici che lo caratterizzano. Anche se quella dei segni è una forma di linguaggio sufficientemente simile ad una lingua vocale per le caratteristiche di arbitrarietà che la contraddistinguono, è convinzione autorevole che i segni vadano osservati con occhi liberi dai condizionamenti della linguistica14. Ho perciò cercato di piegare alle esigenze corali i caratteri essenziali della struttura dei segni e del loro funzionamento, concentrandomi su 39 centralità del rapporto corpo-linguaggio, individuazione dell’ambito di articolazione dei segni (spazio dal bacino del segnante sino alla altezza del viso), e loro caratteristiche articolatorie (luoghi sul corpo, configurazioni e orientamento della mano, tipo di movimento)15. La mia scelta si è orientata verso l’identificazione di tre “parole” funzionali al momento teatrale in cui andavano inserite, per la loro espressione gestuale e il loro significato: un verbo afferrare, reso efficace dal movimento della mano nello spazio; un soggetto io, indicato dalla mano a pugno che preme al centro del torace; l’aggettivo possessivo mio, espresso da un indice che si muove nello spazio dall’esterno verso il cuore. Nell’alternanza dell’uso di questi segni il coro si muove sul palco pronunciando le battute “Potresti dirla viva/come potresti dirla morta” e “È allo stremo. Sta spirando…”16, con un lavoro sulla voce focalizzato sul controllo del volume come del ritmo con cui quest’ultime vengono pronunciate. Le battute del coro euripideo, ricordate da Sara, diventano ora rappresentative del suo destino, mentre abbandona delusa il teatro per entrare nella nebbia. La scena appare chiara al pubblico che la osserva in tutta la sua drammaticità: non occorre che conosca il 40 linguaggio dei segni, perché è la forza espressiva di questi ult imi ch e cre a l e condizioni emotive necessarie al momento drammatico, in cui la nuova Alcesti prende in mano il proprio destino identificandosi con la antica. Tornando alla nostra Sara-Alcesti, dopo essere uscita, non rientra più in scena, se non velata e comunque non più come Sara. “E nel ruolo di Alcesti ella ora cala se stessa: allontanandosi in silenzio, […] mette i due uomini di fronte al fatto compiuto della sua scelta, costringendoli con il suo sacrificio a vivere nel ricordo della loro meschina grettezza”17. Dopo un debole tentativo di andare a cercare la donna, i due sollecitati dal Custode che ha ben volutamente scosso le loro coscienze, fanno prevalere la loro personale convenienza. ogni affetto viene così sacrificato in nome del puro istinto di conservazione. Euripide ritorna nel finale. Una donna velata e muta, che si va definendo attraverso una coreografia, compare sul fondo della scena, per partire insieme ai due uomini. È Sara, e come recita la didascalia è, “riconoscibile ma misteriosamente mutata e con il volto nascosto da un velo”18. Ma l’epilogo di Raboni è si- curamente più amaro di quello euripideo, dove si poteva prefigurare una sorta di lieto fine. Qui invece il presunto riconoscimento rimanda al di fuori del dramma. Stefano e Simone non solo non conoscono l’identità della misteriosa passeggera, ma, come li ammonisce il Custode, non devono nemmeno rivolgerle la parola fino a che la nave non sarà salpata: “Ma attenzione: le istruzioni che ho avuto / e che devo trasmettervi / sono assolutamente inderogabili: / fino al momento dell’imbarco / o per meglio dire finché la nave / non si sarà staccata dalla riva / nessuno, né l’autista né voi due / (anzi: tanto meno voi due) / le potrà rivolgere la parola / né potrà parlare di lei. / Dovrete fare, insomma, / come se non ci fosse”19. E conclude in maniera minacciosa, come a prendere in causa l’antico divieto del dio dei morti ad orfeo: “E ricordatevi / che anche la minima infrazione / a questi ordini dei quali, ripeto,/ io sono soltanto il latore / metterebbe seriamente in pericolo / sia la sua vita che la vostra”20. Tutto in questo dramma rievoca un paesaggio infero, ma l’Alcesti di Raboni non racconta di un ritorno dall’aldilà, quanto di una fuga dall’inferno delle coscienze e per i due uomini nello specifico di un ingresso in un loro purgatorio. Nella sua Alcesti Raboni sembra andare controcorrente rispetto ai molti che hanno ripreso la vicenda dell’eroina, e lo fa scegliendo di evidenziare quello che nelle altre rivisitazioni troviamo minimizzato, sceglie cioè di drammatizzare quasi per l’intero dramma l’attrito fra padre e figlio che ha radici profonde: “Ti sei sempre comportato con me come con un debitore insolvente / o con un truffatore/ – come se ti avessi defraudato / d’una felicità o spensieratezza / della quale, chissà perché, / ti sentivi in diritto…”21. Questo tema, come abbiamo visto, segna tutto il dramma ed è alla base della scelta di Sara di sacrificarsi al posto dei due uomini, che ama entrambi per motivi diffe- 41 renti: il marito, uomo pragmatico e razionale, le ha sempre dato sicurezza; con il suocero condivide il suo amore per l’arte, per il teatro. “Io vi amo uno nell’altro, / uno a causa dell’altro, qualche volta / uno per rimpianto dell’altro, / indissolubilmente, / inestricabilmente…”22. Specularmente vantaggiosa, questa nuova situazione serve ad inasprire ulteriormente il rapporto già difficile tra i due. operazione volutamente portata avanti da Raboni per evidenziare la figura di Alcesti. E qui riemerge Euripide. Nel suo dramma la protagonista femminile è posta su un piano di superiorità: a lei Euripide assegna qualità e prerogative proprie dell’eroe maschile e lo fa sottraendole volutamente proprio ad Admeto. I drammaturghi successivi hanno fatto un’operazione quasi di rivalutazione 42 della figura di Admeto, ovviamente a scapito di Alcesti23. Raboni rimane invece volutamente in linea con il dramma euripideo, restituendo ad Alcesti il posto d’onore. La protagonista può compiere il suo sacrificio sullo sfondo di una disputa meschina tra i due uomini, che pensano solo a salvare la propria di vita, ed il finale segna inequivocabilmente ciò nel voler mantenere i due nella totale inconsapevolezza sull’identità della nuova passeggera, la misteriosa donna velata, ed è rimarcato da quell’ultima strana, improponibile e ridicola domanda posta da Stefano: “E così il terzo posto, / il posto che ci era stato promesso / e poi, di colpo, revocato, / il posto che ci siamo disputati / fino a roderci il cuore, / era per questa sconosciuta? / È per far partire lei, per salvarla, / che uno di noi tre / ha dovuto infine sacrificarsi?”24. Attraverso le parole di risposta del Custode, Raboni denuncia l’ultimo tentativo da parte dei due uomini di addossare a terzi la responsabilità del sacrificio di Sara-Alcesti, “capace non solo di un più acuto sentire ma anche, fin dall’inizio, di superiore consapevolezza: la vera e indiscussa eroina – a tutto tondo, come nel modello antico – del dramma”25. La Sara del nostro allestimento non indossa già il velo. Come è avvenuto per tutta la rappresentazione, anche in quest’ultimo momento l’oggetto scenico viene agito in prima istanza dal coro. Un lungo velo nero, che ricorda nel colore ma non nelle dimensioni quello già presente in scena – contenitore degli oggetti cari a Sara – compare in scena. Come in un gioco di rimandi, questo si ripropone come simbolo ricorrente per segnare l’inevitabile destino della protagonista. Il velo viene disposto lungo il fondale del palco dal 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 coro, che in seguito lo solleva verso l’alto come a creare una fitta nebbia che si alza all’improvviso e dietro la quale Sara danza il suo atto finale. La danza, sulle note della Ciaccona di Bach, si conclude con la resa di Sara al suo destino, suggerita dal suo entrare dentro il velo fino ad esserne completamente ricoperta. Nell’ultima immagine dello spettacolo Sara avanza a proscenio nel crescendo della musica, come a imporre all’attenzione del pubblico il suo trionfo sulle contraddizioni laceranti della recita nell’accettazione del suo destino. G. RABoNI, Alcesti o La recita dell’esilio, Milano, Garzanti, 2002. La si legga anche in IDEM, L’opera poetica, Milano, Mondadori, 2006 e in EURIPIDE, WIELAND, RILKE, YoURCENAR, RABoNI, Alcesti. Variazioni sul mito, a cura di M. P. PATToNI, Venezia, Marsilio, 2006. A quest’ultima edizione fanno riferimento le citazioni seguenti. S. MARTINET, La musica del corpo. Manuale di espressione corporea, Trento, Erickson, 1992. S. MARTINET, La musica, cit., p. 16. G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 207. S. MARTINET, La musica, cit., p. 142. M. P. PATToNI, Introduzione a Alcesti. Variazioni, cit., p. 41. G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 236. G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 243. Ibidem, p. 213. Ibidem, p. 231. Ibidem. Ibidem, p. 249. Ibidem, p. 255. Per le teorie dello SToKE sul concetto strutturalistico di arbitrarietà del linguaggio dei segni, per l’opinione dello JoUISoN sulla necessità di non guardare ai segni condizionati dalla linguistica e per le caratteristiche articolatorie di questo linguaggio ci limitiamo a fare riferimento qui a S. GENSINI, Manuale di semiotica, Roma, Carocci, 2004, pp. 359-363. Cf. ibidem. G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 230. M. P. PATToNI, Introduzione, cit., p. 43. G. RABoNI, Alcesti, cit., p. 264. Ibidem. Ibidem. Ibidem, p. 218-219. Ibidem, p. 228. “Eliminando lo scontro di Admeto con il padre e togliendogli inoltre la responsabilità di lasciare consapevolmente morire qualcun altro al posto suo, di certo si consegue l’obiettivo di rivalutare il debole marito di Alcesti, sottraendogli quelle componenti che potevano inficiare lo statuto di eroe positivo” (M. P. PATToNI, Introduzione, cit., p. 48). G. RABoNI, 2006, p. 265. G. PATToNI, Introduzione, cit., p. 48. 43 Un manifesto lungo 25... anni Dino Memmo Rare volte mi è capitato, nel raccogliere l’invito ad illustrare un fascicolo monografico, una silloge poetica o la locandina di una rappresentazione teatrale, di aver avuto così pochi dubbi come davanti alla richiesta e alla possibilità di poter affidare alla più libera creatività il compito di immedesimarmi fin da subito nello spirito e nella sacralità offerti, per felice occasione, dalla tragedia greca. Per fissarne quasi un emblema, e potere, nel contempo, tuffarmi per qualche attimo nella magica atmosfera del mito e della leggenda. Ricordo l’entusiasmo con cui il collega Giannino Crocco mi parlava, nell’ormai lontano 1985, della prima “avventura” teatrale della sezione classica del Liceo “Veronese”, tutta impegnata nella drammatizzazione e nell’allestimento di Edipo Re di Sofocle. E ciò per guidare i giovani allievi ad una consapevolezza più vitale e profonda del patrimonio letterario antico, dei suoi valori eterni, presenti anche nella realtà moderna e quotidiana, e perciò universali. Un’esperienza senza dubbio entusiasmante. La quale, nata come tentativo didattico – forse quasi una sorta di scommessa – era destinata a prendere piede e consistenza al punto di divenire una prassi ordinaria nel progetto educativo della sezione classica, una scadenza attesa e un impegno perseguito fino al traguardo di un quarto di secolo. Attraverso esperienze di studio, di teatro e di analisi storiche che hanno scandagliato la tragedia greca in lungo e in largo, soffermandosi soprattutto su Eu- 44 ripide, considerato un autore molto vicino alla contemporaneità, con le Baccanti, l’Ippolito, la Medea, le Troiane, Alcesti e tante altre anche di Aristofane e di altri autori. Ricordo il fervore con cui Giannino mi parlava della tragedia appena finita di tradurre: vi aveva scoperto, rese esplicite, alcune intuizioni che da tempo andavano rimescolando il suo spirito di studioso e di artista-regista. ormai non gli rimaneva che avventurarsi nell’impresa, e subito di trovare nel sottoscritto, assieme ad altri colleghi, dei collaboratori per una iniziativa che avrebbe avuto dei risultati sicuramente superiori ad ogni aspettativa. Per quanto mi riguardava, non mi restava che metter mano al lavoro, e subito dover trovare con lui la via d’uscita ad una necessaria traduzione graficoespressiva che sinteticamente potesse manifestare, in un disegno inizialmente monocromo, la più esplicita evocazione del soggetto. Per individuare alcuni “simboli”, per indicare qualche tratto od “evento” atto a richiamare alcune “memorie” della problematica proposta. Questioni e aspetti questi, che si sono poi ripetuti nel corso degli anni successivi con puntuali e immutati interessi e necessità nella collaborazione con gli amicicolleghi, che hanno raccolto l’eredità preziosa e imperdibile di questa tradizione. Sono così scaturiti nel corso degli anni venticinque manifesti, venticinque storie, con inserimenti anche “estranei” alla tradizione classica, come quelli relativi alla commedia goldoniana, alla drammaturgia di Shakespeare, o a qualche rivisitazione del repertorio della tragedia greca in chiave moderna. Venticinque “immagini”, “storie” e altrettanti momenti di vita e di contingenze esistenziali. Vissute, sia nella scelta, sia nelle rappresentazioni, con l’intensità spirituale e psicologica che il teatro, classico o moderno, richiede; e presentate anche attraverso le illustrazioni grafiche che hanno puntualmente accompagnato le varie esperienze. Perché il “racconto” potesse continuare e permettere di lasciare una riflessione, un ricordo tangibile, oltre ogni altra considerazione. Ci sono elementi che accomunano queste “avventure” letterarie e grafiche anche diverse: i protagonisti, uomini o donne, sono tutti e sempre chiamati a grandi scelte. Amano e si fanno amare, odiano o si fanno odiare, esultano nella gioia o si consumano nel dolore; più spesso suscitano compassione e pietà, nel bene e nel male. Le immagini li colgono, spesso e volutamente, in vissuti esistenziali i cui tratti dominanti mi paiono essere i seguenti: – i protagonisti sono ritratti nei momenti più cruciali e drammatici della vicenda; – conoscono e vivono “le cose intime e segrete”: profondità e intimità di vita, anche quando la loro vita è quella di “danzatrici” come nelle Baccanti, o di “petulanti”, come nelle Baruffe o nelle Morbinose; – la dimensione “misteriosa” dell’esistere. Tutti stimoli intellettuali e curiosità culturali che ho cercato di esprimere attraverso i miei disegni e i miei colori, trasformandoli nell’essenzialità del segno, nell’efficacia del colore e condensati – mi auguro – in palesi simbologie. Soprattutto nelle ultime locandine, ove il colore, apparendo più generoso e coinvolgente, ha allargato la quinta da cui i protagonisti emergono e si impongono, fino a dominare la scena e a rendere all’istante l’intera complessità della vicenda vissuta. Come si verifica nel caso dell’ultima fatica, affrontata per allestire la tragedia narrata nell’Agamennone di Seneca. Vi sono, all’interno delle varie illustrazioni, elementi comuni che affiorano anche in disegni di diversa ispirazione, e la complessità delle composizioni credo stia ad indicare, a bocce ferme, che nel mio inconscio sono stati ben presenti i momenti di una “storia” vissuta nelle sue varie vicissitudini, e che l’intersecarsi di tanti e diversi motivi possa bene esprimere il groviglio delle situazioni. Che sono metafora della vita. Credo anche, e mi auguro, che la ricorrenza di un venticinquesimo di esperienze didattiche, pedagogiche e culturali come quelle vissute dal Liceo “Veronese” non abbia chiuso il suo ciclo: in primo luogo, perché questa vastissima tematica non può ritenersi completamente esplorata ed esaurita; in secondo luogo - e direi soprattutto - perché dato il patrimonio di competenze, abilità e conoscenze acquisite e maturate sul campo, c’è da pensare e da sperare, che altri ottimi frutti possano ancora maturare. 45 L’esperienza del Laboratorio teatrale al “Veronese” Antonio Giuseppe Peligra Ricordo che, senza ben sapere quello che stavo facendo, ho esordito come “re magio” con una tunichetta rossa... Preparare uno spettacolo, pensare a come il personaggio si sarebbe vestito o a come si sarebbe comportato, mi emozionava come fare il presepe a Natale o come ascoltare le favole delle Mille e una notte stando a letto col mio papà: una magia, un incantesimo in cui mi sentivo libero di giocare, trasformarmi e tornare bambino. Da liceale già recitavo nella compagnia locale “Piccolo Teatro Città di Chioggia”, nella quale conobbi la storica regista del laboratorio di teatro classico del “Veronese” Franca Ardizzon. Inoltre, grazie al professor Marangon, fin dalla quarta ginnasio presi parte all’annuale allestimento di uno spettacolo classico. Ecuba, Ione, Elettra (Sofocle), Baccanti e Rane mi hanno accompagnato di anno in anno per tutto il Liceo. E sul finire di una prova di Elettra dicevo a Franca: “Vorrei vivere facendo questo…”. Stare sul palco aveva la stessa magia di quando ero bambino; ma ora diventava anche una tra le tante ricerche di un senso nella mia vita, un modo per ascoltare e confrontarmi (in solidale compagnia di messaggeri ed Ecube) anche con ciò che mi faceva soffrire, un modo per ritrovare il mio corpo, per imparare a conoscerlo e accettarlo. 46 Anche i miei insegnanti del Liceo (salvo alcuni casi, va detto) non erano soliti leggere la lezione da antologie, ma, anzi, vivevano usando come strumento ciò che amavano e insegnavano. Studiare greco con la professoressa Susi Boscarato non era solo grammatica, era la possibilità per me di vedere come la nostra cultura, la nostra etica, le nostre scelte hanno un’origine e non sono sempre immutabili. Leggere Rimbaud con lei era cercare attraverso quelle metafore, quelle parole, la carne tormentata di quell’uomo con domande e desideri non dissimili dai miei e credo da quelli di molti, molti altri. L’incontro col professor Gentilini e la scoperta della filosofia è stata una liberazione da convinzioni precostituite e il coraggio di cercare: è sempre stato possibile approfondire e condividere questa ricerca, trovando in lui una persona molto generosa. Stupendo è stato il “Progetto Shakespeare” ideato dal professor Brunello Filippo, nella forma mentis di trovare nel testo teatrale, oltre che il contesto storico e culturale in cui è inserito, anche le figure nascoste dentro all’opera stessa: psicologiche, narrative, tematiche. E ancora la disponibilità del professor Marangon, che seguiva il progetto del Laboratorio di teatro classico e diventava così un vero collega sul palco: cercando con noi le scene e i costumi migliori, facendo un grande lavoro di ricerca e analisi sul testo e sulla sua traduzione. Con lui ho partecipato a concorsi nazionali di “Teatro classico nelle scuole”, “sperimentando” le mie prime rudimentali tournées. Dopo essermi diplomato alla “Accade- mia di Arte Drammatica Paolo Grassi” di Milano, ho iniziato a lavorare come attore con Massimo Castri, uno degli ultimi esponenti del grande teatro di regia. Il maestro utilizza un metodo, attinto da Stanislavskij, per cui, riconosciute le dinamiche comportamentali all’interno di una scena, l’attore le agirà immaginando con i suoi partner un corrispettivo comportamentale più concreto. Ad esempio, se nella scena finale tra Dioniso e Penteo nelle Baccanti avviene una persuasiva seduzione sul povero Penteo da parte di Dioniso, gli attori non andranno ad agire un generico e sconosciuto “Dioniso” e “Penteo”, ma renderanno caldi, vividi i personaggi, immaginando di essere, mettiamo il caso, un medico nazista e una sua vittima in un esperimento. Così gli attori potranno attingere a immagini, corpi, situazioni molto realistiche e non cadranno in una recitazione ampollosa e vuota di intenzioni. Saper leggere queste dinamiche è certo un percorso iniziato con i miei ottimi professori e nell’esperienza del Laboratorio di Teatro Classico. Grazie dunque di cuore a questi amici e insegnanti, da Luciano Loffreda, che ha creduto in me e mi ha permesso di iniziare il “mestiere” con la compagnia “Piccolo Teatro di Chioggia”, a Paolo Penzo, che mi ha insegnato la pazienza e che in teatro serve anche saper montare una scena, non solo far bene la parte; grazie alle scene di Paolo Doria, alle regie di Franca Rossi, sempre disponibile alle proposte degli attori. Grazie a Gianna e alle sue luci, a Dino e ai suoi suoni, a Laura Pagiola e al trucco delle mie cinque tragedie, ai miei insegnanti, ai miei amici e compagni di viaggio in quella preziosa esperienza, in particolare Stefano Angarano, Diletta Perini, Annamaria Gennaro. Grazie di cuore! 47 La Tragedia greca a Chioggia: un’esperienza indimenticabile Stefano Angarano È difficile riassumere in poche righe le mie sensazioni sull’esperienza del teatro classico, ma ritengo quanto mai opportuno celebrare con la giusta risonanza i venticinque anni della Tragedia greca a Chioggia. Trovo che sia stata un’occasione culturale e formativa di grande importanza nel mio percorso personale. È davvero significativo un approccio a pietre miliari della nostra cultura, non solo di tipo teorico e libresco, ma vivido e sostanziale, attraverso il diretto coinvolgimento emotivo, dato dal calarsi nelle vesti e nelle emozioni dei personaggi. Ciò ha reso anche più feconda e duratura la memoria dei miei studi classici, che così rimangono ancora più indelebili nella mia formazione. L’essere protagonisti nelle vicende degli dèi e degli eroi pone a stretto contatto con i princìpi dell’etica, della morale, della filosofia. Peraltro, nel corso del mio triennio (anni 2001-2003), sono stato interprete, nonché uno dei promotori, dell’unica commedia classica rappresentata in venticinque anni, le Rane di Aristofane, che mi ha permesso di affrontare tematiche storiche e socio-politiche diverse e peculiari rispetto a quelle tradizionalmente presenti nelle tragedie. Le Rane si sono classificate prime nella Rassegna Scolastica Internazionale di Teatro Classico ad Altamura (BA) e mi hanno valso un riconoscimento per il ruolo di Eschilo al concorso “Teatro dalla Scuola” 48 a Vicenza. Numerose sono state nel corso degli anni le partecipazioni a concorsi e rassegne teatrali, riscuotendo gradimento di pubblico e lusinghiere soddisfazioni. Ricordo con piacere e nostalgia anche Elettra di Sofocle, il mio debutto nella tragedia greca, e le Baccanti di Euripide, interpretazione che mi ha emozionato, in cui ho cercato di trasfondere grande pathos, allestimento premiato come miglior realizzazione a Vicenza. La mia partecipazione triennale alla tragedia, come attore e collaboratore ai costumi e alla scenografia, ha accresciuto il mio interesse e la passione per il teatro, tanto da entrare a far parte del “Piccolo Teatro Città di Chioggia”, diretto da Franca Rossi. Nel corso degli anni, pregevoli innovazioni hanno impreziosito l’allestimento: la colonna sonora dal vivo, che ha offerto ai cultori di musica l’occasione di dimostrare il loro talento, le coreografie del coro, sempre più articolate e virtuosistiche, le accattivanti contaminazioni letterarie in chiave contemporanea degli ultimi anni. Il venticinquesimo della tragedia è un traguardo fondamentale per il Liceo e la Città, per me è la meritata celebrazione di un’iniziativa formativa completa, interessante sotto molteplici punti di vista, uno dei ricordi più belli della mia esperienza liceale. La mia tragedia greca Francesca Rubin L’attimo di tensione che precede lo spettacolo. È l’attimo in cui le luci in sala si spengono, poco prima di sentire il cigolio ed il fruscio del sipario che si apre con quel rumore così antico. L’attimo in cui senti l’unica grande voce del pubblico, fatta dai mille bisbigli di ogni singolo spettatore, che si abbassa nello stesso istante. E tu, dall’altro lato del sipario, senti la vita di ogni singolo spettatore che si fonde con la vita di tutti gli altri e crea un unico grande essere, che poi è il pubblico, pronto a bere assetato tutto ciò che puoi offrirgli tu, su quel palcoscenico. Senti la tua vita e quella di tutti gli altri che scorre all’impazzata e si tende come un’unica corda di violino pronta a vibrare al più piccolo sussulto, immersa in quella calma apparente. La bonaccia prima della tempesta. A prima vista si potrebbe dire che non c’è nessuno. Solo tu, il buio e il silenzio. Ma lo senti. Non puoi neanche sapere con quali dei cinque sensi in realtà; perché il sipario è ancora chiuso; l’udito più che quel silenzio improvviso non può ascoltare; l’olfatto percepisce solo quell’odore polveroso che intride tutti i palcoscenici del mondo; il gusto... beh, il gusto avverte che non hai più una sola goccia di saliva in bocca e il tatto, se sei fortunata, può trovare appiglio in qualche altro attore lì con te, come quella sera successe a me, o in te stessa, oppure in qualche oggetto o parte del palcoscenico. Ma tu senti, nonostante i tuoi sensi non c’entrino niente, o almeno non quei cinque comuni sensi che tutti abbiamo, tu percepisci quell’unica grande belva tesa e pronta ad incantarsi davanti alla vicenda che hai da raccontarle, come un gigantesco Polifemo ammaliato dalle storie meravigliose inventate di sana pianta da un Nessuno qualunque. C’è quell’unicum, esiste. Ne accarezzi ogni singola componente, in quell’attimo prima della tempesta, come se fosse la persona che ami quando ci fai l’amore. E perdonatemi il paragone, ardito forse... ma qualsiasi attore con cui parlerete vi dirà che il Teatro è luogo d’Amore. Qualsiasi attore che sia mai stato su un palcoscenico e ci abbia sputato l’anima in pasto al suo pubblico potrà solo confermarvi questa affermazione del grande, da poco scomparso, Bosetti. In quella foga data dal panico, visualizzi ogni singolo spettatore, dentro gli occhi che ti ostini a tener chiusi, mentre l’adrenalina blocca la gola, fa impazzire il cuore, non ti lascia smettere di muovere nervosamente la gamba. ogni singolo respiro, per quanto silenzioso, ti rimbomba nell’orecchio; ogni singolo sospiro, con il suo ritmo diverso da quello di tutti gli altri spettatori, viene amplificato dal tuo che sembra impazzito e che cerchi di controllare come meglio puoi. Fu così anche quella sera. Era la prima dell’Antigone. Fu proprio Amore quello che iniziai a provare io, vestita di blu, tremante e seduta su uno sgabello, mentre stringevo le mani alla mia compagna di classe, che mai come in quell’attimo ho sentito davvero “sorella”, come la parte ci ri- 49 chiedeva (e stringendoci le mani nervose, ci facevamo forza a vicenda e ci sostenevamo reciprocamente). Questa è la grande magia del Teatro: rende possibile ciò che in qualsiasi altro contesto sarebbe persino inimmaginabile. E mi dicevo: “Francesca, sii Antigone. Sii Antigone. Tu sei Antigone... Lo spettacolo si aprì. L’incipit della tragedia che non mi veniva finché il sipario era chiuso fece capolino nella mia memoria al momento giusto. La voce non fece strani scherzi, liberavo la tensione, che avevo accumulato e che continuava a crescere ogni secondo di più sul palco, regalandola sotto forma di emozioni da lasciare ai miei benevoli spettatori, con tutta l’inesperienza di una ragazzina che si trovi a recitare nella parte della protagonista a diciannove anni. Feci sussultare la platea quando la guardia mi gettò a terra dopo avermi catturato (tanto rumore contro le assi di legno ma nessun problema: io e la guardia sapevamo come attutire il colpo fino a renderlo inoffensivo e come simulare la forza di un soldato che getti ai piedi del suo re una traditrice). Persino il piccolo incidente causato da uno scambio di battute sfalsato con Creonte fu superato e, spero, passò abbastanza inosservato. Le catene, che dovevo tenere alle braccia prima di essere segregata nella grotta e che in tutte le prove tendevano a scivolare via dai polsi sottili, mi fecero l’enorme cortesia di starsene buone, ferme e fredde contro la mia pelle, mentre guardavo la platea e questa volta scrutavo sul serio ogni singolo viso e vedevo davvero ogni sguardo puntato addosso a me (non credete a chi vi dice che dal palco, con i riflettori contro, non si vede niente: non è assolutamente vero!). Mi attaccavo all’uno o all’altro sguardo, cercavo di più quello di persone non conosciute personalmente e mi piace pensare, anche se forse è stata un’impressione “alterata” dalle mie emozioni, di aver visto qualche occhio lucido. Dopo le mie ultime battute, urlate per la rabbia di Antigone di essere trasci- 50 nata via, la tensione scese, anche se non se ne andò fino alla fine della tragedia. L’attenzione era puntata sui miei compagni di classe, da dietro le quinte tifavo per loro e mi auguravo che tutto andasse liscio. Fino all’ultima battuta del capo coro. Fine. Scroscio di applausi! In un’ora e mezza, forse meno, tutto era finito. Ma sbaglia chi crede che la tragedia greca sia solo una rappresentazione teatrale di una classe di Liceo. Sbagliano anche certi genitori che dicono ai figli: “Con tutte le volte che sei andato a provare, con tutto il tempo sottratto allo studio, tutto si è concluso in un’ora e qualcosa...”. La rappresentazione del Liceo Classico è un evento. Lo è per la classe interessata. Lo è per il singolo studente che vi partecipa, anche se non tutti si innamorano del teatro dopo aver recitato sul palcoscenico. È un evento anche per quegli studenti che accolgono l’esperienza con la tipica leggerezza ed allegria di ragazzi del Liceo, come è giusto che sia, o con l’imbarazzo di mettersi in gioco vestiti da antichi greci, su un palcoscenico, con amici e parenti che li guardano mentre rischiano di far la figura degli stupidi. La tragedia greca ha un significato per tutte quelle persone che si trovano a collaborare per realizzarla, dagli studenti ai professori, che magari avevano poco in comune prima, come me e i miei compagni di classe, ma che si ritrovano insieme per uno sforzo comune, per qualcosa che si realizza e si compie sotto i tuoi occhi e che ti dà tutta la soddisfazione di dire: questo lo abbiamo fatto NoI. È qualcosa per cui ti senti di ringraziare sinceramente i professori: povero professor Vianello, che umile e bonario ci ha sempre accompagnato, che mai voleva il suo nome nei ringraziamenti e grazie al quale invece si è potuta rappresentare l’Antigone! Ci seguiva silenzioso, senza osar mettere lingua nelle decisioni di regista e coreografa, con tutta l’attenzione del timido corteggiatore del Teatro che non proferisce parola, ma che guarda, ascolta e segue ogni più piccolo particolare e l’ennesima prova di quella medesima battuta come fosse declamata per la prima volta. Energica e creativa professoressa Aricò, che nell’impresa si è gettata con tutta se stessa, mettendoci l’anima, trovandosi per la prima volta ad essere coreografa della tragedia greca proprio con l’Antigone. Grazie a lei e alle sue grandi idee, il coro ha avuto una svolta verso la danza contemporanea. Grazie al suo entusiasmo anche il più imbranato degli studenti riusciva a trovare una posizione sul palcoscenico. Grazie di cuore all’incantevole Franca Ardizzon Rossi, alla quale ormai voglio bene come ad una “mamma”, alle volte severa, alle volte affettuosa, la quale permette fin dalle origini della tragedia classica a tanti altri ragazzi e ragazze come me di innamorarsi del Teatro! La signora Ardizzon Rossi presta la sua collaborazione professionale da sempre al Liceo Classico ed in ogni rappresentazione mette tutta la passione che ha (vi assicuro, smisurata!) e tutto il suo grande cuore (non lo dite a nessuno, ma la signora Franca recita dall’età di quattordici anni e, nonostante questo, ad ogni rappresentazione la si può trovare vicino al sipario, piccola, magra ed incurvata sul copione, con una lucina e gli occhialini a seguire ogni singola battuta e pronta a suggerire nella difficoltà, più tremante del ragazzino o della ragazzina che in quel momento si trova al centro del palcoscenico da solo. La signora Franca ad ogni rappresentazione vibra come vibra ogni singolo attore sul palco, solo che lei lo fa per venti persone, invece che per una sola). A lei devo la possibilità di aver approfondito quello che nacque quel giorno al “Don Bosco”, nonché l’immensa pazienza verso noi piccoli “attori” e l’infinita passione che la contraddistinguono. Questo è ciò in cui, credo, molti studenti che hanno vissuto l’esperienza della tragedia classica si riconosceranno. Antigone per me però è stata molto di più. Per me Antigone è stata crescita. Avevo, su quel palcoscenico, niente altro che un costume azzurro e la mia voce tremante dietro cui nascondermi. Ero un’Antigone ragazzina, dai capelli lunghi e ricci, gli occhi verdi e, vi assicuro, spalancati di paura, con il mio caratterino nervoso e teso di quegli anni del Liceo e tutta l’emotività un po’ bambina che avevo allora. Ero un’Antigone che non aveva paura di Creonte, una giovanissima ragazzina che contrapponeva la sicurezza e l’audacia un po’ sfrontata che hanno le ragazzine quando contraddicono il padre, sicure di aver ragione e di aver contravvenuto alle regole per una giusta causa. Non può che scapparmi un sorriso di tenerezza, ripensando a quella piccola Antigone coraggiosa ed emotiva, acqua e sapone e un po’ bambina. È la rappresentazione di un periodo della mia vita che mi ha portato ad essere quella che sono ora, così diversa, direi quasi opposta, dalla Francesca che nel 2007 calcava quel palcoscenico. Antigone è stata innamorarsi del Teatro. Non era la prima tragedia per me. L’anno prima avevo recitato nella parte della nutrice nell’Ippolito incoronato di Euripide. Lì però ero ancora in fase di “corteggiamento”, come quando giochi e scherzi con la persona per cui incominci a provare un interesse, fai le scaramucce e vivi con leggerezza e in modo scanzonato l’inizio di una simpatia. Ma con Antigone mi sono innamorata. Come in amore, così grazie ad Antigone io ho percepito l’altro. Che poi questo altro invece che essere un uomo, fosse una platea di spettatori, un pubblico che soffre e gioisce come un unico essere vivente; che fosse l’odore polveroso dei palcoscenici o la luce dei riflettori che ti scalda il viso; oppure la tensione e le emozioni che provi e fai provare a quella belva che ti trovi ai piedi; o semplicemente nell’essere un personaggio diverso ogni volta, nel far rivivere delle storie e dar giustizia a quei personaggi più fortunati di quelli di Pirandello, che un autore ce l’hanno e 51 aspettano solo di trovare qualcuno che assuma il loro volto; che fosse giocare, come certe lingue straniere ci ricordano, usando lo stesso termine per giocare e recitare; che invece di essere un uomo, fosse tutto ciò, questo non svilisce affatto quell’Amore immenso. Amo quell’attimo ricco di tensione un istante prima che si apra il sipario, che da quel 27 Maggio 2007 non è più riuscito ad uscirmi dal 52 cuore. Amo trasmettere e ricevere emozioni, farle uscire dal mio animo, riviverle ogni volta e mettermi in gioco su un palcoscenico. Amo il Teatro e le Emozioni. Lo amo grazie alla tragedia greca del Liceo Classico che ha fatto le presentazioni. Lo amo grazie ad Antigone. Cosa ha significato la tragedia greca del Liceo Classico per me? Amore. Le rappresentazioni 1985-86 Edipo re, Sofocle Quale uomo mai, quale uomo, ha conosciuto altra felicità se non quella che immagina, per cadere nella sventura dopo questa illusione? A Tebe di Beozia scoppia la peste, che secondo l’oracolo di Apollo cesserà solo quando sarà trovato l’assassino di Laio, il precedente re della città. Edipo, nuovo sovrano, convoca per l’indagine l’indovino Tiresia, che lo incolpa del delitto. La regina Giocasta, vedova di Laio e ora sposa di Edipo, lo rassicura: un pastore infatti ha raccontato che la morte del re è avvenuta per mano di briganti. Un nunzio di Corinto, venuto a portargli la notizia della morte del padre Polibo, gli svela che quest’ ultimo e la moglie Merope non erano i suoi veri genitori. E il vecchio pastore rivela che egli è nato da Laio e Giocasta, i quali lo hanno abbandonato sul monte Citerone: lui stesso ha ucciso Laio e poi sposato la regina sua madre. La profezia che lo voleva uccisore del padre e sposo della madre si è avverata. Per la disperazione Giocasta, che già da tempo ha compreso la verità, si impicca e Edipo si acceca. BV Teatro “Astra”, 12 giugno 1986 Regia Scenografia Aiutante tecnico Musica a cura di Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Edipo Sacerdote Creonte Tiresia Giocasta Messo di Corinto Servo di Laio Servo di Corinto Nunzio della casa di Giocasta Coro 54 Classi I, II, III Classico Paolo Doria, Dino Memmo Laura Corazza Isabella Longo Giannino Crocco Francesco Galera Cristiano Gebbin Enrico Ravagnan Giovanni Breggion Daniele Zennaro Sandra Boscarato Raffaele Tammeo Riccardo Rossi Mauro Gamba Pierangelo Laurenti Alunni delle classi I, II e III 55 56 1986-87 Baccanti, Euripide Per questo dimostrerò di essere un dio a lui e a tutti i Tebani Dioniso, figlio di Semele e Zeus, giunge a Tebe per rivendicare la sua natura divina e imporvi il proprio culto. Penteo, re della città, si oppone ai culti dionisiaci, inflessibile anche quando il padre Cadmo e l’indovino Tiresia si convincono di dover venerare il dio. Mentre le Tebane si trovano sul monte Citerone per i baccanali, Dioniso si finge straniero mandato dal dio, viene catturato e interrogato dal re. Ma miracolosamente si libera e, tornato da Penteo, ascolta con lui la notizia dei prodigi compiuti dalle baccanti sul monte. Stupito, Penteo vuole assistere al culto e travestito da donna raggiunge il Citerone, dove il suo corpo viene dilaniato dalle baccanti. La madre Agave stessa, ancora invasata, ne riporta in città il capo mozzo, credendolo di cerbiatto. Ritornata in sé, comprende, disperata, con gli altri Tebani gli enormi poteri del dio. BP Teatro “Astra”, 13-14 maggio 1987 Regia degli stessi interpreti Luci e allestimenti Paolo Doria Traduzione e adattamento Giannino Crocco Preside Francesco Galera Sezione classica Attori Agave Dioniso Cadmo Penteo Tiresia I Messaggero II Messaggero Guardie Annalisa Nordio Riccardo Rossi Enrico Ravagnan Giovanni Breggion Pierangelo Laurenti Sandro Bighin Mauro Gamba Riccardo Pozzato, Giuliano Veronese Baccanti Fabiana Zezza, Alessandra Lionello, Milena Ceci, Tiziana Donà, Daniela Ballarin, M. Cristina Cavallarin, Maris Stella, Cristina Napoleoni, Sandra Meneghini, Elisabetta Tonello, Barbara Caielli, Rosaria De Rosa 57 58 59 1987-88 Ippolito, Euripide Il giorno che uscì dalla casa di Pitteo e venne a vedere i misteri nella terra di Pandione, lo vide e fu morsa dentro da un amore tremendo. E ora è qui la sventurata e geme e si consuma Ippolito, figlio di Teseo, devoto ad Artemide, conduce vita casta, disprezzando amore e donne. Afrodite decide di punirlo, innamorando di lui Fedra, sua matrigna, la quale non rivela la passione al figlio per non disonorare Teseo suo sposo. Ma la nutrice ne riferisce i sentimenti a Ippolito, che maledice Fedra e tutte le donne. Per sfuggire all’illecito amore, Fedra si uccide, lasciando presso al cadavere un messaggio che accusa di violenza l’innocente Ippolito. Teseo invoca allora la punizione di Poseidone sul figlio, che, vincolato da giuramento, non può discolparsi. Le onde del mare in forma di mostro assalgono il carro di Ippolito, che rimane ferito a morte. Il padre, follemente compiaciuto, conosce da Artemide la verità e cade nella disperazione, vedendo morire il figlio tra le sue braccia. FB Teatro “Astra”, 25 maggio 1988 Regia degli stessi interpreti Luci e allestimenti Paolo Doria Traduzione e adattamento Giannino Crocco Preside Francesco Galera Sezione classica Attori Afrodite Ippolito Servo Nutrice Fedra Teseo Messaggero Artemide Susi Pellizzeri Giuliano Veronese Raffaele Tammeo Tiziana Donà Daniela Ballarin Riccardo Rossi Sandro Bighin Alberta Duse Coro dei cacciatori Renzo Cremona (capocoreuta), Gianluca Salvagno, Riccardo Pozzato, Massimo Gebbin, Marco Pagan Coro delle donne M. Cristina Cavallarin (capocoreuta), Maris Stella, Roberta Pagan, Francesca Fuiano, Barbara Caielli, Cristina Napoleoni, Federica Boscolo, Francesca Graziano, Tiziana Passaler, Elisabetta Tonello, Federica Zerbinato 60 61 1988-89 Medea, Euripide In tutti gli altri eventi la donna è piena di paure, e vile contro la forza e quando vede un ferro; ma quando, invece, è offesa nel suo talamo, non c'è cuore più sanguinario del suo Dopo anni di convivenza Giasone lascia la barbara Medea per unirsi in matrimonio con Glauce, figlia del re di Corinto. Alla donna viene concesso un giorno per lasciare per sempre la città. Giasone le giustifica la decisione invocando il bene dei figli, che cresceranno insieme a fratellastri nati da donna greca. Ma Medea manda un peplo e una corona imbevuti di veleno in dono a Glauce, che ne muore tra strazio e dolore. Anche il padre Creonte, muore abbracciando il cadavere della figlia e toccando il peplo avvelenato. Infine Medea esercita la sua terribile vendetta sui figli, che trafigge di propria mano, sottraendone i corpi a Giasone, mentre fugge sul carro del sole. MCDP Teatro “Don Bosco”, 25 maggio 1989 Regia Scenografia e luci Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Medea Giasone Nutrice Pedagogo Egeo Creonte Nunzio Figli Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria, Dino Boscolo Nata, Giampaolo Penzo Giannino Crocco Francesco Galera Barbara Caielli Giuliano Veronese M. Cristina Cavallarin Michele Tiozzo Sponton Riccardo Pozzato Gianluca Salvagno Renzo Cremona Iacopo Ravagnan, Franco Penzo Coro delle donne Alberta Duse, Maris Stella, Cristina Napoleoni, Sandra Sfriso, Federica Zerbinato, Sandra Meneghini, Federica Boscolo, Barbara Luardi, Barbara olante, Tiziana Passaler, Paola Penzo, Elisabetta Tonello, Barbara Zattoni, Stefania Boscolo, Roberta Marangon, Emanuela Passaler 62 63 64 1989-90 Le Troadi, Euripide L’innocenza è la lancia più temibile, come la verità. Per questo gli uomini la fuggono o tentano di annientarla. Poseidone compiange Troia distrutta, annientata dai Greci con l’aiuto di Atena. Ma proprio la dea gli chiede di rovinare il ritorno in patria dei Greci, colpevoli della violenza subita da Cassandra, rapita da Aiace nel suo tempio. Ecuba, disperata, priva anche degli affetti familiari, apprende dall’araldo Taltibio il suo futuro di schiava di odis- seo e l’uccisione del nipote Astianatte, cui dovrà dare degna sepoltura. Accusa allora Elena di essere responsabile della fine di Troia. Dopo il rito funebre, i Greci appiccano fuoco alla città ed Ecuba assieme alle altre vedove, consumate da lacrime e dolore, viene imbarcata in una nave diretta in Grecia. NP Teatro “Don Bosco”, 31 maggio 1990 Regia Scenografia, luci e realizzazione Direzione, luci ed effetti speciali Direzione audio Tecnico audio Trucco Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Ecuba Cassandra Andromaca Elena Taltibio Menelao Astianatte Posidone Atena Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo Dino Boscolo Nata Enrico Negro Laura Pagiola Giannino Crocco Francesco Galera Barbara Caielli Elisabetta Tonello Paola Penzo Francesca Graziano Renzo Cremona Sandro Bighin Riccardo Boscolo Gianluca Salvagno Tiziana Passaler Coro delle donne Roberta Antonucci, Marina Biazzi, Stefania Boscolo, Elisa Casson, Isabella Cistulli, Jessica De Ambrosi, Stefania De Nevi, Barbara Luardi, Roberta Marangon, Emanuela Passaler, Nicoletta Virdis, Barbara Zattoni, Federica Zezza 65 66 67 1990-91 Antigone, Sofocle Solo la saggezza può condurre alla verità, ma ad essere saggi si impara solo da vecchi e dopo aver molto sofferto Creonte ha vietato la sepoltura di Polinice, il figlio di Edipo che ha portato le armi contro Tebe. Antigone, sorella del defunto, infrange il decreto del re, per portare a termine quello che ritiene il suo dovere morale. Scoperto l'atto illegale, Creonte condanna e rinchiude in una spelonca la povera Antigone, perché vi muoia. Solo l’intervento del- l'indovino Tiresia fa vacillare la sua ostinata difesa delle leggi della città, ma tardi. Antigone è già morta. Emone, suo figlio, si toglie la vita, disperato per la perdita dell’amata, e la regina Euridice ne imita il gesto, sconvolta dalla morte del figlio. Solo ora Creonte comprende il proprio errore. FBA Teatro “Vittoria”, 14 giugno 1991 Collaborazione di Scenografia, luci e realizzazione Direttore di scena Direttore tecnico Trucco Costumi Traduzione e adattamento Preside Sezioni varie Attori Antigone Ismene Creonte Tiresia Emone Guardia Nunzio Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo Dino Boscolo Nata Laura Pagiola Centro Studi per il Teatro Classico Giannino Crocco Francesco Galera Emanuela Passaler Elisa Casson Jacopo Ravagnan Francesco Boscolo Guerrino Brombo Roberta Penzo Diego Boscolo Scarmanati Corifei Jessica De Ambrosi, Anna Cerilli Coro Roberta Antonucci, Arianna Boscolo Palo, Marisa Boscolo, Silvia Boscolo, Valeria Boscolo, Susanna Cavallarin, Maria Chiara Costa, Paola Grandis, Tiziana Schioppa, Elena Ballarin, Gudrum Kirchberger 68 69 70 1991-92 Alcesti, Euripide Ti ho preferito a me stessa, ti ho dato la vita, e morendo ti ho dato la luce. Non ho voluto vivere senza di te In cambio dell’ospitalità ricevuta, Apollo ha ottenuto dalle Moire che Admeto, re di Fere, possa sfuggire alla morte, a patto che qualcuno si sacrifichi per lui. Ma nemmeno i genitori hanno accettato di farlo. Solo l'amata sposa Alcesti ha voluto offrirsi. Il dio tenta invano di persuadere Thanatos a risparmiare la giovane donna. Un silenzio angoscioso pervade la casa e un’ancella spiega ai cittadini la commozione dell’eroica regina. Alcesti entra in scena a vedere un’ultima volta la luce del sole e chiedere ad Admeto eterna fedeltà. Poi muore. Ma Eracle, ospite di Admeto, viene informato da un servo della morte della regina e riesce a strapparla a Thanatos, restituendola velata allo sposo, che non potrà parlarle prima del terzo giorno. FD Teatro “Don Bosco”, 8 giugno 1992 Regia: Scenografia, luci e realizzazione Direttore di scena Tecnico audio Tecnico luci Trucco Traduzione e adattamento Preside Sezioni varie Attori Alcesti Admeto Ferete Eracle I ancella II ancella Figlio Figlia Thanatos Apollo Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo Dino Boscolo Nata Gianna Sambo Laura Pagiola Giannino Crocco Francesco Galera Elisa Casson Guerrino Brombo Francesco Boscolo M. Jacopo Ravagnan Anna Cerilli Jessica De Ambrosi Martino Frizziero Petra Frizziero Arianna Boscolo Ernesto Romano Coro Roberta Antonucci (capocoreuta), Fabiana Rossetto, Roberta Penzo, Gianna Vido, Valeria Gianni, Genny Mantoan, Roberta Dolfin, Valentina Bianchi, Tiziana Schioppa, Valeria Boscolo, Silvia Boscolo, Mariachiara Costa, Luca Bacci 71 72 73 1992-93 Il campiello, C. Goldoni Bondì Venezia cara/ Bondì Venezia mia, / Venezziani zioria. / Bondì, caro Campielo: / No dirò che ti zii brutto, né belo. / Ze brutto ti zé stà, mi me dezpiaze: / No zé bel quel ch'è bel, ma quel che piaze. In una piazzetta veneziana si svolge la vita quotidiana di un gruppo di famiglie popolane. Uomini e donne dirimpettai lavorano, giocano, spettegolano, litigano, si corteggiano, mangiano e bevono all'osteria, vivono una reciprocità fatta di simpatie, gelosie, attriti caratteristici di un piccolo mondo circoscritto. Le giovani sognano un marito, le madri vedove hanno fretta di sistemarle per potersi risposare, i fidanzati gelosi si contrastano, disposti a riappacificarsi quando il cava- liere Astolfi, Napoletano in Venezia per il Carnevale, offre loro di pranzare nella locanda al centro della piazzetta. Il Cavaliere gode della compagnia di questa umanità semplice e schietta e corteggia Gasparina, che scopre figlia di un nobile sposato a una Veneziana di rango ineguale. La sera la vicenda volge al termine: ogni contrasto si compone e il cavaliere ottiene la mano e la dote di Gasparina, che saluta Venezia e il campiello prima di partire con lui. SN Teatro “Don Bosco”, 3 giugno 1993 Regia Scenografia Preside Sezioni Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Francesco Galera Varie Attori Gasparina Donna Cate Lucieta Donna Pasqua Gnese orsola Zorzetto Anzoletto Cavalier Astolfi Fabrizio Sansuga Michla Alfiero Michela Criscenti Stefania Padoan Francesca Cester Arianna Saffayè Abir Saffayè Enrico Boscolo Roberto Pilat Samuele Gambaro Massimo Fabris Tiziana Boscolo Partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza 74 75 1993-94 Ippolito, Euripide Teatro “Don Bosco”, 1 giugno 1994 Regia Scenografia Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Ippolito Teseo Artemide Afrodite Fedra Nutrice Messaggero Servo Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giannino Crocco Francesco Galera Ernesto Romano Angelo Giambalvo Monica Cavallarin Adriana Romagnolo Valeria Michelon Valeria Gianni Martino Frizziero Marco Dal Maschio Coro Gianna Vido (capocoreuta), Valeria Agatea, Elide Boscolo, Emanuela Bullo, Silvia Cavallarin, Roberta Dolfin, Chiara Manfrin, Genny Mantoan, Annalisa Penzo, Federica Scarpa, Silvia Tiozzo, Francesca Vianello 76 77 1994-95 Troiane, Euripide Teatro “Don Bosco”, 6 giugno 1995 Regia Scenografia Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giannino Crocco Francesco Galera Partecipazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza e alla Rassegna “Teatro Scuola” di Mirano Belvedere 78 1995-96 Le morbinose, C. Goldoni So che m'avè burlà, frascone, stomegose / Lo so, siore spuzzette, che fe le morbinose Un gruppo di donne veneziane, colpite nel periodo di carnevale dal “morbin”, provano a prendersi gioco di un simpatico e benestante forestiero, il conte milanese Ferdinando, al quale viene fatto sapere che una giovane si è innamorata di lui. La giovane in questione è la bella Marinetta che, con l’aiuto della fida cameriera Tonina, riuscirà a compiere perfettamente lo scherzo. Ma Marinetta finisce per innamorarsi per davvero… DV Teatro “Don Bosco”, 7 maggio 1996 Regia Scenografia Preside Sezioni varie Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Francesco Galera 79 1995-96 Le baruffe chiozzotte, C. Goldoni Mì so, cossa ghe vorìa per giustarli. Un pezzo de legno ghe vorìa. Ma averàve perso el divertimento Gli uomini sono in mare. Le donne di famiglie vicine, prossime a imparentarsi, ne attendono l’arrivo, sedute per strada a ricamare e cucire. Lucietta è gelosa nel sentire Checca chiedere del suo fidanzato e Checca è indispettita da Toffolo Marmotina, che offre a Lucietta zucca “barucca”. Arrivano le barche e le donne vano incontro ai mariti. Lucietta e Pasqua riferiscono a modo loro l’accaduto. Monta la gelosia di Beppo, fidanzato di orsetta. Le altre donne insinuano a Titta Nane sospetti sul conto di Lucietta e Toffolo. Bersaglio dei fidanzati gelosi, il povero Marmotina si di- Teatro “Don Bosco”, 10 giugno 1996 Regia Scenografia Preside Sezioni varie Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Francesco Galera Primo premio alla regia alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza 80 fende a sassate e sporge denuncia contro gli assalitori. Isidoro, coadiutore del Cancelliere, interroga i testimoni separatamente: prima la giovanissima Checca, poi orsetta, sicura e sveglia, infine donna Libera, che si finge sorda per non dover dichiarare la propria età. Pasqua e Lucietta, convocate ma non interrogate, protestano, sospettando un’ingiustizia. Gli animi non si placano: mentre Isidoro mette pace tra i fidanzati furiosi, una nuova “baruffa” scoppia tra le donne. Solo l’autorità del coadiutore raccomoda infine tutto. MS 1996-97 Alcesti, Euripide Teatro “Don Bosco”, 10 giugno 1997 Regia Scenografia, luci, realizzazione Direttore di scena Tecnico audio Tecnico luci Trucco Costumi Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Alcesti Admeto Ancella Eracle Servo Ferete Apollo Thanatos Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo Dino Boscolo Nata Gianna Sambo Laura Pagiola, Teresa Ardizzon Teresa Ardizzon Giannino Crocco Francesco Galera Ilaria Padoan Leonardo Romano Annalisa Pelizza Gino Adriani Luca Fogo Pietro Penzo Simone Vianello Elena De Ambrosi Coro Giovanna Boscolo (corifeo), Cristina Baccarin, Silvia Ferro, Evelin Felice, Alessandra Fidelfatti, Cristiana Volpe, Roberta Tomasi, Laura Morelli, Chiara Manfrin, Caterina Sambo, Miriam Vianello, Giovanna Bellemo 81 82 1997-98 Edipo re, Sofocle Teatro del Museo Civico “S. Francesco fuori le mura” 12 giugno 1998 Regia Scenografia, luci e realizzazione Tecnico di scena Tecnici luci e suoni Trucco Traduzione e adattamento Preside Sezione classica Attori Edipo Giocasta Creonte Tiresia Sacerdote Servo Nunzio Messo Cittadino Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo Gianna Sambo, Dino Boscolo Nata Laura Pagiola, Teresa Ardizzon Giannino Crocco Francesco Galera Simone Vianello Alessandra Fidelfatti Luca Fogo Pietro Penzo Gino Adriani Simone Boscolo Luca Lunardi Michele Daloiso Alessio Padoan Coro Cristina Baccarin, Giovanna Bellemo, Cristina Bergamin, Paola Casadei, Elisabetta Cattin, Beatrice Fabbri, Evelin Felice, Elena Gianni, Laura Stefani, Miriam Vianello, Cristiana Volpe 83 84 1998-99 Sogno di una notte di mezza estate, Shakespeare Ciò che il tuo occhio al risveglio vedrà, il tuo vero amore diventerà Sullo sfondo della cornice del matrimonio di Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle guerriere Amazzoni, si svolge l'amore di Lisandro e Demetrio per Ermia, che ricambia il primo, ma per volontà del padre deve sposare il secondo, di cui è invece innamorata la bella Elena, sua amica. Lisandro ed Ermia, innamorati, scappano nel bosco e si perdono. oberon, re degli elfi, vuole punire la moglie Titania, regina delle fate, in seguito a una disobbedienza: il folletto Puck deve spremerle sugli occhi il succo del fiore di Cupido, ma l'incauto sbaglia e lo versa sugli occhi dell'addor- mentato Lisandro, che si innamora di Elena. Intanto una scalcinata banda di artigiani vorrebbe rappresentare la tragedia Piramo e Tisbe in occasione delle nozze di Teseo e Ippolita. Fra loro spicca il simpatico Nick Bottom, di cui Titania si innamora a causa del succo di Cupido. oberon, realizzata la vendetta, rimette poi le cose a posto: Lisandro e Demetrio si innamorano di nuovo rispettivamente di Ermia e di Elena. Si celebrano così tre matrimoni e la tragedia di Piramo e Tisbe viene simpaticamente rappresentata da Nick Bottom e i suoi amici. NZ Teatro “Don Bosco”, 8-9 maggio 1999 Regia Coordinamento Preside Sezioni varie Franca Ardizzon Rossi Nicoletta Gallimberti Francesco Galera 85 1998-99 Ecuba, Euripide Gli amici si riconoscono nei guai. Ce n’è fin troppi nella buona sorte Ilio è crollata sotto le armi greche. Il re Priamo è stato ucciso. La regina Ecuba e le donne troiane sono ora schiave dei Greci, accampati sul Bosforo, e Polissena, figlia di Ecuba, deve essere sgozzata sulla tomba di Achille per propiziare un felice ritorno in patria. Straziata dalla perdita di tanti figli maschi, Ecuba si vede sottrarre anche l’ultimo sostegno alla sua vecchiaia, quando viene a conoscenza di un’altra terribile sciagura: il giovane figlio Polidoro è stato ucciso a tradimento per avidità dal re di Tracia Polimestore, che avrebbe dovuto ospitarlo lontano dalla guerra. Con l’aiuto di Agamennone e delle schiave troiane, Ecuba, esasperata, consuma la sua vendetta sui figli del re tracio e su Polimestore stesso. La maledizione sinistra di questi su Ecuba e Agamennone conclude il dramma. FDB Teatro “Don Bosco”, 8-9 giugno 1999 Teatro “S. Martino”, 10 giugno 1999 Regia Scenografia Tecnici di scena Musiche dal vivo Strumentisti Trucco Costumi Luci Presentatrice Adattamento del testo Preside Sezione classica Attori Spettro di Polidoro Ecuba Polissena odisseo Taltibio Ancella Agamennone Polimestore Guardie del corpo Figli di Polimestore Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata Guida e arrangiamento musicale di Carlo oro Silvio Camuffo (violino), Anna camuffo (flauto), Serena de’ Perini (clarinetto), Damiano Vianello (chitarra), Carlo oro (violoncello) Laura Pagiola Alessandra Fidelfatti, Giovanna Bellemo Monica Scarpa, Alessandro Gennaro Stefania Zitta Giuliano Marangon Francesco Galera Andrea Romagnolo Paola Perrone Paola Casadei Simone Boscolo Luca Lunardi Elena Gianni Michele Daloiso Alessio Padoan Alberto Perini, Daniele Mancuso Antonio Peligra, Marco Bighin Coro di prigioniere troiane Laura Stefani, Stefania Ardizzon, Elena Boscolo Bielo, Giovanna Bellemo, Cristina Bergamin, Miriam Vianello, Stefania Boscolo Zemello, Melissa Boscolo Gallo, Anna Agatea, Angela Chiereghin, Cristina Caldin, Lorenza Meneghello, Chiara Mantovan, Valeria Boscolo Bielo 86 87 1999-2000 Ione (“L’incontrato”), Euripide Se la sventura piomba sulla casa, si trovi forza venerando il cielo: al termine la sorte sarà buona per i buoni, maligna coi maligni Creusa è figlia del re ateniese Erètteo. Sedotta da Apollo, ha dato alla luce Ione, ma abbandonata dal dio, ha esposto in una grotta il bimbo, portato a sua insaputa all’oracolo di Delfi e allevatovi dalla Pizia. Creusa ha poi sposato Xuto, nuovo re di Atene, al quale non ha potuto dare figli. I due si recano a Delfi, dove l’oracolo predice a Xuto che la prima persona che incontrerà uscendo dal tempio sarà un suo figlio. Egli incontra Ione e, convintolo di esserne il padre, lo conduce ad Atene per festeggiare. Creusa lo crede frutto di un tradimento e decide di avvelenarlo, ma il ragazzo, scoperto il piano, cerca di uccidere la madre. Viene però fermato dalla Pizia, che gli rivela d’averlo trovato nel tempio da neonato e gli consegna il cesto e i gioielli con cui è stato abbandonato e che Creusa riconosce, comprendendo di esserne la madre. Ione, dubbioso, viene convinto da Atena, che, ex machina, gli rivela la sua figliolanza divina e gli raccomanda di non rivelare nulla a Xuto. La dea predice che dalla loro famiglia avranno origine tutte le tribù ateniesi. PG Teatro “Don Bosco”, 19-20 maggio 2000 Regia Scenografia Trucco Luci Tecnici di scena Costumi Presentatrice Adattamento del testo Musiche dal vivo Preside Sezione classica Attori Ermete Ione Creusa Xuto Vecchio precettore Servo di Creusa Pizia Atena Servi del tempio di Delfi Armigeri di Delfi Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Laura Pagiola Gianna Sambo, Monica Scarpa Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata Giovanna Bellemo, Miriam Vianello Lorenza Meneghello Giuliano Marangon Collaborazione degli “Amici della musica di Chioggia” Enrico Varagnolo (flauto), Linda Varagnolo (Violoncello), Ferdinando Aprile (clarinetto), Federico Bazzarello (percussioni) Francesco Galera Alessio Padoan Michele Daloiso Giovanna Bellemo Alessandro Gennaro Andrea Romagnolo Antonio Peligra Cristina Bergamin Paola Perrone Daniele Boscolo, Massimiliano Tiozzo Alberto Voltolina, Tommaso Signoretto Coro di ancelle Miriam Vianello (corifea), Elena Boscolo, Melissa Boscolo, Stefania Boscolo, Cristina Caldin, Angela Chiereghin, Stefania Zitta 88 89 90 2000-01 Elettra, Sofocle Senza padre né madre mi consumo, senza l'aiuto di un amico: straniera, serva disprezzata, vivo in casa di mio padre con logora veste; e in piedi mi cibo intorno a mense già vuote oreste torna dopo molti anni a Micene con l'amico Pilade e il Pedagogo, per vendicare, su ordine di Apollo, la morte del padre Agamennone, ucciso dalla moglie Clitemnestra e dall'amante Egisto. Il Pedagogo diffonde la falsa notizia della sua morte e Clitemnestra si crede al riparo dalla punizione del suo tradimento. La figlia Elettra, al contrario, si dispera: ha affidato oreste bambino al focese Strofio, per sottrarlo al destino del padre, ed è vissuta per anni tra i soprusi, nella speranza di vederlo tornare a far giustizia. Si reca quindi a piangere la sua sventura presso la tomba del padre, dove il fratello le si appalesa e progetta con lei la vendetta. Il giovane uccide senza pietà la madre supplicante nel palazzo e trascina fuori scena l’accorso Egisto per eliminarlo. EZ Teatro “Don Bosco”, 6-7 giugno 2001 Regia Scenografia Musica Trucco Luci Tecnici di scena Costumi Presentatrice Adattamento del testo Dirigente Sezione classica Attori Pedagogo oreste Pilade Elettra Crisotemi Clitemnestra Egisto Castore Polluce Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria, Stefano Angarano, Antonio Peligra Silvio Camuffo (violino), Anna Camuffo (clarinetto), Enrico Varagnolo (flauto), Linda Varagnolo (violoncello) Laura Pagiola Gianna Sambo, Mitzi Trolese Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata Paola Perrone, Mirta Tresin Gabriella Levantaci Giuliano Marangon Lalla Casetti Stefano Angarano Antonio Peligra Giovanni Caruso Paola Perrone Stefania Zitta Lorenza Meneghello Alberto Voltolina Samuele Busetto Riccardo Vianello Coro (donne di Micene) Angela Chiereghin (corifeo), Fabiana Baldin, Cristina Caldin, Chiara Mantovan, Anna Agatea, Diletta Perini, Annamaria Gennaro Comparse Ancella di Clitemnestra Valeria Boscolo Servi di Oreste Fabrizio Noto, Tommaso Signoretto 91 92 93 2001-02 Baccanti, Euripide Teatro “Don Bosco”, 6-7 giugno 2002 Museo Diocesano, 10 giugno 2002 Kursaal, 13 dicembre 2002 Regia Scenografia Musica Luci Trucco Costumi Tecnici di scena Adattamento del testo Presentazione Dirigente Sezione classica Attori Dioniso Tiresia Cadmo Penteo Guardia di Penteo I messaggero II messaggero Agave Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria, Stefano Angarano Anna Camuffo (clarinetto), Carlo M. Naccari, Elisa Mazzotta (flauto), Ferdinando Aprile, Mattia Palo, Serena De Perini (percussioni) Gianna Sambo, Mitzi Trolese Laura Pagiola, Salone New Style by Marika, Annamaria Gennaro, Antonio Peligra, Diletta Perini Dino Boscolo Nata, Giampaolo Penzo Giuliano Marangon Gabriella Levantaci Lalla Casetti Antonio Peligra Alberto Voltolina Andrea Venturini Stefano Angarano Riccardo Vianello Diletta Perini Daniele Boscolo Fabiana Baldin Coro delle Menadi d’Asia Chiara Perini (corifea), Alessandra Ravagnan, Alessandra Uliana, Annamaria Gennaro, Laura Perini, Laura Vido, Margherita Colombo, Valentina Dascanio Comparse Guida di Tiresia Guardia di Penteo Servi di Cadmo Giorgio Lunardi Fabrizio Noto Marco Bighin, Samuele Busetto Primo premio per la migliore realizzazione alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza 94 95 96 97 2002-03 Rane, Aristofane Non ha fatto vedere ruffiane, donne che partoriscono nei templi, che fanno l’amore coi fratelli, che dicono che non è vita la vita? Ecco che la città è tutta piena di burocrati, che imbrogliano ogni momento il popolo, e nessuno è più capace di fare la corsa delle fiaccole I grandi tragici di Atene sono morti e Dioniso scende nell’Ade per ridare un buon poeta a un’Atene che ha bisogno di guide in un momento tra i più cruciali della sua storia. Il dio varca la Palude Stigia con l’intenzione di riportare in vita il grande Euripide e, dopo aver zittito un coro di rane che gracidano un canto insopportabile in suo onore, lo trova finalmente, intento a contendersi con Eschilo il trono destinato al miglior tragediografo di ogni tempo. Dioniso viene scelto quale giudice di un agone poetico tra i due. Si contrappongono i contenuti e gli stili, si pesano con una bilancia i versi, senza che uno dei due possa prevalere. Finalmente si decide di premiare chi darà il consiglio politico più utile per Atene. Prevale Eschilo, maestro di valori morali e civili. Dioniso sceglie perciò di far tornare tra i vivi lui, che lascia a Sofocle il trono appena conquistato. Liceo “Cagnazzi”, Altamura (BA), 27 maggio 2003 Teatro “Don Bosco”, 3-4 giugno 2003 Museo Diocesano, 10 giugno 2003 Teatro “S. Marco”, Vicenza, 27 settembre 2003 Regia Scenografia Musica Trucco Costumi Tecnico luci Tecnici di scena Presentatrice Interpretazione e adattamento Dirigente Sezione classica Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria, Stefano Angarano, Antonio Peligra Serena De Perini (sassofono), Elisa Mazzotta (flauto), Mattia Boscolo Palo (percussioni) Laura Pagiola Annamaria Gennaro, Diletta Perini Gianna Sambo Giampaolo Penzo, Dino Boscolo Nata Ilaria Boscolo Gallo Giuliano Marangon Lalla Casetti Attori Xantia Dioniso Eracle Un morto Caronte Eaco Claudio Donaggio Antonio Peligra Stefano Bellemo Tania Tommasin Alberto Boscolo Zemelo Riccardo Vianello Serva di Proserpina ostessa Scodella Serva di Plutone Euripide Eschilo Plutone Federica Penzo Diletta Perini Mitzi Trolese Annamaria Gennaro Alberto Voltolina Stefano Angarano Federico Resler Coretto delle Rane Melania Ballarin, Margherita Colombo, Paola Roberta Boscolo, Laura Vido Coro degli Iniziati Diletta Perini (corifea), Laura Perini, Erika Boscolo Cegion, Andrea Pregnolato, Valeria Gentilini, Sofia Tiozzo Pezzoli, Angelo Mazzeo Comparse Servi dell’Ade Suonatrice di nacchere Bilancia Ferdinando Aprile, Roberto Palini Elisa Malusa Marco Bighin Primo premio alla Rassegna Internazionale di Teatro Classico di Altamura (BA) Premio per la migliore interpretazione collettiva e riconoscimento per l’interpretazione individuale di Stefano Angarano alla Rassegna Regionale “Teatro dalla Scuola” di Vicenza 98 99 100 101 2003-04 Ifigenia in Aulide, Euripide “Padre, sono pronta, questo corpo l’offro per la mia patria, per la Grecia, in sacrificio all’ara della dea, se è questo il volere divino”. Questo disse e stupì tutti a sentirla, al suo coraggio e alla sua virtù… La flotta greca è pronta a spiegare le vele alla volta di Troia, ma Artemide non concede i venti necessari alle navi, bloccate in Aulide. L’indovino Calcante rivela ad Agamennone che la dea diverrà benevola solo quando le sarà stata sacrificata Ifigenia, sua figlia. Il re invia allora un messaggero alla moglie Clitemnestra, affinché porti in Aulide la figlia, col pretesto di darla in sposa ad Achille. Giun- gono le donne, convinte di celebrare le nozze, ma un incontro casuale con Achille svela alla madre l’inganno. Per difendere la fanciulla, Achille è pronto a schierarsi contro l’intero esercito greco, ma Ifigenia decide di immolarsi. Al momento del sacrificio Artemide accoglie la giovane tra gli dei e la sostituisce con una cerva. L’esercito può finalmente salpare. FV Teatro “Don Bosco”, 21-22 maggio 2004 Museo Diocesano, 3 giugno 2004 Regia Scenografia Musica Trucco e acconciatura Costumi Luci Tecnico di scena Presentatrice Traduzione e adattamento Dirigente Sezione classica Attori Agamennone Vecchio servo Menelao Clitemnestra Ifigenia Achille I messaggero II messaggero oreste Franca Ardizzon Rossi Paolo Doria Elisa Malusa (tastiera), Stefanie Pittoni (violino), Ferdinando Aprile (tromba), Mattia Boscolo (percussioni) Laura Pagiola Margherita Colombo, Laura Vido, Gabriella Forzato, Luca Mancin Gianna Sambo Giampaolo Penzo Tania Tommasin Giuliano Marangon Lalla Casetti Andrea Pregnolato Stefano Bellemo Alberto Boscolo Laura Vido Margherita Colombo Claudio Donaggio Elisa Mazzotta Sofia Tiozzo Pietro Boscolo Coro di donne aulidensi Martina Boscolo, Paola Roberta Boscolo, Valeria Gentilini, Bianca Ferrarese, Francesca Siviero, Silvia Verì Coro di Argivi Ferdinando Aprile, Angelo Mazzeo, Federico Griguolo, Daniele Papa 102 103 2004-05 Medea, Euripide Teatro “Don Bosco”, 9-10 giugno 2005 Museo Diocesano, 10 giugno 2005 Regia Coreografia Scenografia Musica Trucco e acconciature Costumi Luci Tecnico di scena Collaborazione Adattamento del testo Dirigente Sezione classica Attori Nutrice Pedagogo Medea Creonte Giasone Egeo Nunzio Figli di Medea Figlia di Creonte Franca Ardizzon Rossi Rita Zambon Paolo Doria Martina Boscolo (pianola), Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso), Stefanie Pittoni (violino) Laura Pagiola Milva Lanza Gianna Sambo Gianpaolo Penzo Aldo Bottaro, Francesca Rubin, “Piccolo Teatro Città di Chioggia” Susi Boscarato Lalla Casetti Paola Roberta Boscolo Daniele Papa Elisa Mazzotta Mattia Boscolo Federico Griguolo Sebastian Bono Francesca Siviero Francesco Boscolo Lisetto, Francesco Voltolina Anna Boscolo Coro di donne corinzie Federica Bassano, Marianna Bighin, Alessia De Stefani, Bianca Ferrarese, Francesca Lanza, Francesca Padoan, Cristina Penzo, Valeria Rosteghin, Eleonora Schittullo, Silvia Verì 104 105 106 107 2005-06 Ippolito, Euripide Teatro “Don Bosco”, 25-26 maggio 2006 Museo Diocesano, 9 giugno 2006 Regia Coreografia Scenografia Musiche dal vivo Trucco e acconciature Costumi Luci Tecnico di scena Presentatrici Adattamento del testo Dirigente Sezione classica Attori Afrodite Ippolito Servo Nutrice Fedra Teseo Messo Artemide Franca Ardizzon Rossi Rita Zambon Paolo Doria Giacomo Bighin (chitarra), Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso), Stefanie Pittoni (violino) Laura Pagiola Milva Lanza Gianna Sambo Giampaolo Penzo Sandra Boscarato, Alessandra Lionello Susi Boscarato Lalla Casetti Francesca Padoan Lorenzo Morini Simone Cester Francesca Rubin Federica Bassano, Cristina Penzo Lorenzo Soncin Bianca Ferrarese Marianna Bighin Coro donne di Trezene Alessia De Stefani (corifea), Valeria Rosteghin (corifea), Elena Bellemo, Claudia Bighin, Anna Boscolo, Annalisa Boscolo, Veronica Cecchini, Laura Mazzaro, Sara Naccari, Valentina Varagnolo Coro di cacciatori di Trezene Francesco Bullo, Matteo Colombo, Alessandro Donin, Giorgio Lunardi 108 109 110 2006-07 Antigone, Sofocle Teatro “Don Bosco”, 28-29 maggio 2007 Museo Diocesano, 8 giugno 2007 Regia Coreografia Scenografia Musica Acconciature e trucco Costumi Luci Traduzione e adattamento Coordinamento Riprese e foto Dirigente Sezione classica Attori Antigone Creonte Ismene Emone Euridice Guardia Tiresia Messaggero Guardie Fanciullo Franca Ardizzon Rossi Patrizia Aricò Paolo Doria Andrea Chinaglia (pianoforte), Mariangela Caruso Spinelli (flauto traverso) Laura Pagiola, Sara Scarpa Cristina Boscolo Luca Ballarin, Damiano Cavallarin Susi Boscarato Roberto Vianello Marco Boscolo Anzoletti Lalla Casetti Francesca Rubin Salvatore Liccardo Giulia Elardo Giovanni Zennaro Veronica Cecchini Francesco Bullo Carlo Zennaro Elena Bellemo Carlo Alberto Soncin, Marco Zennaro Anna Bellemo Coro di vecchi Tebani Claudia Bighin, Caterina Colombo, Alessandra Deotto, Ylenia Duse, Laura Mazzaro, Micol Nordio, Valentina Naccari, Ludovico Scarpa, Benedetta Trolese, Carlo Trolese, Valeria Tiozzo, Federico Voltolina 111 112 113 114 2007-08 Alcesti, Euripide Teatro “Don Bosco”, 29-30 aprile 2008 Teatro antico di Àkrai, Palazzolo Acreide (SR), 19 maggio 2008 Museo Diocesano, 6 giugno 2008 Regia Coreografia Scenografia Musica Trucco e acconciature Luci Tecnici di scena Costumi Traduzione e adattamento Coordinamento Riprese e foto Dirigente Sezione classica Attori Alcesti Admeto Apollo Thanatos Ancella di Alcesti Eracle Ferete Servo Servo di Ferete Alcesti velata Figli Franca Ardizzon Rossi Patrizia Aricò Paolo Doria, alunne II e III Classico Andrea Chinaglia (pianoforte) Sara Scarpa Patrizia Aricò Giampaolo Penzo, Francesco Bullo Patrizia Aricò Susi Boscarato Roberto Vianello Marco Boscolo Anzoletti Lalla Casetti Inessa Baldin Giovanni Zennaro Claudia Bighin Caterina Colombo Laura Mazzaro Carlo Trolese Ludovico Scarpa Damiano Cavallarin Riccardo Trevisan Laura Mazzaro Marta Vianelli, Fiorenza Vianello Coro dei cittadini di Fere Benedetta Trolese (corifeo), Ilaria Dal Borgo, Lorenzo Rosteghin, Carlo Alberto Soncin, Anna Maria Tiozzo, Beatrice Veronese, Monica Voltolina Partecipazione al XIV Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani, Palazzolo Acreide (SR) Collaborazione del sig. Franco Storchi per l'incisione delle musiche eseguite nel Teatro antico di Àkrai 115 116 117 118 119 2008-09 Alcesti o La recita dell’esilio, Giovanni Raboni Io sono vecchio, tu sei giovane, ma entrambi credo, siamo adulti e letterati quanto basta per mutare con l’aiuto del tempo, in una specie di dolcezza, anche la più atroce delle colpe Mentre aspettano di imbarcarsi su una nave per fuggire dal loro paese, l’anziano Simone, suo figlio Stefano e la nuora Sara si rifugiano in un teatro. La città è controllata dai miliziani del regime e i tre cercheranno altrove la libertà. I posti a bordo della nave, però, sono solo due, ha comunicato un misterioso Custode. Mentre la donna, ignara, ritrova le sue memorie perlustrando quel teatro, in cui ha debuttato come Ancella nell'Alcesti di Euripide, padre e figlio provano a decidere chi dovrà sacrificarsi, affrontandosi in una lite colma di antichi rancori. Una specie di roulette russa, stabiliscono, sorteggerà tra i due chi debba partire con Sara. Ma la donna, che li ama entrambi, preferisce abbandonare il rifugio per salvarli. Facilmente rassegnati, i due partono con una Regina velata somigliante a Sara, portando con sé il rimorso e la vergogna d’avere potuto accettare il sacrificio di lei. DB Teatro “Don Bosco”, 8-9 maggio 2009 Museo Diocesano, 5 giugno 2009 Regia Coreografia Musica Trucco e acconciature Tecnico di scena Luci Adattamento del testo Coordinamento Riprese Foto Dirigente Sezione classica Attori Sara Stefano Simone Custode Franca Ardizzon Rossi Patrizia Aricò Andrea Chinaglia (pianoforte) Sara Scarpa Francesco Bullo Patrizia Aricò Franca Ardizzon Rossi, Patrizia Aricò, Roberto Vianello Roberto Vianello Paolo Serafini Giuseppe Doria, Marco Boscolo Anzoletti, Sergio Piva, Roberto Vianello Luigi Zennaro Brigitta Casula Damiano Cavallarin Leonardo Fornaro Federico Boscolo Soramio Coro Chiara Ravagnan (corifea), Luca Ballarin, Idil Besen, Elisa Boscolo, Giulia Boscolo, Ilaria Conselvan, Cristina Dal Gesso, Giulia D’Arrigo, Benedetta Doria, Ilaria Marcato, Alessandra Pescara, Giulia Ravagnan, Carlo Alberto Soncin Autorizzazione alla messa in scena e all'inserimento di momenti coreutici di Patrizia Valduga, vedova Raboni 120 121 122 123 2009-10 Agamennone, Seneca Tutto ciò che la Fortuna porta in alto, lo eleva per farlo precipitare Agamennone sta per tornare vincitore, dopo aver distrutto Troia, la più potente città dell’Asia. Ma la sposa Clitemestra sta progettando la sua morte con l’amante Egisto, figlio incestuoso di Tieste e della figlia Pelopia. Dopo dieci anni di guerra e una disastrosa tempesta di mare, che ha ucciso tanti eroi, la sua vittoria sta per essere definitivamente vanificata. Durante il banchetto, mentre indossa una veste da cui fatica a liberare le braccia, viene colpito al fianco con la spada da Egisto e riceve il colpo finale da un’ascia bipenne brandita dalla moglie Clitemestra. Cassandra, prigioniera troiana e concubina del re, ne descrive l’uccisione dall’esterno del palazzo, in un momento di furore profetico. I destini si rovesciano. Troia risorge e la vincitrice Micene conosce a sua volta la rovina. Ma la vendetta si abbatterà presto sugli assassini. FLT Teatro “Don Bosco” 7-8 maggio 2010 Museo Diocesano 5 giugno 2010 Regia Coreografia Scenografia Musica Trucco Costumi Traduzione, adattamento e coordinamento Riprese Foto Dirigente Sezione classica Attori ombra di Tieste Clitemestra Nutrice Egisto Euribate Cassandra Agamennone Elettra Strofio Guardie oreste Franca Ardizzon Rossi Patrizia Aricò Paolo Doria Andrea Chinaglia (pianoforte) Sara Scarpa Patrizia Aricò, Genny Tiozzo Roberto Vianello Paolo Serafini Marco Boscolo Anzoletti Luigi Zennaro Riccardo Fabris Giorgia De Bellis Maria Bellemo Francesco Giuriato Giuseppe Doria Anna Baldin Alberto Ranieri Benedetta Fasolato Lorenzo Zennaro Davide Vianello, Niccolò Zampaolo Francesco Maria Tiozzo Coro delle donne di Micene Elisa Dughiero, Gaia Naccari, Alessia Penzo, Giulia Spanio, Giulia Verì, Benedetta Vianello Coro delle donne di Troia Francesca Donà, Barbara Penzo, Marta Salvagno, Francesca Venerucci, Eleonora Zucconi 124 125 126 127 Mentre questo volume va in stampa, si è già tenuta la prima delle Coefore di Eschilo. Forniamo di seguito la locandina, i dati e le immagini di questa ultima fatica. 128 2010-11 Coefore, di Eschilo Non si possono tradire i giuramenti. Meglio avere nemici gli uomini tutti, anziché gli dei oreste torna ad Argo in compagnia del fido Pilade, a vendicare per ordine di Apollo l’uccisione del padre Agamennone e sopprimerne gli assassini: la madre Clitemnestra e l’usurpatore Egisto. Alcune donne in vesti scure, guidate dalla sorella Elettra, portano alla sepoltura del sovrano recipienti per libagioni e corone di fiori: un sogno spaventoso ha infatti indotto la regina a inviarle a libare sul tumulo, per acquietare con un rito lo sposo ucciso. Il giovane si rivela alla sorella, pregandola di non tradirlo. Si finge straniero e annuncia falsamente la morte di oreste lontano. Ricevuta ospitalità, uccide con la spada Egisto, ingannato e disarmato. È poi la volta della madre, che invano implora il figlio d’aver pietà del seno che lo ha allattato: costretto a fare giustizia dalla volontà di Apollo, il figlio la trascina nel palazzo e la uccide. I cittadini ne approvano il gesto, ma egli vede le Erinni della madre che si accingono a perseguitarlo. Sono donne spaventose come Gorgoni, avvolte da serpi attorcigliate fino alle chiome. oreste, inseguito, deve fuggire. Teatro “Don Bosco” 6-7 Maggio 2011 Museo Diocesano 3 Giugno 2011 Regia Coreografia Scenografia Traduzione e adattamento Musiche Trucco e acconciature Pieghevoli di sala Coordinamento Foto Dirigente Sezione classica Attori oreste Pilade Elettra Custode Franca Ardizzon Rossi Patrizia Aricò Dino Memmo, Paolo Doria Susi Boscarato Francesco Bertotto Sara Scarpa Jacopo Ghirardon, Pietro Gradara Roberto Vianello Marco Boscolo Anzoletti Luigi Zennaro Barbara Penzo Davide Vianello Benedetta Vianello Niccolò Zampaolo Clitemnestra Cilissa Egisto Francesca Venerucci Eleonora Zucconi Emilio Filippo Penzo Coro di anziani di Argo Filippo Boscolo Anzoletti, Andrea Nordio, Stefano Nordio, Niccolò Piu Coro delle coefore Daisy Boscolo, Francesca Donà, Marta Salvagno (corifee), Federica De Boni, Maria Chiara De Perini, Sonia Donà, Francesca La Tanza, Francesca Pagan Erinni Alessia Camuffo, Benedetta Fornaro, Gloria Scarpa, Sara Zennaro 129 Il Liceo Classico “GIUSEPPE VERONESE” presenta VENERDÌ 6 MAGGIO 2011 - ore 21.00 Teatro “Don Bosco” - CHIOGGIA di Eschilo Oreste - Barbara Penzo Pilade - Davide Vianello Elettra - Benedetta Vianello Custode - Niccolò Zampaolo Clitemnestra - Francesca Venerucci Cilissa - Eleonora Zucconi Egisto - Emilio Filippo Penzo Coro di anziani di Argo Filippo Boscolo Anzoletti, Andrea Nordio, Stefano Nordio, Niccolò Piu Coro delle coefore Daisy Boscolo Marchi, Francesca Donà, Marta Salvagno (corifee), Federica De Boni, Maria Chiara De Perini, Sonia Donà, Francesca La Tanza, Francesca Pagan Erinni: Alessia Camuffo, Benedetta Fornaro, Gloria Scarpa, Sara Zennaro Regia - Franca Ardizzon Rossi Coreografia - Patrizia Aricò Scenografia - Dino Memmo, Paolo Doria Traduzione e adattamento - Susi Boscarato Musiche - Francesco Bertotto Trucco e acconciature - Sara Scarpa Pieghevoli di sala - Jacopo Ghirardon, Pietro Gradara Coordinatore del progetto - Roberto Vianello Lo spettacolo verrà replicato per gli amici presso il Museo Diocesano VENERDÌ 3 GIUGNO - ore 21.30 Nell’occasione della replica verrà presentato il volume “25 anni di Teatro Classico a Chioggia” pubblicato con il contributo di: Città di Chioggia, Provincia di Venezia, Fondazione della Comunità Clodiense, Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco, Cassa di Risparmio di Venezia, Lions Club di Chioggia-Sottomarina. Città di Chioggia 130 Provincia di Venezia LIONS CLUB CHIOGGIA SOTTOMARINA 131 132 Ringraziamenti Il Liceo “Veronese” ringrazia i molti alunni, genitori e amici che, contattati in occasione delle celebrazioni del Venticinquesimo, hanno collaborato con entusiasmo, fornendo materiali, testimonianze e informazioni indispensabili per la ricostruzione della storia presentata in questo volume. Vogliamo ringraziare anche i molti che, non più provvisti di materiali, hanno tuttavia guardato con interesse e simpatia alla nostra iniziativa celebrativa, incoraggiando il non agevole lavoro di restituzione. Un grazie particolare al prof. Carmelo Alberti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ci ha consentito di pubblicare nel presente volume il suo intervento nella giornata delle celebrazioni, tenutasi il 15 maggio 2010 presso l’Auditorium di Calle San Nicolò, aiutandoci così a leggere in prospettiva attualizzante l’eredità del teatro antico. La nostra gratitudine va doverosamente estesa agli Enti che hanno patrocinato e supportato economicamente la realizzazione di questo volume: in primo luogo la Città di Chioggia, nelle persone dell’allora Sindaco, dott. Romano Tiozzo, e dell’allora Assessore Nicola Boscolo Pecchie; a seguire la Provincia di Venezia, La Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco, la Cassa di Risparmio di Venezia, il Lions Club, il Rotary Club, la Fondazione Clodiense. Grazie ai docenti e agli ex docenti che hanno collaborato in vario modo a questa ricostruzione della memoria teatrale del Liceo Classico: i proff. Patrizia Aricò, Susi Boscarato, olimpia Capodanno, Giannino Crocco, Alessandra Lionello, Giuliano Marangon, Dino Memmo. Siamo riconoscenti a don Vincenzo Tosello, direttore di “Nuova Scintilla”, che ci ha fornito alcune importanti informazioni dall'archivio del settimanale. Grazie agli alunni della II Classico 20092010, che hanno riassunto le trame dei drammi. I loro nomi, richiamati dalle sole iniziali nel testo, sono nell’ordine: Benedetta Vianello, Barbara Penzo, Francesco Bertotto, Maria Chiara De Perini, Niccolò Piu, Filippo Boscolo Anzoletti, Francesca Donà, Stefano Nordio, Davide Vianello, Marta Salvagno, Niccolò Zampaolo, Federica De Boni, Pietro Gradara, Eleonora Zucconi, Francesca Venerucci, Daisy Boscolo, Francesca La Tanza. Un ringraziamento sincero, infine, al nostro Dirigente, dott. Luigi Zennaro, che ha fortemente appoggiato l’iniziativa di questa pubblicazione, prodigandosi per sciogliere le molte difficoltà economiche e organizzative che l’hanno accompagnata. 135 Indice Prefazione pag. 3 Presentazione ” 5 Venticinque anni di storia ” 7 Celebrazione del Venticinquesimo ” 15 Testimonianze ” 25 Le rappresentazioni ” 53 Ringraziamenti ” 135 Provincia di Venezia Città di Chioggia Rotary Club Chioggia Lions Club Chioggia Finito di stampare nel mese di maggio 2011 da in Piove di Sacco - tel. 049 9704497 per conto di