George Berkeley è uno dei più fini interpreti della way of ideas (il metodo delle idee tipico di tutta la filosofia moderna), che sviluppa nella direzione dell’immaterialismo, sostenendo la tesi dell’esistenza solo mentale dei corpi e delle loro presunte qualità oggettive. Nelle sue intenzioni, l’immaterialismo dovrebbe sconfiggere le derive materialistiche della scienza moderna e riconciliare la filosofia con le certezze del senso comune. In realtà, l’esito ultimo del suo pensiero è una sorta di nuovo platonismo, incentrato sul primato degli spiriti e in particolare di quello spirito dominante che è Dio. Senso comune e analisi delle idee George Berkeley è sicuramente uno dei maggiori oppositori dei deisti e dei free-thinkers che nella cultura anglosassone hanno fornito una versione radicale della cultura illuministica e sviluppato l’eredità lockiana nella direzione del materialismo e della critica del cristianesimo. Al tempo stesso egli è uno dei più fini e sottili interpreti della way of ideas (il metodo delle idee tipico di tutta la filosofia moderna), che sviluppa nella direzione dell’immaterialismo, cioè la tesi dell’esistenza solo mentale dei corpi e delle loro presunte qualità oggettive. Nelle sue intenzioni, l’immaterialismo o idealismo dovrebbe al contempo sbaragliare le derive materialistiche del meccanicismo moderno e scongiurare le implicazioni scettiche contenute nella nozione di idea come oggetto vero e proprio della rappresentazione. Al tempo stesso, l’immaterialismo dovrebbe servire a restaurare, nel nuovo clima della scienza settecentesca, le certezze di una visione platonica dell’universo incentrata sul primato degli spiriti e in particolare di quello spirito dominante che è Dio. Tutto questo fa sì che nella riflessione di Berkeley convivano l’analisi dell’esperienza più attenta alle sue reali componenti e la speculazione metafisica e apologetica. Il punto di partenza è “la strada maestra del buon senso comune”, conforme ai “dettami della natura”, che egli intende sostituire alle astrazioni dei filosofi e degli scienziati. Fra le tesi iconoclaste che Berkeley formula contro Locke e Descartes nei Principles of human knowledge (1710) vi è innanzitutto quella che i corpi esterni o la res extensa sono arbitrarie proiezione dell’intelletto, risultato di un potere di astrazione della mente che non ha riscontro nella realtà delle idee. All’apparenza, la messa in guardia di Berkeley discende da una preoccupazione metodologica che si innesta direttamente nel metodo empiristico da lui fatto proprio. Fra gli errori in cui Locke sarebbe caduto, vi è in primo luogo la tesi “che la mente possa formare idee astratte, o nozioni astratte delle cose”. Questa pretesa si infrange sia contro l’impossibilità di separare con la mente qualità che sono fra loro connesse in modo stretto, sia contro l’ontologia particolaristica berkeleyana, per cui anche le idee sono tutte entità perfettamente individuali e determinate. Se pure vi è traccia di “universalità” o di “generalità” nelle idee, per cui esse rappresentano più individui, ciò non deriva dalla “natura o nella concezione assoluta e positiva” dell’idea, bensì da una “relazione”. Questa “generalità”, da non confondere con l’astrazione, può essere compresa come il rapporto di significazione, con cui, ad esempio, una singola linea viene presa a “segno di tutte le linee rette particolari”, giacché può “denotar[le] indifferentemente”. Il pregiudizio astrattistico è, secondo Berkeley, alla base della semantica sviluppata da Locke nel terzo libro dell’Essay per cui a ogni nome deve corrispondere un’idea come “unico significato fisso e preciso”. Per questo Locke non aveva potuto non indicare in “idee astratte determinate” il “vero ed unico significato immediato d’ogni nome generale”. E questo, a sua volta, era il risultato di aver privilegiato la funzione comunicativa del linguaggio, per cui “ogni nome comunicativo deve stare per un’idea”. La decisione di Berkeley di considerare le idee come pure entità individuali finisce per sovvertire tutte le basi della semantica lockiana. Mentre fa appello ai contenuti autentici dell’esperienza (“tener presenti – raccomandava – [le idee] nude e crude”), Berkeley propone la sua riforma come una terapia contro gli abusi del linguaggio, nella convinzione che, una volta sollevato il “velame delle parole”, si possa ottenere “una concezione chiara delle idee”, liberate finalmente dal “rivestimento” e dall’“ingombro” dei termini che tanto oscurano il giudizio e disperdono l’attenzione”. L’immaterialismo e la scienza newtoniana In realtà l’analisi delle idee non è così neutra come Berkeley la presenta, contrapponendo il senso comune alle astrazioni di Locke e Descartes. Alla polemica contro le idee astratte è infatti strettamente connessa la concezione immaterialistica proposta nei Principles. Nel corso dell’opera Berkeley sempre più chiaramente si rivolge contro un avversario ben determinato, la metafisica realistica sottesa alla gnoseologia di Locke e di Boyle, con il loro presupposto di sostanze materiali assunte come cause “esterne” delle idee. L’opinione che “gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir percepiti dall’intelletto” è per Berkeley il massimo e peggiore esempio di “idea astratta”, poiché non vi potrebbe essere “uno sforzo di astrazione più elegante di quello che riesce a distinguere l’esistenza di oggetti sensibili dal fatto che essi sono percepiti”. In realtà, il potere di astrarre non dovrebbe mai andare al di là “della possibilità reale di esistenza o percezione”, per cui non dovrebbe essere consentito distinguere “una cosa od oggetto sensibile [...] dalla sensazione o percezione di esso”. È a questo punto che Berkeley formula il “nuovo principio” del suo empirismo radicale, principio già avanzato nei Commentari (“Existence is percipi or percipere”) e qui applicato senz’altro agli oggetti del conoscere: “L’esse delle cose è un percipi”, non avendo esistenza alcuna “fuori delle menti”. Astrarre l’oggetto dalla percezione equivarrebbe ad affermare l’impossibile, giacché “oggetto e sensazione di esso sono la stessa identica cosa”. Persuaso che estensione, forma e movimento siano inconcepibili, quando vengano astratti dalle altre qualità sensibili, Berkeley non esita a destituire anche le qualità primarie dei corpi dalla loro posizione ontologica privilegiata, per reintegrarle nel novero delle qualità sensibili che “non esistono nella materia”, bensì “soltanto nella mente”. Anzi, è la stessa idea della materia come “sostrato” o “sostegno” delle qualità a rivelarsi incompatibile con l’ideismo. I “materialisti” (cioè i sostenitori dell’esistenza indipendente e “fuori della mente” della materia) sono a suoi occhi rei di un “pregiudizio” che contraddice la filosofia, prima ancora di costituire un pericolo per la religione. Berkeley aveva già sperimentato la formulazione del suo nuovo principio nella New theory of vision, contestando minutamente ogni rappresentazione geometrica e corpuscolare dei fenomeni luminosi e rifiutando così le ipotesi scientifiche avanzate da Descartes, Barrow, Huygens, Newton. I fasci rettilinei di corpuscoli, le onde, gli angoli di riflessione e di rifrazione gli erano apparsi come schemi artificiali, laddove egli avrebbe voluto limitarsi ai fenomeni soggettivi, alle pure percezioni di luci, colore e forme, senza postulare una realtà fisica dietro di esse. Lo stesso spazio non è direttamente percepito, ma è semplicemente “suggerito” dall’associazione di idee visuali e tattili. Si tratta di una “connessione abituale” che non ha alcuna base materiale, ma dipende interamente da una sorta di misticismo provvidenziale. La visione è “il linguaggio dell’Autore della natura, mediante il quale ci viene insegnato come regolare le nostre azioni” in vista dell’utilità e del benessere del nostro corpo. La scienza dovrebbe dedicarsi interamente alla descrizione dei “phaenomena”, rinunciando alla ricerca della cause materiali: “la materia non serve a nulla in fisica”, scrive Berkeley nei Principles, giacché basta ricostruire la “successione ordinata di idee nelle nostre menti”, per formulare “predizioni sicure e ben fondate”. Le teorie scientifiche sono dunque ricondotte alla funzione economica di descrizioni abbreviate, mentre la distinzione tra le “leggi di natura” e le “chimere” è assicurata dal “processo regolare, ossia serie ordinata” di idee, che per la loro “ammirevole connessione” dimostrano “la sapienza e la benevolenza” dell’Autore divino. A Dio, cioè alla suprema mente, è affidata anche la funzione di assicurare la continuità delle idee anche durante gli intervalli che separano le percezioni, necessariamente discontinue, delle menti finite. Il tutto si risolve in un’esplicita riabilitazione del finalismo provvidenziale, che è espulso dalla scienza meccanicistica o riammesso da Locke soltanto come garanzia della “realtà” delle idee. Chinandosi sul “libro della natura” i fisici dovrebbero applicarsi a intenderne il “senso”, piuttosto che attardarsi in “osservazioni grammaticali sul linguaggio”. Fuor di metafora, gli scienziati dovrebbero dedicarsi, secondo Berkeley, ad “ampliare la nostra conoscenza della grandezza, della saggezza e della benevolenza del Creatore”, senza preoccuparsi dell’“esattezza nel ridurre ogni fenomeno particolare a regole generali”, o peggio ancora di “vagabondare in cerca di cause seconde”. In generale le idee sono caratterizzate dalla passività e anche le leggi fisiche si riducono a “diverse combinazioni di idee”, per di più inattive e dunque incapaci di svolgere alcuna azione causale. E le idee sono soltanto “percezioni inattive nella mente”, non strettamente necessarie a produrre effetti naturali; il lato più importante della ricerca filosofica è quello che indaga sui princìpi attivi, da cui le stesse idee dipendono. Idee passive e spiriti attivi: verso un nuovo idealismo L’“intera conoscenza umana” – si legge nei Principi – può essere “ridotta a due argomenti”: “quello delle idee e quello degli spiriti”. Mentre le idee sono “passive ed inerti”, lo spirito, invece, è “un essere semplice, indivisibile, attivo” e quindi l’idea non può rappresentarlo. Lo spirito non sarà “percepito per se stesso, ma soltanto per gli effetti che produce”. Dunque non è l’oggetto delle idee di riflessione, come nella filosofia di Locke. Allo spirito Berkeley restituisce il carattere di sostanzialità che aveva invece sottratto alla materia, giacché “uno spirito è la sola sostanza o supporto nel quale possano esistere enti che non pensano, ossia idee”. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous (1713), scritti per combattere materialisti e free-thinkers, Berkeley ha facile gioco nel demolire il modello meccanicistico dell’io senziente, tutto incentrato sulla trasmissione del “movimento vibratorio” dall’oggetto agli organi di senso, sino al cervello. Contro questa impostazione che era stata inaugurata da Hobbes, Philonous invoca tutti gli argomenti cartesiani, dal dualismo all’occasionalismo, per sottolineare l’irriducibile alterità che sussisterebbe fra idea ed impressione materiale. Riprendendo poi alcuni spunti già presenti nei Principi, lo stesso personaggio sostiene il carattere “intuitivo” e “immediato” della conoscenza dell’io; successivamente, nella seconda edizione dei Principi (1734), Berkeley corregge il testo di quest’opera, per indicare in apposite “nozioni” il modo di conoscenza attivo degli spiriti. Resta il fatto che la conoscenza delle altre menti è frutto di inferenza, mentre alla cognizione dell’esistenza dello spirito supremo, Dio, si giunge constatando che le nostre percezioni sono involontarie, dunque non dipendono dalla nostra mente, e manifestano per di più una costanza e una regolarità ben superiori a quanto si potrebbe ricavare dalle semplici percezioni soggettive. Anche nell’idealismo immaterialistico, l’“esistenza assoluta” delle cose può essere mantenuta, purché la si faccia discendere non già dalle menti finite, bensì da uno spirito infinito, come quello di Dio. Pensate in Dio, le idee acquistano la stessa stabilità e indipendenza che il realismo rappresentativo di Locke o dei materialisti aveva attribuito agli oggetti. Paradossalmente Berkeley poteva scrivere nei Dialogues: “Non voglio cambiare le cose in idee; voglio invece cambiare le idee in cose”. La nuova teoria delle idee e degli spiriti implica una profonda riforma della semantica che Locke pone alla base della sua teoria del linguaggio. Se infatti il significato dipende dalle idee, ma a parole come anima e spirito non corrisponde alcuna idea (un’idea passiva non può rappresentare un principio attivo), c’è il rischio che tutto il linguaggio dello spirito diventi insignificante. È soprattutto nell’Alciphron: or the minute philosopher (1732) che Berkeley tira le conseguenze del nuovo approccio: “le parole – sentenzia Eufranore, uno dei personaggi del dialogo – possono essere significanti, sebbene non stiano in luogo di idee”, e questo è il caso dei termini che “denotano un principio attivo, anima o spirito”. Così si comprende il significato della parola “io o me stesso”, anche se questo non è “un’idea”, bensì “ciò che opera su di esse”. Berkeley sviluppa dunque una concezione operativa del segno che ne mette in rilievo la funzione pragmatica più che quella semantica. Questo comporta anche una riflessione sul linguaggio della matematica e della scienze (The Analyst, 1734). La significatività di questi linguaggio consiste assai più nelle finalità operative e nelle tecniche di trasformazione dei simboli (“abile uso e maneggio” dei segni), che non nella riproduzione mentale di improbabili idee astratte. Tutte le scienze, in quanto sono universali e dimostrabili, vertono “su segni come loro oggetto immediato”, ma non è detto che il loro fine sia la rappresentazione semantica: il loro scopo “non è semplicemente, né principalmente, né sempre, comunicare o acquistare idee, ma piuttosto qualcosa di natura attiva e operativa, tendente a un bene che si concepisce”. Il carattere dell’attività, propria degli spiriti, contrapposto alla mera passività delle idee, viene così estendendosi anche alle “nozioni” che li rappresentano, sino a investire le finalità del linguaggio in cui Berkeley vede la forma suprema di ordinamento delle idee.