Economia EURO SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI Il futuro della moneta unica dopo il terremoto greco, tra problemi istituzionali, riforme tecniche e l’esigenza di un’unificazione fiscale Emilio Rossi 20 MARZO 2015 I L RECENTE RITORNO ALLA RIBALTA della crisi legata al debito della Grecia ha riaperto il dibattito sui limiti della costruzione dell’euro. Una soluzione duratura del “problema greco” richiede di tener conto di vari aspetti, tra cui le implicazioni per gli altri paesi dell’eurozona che presentano problemi di debito e la revisione delle regole e delle istituzioni alla base della moneta unica. Il “problema greco” è nel breve termine legato alla restituzione del debito in scadenza nei prossimi mesi (circa 12 miliardi di euro), mentre nel più lungo termine dipende dall’enorme debito contratto dalla Grecia nei confronti dei creditori esteri, 317 miliardi di euro (di cui circa 200 detenuti dai paesi dell’eurozona), ossia circa il 177% del pil greco. I paesi dell’eurozona hanno di fronte due alternative principali: mantenere un profilo di aiuti di breve durata (2-3 anni) per tenere sotto pressione le politiche del governo greco fino alla prossima crisi oppure trovare una soluzione più strutturale e duratura. Dato che la Grecia è sostanzialmen- te in bancarotta, questa seconda opzione non è perseguibile senza coinvolgere il meccanismo di funzionamento dell’euro. Parametri da rivedere All’inizio della costruzione dell’euro, per tenere insieme un gruppo di paesi molto eterogenei per struttura economica, progresso tecnologico e cultura, furono adottati solamente i parametri relativi al bilancio pubblico e all’inflazione. Ma questi parametri si sono rivelati del tutto inadeguati a fronte dei cambiamenti epocali degli ultimi quindici anni, e non a caso, visto che i parametri di Maastricht sono stati quantificati in un periodo in cui il ciclo economico sembrava avviato verso un sentiero di crescita continua nella maggior parte del mondo industrializzato. All’inizio degli anni Novanta era ragionevole attendersi un tasso di crescita annuo del pil reale dei paesi europei intorno al 3%, a fronte di un obiettivo di inflazione del 2%, e conseguentemente un pil nominale del 5%. Sulla base di queste assunzioni, il tetto del 3% nel rapporto deficit/pil e del 60% in quello debito/pil erano sicuramente appropriate. Qualora il ciclo economico avesse portato a scostamenti dagli obiettivi, sarebbero intervenute politiche fiscali dei governi e monetarie della Bce a riportare i valori sotto controllo. Oggi il contesto economico globa- L’evento veramente epocale degli ultimi 15 anni è costituito dallo spostamento di risorse dai paesi avanzati a quelli emergenti, certamente inatteso nella sua dimensione le ed europeo è molto diverso e i parametri di Maastricht appaiono più che ambiziosi. Nell’eurozona, in presenza di un calo di domanda e di un peggioramento delle condizioni di credito, molte imprese sono state costrette alla chiusura o a delocalizzare la produzione. Il numero di occupati si è ridotto significativamente, soprattutto nelle fasce giovanili, riducendo ulteriormente i consumi e creando condizioni di disagio sociale che rendono più complessa la gestione dei deficit pubblici. La concorrenza dei mercati emergenti Ma l’evento veramente epocale degli ultimi 15 anni è costituito dallo spostamento di risorse dai paesi avanzati a quelli emergenti, certamente inatteso nella sua dimensione. Questo fenomeno va salutato sicuramente con favore, dato che ha comportato l’uscita dalla povertà assoluta e il raggiungimento di condizioni di vita ra- MARZO 2015 21 Economia Dal punto di vista istituzionale, la riforma più rilevante da implementare è l’unificazione della politica fiscale insieme alla politica monetaria gionevoli per oltre un miliardo di abitanti del pianeta. La concorrenza proveniente dai mercati emergenti (anche dai paesi dell’Est europeo), inizialmente focalizzata sui prodotti a basso valore aggiun- 22 MARZO 2015 to, ha creato condizioni meno favorevoli nei paesi dell’eurozona per poter affrontare la crisi del 2008. Già negli anni precedenti la delocalizzazione aveva prodotto effetti significativi sull’occupazione e sulla crescita dei paesi dell’eurozona. Questo fenomeno non si è esaurito, visto che altri paesi in via di sviluppo sostituiranno quelli oggi emergenti. In altre parole, la struttura globale del sistema economico è cambiata e ai paesi dell’eurozona non resta che prenderne atto. Le ipotesi di crescita alla base dell’euro, quindi, non reggono più e i parametri di finanza pubblica appaiono non adeguati nel lungo termine. Secondo previsioni effettuate da Oxford Economics, con prezzi del petrolio intorno ai 60 dollari e un tasso di cambio euro/dollaro sotto 1,1 (entrambe ipotesi realisticamente favorevoli all’eurozona), la crescita del pil reale prevista fino al 2025 è di circa 1,5% con un’inflazione all’1,3%, valori di poco sopra la metà di quelli pensati all’inizio degli anni Novanta. L’euro è ancora affidabile? La crisi greca potrebbe essere quindi il momento per avviare la rifles- sione su tutti gli aspetti che rendono l’euro una moneta meno affidabile di quanto potrebbe essere. Oltre alla valutazione numerica dei parametri (esercizio tecnico che sarebbe tutto sommato semplice rivedere), colmare altre lacune appare anche più cruciale per consentire all’euro di sopravvivere e prosperare. Tuttavia, questo richiederebbe una leadership politica che i leader attuali forse non hanno o che non sembrano disposti a mettere in campo, orientati come sono a mantenere i propri indici di gradimento presso il proprio elettorato. Alcuni passi importanti sono in realtà già stati fatti, basti ricordare la creazione dello European stability mechanism (atto a fornire assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà) e l’avvio dell’unione bancaria, ma moltissimo resta da fare. Le principali lacune che richiederebbero interventi sono sia “tecniche” che istituzionali. Quelle “tecniche” sono quelle che forse potrebbero essere implementate più rapidamente, ma in realtà richiedono comunque correzioni nei trattati e cambiamenti istituzionali: l’emissione di bond europei, l’inclusione dell’occupazione nel mandato Bce, la trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza (ossia come garante delle obbligazioni emesse dai singoli stati). Entrambe queste riforme sono osteggiate dalla Germania e da altri paesi che le ritengono, giustamente, premature e a rischio di “moral hazard” da parte dei paesi meno attenti ai deficit di bilancio. Dal punto di vista istituzionale, la riforma più rilevante da implementare è l’unificazione della politica fiscale, vera architrave di una moneta unica, insieme alla politica monetaria. L’unificazione fiscale è osteggiata soprattutto dalla Francia, timorosa di cedere una porzione di sovranità all’Ue, ma rappresenterebbe un passo decisivo anche per l’implementazione delle suddette riforme “tecniche”. Il programma della Bce In questo contesto di debolezza politica e istituzionale dell’euro, la Bce di Mario Draghi ha intanto lanciato un programma di “Quantitative easing” (Qe) mirato all’ampliamento del bilancio della Bce stessa o, in altre parole, ad aumentare le attività della banca di almeno un trilione di euro in diciotto mesi. La scelta di una politica monetaria decisamente espansiva (al contrario di quanto effettuato tra il 2013 e il 2014) denota le In questo contesto di debolezza politica e istituzionale dell’euro, la Bce di Mario Draghi ha intanto lanciato un programma di “Quantitative easing”mirato all’ampliamento del bilancio della Bce stessa difficoltà di mantenere un percorso di crescita dei prezzi coerente con l’obiettivo del 2% annuo. Il risultato concreto di questa decisione sarà di abbassare i rendimenti anche delle obbligazioni a lungo termine, avviando l’euro verso un lungo periodo di indebolimento sui mercati internazionali, soprattutto nei confronti del dollaro. La soglia del cambio euro/dollaro 1 contro 1 potrebbe non essere lontana, a patto che gli Usa si avviino sulla rotta contraria di aumento dei loro tassi di interesse. 䡵 MARZO 2015 23