Il lavoro dei contadini In un’economia di pura sussistenza com’era quella di buona parte delle campagne italiane almeno fino alla metà del Novecento, la prima preoccupazione di ogni famiglia era di rimettersi la spesa. Con questa espressione, nell’area dei Monti Lepini, si indicava la quantità di cereali necessaria al sostentamento di un nucleo familiare nell’arco di un anno. Nella dieta dei contadini avevano una funzione importante anche le verdure e i legumi, ma erano soprattutto il grano e il granoturco che non potevano mancare, pena l’insorgere della fame. La carne, invece, era merce rara, quindi un lusso che ci si poteva permettere solo a Natale e Pasqua e in qualche altra festa comandata. Per procurarsi i prodotti di cui aveva bisogno, ogni capofamiglia responsabile programmava per tempo i lavori nei campi in modo da avere buoni raccolti. A questo fine occorreva anche praticare la rotazione delle colture. Ad esempio, su un terreno coltivato a granturco, l’anno successivo si seminava il grano e nel terzo anno le fave. Poi il ciclo poteva ricominciare. Qui parleremo del mais. Il mais (Zea mays) è una pianta annua, proveniente dal Messico e appartenente alla famiglia delle graminacee, che si è perfettamente adattata nelle nostre terre come, del resto, le patate e i pomodori, anch’essi originari del nuovo mondo. In Italia è conosciuto con il nome di granoturco o anche meliga, granone e frumentone; nelle nostre colline viene chiamato comunemente ciliano o ciciliano (dall’aggettivo siciliano, usato, insieme all’altro aggettivo, turco, per definire un prodotto esotico). Il granoturco si semina, di norma, all’inizio della primavera e si raccoglie nella piena estate. La pianta cresce rigogliosa su terreni ricchi di acqua e ben lavorati. Un tempo la lavorazione del terreno destinato alla coltura del granoturco iniziava con la vangatura. Questa operazione si faceva nei mesi di novembre-dicembre, eccezionalmente in gennaio. Dice un proverbio: “Chi prima Natale non vanga, dopo Natale si danna”. La vangatura, insomma, andava fatta prima delle feste di fine anno per due motivi: innanzi tutto perché il tempo in questo periodo è ancora relativamente clemente e consente di operare all’aperto. Lo stesso non si può dire dei mesi di gennaio-febbraio. In secondo luogo le forti gelate invernali rendono soffice il terreno vangato e, quindi, particolarmente adatto ad accogliere i semi. La lavorazione del terreno si faceva quasi sempre a mano. Nella pianura pontina per l’aratura e la semina si utilizzavano, invece, buoi, vacche o muli, ma ciò rappresentava un costo che non sempre ci si poteva permettere. La zappatura del granoturco in ogni caso andava eseguita a mano. La semina del granoturco, come si è detto, avveniva e avviene tra la fine di marzo e gli inizi di aprile. Nei terreni della palude si seminava più tardi, man mano che le acque stagnanti si ritiravano. Di conseguenza anche a raccolta delle pannocchie si spostava verso l’autunno. Sul terreno vangato e reso soffice dalle gelate, si tracciavano dei solchi perfettamente dritti e paralleli, a mano o con l’ausilio degli animali ricordati. Subito dopo il sementarello provvedeva a seminare il granoturco all’interno del solco depositando non più di quattro chicchi per ogni posa o fossa (per la semina si utilizzavano i chicchi posti nella parte centrale della pannocchia, considerati i più adatti allo scopo). Le distanze tra una fossa e l’altra corrispondevano alla lunghezza del piede del sementarello (circa 30 cm). Infine si provvedeva a coprire il seme con terra fine avendo cura di comprimerla con un piede per favorire il germogliamento dei chicchi. Questa operazione spesso era affidata ai ragazzi. A volte tra una fossa e l’altra si seminavano anche fagioli rampicanti che crescevano abbarbicandosi al granoturco. Tale coltura era detta a “stronca solchi” e consentiva di ottenere da un terreno due raccolti diversi nello stesso periodo di tempo. Dopo circa un mese, in pratica nei primi giorni di maggio, il granoturco doveva essere zappato e allentato. Si lasciavano due piante per ogni fossa. Nel mese di giugno si provvedeva a rincalzare le piante per proteggerle dal clima secco. In collina si sperava sempre nell’arrivo di piogge regolari che da sempre sono sicura garanzia di raccolti abbondanti. Nel mese di luglio il granoturco andava spennacchiato. Si recideva l’infiorescenza maschile della pianta in un punto del culmo appena al di sopra delle pannocchie, che venivano lasciate al loro posto per l’ulteriore maturazione. Le infiorescenze maschili, unite in matte, venivano utilizzate come foraggio per gli animali. Dopo ferragosto si poteva, finalmente, iniziare la raccolta delle pannocchie, detta stutaratura. Essa era una festa. Di solito, in queste occasioni, tra contadini ci si aiutava. Ognuno si metteva a disposizione dell’altro e tutti insieme portavano a termine l’opera. Questi scambi di lavoro si chiamavano vecite. Le pannocchie o tutari (da tutolo), staccate dalla pianta, venivano ammucchiate sotto un albero o una pergola per la successiva sfogliatura che consisteva nell’eliminazione del cartoccio che avvolge il tutolo e, quindi, le cariossidi. Fatto il mucchio, i componenti della famiglia e i loro amici, sempre in quel rapporto di aiuto reciproco di cui si è detto, si sedevano in cerchio intorno ad esso. Il capo famiglia aveva sempre l’accortezza di nascondere sotto il mucchio di pannocchie uno o due cocomeri che rappresentavano una meta da raggiungere e un piccolo premio per i lavoratori, specialmente se bambini. Chi li rinveniva, gridava: “Ecco, li ho trovati io”! E tutti li mangiavano allegramente. Per i grandi, in verità, era sempre a disposizione un buon bicchiere di vino unito a qualche spuntino. Ogni persona impegnata nella sfogliatura utilizzava un punteruolo di legno, detto zippo, con il quale perforava il cartoccio nella parte alta per eliminare con più facilità le brattee. I tutari rimasti privi del cartoccio venivano selezionati: quelli bacati venivano messi da una parte e quelli di qualità migliore da un’altra. A questi ultimi potevano essere lasciate alcune brattee o foglie. In questo modo essi erano legati due a due e posti a essiccare su una pertica (la cosiddetta perticata). Da queste ultime si ricavava il seme per l’anno successivo, utilizzando, come si è detto, solo i chicchi posti nella parte mediana del tutaro. Durante la sfogliatura alcune donne potevano dedicarsi a ricapare le brattee più soffici da utilizzare per riempire il pagliaccio dei letti. Anche gli uomini non esitavano a farsi la loro provvista di sfogli delicati da usare come cartine per avvolgere il tabacco trinciato e formare migliaia di sigarette. I restanti sfogli venivano destinati a foraggio. Quanto ai culmi rimasti sul terreno, detti stavi, venivano anch’essi raccolti e utilizzati come combustibile, specialmente per il forno. Durante questi lavori le persone anziane raccontavano favole e storie d’altri tempi. Qualcuno suonava l’organetto e cantava stornelli. E, alla fine della sfogliatura, c’era ancora l’energia per dedicarsi a ballare saltarelli scatenati su un’aia improvvisata. Terminato il lavoro presso una famiglia, ci si spostava presso un’altra, e tutto ricominciava da capo. I tutari venivano messi al sole per l’essiccazione. Poi si procedeva a sprugliare i chicchi, lavoro che veniva fatto anch’esso a mano sfregando un tutaro contro l’altro, almeno fino agli anni Venti del XX secolo. In quel periodo furono introdotte delle sgranatrici azionate manualmente che selezionavano i chicchi e i tutoli (tutarugli). Questi ultimi venivano usati per avviare il fuoco. Il granoturco sprugliato veniva esposto ancora al sole per una ulteriore essiccazione. Successivamente veniva conciato con un vano per liberarlo dalle impurità, e, finalmente, poteva essere messo nella capanna della grascia. Qui veniva conservato dentro un contenitore cilindrico detto cambracanno, fatto di canne intrecciate su una base di legno. In questo modo il cereale poteva traspirare e conservarsi asciutto e pronto all’uso. Il granoturco veniva ampiamente utilizzato per alimentare il pollame e i maiali che ogni famiglia contadina si preoccupava di allevare in parte per se stessa ma, soprattutto per la vendita. Inoltre, esso costituiva una risorsa molto importante per l’uomo. Le donne lo portavano al molino per macinarlo caricandosi diversi Kg sulla testa. Le più fortunate potevano avvalersi di un asino. La farina ottenuta, dopo essere stata accuratamente setacciata, era utilizzata in vari modi, prima di tutto per fare la polenta, un piatto di cui ogni contadino si cibava quotidianamente, specialmente la sera al rientro dal lavoro. Per avere una buona polenta bisogna curarne molto la cottura. Quando l’acqua bolle nella pentola, due persone si adoperano a realizzare una pietanza prelibata. Una getta la farina a spaglio nell’acqua e l’altra gira velocemente il matterello, detto ’nnacculaturo, nella pentola per evitare che la farina si appallocchi. Esaurita la farina necessaria al numero dei commensali, si continua a girare l’impasto ottenuto per almeno un’ora. Quando la polenta è cotta, viene versata su una spianatora e spalmata in modo uniforme sulla stessa, utilizzando il solito matterello. Poiché un’alimentazione basata essenzialmente sui derivati del granoturco può provocare la pellagra, una malattia dovuta alla carenza di vitamine, si cercava di condire la polenta in vari modi, a seconda delle possibilità delle famiglie. Il re dei condimenti è rappresentato dal sugo di carne, specialmente di maiale o di uccelli, ma si poteva contare anche su alternative gustose: baccalà, lumache sgusciate, fagioli, funghi, broccoletti, erbe selvatiche, latte, aglio, olio e peperocino, guanciale o salsicce soffritti. Quando si poteva contare su un buon sugo, esso veniva spalmato in modo omogeneo sulla polenta distesa sulla spianatora con l’aggiunta di una spolverata di pecorino. Inoltre, si praticavano sulla stessa polenta dei fori che venivano riempiti con altro sugo. I commensali con la forchetta tagliavano piccoli pezzi del prezioso alimento e lo intingevano nel foro prima di mangiarlo. La polenta eventualmente non consumata veniva conservata per il giorno dopo. Riscaldata in padella con un filo di olio di oliva, è ancora più buona perché su di essa si forma una crosta dorata molto saporita. Oltre alla polenta, con la farina di granoturco si facevano anche pane e pizze. Il pane è molto buono, specialmente se alla farina di granoturco o rossa si mescola un po’ di farina di grano. Non meno gustosa è la pizza al mattone. Questo tipo di pizza si fa in questo modo: dopo aver ammassato e atteso la lievitazione della massa di farina rossa, si fa scaldare un mattone di terracotta. Su di esso viene disteso uno strato di massa. Il mattone con la massa viene collocato sulla brace per la cottura che avviene lentamente. A cottura raggiunta, il mattone viene tolto dalla brace e collocato in posizione verticale di fronte alla fiamma per far dorare la parte superiore della pizza. Ciò fatto, la si può mangiare avendo cura di farcirla con broccoletti e magari con qualche salsiccia. Altre pizze possono essere fatte al forno utilizzando farina grezza, ma esse sono di bassa qualità. Sono migliori, invece, le pizze cotte sotto la cenere. La stessa massa preparata per la pizza al mattone può essere usata per farne un’altra sotto la cenere. In questo caso la massa viene avvolta con foglie di castagno e il tutto viene ricoperto di brace e cenere. Per i bambini, infine, si facevano le signore, parola da pronunciarsi con la o aperta. Oggi le signore con termine inglese sono chiamate pop-corn. Il granoturco è molto buono anche quando è ancora tenero. Lo si può mangiare crudo, lessato o anche arrostito al forno o alla brace. La "cesa" ovvero appezzamento di terreno in montagna coltivato a granturco. La "cesa spennacchiata" ovvero si recideva l'infiorescenza della pianta per accelerarne il processo di maturazione. "Stutaratura" ovvero la raccolta delle pannocchie che si praticava solitamente dopo ferragosto. Mucchi di pannocchie appena staccate pronte per la successiva fase di sfogliatura. Sfogliatura delle pannocchie ovvero l'eliminazione del cartoccio che avvolge il tutolo. I "tutari" di qualità migliore venivano messi da parte, legati tra loro e posti a essiccare. Da queste ultime pannocchie si ricavava il seme per l'anno successivo. Particolare della moletta. Sulla sommità, tra il disco e l'asse di legno veniva inserito il granturco mentre la farina si raccoglie lateralmente. Sgranatrice meccanica azionata manualmente che permetteva di selezionare i chicchi dai tutoli. Moletta realizzata con rocce vulcaniche. Essa era costituita da una base fissa su cui ruotava un disco circolare che triturava i chicchi di granturco ottenendo farina rossa.