5 MINUTI CON ABERDEEN Primo trimestre 2013 Editoriale Il punto della situazione Maggiore chiarezza nelle politiche fiscali per ridare fiducia agli investitori Matteo Bosco, Country Head Cari lettori, il cauto ottimismo che stava accompagnando l’incipit del 2013 e che si sperava potesse beneficiare di quel “contagio positivo” di cui ha parlato Mario Draghi nel mese di gennaio in riferimento all’abbassamento dei rendimenti sui decennali di Italia e Spagna, potrebbe essere messo in discussione dal risultato elettorale italiano. Se in questo momento è troppo presto per commentare l’impatto di un’apparente ingovernabilità in Italia, sul lato europeo l’economista e professore Lucrezia Reichlin ci fa notare che l’Unione dovrà affrontare tematiche di più ampia portata. Come ci ricorda dalla terza pagina, è urgente, una volta superata l’emergenza dei debiti sovrani, ridisegnare l’impalcatura della moneta unica e spiegare perché un’Europa unita potrà meglio affrontare le sfide che lo scenario globale impone. Intanto gli investitori si rassicurano con i segnali positivi che arrivano da fuori. Gli Stati Uniti mostrano dati in ripresa nel settore manifatturiero che spingono la disoccupazione verso il basso, complice Bernanke che si è posto l’obiettivo del 6,5% di unemployment rate grazie a una politica monetaria espansiva e tassi d’interesse sempre minimi. Sul versante asiatico, in Cina si sta assistendo a un passaggio di consegne senza traumi da Hu Jintao al nuovo leader del Partito Comunista Xi Jinping, facendo sperare in un soft landing politico, oltre che economico, per il Dragone. Dal World Economic Outlook del FMI arrivano le previsioni di crescita per il 2013 dei mercati emergenti che si attestano intorno al 5,6%, ben più avanti dell’1,5% previsto per le economie “avanzate”. Come ricorda (a p. 2) Stephen Parr, Investment Manager del Global Emerging Market Team di Aberdeen, la crescita dei paesi emergenti sarà in larga misura trainata dai cospicui investimenti in infrastrutture di cui questi stati hanno enorme bisogno per transitare da un modello economico export-oriented a un modello basato sulla domanda interna, sostenuta dai consumi in crescita delle nuove classi medie. Senza anticipare troppo di ciò che troverete nelle prossime pagine, mi riservo solo un’ultima menzione: saremo come di consueto presenti al Salone del Risparmio di Milano, edizione 2013, come main partner dell’evento. Vi aspetto alla nostra Conference inaugurale il 17 aprile (ore 17.30) presso l’Università Bocconi, ci conto! Matteo Bosco Indice Editoriale Il punto della situazione • Maggiore chiarezza nelle politiche fiscali per ridare fiducia agli investitori 01 01 Spotlight • Corporate bond dei mercati emergenti: una scelta che guarda ai fondamentali Intervista al gestore • Tre domande a Stephen Parr 02 Special guest: Lucrezia Reichlin • Viaggio al centro dell’Eurozona: sfide, proposte e possibili soluzioni 03 02 Books04 • Dieci regole d’oro per non perdere il buon umore Meet the team: Christian Coletto 04 Wall Street, New York, Stati Uniti avesse con ogni probabilità raggiunto il livello massimo del suo potere di indurre crescita economica. È fra l’altro possibile che misure di supporto fiscale più propizie alla crescita vengano introdotte proprio mentre si sta ancora cercando di contenere il livello dei debiti pubblici. E poiché gli investitori hanno cominciato a tenere d’occhio i policy maker più da vicino, il rischio di commettere errori o di comunicare incertezza con tentennamenti politici è ben presente. Questo porta a un contesto di mercato sempre più sensibile alla politica, probabilmente più che in qualunque altro momento nel corso degli ultimi due o tre decenni. Mike Turner, Head of Global Strategy and Asset Allocation L’economia globale sembra che stia trovando un suo assetto dopo il rallentamento che ha caratterizzato il periodo estate-autunno 2012. Il fatto che per il momento sia stato raggiunto un accordo sul tema del Fiscal Cliff statunitense e che vi siano dei primi segnali positivi rispetto alla possibilità di una transizione dolce della leadership di Pechino, lascia propendere verso un atteggiamento positivo riguardo all’outlook economico dei prossimi mesi. I dati che arrivano da questi due centri economici cruciali, Stati Uniti e Cina, sono incoraggianti, laddove tanto la domanda immobiliare e la ripresa del mercato del lavoro negli USA, quanto la produzione e le vendite al dettaglio del Dragone sembrano in crescita. Tuttavia questi trend favorevoli non sono estendibili all’Europa e al Giappone. In particolar modo in Europa i principali indicatori economici sono in discesa e vi sono segnali che la periferia dell’Eurozona sta cominciando a contagiare il centro, ovvero la Germania. L’export tedesco che dipende in larga misura dalla debole domanda dell’Eurozona è crollato più di quanto le stesse autorità politiche e monetarie avessero stimato. In aggiunta, la minor crescita che abbiamo visto in Asia nei mesi passati si è sentita con un certo ritardo e ha portato in Europa a un calo degli ordini di beni diretti all’esportazione. La risposta attiva alla crisi finanziaria è stata finora in gran parte confinata alla politica monetaria mentre la politica fiscale è diventata espansionistica per via dei suoi meccanismi automatici di stabilizzazione. Gli investitori e le agenzie di rating hanno cominciato a mostrare segni di impazienza come se il tentativo di contenere i deficit fosse fallito e come se l’impatto della politica monetaria Gli Stati Uniti ne sono un esempio calzante. Il fatto che continui a esserci mancanza di chiarezza riguardo alle politiche fiscali è stato probabilmente il rischio maggiore per i mercati. Il tema del Fiscal Cliff ha colpito la fiducia nelle imprese e di conseguenza ne hanno risentito i piani d’assunzione e di spesa in conto capitale. Resta da vedere se la soluzione che verrà negoziata darà risposta almeno ad alcune delle domande sullo sfondo che sono in attesa di essere prese in considerazione. Anche se l’intesa raggiunta fra Democratici e Repubblicani ha evitato di scatenare la crisi, di sicuro molto lavoro deve ancora essere fatto. L’aumento dell’imposizione fiscale è probabilmente solo il lato corto dell’equazione, ma il cuore delle decisioni verte sulle spese governative. Il deficit degli Stati Uniti rimane troppo elevato e, per quanto questo fatto non goda di grande popolarità, è fondamentale prendere decisioni per affrontare l’insostenibile crescita del debito federale. Sono necessari tagli alla spesa, ma devono essere bilanciati da incentivi che incoraggino le imprese a investire una parte dell’enorme liquidità che risulta dai loro bilanci. Detto nella maniera più semplice, questo significa maggiori certezze sull’outlook di lungo termine che riguarda la crescita e le politiche fiscali. Il contesto di crescita anemica che caratterizza i mercati sviluppati probabilmente causerà nervosismo così come i ciclici alti e bassi di breve termine alimenteranno le paure di una nuova recessione. Alla luce di questa situazione, il premio che gli investitori chiedono per tenere le azioni rimarrà alto e pertanto il rendimento continuerà a contare per una parte significativa dei ritorni complessivi. Tuttavia è improbabile che la crescita risulti negativa e le aree geografiche e gli asset con maggiori potenzialità di crescita e di rendimento potranno offrire in futuro migliori risultati in termini di performance rispetto ai mercati più difensivi. Spotlight Corporate bond dei mercati emergenti: una scelta che guarda ai fondamentali Kevin Daly, Senior Portfolio Manager Emerging Market Fixed Income Team La percezione degli investitori nei confronti delle obbligazioni corporate dei mercati emergenti è molto cambiata in questi ultimi anni, in parte a causa dell’attuale contesto di mercato che risponde al motto “lower for longer” e per il rallentamento della crescita globale, ma anche, più interessante, per il miglioramento dei fondamentali e per le caratteristiche in passato spesso sottovalutate dei bond corporate EM. Quest’anno il volume del debito corporate dei mercati emergenti ha superato il miliardo di dollari USA e ha raggiunto i 1000 miliardi di dollari di nuove emissioni negli ultimi sette anni. Il crescente successo dell’asset class ha dato origine a un’infrastruttura finanziaria dedicata, come per esempio indici d’investimento nel mercato e sistemi di ricerca dedicata che spingono l’asset class sotto i riflettori. Una delle qualità più largamente sottovalutate delle obbligazioni corporate EM sono le cedole, che garantiscono agli investitori un’entrata per tutta la durata del bond. Infatti, nei momenti di mercato positivo le entrate garantite dalle cedole accrescono il rendimento totale, mentre in frangenti di mercato più difficili possono rappresentare un ammortizzatore riuscendo a compensare in positivo i ritorni totali complessivi. I rendimenti cedolari spiegano in parte perché questa asset class ha conosciuto un solo anno di rendimenti complessivi negativi, ovvero il 2008. Su base comparativa, gli investimenti high yield dei mercati sviluppati potranno ottenere in previsione gli stessi rendimenti del debito corporate emergente, ma al costo di investire in società di peggiore qualità e con difficoltà operative. Le società dei mercati emergenti vantano fondamentali in miglioramento, che hanno avuto un impatto positivo sulla qualità di generazione di cassa, e hanno accresciuto la capacità di queste imprese di rispondere alle richieste degli investitori. Inoltre, come risultato del miglioramento dei fondamentali, le società dei paesi emergenti hanno registrato in media negli ultimi anni un minor tasso di default sulle obbligazioni rispetto alle aziende statunitensi e, più in generale, sono al di sotto della media mondiale di insolvenza sui bond. Anche nel 2009, quando fu registrato un livello di fallimenti particolarmente elevato, il tasso di default dei bond corporate dei mercati emergenti high yield era del 6,1% rispetto al 9,5% registrato dalle obbligazioni corporate a livello globale. Skyline di Città del Messico capitale del Messico Coloro che considerano i titoli azionari dei paesi emergenti come un’alternativa di investimento devono tenere presente che in fasi di mercato positive questa asset class sovraperforma i bond corporate dei mercati emergenti; tuttavia su un intero ciclo economico il mercato azionario di questi paesi ha storicamente mostrato una maggiore volatilità. Dal 2003, anno a partire dal quale i dati di performance delle obbligazioni corporate EM sono disponibili, la volatilità annualizzata di questa asset class è stata dell’8,9%, mentre la volatilità annualizzata dei titoli azionari EM è stata del 24,6%. Di conseguenza, tenendo conto del fattore rischio, le obbligazioni corporate dei paesi emergenti escono positivamente da un confronto con la loro alternativa equity dei paesi emergenti, con un indice di Sharpe pari a 0,63 per l’obbligazionario corporate EM contro lo 0,55 dei titoli azionari EM. Gli investitori devono inoltre essere consci dei benefici in termini di diversificazione che l’asset class può offrire nel contesto di un portafoglio più ampio. I rendimenti di questa asset class hanno una bassa correlazione (0,17) con il Treasury americano e una correlazione leggermente negativa (– 0,05) con il segmento degli high yield. La percezione che il debito corporate EM sia un’asset class per specialisti, adatta solamente a investitori professionali, è stata troppo diffusa in questi ultimi anni. Oggi le società dei paesi emergenti non solo offrono tassi di rendimento più attraenti delle società dei paesi sviluppati, ma mostrano anche fondamentali più favorevoli. È probabile, e da un certo punto di vista comprensibile, che nel breve termine gli investitori continuino a essere scettici sul debito corporate dei mercati emergenti, condizionati da vecchie abitudini e dalla tendenza a seguire il gregge, ma con il passare del tempo, questi investitori dovrebbero cominciare ad accorgersi del valore fondamentale che l’asset class può loro offrire. Intervista al gestore Tre domande a Stephen Parr Stephen Parr, Investment Manager Global Emerging Market Team Popolazioni in rapida espansione e crescenti tassi di urbanizzazione nei mercati emergenti hanno portato a una mancanza di servizi e infrastrutture in questi paesi, che vantaggi vedete per gli investitori? Oggi diverse asset class tradizionali offrono bassi ritorni, mentre investire nelle infrastrutture può dare interessanti opportunità di crescita, oltre a costituire una valida scelta di diversificazione del portafoglio. Nonostante le diverse opportunità presenti in tutto il mondo sviluppato, gli investimenti in infrastrutture sono diventati particolarmente appetibili nell’ambito delle economie emergenti. I policy maker hanno sempre più chiaro il ruolo che può giocare lo sviluppo di beni infrastrutturali come elemento di stimolo per la crescita economica. Non c’è da stupirsi dunque che le infrastrutture e i servizi siano ai primi posti dell’agenda globale e che di conseguenza il pay-off su tali investimenti possa essere considerevole. La crescente necessità di spesa in questo segmento abbinata a uno storico sottoinvestimento proprio in campo infrastrutturale, ha consentito al settore privato di intervenire per aiutare il finanziamento, la costruzione e la gestione di grandi progetti. Condividete l’idea che i paesi che investono con maggiore intensità nelle infrastrutture tendono a raggiungere più rapidamente un buon livello di sviluppo economico? In diversi paesi emergenti, il corrente squilibrio fra offerta e domanda di infrastrutture ha condizionato il normale 02 5 minuti con Aberdeen svolgimento della produzione industriale, l’efficiente distribuzione della forza lavoro e del trasporto di beni e, in generale, le comunicazioni e l’attività di business. Questi colli di bottiglia fanno ben comprendere il fondamentale bisogno di investimenti in grandi opere necessari ai paesi emergenti nel lungo periodo proprio perché i governi stanno puntando a dare slancio alla produttività e alla competitività e a spostare verso l’alto i tassi di consumo domestico e di crescita economica. È generalmente riconosciuto che “avere una solida base di infrastrutture di livello conta, così come non averne può rappresentare un grosso freno alla crescita economica” (Goldman Sachs, 2011). Proprio per il fatto di essere un ostacolo alla crescita, questo deficit infrastrutturale costituisce un forte richiamo per investimenti materiali: l’OECD stima che gli investimenti in infrastrutture rappresenteranno l’equivalente del 3,5% del Pil mondiale entro il 2030, pari a circa 71.000 miliardi di dollari USA. Quali saranno i fattori trainanti della crescente domanda di infrastrutture e come possono gli investitori beneficiare delle opportunità d’investimento che emergono da questo tangibile bisogno di servizi? La spinta demografica, la crescente urbanizzazione, le maggiori aspettative di ricchezza delle popolazioni dei mercati emergenti e la necessità di sostituire i vecchi impianti, cui si aggiunge il progresso tecnologico nell’industria che spinge sempre più verso le tecnologie pulite, sosterranno la necessità di investire sempre di più nelle infrastrutture. Questi fattori trainanti dovrebbero riflettersi anche nelle caratteristiche dell’asset class. Gli investimenti in questo comparto sono caratterizzati da prevedibili flussi di cassa, stabili nel lungo periodo, e godono di una limitata concorrenza poiché spesso derivano da monopoli naturali, concessioni o regolamenti governativi. L’asset class tende inoltre a essere ad alta intensità di capitale e a beneficiare di economie di scala con alti costi fissi e bassi costi variabili. Possiamo concludere dicendo che per portare alla luce le opportunità d’investimento più convincenti presenti su tutta la catena del valore delle infrastrutture non vi è nulla di meglio che partire dalla ricerca bottom-up sui fondamentali, poiché una semplice indagine sui dati macro, slegati dal contesto, di rado si traduce in una performance del titolo. Porto industriale con elevatori per container Special guest: Lucrezia Reichlin Viaggio al centro dell’Eurozona: sfide, proposte e possibili soluzioni calcolare quanto sarebbe stato il guadagno ottenibile da una possibile svalutazione del tasso di cambio. Un simile ragionamento risulta difficile perché la storia si muove in un’unica direzione. Tuttavia si può fare un paragone con l’Inghilterra, un paese che in realtà va appena meglio dell’Italia: i dati economici relativi al quarto trimestre 2012 indicano ancora una crescita negativa nonostante la svalutazione della sterlina. Lucrezia Reichlin, economista, professore e direttore del Dipartimento di economia della London Business School Nel forum di Davos 2012 gran parte dei manager e degli economisti prevedeva l’implosione dell’Eurozona. A un anno di distanza ci troviamo di fronte all’ennesima miopia degli addetti ai lavori o tutto il merito va a Mario Draghi e alla sua strenua difesa dell’euro? I guai dell’euro non sono ancora finiti, tuttavia è stato evitato il cosiddetto “tail risk”, cioè il rischio estremo del default di un paese che avrebbe poi potuto innescare il contagio verso altri stati e quindi, nella più drastica delle ipotesi, anche la fine dell’euro. In larga misura lo si deve alle decisioni prese il 2 agosto scorso dal Consiglio Direttivo della BCE, guidata da Mario Draghi, che con le cosiddette Outright Monetary Transactions (OMT) si propone di comprare i titoli di stato dei paesi dell’Eurozona più deboli in maniera illimitata. Quella decisione conferma quanto sia importante il ruolo di prestatore di ultima istanza della Banca centrale europea per calmare le crisi di liquidità. Quali sono i rischi che connotano ancora i mercati dell’Eurozona? In primo luogo non tutti i problemi sono legati alla liquidità del sistema, ci sono anche rischi di solvibilità che vanno affrontati in altro modo. Inoltre ciò che per il momento ha avuto maggiore effetto sulla calma dei mercati sono state le parole di Draghi più che le azioni. Lo strumento delle OMT è ancora non-testato e nello scenario in cui un paese dovesse concretamente ricorrere a tale strumento non abbiamo un’idea precisa di come funzionerebbe e di quale grado di consenso potrebbe riscuotere da parte del Nord Europa. In terzo luogo il livello di indebitamento sia dei paesi che delle banche continua a essere elevato, anche se c’è stato un netto ritorno degli investitori sui titoli dei paesi del Sud Europa, molto importante perché il calo degli spread riduce il costo del funding per le banche e quindi anche i pericoli di credit crunch. I 17 membri dell’Eurozona rappresentano la seconda economia più forte del pianeta con un Pil combinato di circa 14 mila miliardi di dollari, eppure questa forza non basta ad assicurare una crescita stabile e a rassicurare gli investitori. Da economista, può dire perché? I tassi di crescita degli ultimi 30 anni indicano che l’Europa si è mossa in media allo stesso ritmo degli Stati Uniti, anche se il suo Pil procapite è del 30% più basso del dato americano, un gap che l’Europa si porta dietro dall’inizio degli anni ’70. Inoltre l’Europa è cresciuta meno degli Stati Uniti negli anni ’90 perché non ha beneficiato del boom degli investimenti legato alle nuove tecnologie. Il progetto euro è stato lanciato anche per dare delle risposte a questo ritardo e colmare la differenza in termini di reddito reale. L’introduzione della moneta unica, tuttavia, non ha dato una sostanziale accelerazione alla crescita dei paesi europei, ma piuttosto ha contribuito a stabilizzare l’economia da un punto di vista nominale, livellando i tassi d’interesse e riducendo l’inflazione. Di questo hanno beneficiato soprattutto l’Italia e in generale gli stati del Sud Europa tipicamente ad alta inflazione. Alcuni paesi, come Spagna e Irlanda, sono cresciuti anche dal punto di vista reale, ma, soprattutto in Spagna questa crescita e stata legata a un’espansione del settore edilizio di tipo speculativo, con gli effetti che poi si sono visti. In definitiva l’euro non ha portato a un grande cambiamento strutturale e dunque è fondamentale rivedere i vantaggi che si possono ottenere dallo stare uniti. I contenuti del progetto euro dovrebbero essere rimessi sul piatto e ridefiniti, anche attraverso un dibattito pubblico sul perché sia meglio creare un’Europa unita. Il capo economista del FMI Blanchard ha ammesso pubblicamente che il Fondo ha sbagliato le previsioni sugli effetti recessivi delle politiche di austerità. Quanto stiamo pagando l’Unione monetaria? Il costo delle politiche di austerità è indubbio anche se non è facile quantificarlo. All’interno dello stesso Fondo Monetario ci sono diverse posizioni, da quelle più critiche di Blanchard a quelle più caute. Per sapere quanto sta costando l’austerità bisognerebbe fare un esercizio controfattuale e vedere cosa sarebbe successo senza austerità. Per paesi come l’Italia questo significa calcolare il costo di uno spread più alto sul costo del credito e il costo di una molto probabile perdita di accesso al mercato. Un altro calcolo è pensare a cosa sarebbe successo all’Italia se non fosse stata nell’euro, cioè Negli Stati Uniti la Banca centrale immettendo liquidità nel sistema e indebolendo il dollaro, favorisce la ripresa economica, in Europa accade l’opposto nonostante Draghi: moneta forte, alta disoccupazione, crescita ferma. Abbiamo sbagliato ricetta? La flessibilità del tasso di cambio non è poi un’arma tanto favorevole, la stessa Italia ha molto usato questo strumento monetario in passato senza ottenere grandi risultati. Occorre considerare che all’interno dell’Unione ogni paese ha storie diverse. Per esempio la Spagna ha certamente usato l’ingresso in Europa per crescere, nei primi dieci anni dell’euro, a tassi più alti della media. L’Italia invece è cresciuta meno della media. Questo fa pensare che il problema del nostro paese non sia l’euro ma le politiche strutturali o in generale le scelte nazionali di politica economica. LUCREZIA REICHLIN - nata a Roma nel 1954, si è laureata in Economia e Commercio all’Università di Modena nel 1980 e ha conseguito il Ph.D. in Economia presso la New York University nel 1986. Esperta di metodi econometrici e di economia monetaria, è stata fra il 2005 e il 2008 Direttore Generale alla Ricerca della BCE a Francoforte. Oggi è Professore ordinario e Direttore presso il Dipartimento di economia della London Business School, oltre a essere direttore non esecutivo e membro del comitato di rischio dell’Unicredit Banking Group, membro del panel di valutazione dei progetti di ricerca in scienze sociali finanziati dalla Comunità Europea (ERC), fellow del Center for European Policy Research di Londra, e fellow dell’European Economic Association. È autrice di numerosi saggi economici e scrive regolarmente per importanti riviste scientifiche (“Review of Economic Studies”, “American Economic Review”, “Journal of Monetary Economics”, “Review of Economics and Statistics”). In Italia è opinionista ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tuttavia anch’io, come Blanchard, ritengo che sarebbe stato auspicabile avere delle politiche bilanciate a livello europeo tali da non creare un’“austerità coordinata”, con un rigore fiscale imposto proprio nel momento in cui le condizioni finanziarie rendevano i tassi d’interesse molto alti. Così significa avere in contemporanea una politica monetaria restrittiva e una politica fiscale restrittiva. In un suo recente articolo sul “Corriere della Sera”, parlando di crisi dell’Eurozona ha sottolineato l’importanza di ridefinire una nuova architettura dell’euro. Che cosa vuole dire concretamente? Al momento non sono ottimista riguardo alla possibilità di ridiscutere l’architettura dell’euro perché sembra che improvvisamente l’argomento non interessi più. Da quando si è calmata l’emergenza c’è stato un forte rallentamento del dibattito. In generale credo che se l’obiettivo sia mettere l’euro su un’impalcatura stabile occorre innanzitutto completare un’unione bancaria perché, come si è imparato da questi ultimi anni, nel momento in cui si presenta una crisi sistemica o internazionale e le banche sono sotto stress, in un mercato finanziario integrato come dovrebbe essere l’euro ci si può trovare di fronte a un arresto dell’attività finanziaria. Le conseguenze sono la fuga di capitali dal Sud Europa verso il Nord, con un impatto diretto sulle finanze pubbliche degli stati deboli e una corsa verso i titoli di stato dei paesi considerati sicuri, i safe asset. Sono meccanismi molto perversi e simili a quelli che si vedono nelle crisi di valuta dei paesi emergenti: è fondamentale proteggere l’area euro da questo tipo di attacchi. Quali caratteristiche dovrà avere a suo avviso l’unione bancaria? L’unione bancaria non deve essere solo un meccanismo preventivo, ma deve funzionare anche in situazioni di emergenza, proponendo dei meccanismi di risoluzione in caso di crisi finanziarie. Perché ciò avvenga ci vogliono delle “spalle” fiscali robuste, perché quando si parla di trasferimenti fra stati, anche se temporanei, ci sono comunque di mezzo i soldi dei taxpayers; proprio per questo occorre fare passi avanti per esempio nell’integrazione delle politiche di bilancio e nel definire le garanzie che i paesi più fragili devono dare ai paesi meno fragili. Non credo sia realistico chiedere alla Germania una mutualizzazione illimitata del debito, mentre ci vogliono meccanismi di assicurazione. Tuttavia, prima di rimettere in discussione l’impalcatura della moneta unica, bisogna gestire la situazione presente, cioè lo stock di debito che c’è in circolazione. È utile separare i due problemi: prima va gestito il lascito del passato, proprio per evitare il sospetto che si voglia creare un meccanismo di trasferimento permanente del debito dall’Europa meno virtuosa a quella più virtuosa. Solo in seguito si può cominciare a ridiscutere dell’assetto futuro della moneta. Questo è quanto viene sostenuto in un recente rapporto di INET (www.INETeconomics.org), un documento firmato da economisti europei di convinzioni e provenienza geografica diverse che ho sottoscritto anch’io. Affrontando il problema della crescita anche in ottica storica, perché il nostro continente è rimasto indietro rispetto agli Stati Uniti? L’Europa è cresciuta enormemente fra gli anni ’50 e ’60 sull’onda del passaggio da un’economia di tipo agricolo a un’economia manifatturiera, un percorso che stanno facendo oggi i paesi emergenti. Questo processo è terminato intorno agli anni ’70 e fino agli inizi degli anni ’90 l’Europa ha continuato a crescere in produttività del lavoro, anche più degli Stati Uniti, nonostante un tasso di crescita della popolazione attiva meno dinamico che in America (in parte perché in Europa c’è stato un ritardo dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e una minore immigrazione). Agli La parola ai lettori In queste pagine affrontiamo i temi che sono per noi all’ordine del giorno, nell’intento di approfondire l’attuale contesto d’investimento e dare una valutazione su quanto sta accadendo. Poiché da sempre riteniamo importante il dialogo con i nostri clienti e i nostri partner, ci preme conoscere anche la vostra opinione: l’Eurozona sta trovando soluzioni efficienti per uscire dall’impasse dei debiti sovrani? Ritenete che gli investimenti in infrastrutture saranno la nuova frontiera dei mercati emergenti? Stati Uniti e Cina saranno in grado di trainare la ripresa economica globale nel 2013? Se desiderate esporci le vostre considerazioni, contattate: [email protected] inizi degli anni ’90 la produttività europea ha cominciato a rallentare; una delle ragioni potrebbe essere che il mondo delle imprese non sia stato in grado di accogliere le nuove tecnologie. Un’altra ipotesi è che i dati siano semplicemente sbagliati: io mi trovo sempre più d’accordo con questa teoria, ovvero che in realtà il Pil sia una misura imprecisa del benessere della popolazione. Il Pil misura solo le attività di mercato e calcola in maniera distorta il contributo del settore pubblico al benessere dei cittadini. È possibile che i cittadini europei si siano organizzati volontariamente intorno all’idea di avere un livello di ricchezza procapite più contenuto, cui però sottostanno migliori servizi dal punto di vista del settore pubblico. Possiamo trarre qualche conclusione riguardo alle sfide che l’Europa si troverà ad affrontare in futuro? Il problema della produttività sarà centrale tanto in Europa quanto negli Stati Uniti poiché nel lungo periodo non si cresce senza aumentare la produttività. In Europa occorre fare diverse riflessioni: prima di tutto manca la capacità di accogliere l’innovazione attraverso imprese giovani. Nel tessuto economico europeo c’è enfasi sulla piccola impresa ma vi è carenza di imprenditoria innovativa giovanile. L’innovazione sarà un fattore chiave; dopo la rivoluzione dei computer sarà presto la volta di tecnologie nuove che potrebbero rimettere in discussione l’assetto economico e produttivo della società. Basti pensare alla stampa 3D: immaginiamo l’impatto che potrebbe avere questa tecnologia sull’export e in generale sulle supply chains. Questi sono i grossi temi che riguardano i cittadini europei, oltre a quello della riqualificazione del lavoro e della qualità della vita. Io credo che l’Europa dovrebbe discutere di più di queste importanti tematiche e un po’ meno di tasse e fiscalità. Da questo punto di vista ritengo che, data l’ampia portata dei temi, essere un mercato unico e più grande costituirà un vantaggio. Nonostante le politiche di “risanamento” avviate dal governo Monti, l’Italia sembra più che mai strozzata dal cosiddetto triangolo della morte: consumi in rapida discesa, massima pressione fiscale, banche in sofferenza. Da dove incominciare per uscirne? L’Italia deve fare fronte a due problemi: la crisi del debito sovrano, che ha avuto un effetto sul costo del credito combinato allo storico problema di uno stock imponente di circa 2 mila miliardi, e una stagnazione che è cominciata già agli inizi degli anni ’90. A differenza di altri stati l’economia italiana non ha avuto una bolla, ma semplicemente calma piatta. Il prossimo governo si troverà ancora davanti a una situazione di emergenza, anche se di tipo diverso da quella affrontata da Mario Monti nel 2012. Le OMT mettono il debito pubblico italiano al riparo da attacchi speculativi, oggi assai meno probabili. Al nuovo governo spetterà il compito non facile di trovare le risorse per far ripartire l’economia, operando in una situazione di margini fiscali e di bilancio molto stretti, e in un sistema finanziario in lieve miglioramento ma ancora appesantito dalle sofferenze bancarie accumulate in questi anni di recessione. L’unica speranza è che l’economia mondiale nel 2013 cominci a migliorare e che quindi l’Italia, paese delle esportazioni, possa agganciarsi alla ripresa internazionale. Intervista a cura di Martina Mazzotti Primo trimestre 2013 03 Books Dieci regole d’oro per non perdere il buon umore libretto, illustrato da altrettante vignette umoristiche, che Prendete uno dei più esperti gestori di tutta l’area asiatica, Hugh intendono far comprendere come anche i temi più impegnativi Young, Managing Director di Aberdeen AM Asia, che da più di vadano affrontati con un pizzico d’ironia. Se invece siete esperti vent’anni vive a Singapore dove ha aperto nel 1992 il primo ufficio investitori, è comunque Far East di Aberdeen. possibile che almeno una volta Chiedetegli cosa ha imparato nella vita prima di investire vi in tanti anni di carriera tanto NON CAPISCO… A LEI IL VESTITO STA BENISSIMO! sia sfuggita una qualunque di fruttuosi, visto che ormai tali schiette verità. Ecco perché gestisce uno staff di 150 Aberdeen ha deciso di offrire persone dislocate nelle sedi di questo utile compendio ai suoi Australia, Cina, Hong Kong, lettori-investitori così da Giappone, Corea, Malesia, condividere le basi della sua Taiwan e Tailandia; senza filosofia d’investimento: fare contare che alcuni dei fondi in bene le cose fondamentali. Le sua gestione come l’Asian intuizioni di Young hanno tutte Smaller Companies Fund sono lo stesso leitmotiv, ovvero una pluripremiati a livello ferma convinzione nel buon internazionale. Affiancate poi senso. Basta porsi pochi ai preziosi insegnamenti che semplici quesiti, ci ricorda questa perla dell’asset NON C’È MOTIVO PEGGIORE PER SCEGLIERE UN Hugh Young, prima di decidere management può dispensare INVESTIMENTO CHE COPIARE QUANTO FATTO DA ALTRI! sull’acquisto di un titolo: Come uno dei più brillanti cartoonist sono trattati gli azionisti di minoranza? (Regola n° 1), Sto inglesi, Fran Orford, vignettista economico in puro stile British che scegliendo il mio investimento emulando quello fanno gli altri? pubblica regolarmente su testate come “The Observer”, “The (Regola n° 7), Sto scegliendo una società che cerca di espandere la Times”, “Evening Standard” e “Bloomberg Money”. Mescolate con propria capacità produttiva oltre le sue possibilità? (Regola n°5), e cura tutti gli ingredienti e otterrete una raccolta seria ed esilarante così via… I gestori di Aberdeen, queste domande, le hanno sempre al tempo stesso che vi svelerà le dieci regole d’oro per investire nel ben in mente e investono solo dopo aver trovato le giuste risposte. mercato azionario. 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Il mio lavoro si divide in due parti: da un lato l’aggiornamento costante sull’andamento dei mercati e sui posizionamenti dei Fondi Aberdeen, dall’altro incontrare e parlare di persona con i clienti: per questo vivo sempre con la valigia in mano! Cosa mi piace di questo lavoro: il fatto che non ci sia un giorno uguale all’altro. Viaggiare e avere contatti diretti con chi gestisce e apprezza i prodotti Aberdeen mi ha fatto scoprire come, pur operando in ambito finanziario, vi sia un’importante componente umana e relazionale nella mia attività. CHRISTIAN COLETTO Business Development Manager Italy di Aberdeen AM, lavora con il gruppo dal 2010 e ha partecipato in prima persona al lancio dei prodotti d’investimento Aberdeen in Italia. Cosa faccio nel tempo libero: durante la settimana, se ho tempo, mi rigenero praticando sport: gioco a tennis e a calcio, e in questo modo scarico le tensioni. Però non vedo l’ora che arrivi il weekend per dedicarmi alla famiglia, cosa che mi ha sempre appagato molto e ora più che mai, visto che da pochi giorni sono diventato papà del piccolo Edoardo. Informazioni importanti La circolazione del presente documento è limitata ai soli investitori professionali ed è vietata ogni sua successiva diffusione al grande pubblico. Vi aspettiamo alla nostra conferenza: MERCOLEDÌ 17 APRILE – ORE 17.30, Aula Magna Tutti i dettagli sul nostro sito: www.aberdeen-asset.it Redazione [email protected] 04 5 minuti con Aberdeen Gli investimenti nei mercati emergenti potrebbero essere piu’ volatili e rischiosi a causa dell’instabilita’ economica e politica di questi paesi. Le informazioni di cui sopra hanno finalità strettamente informative e non vanno intese come offerta o invito alla compravendita di qualsivoglia investimento ivi menzionato. Aberdeen Asset Managers Limited (“AAML”) non garantisce l’accuratezza, l’adeguatezza o la completezza delle informazioni e delle documentazioni contenute nel presente documento ed esclude espressamente ogni responsabilità per errori o omissioni inerenti a tali informazioni o documentazioni. Ogni ricerca o analisi impiegata ai fini della redazione del presente documento è stata fornita da AAML per suo uso interno e può essere stata adattata per le sue finalità specifiche. I risultati così ottenuti vengono resi disponibili in modo del tutto contingente e non si garantisce l’accuratezza delle informazioni. Alcune delle informazioni di cui al presente documento possono contenere proiezioni o altre elaborazioni riguardanti eventi futuri o i futuri risultati finanziari di paesi, mercati o società. Esse hanno valore puramente previsionale; dati ed eventi reali possono divergere significativamente. 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