Una storia complicata - Giovanni Fioriti Editore

Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34, 4, 267-285
L’IPOCONDRIA DALLA PSICOANALISI CLASSICA
ALLA PROSPETTIVA RELAZIONALE
Daniele Paradiso
Una storia complicata
Storicamente l'ipocondria è stata considerata dagli psicoanalisti in modo spesso provvisorio
e ambiguo. A seconda delle prospettive dei diversi autori, essa è considerata di volta in volta sia
un sintomo, sia una sindrome, sia un carattere: il cosiddetto “carattere ipocondriaco”1. Inoltre,
nella psicoanalisi classica l'ipocondria è stata associata a livelli differenti di organizzazione
della personalità (Rosenfeld 1958; Kernberg 1987; Röder et al. 1995, p. 31); situazioni posttraumatiche in organizzazioni sane (Ferenczi 1916, Anna Freud 1952); sintomi psicosomatici
in nevrosi attuali (Freud 1895); narcisismo (Freud 1914, Kohut 1971); manifestazioni di isteria
(Ferenczi 1919); stati di regressione del livello di organizzazione borderline (Kernberg 1967);
psicosi (Freud 1914, 1915; H. Rosenfeld 1958; D. Rosenfeld 1984); schizoidia e autismo (Steiner
1993; Nissen 2000, 2003).
Secondo Giuseppe Civitarese (Egidi Morpurgo e Civitarese 2011, p. 108), l'ipocondria è
così difficile da inquadrare proprio perché: “rappresenta un crocevia tra più vie regressive”. La
regressione è in questo caso vista soprattutto come un fenomeno soggettivo intrapsichico. La
psicopatologia dell'ipocondria però è probabilmente più complessa di un fenomeno individuale;
andrebbero maggiormente considerati gli aspetti sistemici e relazionali per poter integrare
alcune importanti contributi che provengono dalla psicoanalisi relazionale nordamericana.
L'intersoggettività rappresenta una prospettiva molto stimolante per cercare di comprendere
questi fenomeni.
L'idea che vorrei presentare è in parte alternativa e in parte complementare, più orientata in
senso sistemico e intersoggettivo, ma con radicali implicazioni dal punto di vista della pratica
clinica (cfr. Thelen 2005).
Nella psicoanalisi classica contemporanea (Eagle 2011) sembra possibile comprendere
l'ipocondria come una condizione soggettiva, che appare autoreferenziale, solo per mezzo
dell'impianto metapsicologico pulsionale monopersonale (Hanly 2011). In questo caso,
1
Secondo Kuchenhoff (1985): “La sindrome ipocondriaca non indica cioè alcuna malattia, ma la forma
fenomenologicamente autonoma di un rapporto Io-mondo particolare, caratterizzato da una amplificazione
progressiva del valore che riveste la malattia. Questo rapporto Io-mondo si fonda sulla perdita dell'ovvietà
naturale del vissuto di integrità somatica e psichica, cosicché l'attenzione e l'affettività si limitano a forme di
auto-osservazione, di sentimento di malattia, o di convinzione di malattia, mentre l'incontro interumano viene allo
stesso modo limitato e reso impossibile”.
SOTTOMESSO DICEMBRE 2015, ACCETTATO FEBBRAIO 2016
© Giovanni Fioriti Editore s.r.l.
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Daniele Paradiso
per comprendere l’ipocondria, dobbiamo riferirci al paradigma dell'arresto psichico o della
fissazione nella maturazione dei processi libidici di differenziazione-individuazione. La
patologia ipocondriaca inoltre potrebbe essere compresa anche seguendo il modello del trauma
psicoevolutivo relazionale, in questo caso l’analisi dell’esperienza infantile tiene maggiormente
conto del contesto di sviluppo, e implica un deficit nella strutturazione dell’Io (Levy 1932, A.
Freud 1952, Kohut 1977).
Questa contrapposizione tra la teoria dell'arresto psichico e quella del trauma relazionale
infantile ha attraversato il lavoro di illustri psicoanalisti2 che si sono occupati di ipocondria e molti
di loro, non potendo abbandonare il modello pulsionale, si sono impegnati nella costruzione di
elaborazioni teoriche raffinatissime, capaci di tenere insieme aspetti inconciliabili e contradditori,
purtroppo mai del tutto coerenti con la clinica. Soprattutto con l'evidenza del miglioramento in
analisi di pazienti che, da un punto di vista dello sviluppo dell’apparato psichico, avrebbero
dovuto trovarsi a un passo dalla psicosi. Queste due prospettive psicoanalitiche classiche si sono
alternate nel corso di più un secolo, nella prima parte di questo lavoro cercherò di ricostruirne
l’evoluzione e l’eredità da un punto di vista critico. Nella seconda parte, cercherò di confrontare
l’approccio classico al paziente ipocondriaco con quello relazionale allo scopo di evidenziare
quanto l’impostazione teorica di riferimento possa condizionare la pratica clinica. A seconda
che la nostra cornice di rifermento sia monopersonale o intersoggettiva, possiamo giungere ad
adottare un approccio terapeutico radicalmente differente e praticamente opposto con pazienti
che hanno la stessa diagnosi.
L'ipocondria nella psicoanalisi classica
Freud ha iniziato a occuparsi dell'ipocondria nel 1895 in Legittimità di separare dalla
nevrastenia un preciso complesso di sintomi come nevrosi d'angoscia (Freud 1895). Egli
scrive: “Non sempre l'ipocondria procede di pari passo con l'attesa angosciosa in generale; essa
esige, come condizione preliminare, l'esistenza di parestesie e di penose sensazioni somatiche.
L'ipocondria è perciò la forma preferita dai soggetti affetti da nevrastenia vera, quando, come
spesso avviene, vengono colpiti anche da nevrosi d'angoscia” (Freud 1895, pp. 155-156). Freud
inserisce inizialmente l'ipocondria tra le nevrosi attuali, causate cioè da conflitti attuali, e non
tra le psiconevrosi, che sono invece causate da complessi di origine infantile. Le “parestesie e
le penose sensazioni somatiche” deriverebbero, in questo primo modello, da un accumulo di
eccitazione libidica non elaborata psichicamente. I sintomi sarebbero perciò privi di significato
simbolico e "complessuale". In questo modello gli organi “parlano” e il loro linguaggio è
direttamente rappresentato da sensazioni fastidiose e di dolore (Cremerius 1957; Egidi Morpurgo
e Civitarese 2011, p.18). L'Io scisso osserva e ascolta questi tentativi di comunicazione inconscia
senza riuscire a comprenderli, sotto forma di “attesa angosciosa verso il corpo”3 (Freud 1895,
2
Stephen Mitchell (1988) ha ampiamente descritto e argomentato criticamente le prospettive alla base
di queste due scuole psicoanalitiche.
3
Colpisce il lettore l'estrema sensibilità clinica di Freud, che descrive inoltre, in questo scritto, tutti
i tipi di attacco di panico da lui osservati. Sappiamo che in alcuni momenti della sua vita lo stesso padre della
psicoanalisi può aver sofferto di gravi preoccupazioni ipocondriache. In un passaggio della lettera a Fliess n. 39,
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L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
p. 156). In questa visione il corpo è per la mente essenzialmente un oggetto, la mente cioè
vive in una condizione pienamente dualistica cartesiana (Damasio 1994). Il corpo è considerato
dall'“ipocondriaco cartesiano” come un oggetto indipendente dalle qualità ambivalenti, in fondo
estraneo e parzialmente inconoscibile. Il corpo è in una certa misura vissuto dal paziente come
un oggetto assillante, ambiguo, pericoloso, ma nello stesso tempo dimostra anche di essere
drammaticamente vivo e sensibile e in più, è misteriosamente collegato “in qualche modo” con
la mente.
Freud riprende il concetto di ipocondria nel suo lavoro fondamentale del 1914 Introduzione
al narcisismo in cui, seppur mantenendo la collocazione dell'ipocondria tra le nevrosi attuali,
la inserisce contemporaneamente nell'ambito delle nevrosi narcisistiche a causa del particolare
rivolgimento della libido verso l'Io; inoltre l'ipocondria viene collocata, per questa analogia nel
funzionamento dinamico, insieme alle schizofrenie4.
Freud ha messo per primo in evidenza l'autoreferenzialità narcisistica del paziente
ipocondriaco mettendolo a confronto con altre condizioni quali l'innamoramento, l'omosessualità
e la psicosi (Freud 1914).
In Italia, Anna Ferruta (2011) ha osservato come il difetto di soggettivazione del corpo
nell'ipocondria possa coincidere con il difetto di soggettivazione dell'apparato psichico.
Nell'ambiguità della formula freudiana “dove era l'Es deve subentrare l'Io” (Freud 1932),
secondo Ferruta, è racchiuso l'enigma dell'ipocondria5. Seguendo il pensiero di questa autrice,
nei casi di ipocondria, il corpo viene “sottomesso” dalla mente, e non soggettivato. Proprio
come l'Io della celebre affermazione freudiana potrebbe conquistare il territorio dell'Es senza
mai giungere compiutamente ad “essere l'Es”. Il controllo razionale che l'ipocondriaco esercita
sul suo corpo è una forma di dominio senza reale integrazione, un dominio completamente
basato sul dualismo cartesiano corpo-mente. Anna Ferruta si spinge oltre, fino a considerare
che, allo stesso modo, può presentarsi il problema delle sottomissione tra paziente e analista,
nella stanza d'analisi, e possono avvenire movimenti paranoicali di transfert e controtransfert,
laddove il paziente ipocondriaco senta la paura che l'interpretazione possa essergli imposta dal
terapeuta, senza che ci sia stato prima un lavoro psichico tra le loro due menti, senza che ci sia
stato un preliminare “accoppiamento generativo”. Questa successiva considerazione di Anna
Ferruta esce, anche se in modo ambiguo, dal limite monopersonale, per giungere attraverso la
del 19 aprile del 1894, sembra confessare il proprio coinvolgimento diretto in questo tipo di angosce e le proprie
difficoltà: “È troppo penoso per il medico che si arrabatta per tutte le ore del giorno nel comprendere le nevrosi
non sapere se lui stesso soffre di una depressione logica o ipocondriaca [...]. I monelli e mia moglie stanno bene;
a lei non ho confidato i miei deliri di morte”.
Anche nel saggio L'Inconscio (Freud 1915) ipocondria e schizofrenia rimangono apparentate nella
famiglia delle nevrosi narcisistiche (parafrenie) in cui la libido viene ritirata dagli oggetti.
4
5
Anna Ferruta organizza le sue riflessioni a partire da uno scritto di Antonio Alberto Semi (2000) di
cui riporto il passo centrale, Semi scrive: “Wo Es war, soll Ich werden, con questa semplice frase, difficilmente
traducibile in italiano, che gioca sulla possibilità di leggere la seconda parte in prima persona singolare o in terza
‘Dov'era, devo diventare’ oppure ‘Dov'era Es, deve diventare Io’ o addirittura ‘Dov'era l'Es, deve subentrare l'Io’,
in altri termini che pone il problema non dell'oggettivizzazione dell'Io ma della soggettivizzazione dell'apparato
psichico e, più radicalmente, dell'individuo, Freud conclude la 31ª lezione di Introduzione alla psicoanalisi
(1932). (…) che indica la volontà di Freud di non oggettivare Es o Io, anzi che indica la precisa intenzione di far
dire ‘Io’, senza alcun articolo che lo determini”.
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"metafora" del transfert-controtranfert a considerare la relazione “reale” tra paziente e analista.
Nel pensiero teorico clinico basato su transfert-controtranfert, però gli elementi soggettivi
introdotti dall'analista sono minimizzati e l'intersoggettività da un punto di vista teorico risulta
secondaria alle produzioni del paziente e in definitiva l'analista elabora il materiale che origina
unicamente dal paziente. Questa impostazione teorico-clinica potrebbe rafforzare la distorsione
autoreferenziale dell’“ipocondriaco cartesiano”.
Dopo Freud, diversi altri psicoanalisti si sono occupati del problema di definire la dinamica
profonda dell'ipocondria: primo fra tutti Ferenczi (1916) che in Le Patonevrosi ipotizza un
collegamento tra la malattia organica e la fissazione libidica (non nevrotica) sull'organo colpito
in precedenza da malattia, si tratta di un modello misto, basato sia sulla psicopatologia posttraumatica sia sulla teoria della libido. Il tentativo di conciliare il trauma reale della malattia
fisica con il modello metapsicologico pulsionale non riesce facilmente, come comprensibile.
In seguito, l'analista ungherese (Ferenczi 1919) cercò di identificare una particolare forma di
ipocondria nevrotica, che può essere isterica oppure ossessiva. Ricordando che Ferenczi era un
analista esperto nel trattamento di "casi difficili" non possiamo non osservare nel suo case-report
la convinzione che il perdurare dei sintomi ipocondriaci più gravi e deliranti sia, soprattutto da
un punto di vista teorico, per lui associato all'incapacità di stabilire il transfert e al proseguire
del conflitto libidico narcisistico col proprio corpo. Questo escamotage gli permette di spiegare
il rapido miglioramento della sua paziente, ipocondriaca ma nevrotica, rimanendo nel contempo
fedele al modello narcisistico regressivo, che resterebbe comunque valido per casi i più gravi. Su
questo caso della psicoanalisi classica però sono stati recentemente avanzati dei dubbi dal gruppo
di lavoro su “Isteria e Ipocondria” dell'Associazione Tedesca di Psicoanalisi (IDV). Scrivono
Röder et al. (1995, p.11): “Noi però esprimiamo qualche dubbio se in ciò si tratti veramente
di fenomeni ipocondriaci nel senso di una elaborazione nevrotica, come lo suppone Ferenczi;
i sintomi appaiono piuttosto di carattere cenestesico (délir corporel)”. Il tentativo Ferencziano
non appare del tutto convincente, malgrado il perdurare della necessità di distinguere l'ipocondria
narcisistica da quella nevrotica, isterica o ossessiva. Infatti, al di là della questione diagnostica,
è interessante sottolineare che anche secondo questi autori tedeschi è possibile differenziare
tra due tipi di ipocondria: un'ipocondria narcisistica (non simbolica) e un'ipocondria isterica
(simbolica). Dobbiamo però aggiungere, riprendendo il discorso di Freud del 1895, che è
necessario considerare che i due casi potrebbero presentarsi contemporaneamente nello stesso
soggetto. Inoltre, va considerato il fatto che si possa transitare da uno stato all'altro attraverso la
costruzione di un dialogo analitico. Non è infrequente che, accanto a penose sensazioni somatiche,
possano coesistere rappresentazioni “simboliche” talvolta dismorfofobiche (cfr. Bellino et al.
2006), o che si avvicinavano al délir corporel. È interessante notare che l’ipocondria si colloca,
già nel pensiero di questi autori classici, come un problema connesso allo sviluppo dei processi
di simbolizzazione. In psicoanalisi, da sempre il corpo è il riferimento concreto per l'avvio dei
processi di simbolizzazione, e il simbolismo sessuale psicoanalitico classico ne è un perfetto
esempio. Nell'ipocondria questo processo naturale sembra subire qualche interferenza, come
appare ovvio. Ovvero, il corpo rimane concreto: un oggetto privo del potenziale simbolico da cui
astrarre nuove rappresentazioni per via analogica. Il pensiero concreto ipocondriaco può essere
considerato un funzionamento anti-analitico per antonomasia. Proprio perciò, beneficerebbe di
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L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
più di un aiuto psicoanalitico per la costruzione dei processi simbolici.
Dopo la seconda guerra mondiale, alcuni importanti psicoanalisti di scuola kleiniana si sono
occupati di identificare la dinamica della pulsione aggressiva all'interno dei sintomi ipocondriaci.
Secondo Melanie Klein, gli impulsi aggressivi vengono nella fasi primitive dello sviluppo
psichico gestiti attraverso la difesa della scissione (Klein 1935). Nell'ipocondria paranoidea,
che è una prima variante dell'ipocondria connessa a questa fase evolutiva, gli oggetti interni
verso cui sono indirizzate le fantasie di odio e distruzione sono allo stesso tempo temuti per
le loro possibili rappresaglie contro l'Io, tanto che l'angoscia che ne deriva porta il soggetto
a sentirsi minacciato dall'interno. Nella posizione schizoparanoide vengono alimentate forti
idee di persecuzione fino a che, con lo sviluppo dell'apparato psichico, non si avrà accesso alla
posizione depressiva. In questa seconda fase diviene possibile sviluppare una seconda variante
dell'ipocondria: l'ipocondria depressiva. Scrive Melanie Klein: “Appare ora chiaro perché, in
questo stadio dello sviluppo, l'Io si senta continuamente minacciato nel possesso degli oggetti
buoni introiettati. Esso è pieno di angoscia per la possibile morte di questi oggetti. Sia in bambini
che in adulti affetti da depressione, io ho portato alla luce il timore di albergare dentro di sé
oggetti morenti o morti (specie genitori) nonché identificazioni dell'Io con oggetti siffatti” (Klein
1935, p. 301). Questa variante depressiva dell'ipocondria deriverebbe dal senso di colpa e dal
desiderio di riparare gli oggetti simbolizzati negli organi interni danneggiati, oltre che dalla
costante paura che essi siano irrimediabilmente compromessi. Scrive Hart (1947, p.111): “È
sorprendente la frequenza con la quale il dolore addominale di natura ipocondriaca mostra nel
processo psicoanalitico di accompagnare le fantasie di sadismo o di cannibalismo”. Queste
dinamiche resterebbero “chiuse” all'interno del proprio corpo, in entrambi i casi, per un difetto
nel meccanismo della proiezione (Rosenfeld 1958). Questo approccio è maggiormente centrato
sulle fantasie intrapsichiche, la teoria del difetto di proiezione giustifica queste conclusioni, il
ritratto della mente dell'ipocondriaco è quello di un soggetto aggressivo ma avulso dalla realtà
e dalle relazioni.
Tra gli autori di scuola kleiniana, Herbert Rosenfeld (1958, 1964) si è particolarmente
interessato allo studio dei fenomeni ipocondriaci cronici gravi, differenziandoli dalle transitorie
preoccupazioni per la salute. Anch'egli sottolinea soprattutto la forte aggressività orale dei
soggetti ipocondriaci. Secondo Rosenfeld nella fantasia primitiva, l'aggressività viene proiettata
dagli oggetti interni sugli oggetti esterni che vengono attaccati e divorati. In questo modo, gli
oggetti divorati rientrano all'interno del corpo e, in un'ulteriore difesa, sono confinati in un organo
e costantemente sorvegliati. L'autosservazione dell'ipocondriaco sarebbe perciò il tentativo
difensivo di mantenere scissi e confinati i temuti impulsi aggressivi originari (Rosenfeld 1964).
Dice Rosenfeld (1958): “Suggerisco che l'ipocondria cronica abbia principalmente una funzione
difensiva e la sua principale difesa pare che sia indirizzata contro lo stato confusionale che spesso è
di natura schizofrenica”. Come Freud, Rosenfeld inserisce il funzionamento ipocondriaco vicino
alla psicosi e gli assegna un ruolo protettivo rispetto ad essa. Lo stato confusionale, psicotico, che
l'ipocondria riesce a organizzare confinandolo nell'organo interno è la perdita di differenziazione
tra il sé e l'oggetto e tra gli oggetti e gli impulsi (Rosenfeld 1958, p.122). Herbert Rosenfeld, a
differenza di Freud, nella sua concezione della personalità non poneva dei limiti rigidi tra nevrosi
e psicosi. In accordo con la teoria kleiniana, vedeva l'ipocondria come un conflitto tra una parte
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psicotica e una parte nevrotica della stessa personalità.
A partire dagli anni '30 in opposizione al pensiero kleiniano, gli psicologi dell'Io sotto l'influenza
di Anna Freud (1936) e di Heinz Hartmann (1939) affrontarono il problema dell'ipocondria da
una prospettiva teorica per molti versi differente. Per questi autori non sarà la proiezione reinteriorizzata dell'aggressività orale il motore delle dinamiche ipocondriache, ma un adattamento
post-traumatico dello sviluppo strutturale dell’Io a un deficit di accudimento ambientale che
pone dei problemi di identificazione. Fu soprattutto Anna Freud (1952) a spiegare l'ipocondria
come conseguenza di un adattamento dell'Io del bambino alla deprivazione affettiva.
Anna Freud (1952) si avvicinò allo studio dell'ipocondria a partire dalle osservazioni dei
bambini durante la malattia: in particolare, ella ha messo in luce il ruolo relazionale dell'adulto
nell'accompagnare la rielaborazione dell'esperienza di malattia stessa. Secondo l'autrice, la
funzione di sostegno dell'adulto all'Io del bambino lo aiuta a differenziare il dolore che accompagna
la malattia fisica da quello che deriva invece dalle cure. Anche le cure, infatti, possono essere
dolorose. Anna Freud ha inserito l'esperienza di malattia all'interno di una cornice relazionale tra
caregiver e bambino, sottolineando come durante la malattia vi sia un aumento delle attenzioni
fisiche e affettive che il bambino riceve, mentre in modo complementare il bambino delega al
genitore la cura premurosa della propria sofferenza e del proprio corpo. Anna Freud osserva che
nei bambini orfani o deprivati questo processo naturale non può svolgersi in modo altrettanto
lineare poiché il caregiver è spesso assente. Osserva A. Freud (1952, p.134): “Era come se tutti
i timori per la salute del bambino, che erano propri delle madri assenti, fossero stati assunti dai
bambini stessi dopo la separazione o dopo la perdita dell'assistenza materna, e ne determinassero
il comportamento. Nell'identificazione con la madre temporaneamente assente o perduta per
sempre il bambino ne prende il posto nei confronti del proprio corpo e incomincia a badare ad
esso come la madre lo ha fatto in passato”. Anna Freud (1952) continua dicendo che proprio
questo comportamento si ritrova nel soggetto adulto affetto da ipocondria: “L'ipocondriaco
adulto, che ritira la sua libido dal mondo oggettuale per concentrarla sul proprio corpo, agisce
in maniera simile. Il suo corpo sovrainvestito di libido rappresenta lui stesso da bambino, di cui
il suo Io adulto assume la tutela nella parte di madre”. La scissione nella personalità in questo
modello non avviene tra una parte psicotica e una parte nevrotica, come proposto da Rosenfeld
(1958), quanto piuttosto tra una parte infantile orfana di identificazioni, rappresentata dal corpo,
e una parte adulta accudente rappresentata dalla mente, in sostituzione della stessa funzione
negata dal caregiver. Malgrado l’osservazione di processi relazionali evidenti nell’origine
dell’ipocondria, la spiegazione a cui arriva Anna Freud è comunque basata sull’articolazione
della pulsione libidica oggettuale che si trasforma in libido narcisistica a causa dell’esperienza
di frustrazione reale nella relazione di accudimento. È comunque interessante sottolineare come,
dalle descrizioni dei casi clinici di questi piccoli pazienti ipocondriaci, emerga la dinamica della
formazione di una rappresentazione interna della relazione tra l’Io e il caregiver assente che
modifica strutturalmente l’Io attraverso la scissione.
Questo processo di self-mothering è altrettanto plausibile se visto come adattamento
patologico del bambino alla deprivazione di attenzioni e cure genitoriali empatiche anche nei casi
in cui il genitore sia di fatto presente. Un’altra ipotesi per lo sviluppo ipocondriaco che deriva
dalla Psicologia dell’Io è quella che si riferisce ai fenomeni di identificazione, in particolare
l’identificazione con l’aggressore. Nei casi in cui un genitore sia fortemente depresso ed
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L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
egocentrico possono avvenire due tipi di meccanismi patogeni poiché: in primo luogo il genitore
implicitamente offre la sua immagine di persona sofferente come modello per l'identificazione
patologica al figlio e in secondo luogo, si può verificare un trauma da abbandono psichico
causato dall’egocentrismo del genitore, dal disinteresse e dalla trascuratezza emotiva. Il genitore,
in questo secondo caso, è assente, non fisicamente ma affettivamente, nei momenti in cui il
bambino ha più bisogno di affidarsi all’adulto: per esempio quando il bambino è fisicamente
sano ma affettivamente turbato, o si ammala per brevi periodi. In questi casi il genitore non può
offrirgli un adeguato sostegno psicologico, a causa della depressione o di un difetto nell’empatia
di cui soffre.
Le condizioni di sviluppo possono essere, nei casi di ipocondria, la conseguenza di storie
familiari transgenerazionali in cui la malattia ha giocato un ruolo determinante, storie che
spesso ricorrono nei racconti di pazienti ipocondriaci (Levi 1932, Nissen 2000). Queste vicende
transgenerazionali potrebbero permanere nella memoria familiare a un livello “inconscio
non iscritto” (Bleichmar 1997). Si tratterebbe dunque di un'identificazione patologica, subita
passivamente dal bambino, con caregivers malati o cronicamente angosciati dal problema della
malattia poiché la malattia ha pesantemente marcato il clima familiare transgenerazionale, in
modo subdolo e incomprensibile per la mente immatura del bambino piccolo.
Il primo ad affrontare il problema dell'ipocondria a partire dall'osservazione dello sviluppo
infantile fu David M. Levy6 che, nel 1932, pubblicò un articolo dal titolo Body interest in
children and hypochondriasis in cui l'ipocondria ricondotta all'esperienza di sviluppo del
bambino all'interno di un ambiente plasmato dalle malattie, oppure all'esperienza diretta della
malattia fisica da parte del bambino. Queste esperienze, secondo questo autore, si integrerebbero
successivamente con altri due tipi di accadimenti: il ricordo di persone significative affette da
malattie e con le angosce o tensioni fisiche relative alla masturbazione. Queste ultime verrebbero
poi interpretate anche a distanza di anni non come segni di eccitazione, ma come segni di
malattia. È interessante notare la concordanza, su questo punto, tra le idee di Levy (1932) e
quelle di S. Freud (1895). Allo stesso modo, entrambi questi autori mettevano in risalto, tra
le cause delle nevrosi ipocondriache, l'accumulo di tensioni relative alla masturbazione7. Un
altro punto, molto importante per Levy (1932), è rappresentato dall'iperprotezione8 genitoriale e
dalla eccessiva preoccupazione materna; dice Levy: “Il più forte incentivo per lo sviluppo di un
eccessivo interesse per il corpo è stato scoperto nel bambino che è stato vittima del monopolio
madre-bambino” (ibidem). Secondo il pensiero di questo autore, l'ipocondria sarebbe determinata
da una debolezza dell'Io, cui consegue un evitamento di “situazioni difficili di vita” (ibidem).
Secondo questo autore è il bambino con cui si è ecceduto nelle cure, che è stato “iperprotetto”,
che poi si sentirà spaventato, fragile, e che poi da adulto si preoccuperà eccessivamente per il
proprio corpo e per la propria salute.
Heinz Kohut (1971), attraverso le sue ricerche sul narcisismo, ha completamente stravolto
6
Psichiatra e psicoanalista newyorkese che con il suo concetto di “fame primaria di affetto” ha elaborato
una prospettiva sulla deprivazione affettiva infantile che, per certi versi, anticipa il lavoro di John Bowlby.
7
La psicoanalista milanese Patrizia Pellegrini (2011) osserva come le eccitazioni corporee siano il tema
centrale del vissuto ipocondriaco e come questo tema costituisca oggi un ponte con le neuroscienze.
8
Traduzione mia; talvolta il termine inglese “overprotection” presente nei lavori di Levy viene tradotto
con la parola italiana: “iperinvestimento” che evidentemente non corrisponde al significato originario.
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la concezione psicoanalitica del rapporto tra narcisismo e ipocondria. Egli si è allontanato dalla
metapsicologia pulsionale classica per rivolgere l'attenzione alla matrice relazionale reale tra
madre e bambino più che ai conflitti oggettuali. Kohut (1977) ha ipotizzato che sia il fallimento
nel rispecchiamento empatico tra madre e bambino a causare la frustrazione e l'aumento di
tensione alla base dell'ipocondria. In contrasto con l'ipotesi dell'iperprotezione di Levy (1932)
Kohut escluderà completamente l'idea che possa essere l'eccesso di cure materne a distorcere
lo sviluppo della struttura psichica del bambino. Egli afferma infatti: “Anche se ritengo che
il principio della frustrazione ottimale sia un principio molto valido, non penso che esistano
realmente molti casi in cui una madre vizia in maniera dannosa il proprio figlio con un eccesso
di empatia e di cure materne” (Kohut 1977, p. 82).
Per la Psicologia del Sé, analogamente alle teorie degli Psicologi dell’Io, deficit specifici
nelle relazioni primarie possono determinare un trauma di tipo strutturale nell'apparato psichico,
impedirne uno sviluppo stabile e completo, connesso a una vulnerabilità interna che è ben
rappresentata “concretamente”9 dalla fenomenologia dell'ipocondria. Questo può avvenire quando
c'è stato un difetto empatico protrattosi nel tempo nella diade genitore-bambino. In questi casi, il
narcisismo e l'ipocondria deriverebbero dallo stesso stile genitoriale di accudimento patologico.
Franco Borgogno (1999, 2011) ha specificato che, anche laddove apparentemente il bambino
viene investito affettivamente dai genitori e riempito di attenzioni, se questo investimento non
è accompagnato, specialmente nelle fasi precoci dello sviluppo10, dal riconoscimento empatico
delle qualità specifiche dal bambino può generarsi comunque un movimento intrusivo che
espropria il bambino della propria soggettività.
Kohut (1971, p. 28) sostiene che: “La fonte di disagio principale deriva pertanto dall'incapacità
della psiche di regolare l'autostima e di mantenerla a livelli normali; e le esperienze specifiche
(patogene) della personalità che sono connesse a questo difetto psicologico centrale rientrano nel
campo narcisistico, e sono comprese in uno spettro che si estende dalla grandiosità angosciosa
e dall'eccitamento da una parte, fino al lieve imbarazzo, alla timidezza, o alla grave vergogna,
all'ipocondria e alla depressione dall'altra”. Kohut è molto preciso nel tratteggiare i confini
diagnostici del disturbo narcisistico e vi inserisce: “Nella sfera psicosomatica: preoccupazioni
ipocondriache per la propria salute fisica e mentale, disturbi vegetativi in diversi sistemi organici”
(ibidem, p. 31).
In questo tipo di pazienti, secondo Kohut (1971, 1977), una parte della personalità è regredita
a uno stadio del sé frammentato mentre l'altra parte, con cui è possibile stabilire un'alleanza
terapeutica, sta cercando di comprendere cosa succede, proprio attraverso le rimuginazioni
ipocondriache e di dar voce a questi accadimenti, soprattutto attraverso le lamentele ipocondriache.
In questo senso l'ipocondria, come sintomo, rappresenta il tentativo di soluzione al dramma
della frammentazione interna del Sé: un idea che non appare così distante da quella di Herbert
Rosenfeld (1958, 1964) anche se la cornice concettuale è per molti versi opposta. Secondo Kouht
(1971, p. 100): “Considerati in chiave metapsicologica i sentimenti di frammentazione e di morte
che il bambino sperimenta con vivo terrore sono una manifestazione del fatto che, in assenza
dell'oggetto-Sé investito narcisisticamente, l'investimento è ritirato da un Sé esperito in maniera
9
Mi riferisco alla concezione della concretizzazione di Stolorow e Atwood (1992).
L'introiezione, secondo Borgogno, è in questi casi subita passivamente (Borgogno 2011, nota p. 266,
corsivo aggiunto).
10
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L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
coesiva, e il bambino di conseguenza è minacciato da una frammentazione (autoerotica) regressiva
e da tensioni ipocondriache”. Si comprende così come le rimuginazioni ipocondriache assolvano
anche al compito di rassicurare il paziente sulla sua stessa esistenza fisica, poiché possono essere
intese come la ricerca dentro sé di sensazioni somatiche che confermano al paziente la sua stessa
esistenza vitale interna, in assenza di un oggetto-sé che possa rispecchiargliela.
Parallelamente alle formulazioni della Psicologia del Sé di Kohut, Otto Kernberg (1987) si
è occupato del narcisismo e dell'ipocondria, in connessione alla sua concezione del livello di
organizzazione borderline (Kernberg 1976). In questi casi, che sono caratterizzati dalla debolezza
strutturale dell'Io e dal discontrollo degli impulsi associati al massiccio ricorso a meccanismi
di difesa primitivi, quali la scissione e l'identificazione proiettiva, con il concomitante uso del
pensiero onnipotente e dell'idealizzazione e la svalutazione primitiva: l'ipocondria appare come
un sintomo frequente, ma viene considerata solo tangenzialmente. Nel confrontare l'approccio
kohutiano a quello di Kernberg, Phil Mollon (2001, p. 60) osserva che per Kernberg il sé
grandioso non fa parte dello sviluppo normale ma è sempre patologico e funziona per negare
difensivamente la dipendenza poiché è “una difesa rigida da relazioni oggettuali più primitive
patologiche, incentrate sull'invidia e sulla collera narcisistica, sulla paura e sulla colpa provocate
da quel furore, e allo stesso tempo sul desiderio disperato di un rapporto affettuoso che non
venga distrutto dall'odio” (Kernberg 1987, p.280). Più recentemente, Charles Hanly (2011),
rinnovando il modello “pulsione-difesa”, ha scritto: “L’errore della Psicologia del Sé è stato
quello di recidere il narcisismo dallo sviluppo libidico oggettuale e, in tal modo, disconnettere
la loro interazione. Questa disconnessione è stata ‘riparata’ dal fatto che nella Psicologia del Sé
si intendono le pulsioni aggressive e sessuali come dei ‘prodotti di disintegrazione’ di ciò che
ha l’aspetto di un narcisismo primordiale spiritualizzato che investe un sé nucleare. Le spinte
dell’aggressività e della sessualità sono state private del loro apporto decisivo a produrre quanto
di più alto e di più basso vi è nell’uomo. La messa sullo sfondo e la svalutazione delle pulsioni è
stata ripresa anche dall’erede della Psicologia del Sé, la Psicologia Relazionale […]”11.
I diversi autori della prospettiva classica psicoanalitica, pur a partire da posizioni spesso distanti
fra loro, concordano comunque nell'assegnare all'ipocondria un ruolo secondario all'interno di
quadri clinici più complessi. Anche nella visione kohutiana, così come in quella di Kernberg,
l'accento rimane sulle esperienze relazionali passate mentre viene meno discussa l'esperienza
attuale. L'organizzazione del Sé narcisistica o borderline, come eredità dello sviluppo pulsionale
o relazionale rimane stabile, in ogni caso non sembrano adeguatamente spiegati i meccanismi di
mantenimento del disturbo ipocondriaco. Lo statuto libidico del narcisismo appare il postulato
teorico maggiormente problematico per la comprensione psicoanalitica dell'ipocondria. La
considerazione teorica aprioristica che l'ipocondriaco sia disinteressato all'ambiente, ripiegato
su di sé, complica enormemente la faccenda. Da qui potrebbe originare una spinta negli analisti a
interpretare gli ipocondriaci come oggetti analitici narcisisticamente disinteressati alla relazione
reale con loro, perpetuando in questo modo il trauma intersoggettivo originario. Perciò, malgrado
il dibattito sia sempre stato ricco, l’ipocondria sembra a tutt'oggi non riuscire a trovare una sua
sistematizzazione definitiva all’interno della teoria pulsionale della psicoanalisi classica. Charles
11
Traduzione di Michele Piccolo, Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Università degli
Studi di Torino.
Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
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Daniele Paradiso
Hanly (2011) si è recentemente interrogato su questo problema ribadendo che la teoria classica
della libido rappresenta a tutt’oggi il miglior modo di comprendere i pazienti ipocondriaci.
Riassumendo, l'ipocondria nel pensiero psicoanalitico classico contemporaneo (cfr. Hanly
2011), sembra appartenere sia a quadri nevrotici, ossessivi o isterici, in cui svolge un ruolo di
difesa contro l’eccitazione sessuale e la riattivazione delle formazioni complessuali (edipiche),
sia a funzionamenti narcisistici in cui rappresenterebbe invece una difesa contro la regressione
psicotica.
L'ipocondria nella Psicoanalisi Relazionale: “Il mito del corpo isolato”
L’ipocondria ha portato diversi autori contemporanei ad interessarsi al problema del rapporto
tra aspetti simbolici e sub-simbolici poiché attraverso il sintomo corporeo, fatto di sensazioni e
impressioni percettive, pone il problema dell’esistenza di formulazioni inconsce non simboliche,
incomplete e aperte a codifiche multiple (cfr. Amore 2012). Nella prospettiva relazionale si fa
riferimento a una visione dell’inconscio in cui non esistono solo rappresentazioni oggettuali,
ma un inconscio “costruttivista” condiviso con l’ambiente. Mentre invece, solitamente nella
psicoanalisi classica (anche contemporanea) il problema viene spesso impostato come un
processo psicopatologico individuale in cui il materiale mentale grezzo e le sue rappresentazioni
sono prodotte dall’interno.
Nelle concezioni dell’inconscio degli psicoanalisti relazionali, come per esempio quella
dell’inconscio non-formulato espressa da Donnell B. Stern (1997), queste idee sui processi
impliciti hanno trovato un inquadramento probabilmente più vicino a un approccio sistemicocostruttivista mostrando il rapporto fra i processi simbolici, sub-simbolici e la co-costruzione
della coscienza nel contesto relazionale, momento per momento (cfr. Bucci 1997, 2009).
Se consideriamo che l’inconscio non organizzi solo pulsioni e strutture interne, ma
primariamente problemi affettivi e relazionali, allora i sistemi motivazionali e i processi a cui
ci riferiamo possono essere piuttosto differenti (Lichtenberg et al. 1992). Robert Stolorow
(1977) ha sottolineato come dopo il 1926 Freud si sia “dimenticato” di riformulare lo statuto
dell'ipocondria sulla base della nuova teoria dell'angoscia. Lo psicoanalista californiano, cofondatore del movimento intersoggettivista, propone una visione dell'ipocondria in cui il sintomo
funge da segnale d'angoscia per “traumi narcisistici”12, esplorando un’area del funzionamento
mentale (il narcisismo) tradizionalmente associata ai pazienti ipocondriaci. A differenza dalle
concezioni classiche, gli intersoggettivisti solitamente intendono per traumi narcisistici episodi
di umiliazione e mortificazione accaduti nelle relazioni con partner significativi (cfr. Atwood
2011) anziché forme primitive o regressive dello sviluppo mentale dovute a frustrazioni della
grandiosità infantile. Per l’inconscio che organizza significati intersoggettivi, le paure o il dolore
12
Lo stesso Sigmund Freud era rimasto narcisisticamente deluso dal comportamento del padre, che
occupava una posizione autoritaria in famiglia, ed era da lui molto ammirato quando Freud aveva circa dodici
anni. Il padre, a quell'epoca, gli aveva raccontato di aver subito passivamente un'offesa da parte di un cristiano,
che gli ordinava di scendere dal marciapiede, e che, nel farlo, gli aveva gettato nel fango il suo berretto di
pelliccia. Alla domanda del piccolo Sigmund: "e tu cosa facesti?" la risposta del padre era stata: "andai in mezzo
alla strada e lo raccolsi" (Freud 1899).
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L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
per la sottomissione psichica potrebbero essere all’origine di alcune ansie ipocondriache di tipo
narcisistico e nel contempo fungere da trama per complessi enactment interpersonali. L’ansia
ipocondriaca non sarebbe un semplice segnale d’allarme, ma un vero e proprio piano d’interazione.
Robert Stolorow ha recepito e sviluppato gli studi kohutiani sul trauma evolutivo di tipo
narcisistico, portandoli a un livello sistemico bi-personale in cui il corpo rappresenta pienamente
un elemento comunicativo nel campo intersoggettivo: uno strumento per la co-costruzione e
l’organizzazione di significati intersoggettivi. In questo senso il sintomo ipocondriaco, fatto
di auto-oggettivazione, angoscia di morte, richiesta pressante di rassicurazioni, “concretizza”
(Stolorow e Atwood 1992) l’organizzazione del significato interpersonale della sottomissione
o dell’umiliazione, proteggendo nel contempo la coscienza dei partner interattivi dal dolore
connesso a questo stato emotivo.
George E. Atwood (2011) assegna alla sottomissione un ruolo centrale nel produrre la
sofferenza psichica e alla nascita della psicopatologia. Questa considerazione ci invita a
monitorare attentamente il tentativo inconscio (narcisistico) dell'analista di sottomettere il
paziente ipocondriaco carpendone la compiacenza, oppure isolarsi a sua volta perpetuando
l’illusione cartesiana della separazione corpo-mente; similmente a quanto sostenuto da Riccardo
Lombardo (2007) e in prospettiva più classica anche da Anna Ferruta (2011). Chiaramente per
assumere questa posizione è necessario porsi pienamente al di là della metapsicologia pulsionale
e pensare a una strutturazione relazionale del sintomo ipocondriaco che certamente Freud non
aveva e che gli eredi della prospettiva pulsionale rifiutano (cfr. Aron 1996, Hanly 2011). Inoltre si
è reso necessario ripensare al narcisismo come a una forma di organizzazione Sé-Altro, piuttosto
che come a un rivolgimento della libido sul sé.
Spesso per il paziente ipocondriaco, la soggettività dell'Altro, inclusa quella dell'analista,
può essere vissuta come soverchiante, invasiva, e attivare le difese somatiche che permettono (o
più spesso inibiscono) la nascita di un conflitto interpersonale. In questo senso, il corpo media
e regola il rapporto tra conscio e inconscio relazionale. Se l’analista è disposto a riconoscere
(simbolizzare) nel rapporto interpersonale reale tra sé e il paziente il problema della sottomissione,
la relazione potrà evolvere, laddove prima il dramma ipocondriaco era chiuso difensivamente nel
conflitto tra corpo e mente (cfr. Maroda 1998).
In una prospettiva intersoggettiva la nascita di un dialogo possibile, dove solo la difesa
della propria soggettività era vista come fonte di sicurezza nel conflitto, attualizza il sintomo e
attualizza il conflitto con l’ambiente, inteso come lotta tra speranze e paure (cfr. Mitchell 1993).
Coerentemente con questa posizione, per gli analisti relazionali l’enactment e la self-disclosure
rappresentano, in questi casi, le vie principali per l’apertura al cambiamento. Questi concetti
clinici che caratterizzano il lavoro dei relazionali sembrano necessari per entrare nella piena
intersoggettività superando la visione o il ruolo dell’analista “oggetto” idealmente non coinvolto
e neutrale, quindi contraddittoriamente impegnato nel mantenersi fuori dalla dinamica relazionale
della responsabilità nella co-creazione del sintomo. Enactment e self-disclosure sembrano basilari
per aiutare gli analisti a divenire dei soggetti in relazione mutuale con il paziente, come Sandor
Ferenczi aveva precorso fuori dallo spirito della sua epoca (Hoffman 1991, 1998; Kieffer 2014;
Bass 2015). Anthony Bass ha recentemente rinnovato l’apprezzamento per il lavoro di Ferenczi
sull’analisi reciproca, portando alla piena legittimità questo modello, senza l’atteggiamento di
sottile rifiuto ed imbarazzo che solitamente caratterizza l’analisi di questo lavoro (Bass 2015,
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Ferenczi 1932).
Anche lo spostamento verso il paradigma socio-costruttivista viene considerato fondamentale
per permettere un diverso funzionamento dell’analista in seduta. Lewis Aron scrive: “Il termine
controtransfert oscura il riconoscimento che spesso l’iniziatore della sequenza interattiva
è l’analista, e quindi il termine controtransfert minimizza l’impatto del comportamento
dell’analista sul transfert. […] I termini transfert e controtransfert si prestano troppo facilmente
a un modello che implica un’influenza a senso unico in cui l’analista reagisce al paziente” (1996,
p 91). Negare l’influenza intersoggettiva dell’analista sul paziente significherebbe negare il
contesto del conflitto che i pazienti ipocondriaci stentano a riconoscere e rivolgono attivamente
in un “conflitto privato” tra la propria soggettività e il corpo. Significa in pratica continuare a
pensare l’analisi come incontro tra le menti, un’attività soprattutto cerebrale, piuttosto che come
un incontro tra persone, un incontro pienamente psicosomatico, ovvero un incontro intimo e
interattivo (Ehrenberg 1992). Negando l’interazione, la relazione psicosomatica tra analista e
paziente permarrebbe collusivamente dissociata dal materiale analitico.
La curiosità sul processo analitico, incusa l’interazione reale, intesa come posizione antitetica
rispetto alla paranoia (Buechler 2004) permette a paziente e analista di considerare il corpo da
una prospettiva più equilibrata come luogo del coinvolgimento interpersonale. Scrive Sandra
Buechler (ibidem, p. 14): “Per sollecitare la curiosità del paziente in analisi, dobbiamo affrontare
la spinta pervasiva della paranoia, in noi e nel paziente”. Questa visione del sistema pazienteanalista vede il terapeuta attivamente impegnato nel promuovere la costruzione di un diverso
clima intersoggettivo. Gradualmente consente un iniziale dialogo con il corpo, che smette di
essere oggetto-altro per divenire parte di Sé, più cosciente in senso riflessivo, del coinvolgimento
emotivo nel clima intersoggettivo.
Dal punto di vista dello stile cognitivo, spesso i pazienti ipocondriaci considerano lo stato
di salute del corpo come uno stato privo di esperienze somatiche impreviste, un funzionamento
somatico sostanzialmente idealistico e regolare, perciò prevedibile, e relativamente isolato
dal contesto emotivo, incluso quello col proprio analista. L’isolamento corporeo è perciò per
paziente e analista una convinzione aprioristica difensiva. In questo senso, possiamo considerare
la soggettivazione emotiva del corpo un'iniziale progresso terapeutico. L'isolamento soggettivo
però può permanere fino a che il riconoscimento del contesto relazionale presente tra paziente
e analista non prende il via (cfr. Stern 1993, 2004). Permane cioè, quello che nella tradizione
interpersonalista è considerato il bisogno clinico di chiarire il “problema presente” (Sullivan
1953, Levenson 1991, Buechler 2004) attraverso un’approfondita analisi del contesto “qui e
ora”. Solo l’analisi del contesto, soprattutto del contesto analitico, può completare il divario che
separa l’ipocondriaco dal mondo, condividendo l’alienazione, e nello stesso tempo consentire a
paziente e analista di evitare lo scacco dell’analisi monopersonale dei soli contenuti intrapsichici
o psicosomatici, riferiti al passato individuale in termini di transfert e controtransfert.
La critica alla visione cartesiana della separazione corpo-mente in psicoanalisi è stata
ampiamente argomentata dagli intersoggettivisti (Stolorow e Atwood 1991, 1992; Orange et al.
1997). Il “mito della mente isolata” (ibidem) descrive la costruzione dell’illusione della mente
individuale come una reificazione basilare, necessaria allo sviluppo dell’intersoggettività e
all’organizzazione dei significati personali.
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Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
Stolorow e colleghi analizzano inoltre il “mito della neutralità” (ibidem), anch’esso funzionale
in modo complementare, ad una visione dell’analisi come processo di cura individuale; di cui tra
gli altri, Anthony Bass ha recentemente mostrato i limiti teorico-clinici (2015).
Un concetto applicabile ai pazienti psicosomatici che potrebbe derivare da questa
tradizione potrebbe essere quello del “mito del corpo isolato”. Questo mito appare fondato
sull’apparentemente oggettiva separatezza dei nostri corpi, specialmente quando diventiamo
adulti indipendenti. Il mito del corpo isolato può reificare la meno intuitiva, ma più realistica,
visione dell’immersione contestuale del nostro corpo nella continua comunicazione e
interdipendenza con gli altri e l’ambiente, attraverso la permeabilità affettiva. Data l’unicità e
l’individualità dei nostri corpi appare fondamentale per la mente difendere “il mito del corpo
isolato” per consentirci un reciproco riconoscimento nei sistemi relazionali (Sander 2002): in
quanto tale, il nostro corpo è solo nostro, ovvero appartiene a un unico individuo e non viene
considerato in quanto zona di interscambio. Inoltre, il nostro corpo è probabilmente alla base di
alcune convinzioni strutturali del sé, come l’ipseità (cfr. Metzinger 2004), ovvero la sensazione
di essere sempre noi stessi nel tempo, malgrado i continui cambiamenti: cioè, il corpo promuove
l’integrazione prospettica delle narrazioni di sé. Eppure è altrettanto ovvio che nessun corpo
possa vivere decontestualizzato e che l’interdipendenza del corpo, specialmente della sua
sensibilità, è necessaria per lo sviluppo relazionale della mente ed è intrecciato nella narrazione
della storia intersoggettiva delle persone (Beebe e Lachmann 1988a, 1988b, 2002; Sander 2002;
Stern 1985, 1993, 1971-98, 1995, 1995b; Trevarthen 1997). In questo senso, il corpo rappresenta
il paradosso della soggettività.
L’ipocondria concretizza, in un eccesso di difesa, il “mito del corpo isolato” rafforzando
l’illusione di avere un corpo oggettivizzato e separato da quello degli altri e dal contesto
intersoggettivo. Un’illusione che, se portata all’estremo, difende l’ipocondriaco dall’insostenibile
contestualità dell’essere in relazione con gli altri (Stolorow e Atwood 1992) o in altri termini
dal conflitto relazionale di interdipendenza con l’ambiente, attraverso l’evitamento e la
dissociazione delle reazioni somatiche agli eventi interpersonali. Si tratterebbe di una forma di
agognata anestesia agli altri, attuata mediante l’amplificazione delle proprie sensibilità corporee.
Una dissociazione utilizzata in senso difensivo che attivamente priva l’esperienza soggettiva dei
riferimenti contestuali alle proprie reazioni somatiche, che in origine sono soprattutto reazioni
percettive corporee ed emotive. Una dissociazione che agisce come un “ladro” (Albasi 2006),
inibendo una funzione della mente, e lo sviluppo di un’appropriata attività referenziale (cfr.
Bucci 1997, 2009).
Se consideriamo che una delle funzioni principali della mente sia quella di dare un senso alle
esperienze (Albasi, Paradiso et al. 2014) allora dobbiamo includere tra queste esperienze anche
le esperienze somatiche, che nel caso dell’ipocondria vengono private dei riferimenti esterni.
Così che per l’ipocondriaco le reazioni somatiche appaiono prive di senso e alla ricerca di un
significato, solitamente quello di alterazione, disequilibrio o malattia somatica. La ruminazione
ossessiva interviene dopo “amplificando”, agendo come un’attività diversiva (Bowlby 1980); si
inserisce in un secondo momento per sottrarre elementi alla realtà intersoggettiva, sostituendoli
con riferimenti individuali, autoreferenziali. In questo senso la difesa ipocondriaca è una difesa
contro la realtà, ovvero una quota della realtà disconosciuta in primis dall’ambiente, che sembra
Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
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Daniele Paradiso
incapace di dire: “ti senti così perché qualcosa è successo davvero”.
Il problema della soggezione interpersonale rappresenta un elemento centrale all’interno
della negoziazione dei significati analitici e il paziente si presenta “preparato” al confronto.
L'ipocondriaco infatti, con il suo comportamento, cerca spesso di anticipare il rifiuto o la
svalutazione della propria soggettività riproponendo le sue esperienze soprattutto come oggettive
e corporee, pertanto non-negoziabili. Specialmente all'interno dei rapporti di cura, come quello
clinico, si può sentire la paura e la speranza che questa soggettività venga “riparativamente”
accettata. Accanto alle richieste d’aiuto e alla sensazione di non essere creduti, nell’ipocondria
permane quasi sempre un bisogno di empatia e rassicurazione, un bisogno però estremo e
incolmabile “amplificato” che può logorare la relazione clinica. L’ipocondriaco può diventare
un paziente che sfida i limiti dell’empatia e rifiuta ostinatamente ogni tentativo di rassicurazione,
rendendolo vano, mantenendosi in definitiva irraggiungibile. Nello stesso tempo, padroneggiare
il ruolo del malato aiuta l’ipocondriaco a comprendere le reazioni e il comportamento degli altri
di fronte a chi non è disponibile, è chiuso in sé stesso e non riesce ad essere empatico. Scrive
Jay Frankel (1999): “L'identificazione con l'aggressore non è soltanto una risposta immediata
al trauma o a una ristrutturazione adattativa della personalità di coloro che sono stati abusati; è
anche una ‘tattica universale’ con cui un soggetto in posizione debole può affrontare qualcuno
che è visto come più forte e che perciò rappresenta una minaccia”.
Cesare Albasi (2006) ha proposto l’idea che alcune esperienze traumatiche nell’attaccamento,
che pure presentano una loro ricorsività, non possano essere rappresentate perché riguardano
anche un’esperienza “negativa”, ovvero ciò che non accade tra bambino e caregiver nonostante
le attese implicite inespresse dal bambino. Nel caso dell’ipocondria è possibile che non sia stata
riconosciuta e integrata l’esperienza psicosomatica intersoggettiva del bambino. L’idea dei
Modelli Operativi Interni Dissociati (MOID) suggerisce una loro processualità della relazione
tra bambino e caregiver non formulata, potenzialmente patogena, ma aperta a successivi
sviluppi. Queste formulazioni rimandano ad una visione dell’inconscio radicalmente differente
rispetto a quella classica, con le parole di Morris N. Eagle: “Sorprendentemente si osserva un
passaggio radicale dall’inconscio classico dei desideri rimossi, dominato dal pensiero irrazionale
del processo primario, a un inconscio costituito essenzialmente da rappresentazioni cognitive
associate a forti componenti affettive. […] L’inconscio contemporaneo è essenzialmente
razionale e orientato alle realtà” (Eagle 2011, p. 146).
La relazione infantile nei pazienti ipocondriaci è solitamente caratterizzata da diverse
esperienze traumatiche macroscopicamente reali. In essa non vengono riconosciuti e trasmessi
significati e affetti relativi all’esperienza psicosomatica associata ad eventi molto importanti, ma
misconosciuti, che non possono essere integrati nel contesto intersoggettivo in cui nascono, che
restano perciò indigesti, incomprensibili e incomunicabili e che alterano quello che altrimenti
sarebbe “l'ovvio” vissuto di integrità somatopsichica13 su cui vengono costruite le rappresentazioni
di Sé e dell’Altro. Queste particolari configurazioni del rapporto Sé-Altro si manifestano nelle
relazioni interpersonali attuali in cui la co-costruzione di un significato intersoggettivo che
13
Secondo il filosofo della mente e neuroscienziato Thomas Metzinger (2004), il processo “trasparente”
del vissuto di integrità somatopsichica è uno dei processi fondamentali alla base del funzionamento del Sistema
del Sé.
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Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale
rappresenti il disagio o il dolore si ripresenta con urgenza e angoscia. Situazioni che nella clinica
troviamo negli enactment.
Winnicott secondo Mitchell (1988, p. 170): “Vede il processo psicoanalitico come una sorta
di rivitalizzazione […] Il compito dell’analista consiste nel soffiare sulla brace per riaccendere
il fuoco” ricostruire le illusioni fondamentali del sé attraverso un approccio supportivo. L’ansia
oggettivante del paziente ipocondriaco in qualche modo usa il corpo come oggetto transizionale
per mettere in scena il dramma e il conflitto interno della soggezione o del rifiuto, attraverso una
sorta di ipersensibilità interpersonale.
Alternativamente possiamo leggere questo dramma come una lotta tra speranze e timori
(Mitchell 1993). Scrive Mitchell (1988): “L’illusione come difesa, l’illusione come avanzamento
del sé: questi due approcci derivano in generale da due più ampie prospettive divergenti a
proposito della relazione tra individuo e società, prospettive che hanno una lunga storia nella
cultura occidentale. Da una di queste due prospettive (elaborata soprattutto dai filosofi illuministi
del XVIII secolo) la cultura e la civiltà rendono umana la creatura individuale, la cui soggettività
personale viene sacrificata a beneficio della superiore oggettività e della razionalità della società.
Dall’altro punto di vista (elaborato soprattutto dal movimento romantico del XIX secolo)
l’esperienza soggettiva rappresenta una forma più elevata della realtà; la società minaccia ciò
che c’è di più prezioso nell’individuo, e la ‘razionalità’ convenzionale viene descritta come una
forza insieme oppressiva e repressiva”.
Queste due visioni si sono contrapposte nella pratica clinica dei diversi psicoanalisti con i
loro pazienti ipocondriaci, la cura poteva risiedere secondo alcuni nell’abbandono delle illusioni
infantili, regressive. Altri all’opposto hanno “soffiato sul fuoco della brace”, convalidando
empaticamente quanto più di soggettivo vi era nel paziente. Il collegamento attraverso un
approccio costruttivista, l’integrazione tra queste due prospettive che solitamente si escludono
a vicenda e il riconoscimento dei meccanismi intersoggettivi di fondo che strutturano queste
ansie, può restituire legittimità al dramma ipocondriaco. Scrive Mitchell (1988, p. 173): “Questa
disputa dimostra in modo eclatante quanto concetti come neutralità, controtransfert ed empatia
siano legati alle teorie. È un errore credere che uno dei due approcci sia più empatico dell’altro.
Essi partono semplicemente (empaticamente) da ipotesi diverse sull’esperienza del paziente”.
Il dialogo terapeutico può costituire il terreno in cui recuperare un rapporto fra la relazione,
oppressiva, reale, razionale, che l’ipocondriaco intrattiene col proprio corpo, in cui l’Altro è
vissuto come portatore di una minaccia per il Sé e il bisogno di contatto con gli accadimenti
interpersonali altrettanto reali, ma spesso dissociati. Nel lavoro con i pazienti ipocondriaci è
importante che si possa condividere il senso delle proprie reazioni psicosomatiche soggettive,
spesso conflittuali, senza rinunciare a sé. In conclusione, gli autori che si rifanno alla prospettiva
relazionale vedono nella dinamica intersoggettiva tra paziente ipocondriaco e analista una
concretizzazione della dissociazione corpo-mente cartesiana che “può e deve” generare degli
enactment. Entrambi, nella stanza d’analisi, paziente e analista, co-costruiscono e interpretano
il dramma generato nel conflitto relazionale tra le loro due soggettività psicosomatiche e nel
contempo ne negoziano una possibile rielaborazione. Una rielaborazione che dovrebbe integrare,
accanto al mito del corpo isolato, una più realistica e comprensiva comunicazione affettiva con
l’ambiente.
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Daniele Paradiso
Riassunto
Parole chiave: ipocondria, psicoanalisi relazionale, psicosomatica, intersoggettività
L’ipocondria è stata e continua a essere un laboratorio per lo studio dei modelli teorici e clinici
della psicopatologia. Lo scopo di questo lavoro è presentare un modello dell’ipocondria coerente
con gli approcci psicoanalitici contemporanei, classici e relazionali e di illustrarne le implicazioni per
il trattamento. Nella prospettiva relazionale il sintomo ipocondriaco viene presentato in analogia con
un’alterazione dell’intersoggettività in cui il corpo oggettivato drammatizza un rapporto Sé-Altro distorto.
L’autoriferimento ipocondriaco sfida l’intersoggettività e in modo paradossale, può aiutare a comprendere
meglio la natura più profondamente relazionale dell'organizzazione mentale. Il superamento di un'impasse
di isolamento caratterizzato da sfiducia, rifiuto e soggezione psicologica rappresenterebbe una conquista
necessaria per la cura di questo disturbo.
HYPOCHONDRIASIS FROM CLASSICAL PSYCHOANALYSIS TO RELATIONAL
PERSPECTIVE
Abstract
Key words: hypochondria, relational psychoanalysis, psychosomatics, intersubjectivity
This paper focuses on the theoretical and clinical differences between classical a relational approach
in psychoanalytic treatment of hypochondriac patients. For classical psychoanalyst, hypochondriacs are
often withdrawn in narcissistic structural regressions or in early developmental trauma, this approach
undervalues the environmental conflicts and the relational functions of the body. In the relational perspective,
hypochondriac organization is reads as a dissociative system to mitigate the impact of the intersubjective
reality on the mind of the patient. The hypochondriac’s self-reference challenge with intersubjectivity and,
paradoxically, can help us to better understand the nature, more deeply relational, of body’s experiences.
Overcoming an impasse of isolation characterized by distrust, rejection and psychological subjection,
would represent an achievement needed to cure this disorder.
Bibliografia
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Daniele Paradiso: Psicoterapeuta, Specialista in Psicologia Clinica, Dipartimento di Psicologia Università
degli Studi di Torino; Dipartimento di Neuroscienze Università di Torino, Gruppo Disturbi di Personalità;
Docente SIPRe Istituto di Specializzazione in Psicoanalisi della Relazione con l’Adolescente e il
Giovane Adulto di Parma; IARPP Member (International Association for Relational Psychoanalysis and
Psychotherapy).
Corrispondenza
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