Francesco Altea
LA RICERCA
DELL’ESSERE
Il cammino verso
il trascendente
Armando
editore
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Sommario
Nota introduttiva 11
Premessa 15
Parte prima: Il concetto di Essere nelle prime
due epoche: Antica e Medioevale 27
Capitolo primo
L’ontologia come ramo della filosofia 29
1.1 La coniazione del termine “ontologia” come nome
della scienza che indica i caratteri generali dell’Essere 30
1.2 Genesi e sviluppo della metafisica, e uso dell’ontologia,
come ramo della filosofia 31
1.3 Il diffondersi, in Occidente, del pensiero greco orientato
alla ricerca dell’Essere 35
Capitolo secondo
La Patristica: l’Essere e i suoi attributi nella filosofia
47
2.1 Tertulliano 48
2.2 Tito Flavio Clemente Alessandrino 49
2.3 Origene 50
2.4 Metodio 2.5 Eusebio ALTEA-La ricerca dell’essere 14x20.indd 5
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2.6 Basilio 2.7 Gregorio di Nissa 55
57
2.8 Sant’Agostino: la ricerca di Dio nell’interiorità della coscienza 59
Capitolo terzo
La decadenza della ricerca nella Patristica nell’Oriente dell’Impero Romano e nell’Occidente
3.1 Il tramonto della Patristica nella chiesa latina
e in quella greca: Gregorio Magno, Beda il Venerabile, Giovanni Damasceno Capitolo quarto
67
71
La nascita della Scolastica e la concezione dell’Essere
77
4.1 Le diverse fasi di sviluppo della Scolastica: prime forme
di contrasto tra fede e ragione nella concezione dei misteri
di Dio 79
4.2 La questione degli universali, e la sua ripercussione nella dottrina trinitaria
85
4.3 Sant’Anselmo e la sua prova ontologica dell’esistenza dell’Essere 90
4.4 L’esistenza dell’Essere, dopo Sant’Anselmo
94
4.4.1 Le argomentazioni di Gilberto Porretano 4.5 Questione degli universali, il rapporto tra fede e ragione
4.6 La concezione dell’Essere nel misticismo
95
99
102
4.7 San Tommaso e le sue cinque prove (o vie) dell’esistenza
106
di Dio
4.8 Contrapposizione teologica tra francescani e domenicani.
Tramonto della Scolastica
113
4.8.1 Duns Scoto tra le dottrine Francescane e domenicane
113
4.8.2 Guglielmo d’Occam contro l’uso eccessivo degli Enti
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Parte seconda: La concezione dell’Essere 123
umanistico-rinascimentale e moderna Capitolo quinto
L’Essere tra Umanesimo e Rinascimento 5.1 La concezione di Dio in alcuni umanisti
125
125
5.1.1 Il concetto di Dio nel pensiero di Nicola Cusano
129
5.1.2 Marsilio Ficino: la sua sintesi tra Platonismo e Rivelazione 131
5.1.3 Pico della Mirandola: le sue concezioni sincretistiche
5.2 Lutero e la sua Riforma protestante
133
135
5.2.1 La reazione della Chiesa alla Riforma luterana: la Controriforma 139
5.2.2 Considerazioni sulle dottrine del periodo umanistico-rinascimentale
140
5.3 L
e Sacre Scritture e le nuove scoperte scientifiche di Copernico e Galileo 141
5.3.1 Copernico: la sua teoria eliocentrica contrapposta
a quella geocentrica, sostenuta dalla Chiesa
142
5.3.2 Le scoperte di Galileo e i suoi contrasti con la Chiesa
144
Capitolo sesto
L’esistenza dell’Essere in età moderna 6.1 Le dottrine razionalistiche di Cartesio, Hobbes, Spinoza e Leibniz 151
151
6.1.1 Cartesio 151
6.1.2 Hobbes 155
6.1.3 Spinoza 159
6.1.4 Leibniz 163
6.2 L’esistenza dell’Essere nelle dottrine empiriche di Locke,
Berkeley e Hume contrapposte a quelle razionalistiche
6.2.1 Locke ALTEA-La ricerca dell’essere 14x20.indd 7
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6.2.2 Berkeley
176
6.2.3 Hume 182
6.3 L’Illuminismo: le concezioni deistiche e il rifiuto della Rivelazione 188
6.3.1 Pier Bayle 192
6.3.2 Voltaire 193
6.3.3 L’aspetto materialistico dell’Illuminismo193
6.3.4 Lessing 6.4 Il concetto di Dio nel criticismo kantiano
Parte terza: La ricerca dell’Essere in epoca contemporanea (sec. XIX e XX) Capitolo settimo
La concezione dell’Essere in Fichte, Schelling, Hegel
194
197
203
205
7.1 L’Idealismo soggettivo, etico, di Fichte 205
7.2 L’Idealismo oggettivo, estetico, di Schelling
209
7.3 L’Idealismo di Hegel, chiamato anche Panlogismo
212
Capitolo ottavo
La ricerca dell’Essere 217
8.1 La riflessione religiosa di Kierkegaard 217
8.2 La ricerca dell’Essere 221
8.3. I l movimento filosofico cattolico-liberale in Italia
226
nel periodo Risorgimentale
8.3.1 Antonio Rosmini: il filosofo dell’idea dell’Essere
indeterminato
227
8.3.2 Vincenzo Gioberti
231
8.4 Concezione dell’Essere nel Neoidealismo italiano 236
8.4.1 Il Neoidealismo di Giovanni Gentile 237
8.4.2 Lo storicismo assoluto di Benedetto Croce
239
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Capitolo nono
L’incidenza degli accadimenti sulla maturazione
del pensiero 9.1 Il concetto di trascendenza dell’Essere nella filosofia esistenzialistica 245
247
9.1.1 Martin Heidegger 248
9.1.2 Karl Jaspers 254
Conclusioni 261
Bibliografia
295
Indice dei nomi 299
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Nota introduttiva
Ciò che in questo libro s’intende fare è sottoporre all’attenzione del lettore l’ardente e inestinguibile desiderio dell’uomo di darsi
una spiegazione razionale di quanto, in campo religioso, ha voluto
credere e accettare, ossequente ai dettami della sua coscienza, e ai
dogmi della sua stessa fede.
L’uomo si è impegnato e battuto, in ogni tempo, per rendere
univoca ed obiettiva l’interpretazione dell’esistenza, dell’essenza e
degli attributi dell’Essere, inteso come Ente supremo. E, a dire il
vero, non si può neppure negare che, in certo qual modo, per taluni aspetti, ci sia pure riuscito. Bisogna, però, altresì riconoscere
che non sempre abbiano avuto seguito alle sue intenzioni esplicative
processi dimostrativi coerenti e convincenti, nonostante tutti i suoi
sforzi compiuti per approfondire gli studi su tale argomento,che, se
male interpretato, diventa problematico, annoso e controverso: ne
fanno fede le rigide contrapposizioni dottrinali che ne sono derivate,
e ancora ne derivano, le quali sono state spesso causa di devianti
e sconvolgenti eresie. Ciononostante, egli non ha mai desistito dal
voler soddisfare questo suo grande desiderio. E lo ha fatto mettendo
in campo non solo la sua fede ma anche quanto di meglio, in diversi
tempi, e nelle più svariate circostanze, ha ritenuto di sapere, senza
perdere mai la speranza di riuscire in questo suo nobile intento: ossia quello, come testè accennato, di rendere l’Essere razionalmente
esplicito. Il fine, dunque, che qui ci si prefigge non è di perdersi in
argomentazioni filosofiche, perché siano, poi, lette da chi, magari,
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in filosofia, si ritiene più ferrato di chi scrive, ma, piuttosto, di mettere in risalto il potere razionale dell’essere umano che, andando
di pari passo col progresso della cultura filosofica, ne consolida lo
sviluppo,anche dal punto di vista religioso. Il fine è altresì quello di
far trasparire l’impotenza della stessa ragione ove questa sia forzata
inutilmente, per dare una spiegazione logica di tutto ciò che appartiene, in termini di misteri, all’inintelligibile sfera dell’Essere.
In vista di tutto questo, saranno, dunque, citati quei concetti chiave della filosofia che, nell’Occidente, hanno segnato maggiormente
le diverse fasi di sviluppo del pensiero razionale.
L’uomo ha incominciato col porsi il problema di conoscere
quale fosse l’unica sostanza da cui tutte le cose hanno tratto origine, e di cui le stesse, nel loro essere, sono costituite. I primi ad
occuparsene sono stati i naturalisti, che l’hanno individuata nei
diversi elementi della natura: per Talete, ad esempio, tale sostanza
era l’acqua, per Anassimene l’aria, per Anassimandro la massa indeterminata della materia, da lui chiamata “apeiron”, per Eraclito
il fuoco, per Pitagora il numero. Va detto anche che Anassimandro
avesse dato il nome di “archè” alla sostanza unica, come principio
di tutte le cose.
In seguito, creatosi il problema del rapporto tra Essere e divenire, a causa della teoria di Parmenide, che escludeva ogni forma di
mutamento dell’Essere, i pluralisti, tra cui Empedocle e Anassagora,
cercarono di risolverlo affermando che il principio della realtà, considerata sotto tutti i suoi aspetti, non escluso quello del divenire, non
potesse essere unico, ma molteplice.
La sostanza, chiamata, come si è detto, anche “archè”, cioè principio delle cose, è stata, dunque, il punto di partenza dell’evoluzione del pensiero filosofico, d’ispirazione naturalistica, cui seguirono
quasi subito gli studi sull’Essere e le sue proprietà, il cui promotore
e maggiore esponente, nell’antichità, fu il, già citato, filosofo Parmenide di Elea, vissuto tra il VI e il V secolo a.C. Egli, già da allora,
concepiva il problema dell’Essere in senso metafisico-ontologico,
ossia nella sua massima generalità, non più limitato alla sola natura,
come avevano fatto, prima di lui, i naturalisti.
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Così inteso, il problema ontologico cominciò il suo corso nel
tempo, sebbene in teoria non fosse ancora definito chiaramente
come tale. E si diffuse rapidamente tra le varie correnti di pensiero,
differenti tra loro sia nell’interpretarne lo spirito, sia nell’uso che
esse ne facevano e ancora ne fanno: perciò fu causa, allora, così
come lo è tutt’oggi, di dure polemiche, aspri dibattiti, nonché di
grandi e incessabili divergenze.
Le situazioni conflittuali che ne derivano, saranno, dunque, punto di maggiore rilievo in questo testo e serviranno, nelle loro varie
fasi di sviluppo anche ad integrare il progressivo svolgersi e diffondersi di teorie filosofiche e teologiche complesse e contrapposte, il
cui processo, attraverso i secoli, è arrivato fino ai nostri tempi: tempi
che, dato il lungo corso dei secoli che ci separano dall’inizio delle
grandi e accese dispute, fatte intorno all’argomento ontologico, perlopiù senza obiettivi largamente condivisi dalle parti contrapposte,
fanno presagire il perdurare e l’accentuarsi, anche nel futuro, dei
problemi derivanti da tale argomento, finchè il campo della ragione
non sarà ben distinto da quello della fede.
Ciò è quanto chi scrive si prefigge, in tutta umiltà, di mettere in
risalto, traendo spunto dal pensiero di quei filosofi e teologi, appartenenti a quelle correnti che hanno lasciato una particolare impronta nella storia della ricerca di Dio, e nella determinazione dei suoi attributi.
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Premessa
L’uomo, sin dai tempi più remoti, ha cercato sempre di dare una
risposta a tutti i suoi “perché”. E lo ha fatto alla luce di ciò che andava sperimentando fuori e dentro di sé.
Le sue prime esperienze, intraprese e portate avanti a contattocon
l’ambiente in cui incominciò a fare i suoi primi passi verso il futuro, nonchè gli esseri e le cose e le prime forme di società, con cui
egli interagiva, gli aprirono la mente a idee sempre nuove e a come
attuarle e farle progredire. Ebbe inizio così il suo lungo cammino
nell’immensità dello scibile, trascinato dall’impulso irrefrenabile di
dare a se stesso una spiegazione di tutto ciò che vedeva, sentiva e
provava, nel bene e nel male, e della sua stessa esistenza. La strada,
su cui la mente umana continua ancora, con instancabile lena, il suo
percorso, apparve subito, per certi aspetti, lunga e tortuosa, e persino
sconfinata. Le domande che l’uomo si è posto nel passato, così come
continua a fare nel presente, sono state sempre tante, di diversa natura, e spesso contrastanti: sono tutte domande, specie quelle sul
trascendente, cui non sempre egli è riuscito a dare risposte in grado
di soddisfare le sue esigenze conoscitive.
Esse scaturiscono dalla sua implacabile e inestinguibile sete di
sapere, e sono spesso così assillanti da offuscarne la mente e sconvolgerne l’esistenza.
L’umanità è andata sempre avanti, e non si è mai fermata, alla ricerca di nuove soluzioni a tutti i suoi problemi, concernenti non solo
la materia, ma anche e soprattutto lo spirito: i suoi progressi sono
stati, finora, tanti e tali, nel mondo del tangibile, da restarne essa
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stessa sbalordita. Al momento, però, di approfondire le sue conoscenze di quanto attiene, in termini di essenza ed esistenza, alla sfera
del puro spirito, ha sentito subito venir meno il suo potere razionale.
E, a lungo andare, col passar degli anni, si è resa conto che ciò fosse
indice di quanto ben poco possa fare la ragione umana di fronte ai
misteri inintelligibili dell’essere, la cui essenza, il modo con cui Egli
opera, e le sue finalità sono inaccessibili alle capacità raziocinanti
dell’essere umano.
La mancanza di una possibile progressione conoscitiva, con il
solo uso dei sensi e della ragione, passando dalla sfera dell’intelligibile a quella puramente spirituale, ha indotto le persone sagge a rinunciare ai propri poteri conoscitivi e ad accettare quanto sull’essere
supremo, ossia di Dio, può essere creduto per via della propria fede,
sia pure supportata, quanto più possibile, dalla ragione. Tenere nel
giusto equilibrio il rapporto tra fede e ragione, sì che, nello stesso
tempo, si mantengano in assoluto accordo i due diversi mondi dell’inintellegibile e dell’intellegibile, quando ognuno di questi ultimi fa
sentire il suo maggior peso nella soluzione di determinati problemi,
non è cosa facile.
Tante ed aspre sono state, infatti, le dispute, a tale riguardo, nel
passato, quando la ragione era messa in secondo piano, rispetto
alla fede, anche su questioni logico-razionali, di natura prettamente
scientifica. La stessa cosa accadde, allora così come oggi, anche per
la fede, quando, al contrario, nei confronti di quest’ ultima, era, invece, la ragione a sostituirsi ad essa inficiandone il campo.
Come si è detto, l’uomo, sin dai tempi più antichi, è andato alla
ricerca dell’essenza di tutte le cose. Le sue ipotesi, nel merito, sono
state sempre tante, diverse e, spesso, in netto contrasto tra loro.
Talete, come si è detto nella nota introduttiva, l’aveva identificata
nell’acqua, la quale è presente dappertutto, se non altro, almeno sotto forma di umidità generatrice di vita; Anassimene, nell’aria che,
condensandosi e rarefacendosi, dà origine a tutte le cose, com’egli
dice; Anassimandro vide tale principio in un elemento indeterminato, chiamato apeiron, riferito alla quantità infinita della materia, dalla quale ogni cosa trae origine, e nella quale, poi, si riconverte, alla
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fine del suo ciclo. Eraclito si differenzia ancora da questi, e indica
il fuoco come elemento creatore, intelligente, incorporeo e sempre
vivo, simbolo del perenne divenire delle cose e del loro conflitto,
ossia del continuo, incessante mutamento e trasformazione della realtà, con cui lo stesso divenire s’identifica.
I filosofi di cui si è fatta finora menzione sono solo una minima
parte di quelli che, nell’antichità, hanno indagato sui misteri della
natura e l’essenza delle cose. Se ne potrebbero citare ancora molti
altri, tra quelli di maggiore importanza, risalenti, più o meno, allo
stesso periodo, come ad esempio Pitagora, nato nel 571-70 e morto
nel 497-96 a.C., che nei principi matematici vedeva l’essenza delle
cose, almeno secondo quanto si deduce dagli scritti di Aristotele.
E che dire, poi, di Platone, la cui dottrina tanto influì sul fiorire e
sull’evoluzione delle correnti filosofiche successive.
Egli, contrariamente a quanto aveva fatto Parmenide, che non
ammetteva alcuna analogia tra l’essere e il non essere (ossia tra il
necessario e il contingente), difende il rapporto tra l’uno e l’altro,
e, quindi, anche l’esistenza, la mutevolezza e la molteplicità delle
cose: la sua convinzione era che queste esistano in forza della loro
partecipazione dell’essenza dell’Essere assoluto, cioè di Dio, che, in
qualche misura, si riflette in quel barlume d’idee che le stesse cose
hanno in sé. Per Platone, infatti, le cose sono un’imitazione di tali
idee, con le quali hanno un rapporto di vaga somiglianza.
Non mancherà l’occasione di tornare su quest’argomento, per inquadrarlo in un contesto più generale, in quanto ispiratore di dottrine
filosofiche successive.
Chi, però, tra i tanti studiosi, ricercatori e filosofi dell’antichità,
parlò per primo, in senso lato, dell’essere, fu il, filosofo, Parmenide,
che gli attribuì i caratteri generali di unità, immutabilità, necessità;
l’attributo di necessità comprende, nella sua generalità, anche i primi
due: secondo lui, esiste “necessariamente” solo chi è dotato di questi
tre attributi. Ciò che è molteplice, invece, non può essere necessario,
né immutabile, né, tanto meno, eterno, in quanto soggetto alla nascita
e alla morte; e, come tale, non può esistere, se non come pura “apparenza”, ossia come copia imperfetta della vera realtà.
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C’è da dire, però, che lui parlò dell’Essere come Ente, in cui la
stessa realtà s’identifica nel suo insieme, senza dargli mai valore
ontologico. Per lui, tutto è chiuso ermeticamente nella sfera dell’Assoluto, Unico ed Immutabile, senza alcun rapporto analogico con
altre cose che siano al di fuori di esso.
Ne discende, dunque, secondo Parmenide, che neanche il movimento è reale, di qualunque tipo esso sia.
La contrapposizione concettuale, cui darà origine tale principio,
e i tentativi di superarla, saranno causa, come si avrà ancora occasione di vedere, di grandi polemiche, dissidi e aspre divergenze, tra
diverse correnti di pensiero, nel campo, soprattutto, della metafisica.
Anche per Aristotele l’essere assoluto, come atto puro, è immutabile e necessario e, in quanto tale, è al di fuori del divenire,
ossia non soggetto a passare dalla potenza all’atto, come accade
per tutte le altre cose dell’universo, in base a quanto determinato
dallo stesso essere. Ma di questo si parlerà ancora più avanti, in
maniera più diffusa.
Prima di entrare nel vivo di quest’argomento si ritiene necessario, nonché doveroso, far luce sul significato della parola essere,
usata per indicare semplicemente l’esistenza di qualcuno, o di qualcosa in senso determinato, o anche come sostrato di tutti gli esseri.
Ed è scritta con lettera maiuscola quand’è riferita a Dio.
Gli orientamenti e le prime fasi di sviluppo degli studi filosofici,
volti alla ricerca e alla definizione dell’Essere, sono stati tanti, diversi, e, spesso, contrastanti nel mondo occidentale, in particolar modo
per quanto attiene agli argomenti di natura ontologica, ossia quelli
finalizzati a dimostrare l’essenza e l’esistenza di Dio, partendo dal
suo stesso concetto. La diversa interpretazione di tale concetto ad
opera dell’antica filosofia greca, e di quella medioevale, difesa e
diffusa dai Padri della Chiesa (filosofi, teologi e apologeti), fu causa
di aspri dibattiti e forti divergenze. L’Essere fu, infatti, inteso e definito, da certe correnti dell’epoca, come categoria dell’insieme di
tutta la realtà, allo stesso modo con cui fece Parmenide, e, da altre,
invece, in senso più strettamente ontologico, con diversi fini e differenti interpretazioni. A seconda delle correnti di pensiero, poteva
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essere considerato: immanente alle cose, sull’esempio degli antichi
greci, o trascendente alle stesse, in senso cristiano.
La concezione di taluni studiosi, in epoca moderna, ha messo,
poi, in crisi la teoria ontologica: lo ha fatto sostituendola con un
processo d’indagine conoscitiva, alla luce delle nuove correnti razionalistiche ed empiristiche, e del pensiero kantiano.
L’Essere fu, così, inteso come oggetto, fatto o fenomeno della
conoscenza, punto di arrivo, e non di partenza, di quest’ultima. Al
contrario, la teoria ontologica partiva dallo stesso concetto di Dio
per dimostrarne l’esistenza. Il teologo Sant’Anselmo sosteneva che
Dio fosse l’Ente di cui non si potesse pensarne uno maggiore, e che,
perciò, fosse anche esistente. E al monaco Gaunilone, del monastero
di Marmoutier, che gli aveva fatto l’esempio di un’isola fantastica,
di cui non si potesse immaginarne una più perfetta, per dimostrargli
che ciò non volesse dire di poterne inferire anche l’esistenza, rispose
che, a differenza dell’isola, Dio non è un essere “contingente”, o casuale, ma “necessario”, e che la prova che Egli sia (cioè che esista)
ha, come presupposto, la fede.
L’argomento ontologico non restò immune da severe e dure critiche persino nello stesso periodo medioevale, specie durante le diverse fasi di sviluppo della teoria scolastica di San Tommaso, non solo
per quanto attiene al concetto di “analogicità” di Dio, la cui essenza,
o sostanza, fa tutt’uno con l’esistenza, secondo tale teoria, ma anche
per ciò che concerne le prove che ne attestano l’esistenza stessa e gli
esseri finiti che ne partecipano.
La modifica apportata da San Tommaso all’aristotelismo dimostra come egli abbia adattato il significato della dottrina di Aristotele
alla sua teoria: infatti, mentre, per lui, tutti gli altri esseri sono creati
nella loro sostanza, per Aristotele, invece, detta sostanza risulta necessaria, indistruttibile ed eterna, come quella di Dio, anche in essi,
in quanto è forma che s’identifica con l’esistenza in atto, e come
tale, non esige alcuna creazione.
Questo ed altri aspetti del tomismo e, in genere, di tutta la metafisica tradizionale, furono causa di tante polemiche e divergenze,
persino tra i frati di uno stesso convento.
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Tutto ciò, infatti, diede origine alle divergenze tra tomisti ed altri
esponenti della Scolastica, tra cui Duns Scoto e Guglielmo d’Occam, che contribuirono maggiormente alla dissoluzione di questa
loro stessa corrente.
Duns Scoto era uno dei più grandi pensatori di questa corrente
filosofica, tra i francescani. Egli non accettò la filosofia agostiniana
così com’era stata concepita e impostata da San Bonventura, sebbene fosse seguita dalla maggioranza dei suoi confratelli, i quali avevano ripugnato quei principi aristotelici che dovevano essere, invece, di supporto alla fede. Scoto pensò che fosse necessario, invece,
rivalutare l’importanza dell’aristotelismo in quelle parti meglio confacenti ad una sintesi con taluni canoni della filosofia agostiniana. Il
suo fine, come si dirà più estesamente in seguito, fu quello di porre
dei limiti ai due campi in contrasto, propri della fede, e della ragione filosofica. Ciò fu quanto anche Guglielmo d’Occam sostenne e
portò, poi, a compimento, in modo che tra gli stessi campi nessuno
dei due fosse prevalente sull’altro. Ed è questo che gli valse anche
il privilegio di essere ritenuto l’ultimo, in ordine di tempo, dei più
grandi pensatori della Scolastica, e il primo dell’età moderna.
L’argomento ontologico, destinato a continuare il suo corso nel
tempo, sia pure con modi e finalità differenti, fu parte integrante di
tante altre filosofie, anche razionalistiche, prima nell’epoca moderna e poi in quella contemporanea. Per Cartesio, ad esempio, che si
rifà, per certi aspetti, alle argomentazioni di Sant’Anselmo, l’idea di
Dio è innata nell’uomo, come essere sovranamente perfetto e, come
tale, anche esistente.
Leibniz rielabora, invece, la terza prova di San Tommaso: egli
parte dal contingente, ossia da tutto ciò che è accidentale, per risalire all’Essere creatore, la cui essenza, necessaria ed eterna, ne prova
l’esistenza.
Baruch Spinoza afferma la necessità dell’Essere, ossia di Dio, che
è “natura naturante”, nella quale s’identifica: per lui Dio è “causa sui”.
E ogni cosa in cui egli si manifesta, di necessità, è “natura naturata”.
Dio, dunque, è la natura stessa, in quanto vi s’identifica. “Deus sive
natura” è, infatti, il principio su cui si fonda la sua filosofia.
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La multiforme discrepanza della concezione filosofica sviluppatasi nei secoli XVII e XVIII, che teneva separati e contrapposti i due indirizzi del razionalismo e dell’empirismo, trovò nel criticismo di Kant
l’anello di congiunzione. A tale proposito, è opportuno ricordare che:
1) da una parte, il razionalismo, che ha come suoi maggiori esponenti Cartesio, Spinoza, Leibniz e Wolf, nega ogni valore scientifico
ai principi ricavati dall’esperienza, la quale, non essendo in tutti
uguale, è soggettiva, e, quindi, relativa alle finalità e alla disposizione di chi la percepisce; e sostiene che la scienza vera debba
avere a fondamento, non l’esperienza, ma principi a priori, assoluti, universali e necessari; principi che solo la ragione è in grado
di dare, indipendentemente dalla stessa esperienza; risultò vano,
però, ogni tentativo di spiegare come, con la dottrina dei principi
a priori, si potesse altresì arrivare alla conoscenza del mondo sovrasensibile e, quindi, anche dell’Essere, ossia di Dio;
2) e dall’altra, invece, l’empirismo di Locke, Berkeley, ed altri di cui
si farà poi cenno, sostiene che l’esperienza sia a fondamento di
ogni conoscenza, senza riuscire a dare, però, una spiegazione del
modo in cui dalla soggettività di quest’ultima si possano ottenere giudizi scientifici, oggettivi, e, come tali, validi per tutti. Non
essendo ciò possibile, non resta, dunque, che invalidare siffatti
giudizi. Ed è così che, a quei tempi, si arrivò all’astensione dal
giudizio, che, ad opera di Hume, aprì la strada allo scetticismo
critico. Il quale nega non solo la verità sovrasensibile, ma anche
quella dimostrativa delle scienze fisiche.
Kant, con le sue critiche rivolte all’uno e all’altro indirizzo, pensò di porvi rimedio, sottoponendo, innanzi tutto, ad esame non i fatti
compiuti dalla ragione, ma la ragione stessa, nelle sue potenziali
capacità di avere conoscenze pure a priori: gli stessi titoli delle sue
opere (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Cri­
tica del giudizio) spiegano il processo da lui compiuto al riguardo.
In quanto all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima, si può
dire che, per lui, sia moralmente necessario ammetterne la veridicità,
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sebbene non si possano né conoscere, né dimostrare, trattandosi di
realtà appartenenti alla sfera del soprasensibile, non accessibile alla
ragione teoretica. Nonostante, però, tutti i suoi sforzi compiuti in tal
senso, ossia in ordine al sovrasensibile, neppure lui, come si vedrà
meglio in seguito, restò immune da critiche. Ciò non toglie, però,
che la sua filosofia resti un passaggio obbligato, per chi si avventura
alla ricerca dell’Essere.
I duri contrasti con la concezione kantiana dell’essere arrivarono,
in un primo momento, dall’idealismo trascendentale tedesco.
Per Hegel, il concetto di Dio, di cui egli dimostra ontologicamente l’esistenza come Essere di assoluta perfezione, è il punto di
partenza della coscienza religiosa che, elevandosi, si avvia alla percezione della coincidenza tra pensiero ed Essere, tra Dio e il mondo,
tra finito e infinito, tra scienza divina e sapere umano di Dio.
Più fedeli allo spirito della teoria ontologica così com’era concepita e praticata dai massimi esponenti della Scolastica, furono, nel
periodo contemporaneo, Rosmini e Gioberti.
Per capire meglio il loro pensiero, che si rifaceva, per certi aspetti, a quello di Sant’Anselmo e San Tommaso, è bene ricordare, per
poterne, poi, rilevare le differenze, che la loro teoria ontologica si
fondava sul principio del “credo ut intelligam” (credo per intendere), secondo cui «la conoscenza intuitiva di Dio è la condizione di
possibilità di ogni altra conoscenza». Ciò è quanto emerge dal pensiero dei due filosofi succitati, che, come testé detto, si rifanno alla
filosofia Scolastica.
Rosmini, attenendosi più strettamente alla teoria di S. Bonaventura di Bagnorea, riteneva innata nell’uomo l’idea dell’Essere
ideale, un’idea oggettiva, semplice, necessaria e immutabile, che,
però, pur essendo qualcosa di divino, non è Dio. Si tratta piuttosto
di un Ente reale, ed è tale, in quanto ottenuto dalla sintesi dell’idea
dell’Essere, che ne costituisce la forma, e dalla sensazione, che è,
invece, la materia.
Gioberti critica questa teoria e difende l’ontologismo, restando
più in linea con Sant’Anselmo: la sua tesi è che nell’uomo ci sia l’intuizione diretta dell’Essere, come Ente reale, di Dio stesso, necessa22
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riamente creatore. “L’Ente crea l’esistente” egli dice per esprimere
come avvenga l’intuito.
Con il sorgere e il diffondersi, poi, del positivismo ad opera dei
suoi massimi esponenti, Comte, Spencer, Mill, nella seconda metà
del diciannovesimo secolo, il concetto dell’Essere, cioè di Dio, cadde in disuso, oscurato, criticato e messo da parte, per effetto del
trionfo di questa nuova dottrina positivistica, grande nemica di ogni
metafisica. Fu, però, poi ripreso tra la fine dello stesso secolo diciannovesimo e l’inizio del ventesimo, dalla Neoscolastica (o Neotomismo) e, in certo qual modo, anche dal neohegelismo.
Il neohegelismo, movimento filosofico di tipo spiritualista, sorse
nella seconda metà del secolo XIX. Sulla base della concezione di
Hegel, l’Essere è considerato come “Io assoluto”, spirito universale unico, trascendentale. Ed è in continuo divenire: Egli, infatti, si
manifesta immanente in ogni altro essere, come “Io empirico”. E,
come tale, nella sua esplicazione, rivela il suo passaggio dallo stato
empirico a quello spirituale.
Si tratta, dunque, di un “Io empirico” che diventa “Io assoluto”, unico, trascendente e spirituale, con il “divenire”, «secondo
un processo dialettico di momenti successivi, di contrapposizioni
o superamenti necessari», stando alla definizione che ne dà anche
Aldo Agazzi.
Tra i suoi massimi esponenti, in Italia, si ricordano Giovanni
Gentile e Benedetto Croce. Il secondo, in ordine di citazione, differisce dal primo, in quanto vede e identifica nei diversi momenti
della storia il divenire dello spirito. Si dirà dopo, in modo più esteso,
quale fosse il pensiero dell’uno e dell’altro.
Diversa è, invece, la corrente della Neoscolastica istituita a Piacenza: si tratta di un movimento filosofico-cattolico a indirizzo tomistico-aristotelico. Sorse nella prima metà del secolo XIX, ed ebbe
conferma, nel 1879, dall’enciclica “Aeterni Patris” di papa Leone
XIII. Tra i suoi esponenti di maggiore prestigio, si annoverano: il
can. Vincenzo Buzzetti, che ne fu promotore, Serafino e Domenico
Sordi, suoi illustri coadiutori. Altri centri del neotomismo, in Italia,
furono a Roma e a Napoli.
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Tra i promotori di spicco, oltre a quelli già citati, vanno ricordati
anche: Taparelli d’Azeglio, M. Liberatore, G.M. Cornoldi, T. Zigliara, il can. Sanseverino, monsignor S. Talamo, il cardinale Giuseppe
Pecci, fratello di Leone XIII. L’indirizzo filosofico del neotomismo
si affermò anche in altre parti del mondo, ad esempio nelle università cattoliche di: Friburgo, in Svizzera, Nimega, in Olanda, Salamanca in Spagna, Quebec, Montreal e Ottawa in Canada, Washington,
negli Stati Uniti.
Lo scopo della Neoscolastica era d’introdurre in essa elementi
del pensiero moderno, affini alle nuove esigenze spirituali del suo
tempo, per arricchirne i contenuti, e renderla più interessante e appetibile al pubblico. è opportuno ricordare che taluni pensatori furono
più strettamente allineati a questo movimento, a differenza di tanti
altri, che contribuirono allo sviluppo del pensiero classico sull’Essere. Il metodo, dunque, non era lo stesso per tutti nella rielaborazione
ed esposizione della materia.
C’erano, dunque, delle differenze sul modo di riproporre il pensiero della Scolastica, riallacciato a quello dell’antichità classica,
alla luce delle correnti contemporanee allora in auge, come ad
esempio quelle della fenomenologia, dello spiritualismo e dell’esistenzialismo.
Quanto finora espresso in sintesi, in ordine alle varie concezioni
filosofiche e teologiche sull’esistenza e la natura dell’Essere, nonché sulla determinazione dei suoi attributi, sarà ripreso e approfondito in quelle parti più strettamente attinenti ad argomentazioni di
tipo metafisico-ontologico che, nel passato e, per certi aspetti, anche
nel presente, hanno fatto vacillare il giusto equilibrio del rapporto
tra fede e ragione, nel campo del “Trascendente”.
Evidenziare il rischio che ne consegue, come, già più volte, si è
dato ad intendere, è il fine di chi scrive, fiducioso di poter, in questo
modo, contribuire ad evitare che, dalla contrapposizione concettuale
sui misteri inesplicabili di Dio, tragga forza l’eresia.
Si tratta di una tematica complessa, che ha bisogno di continui
riferimenti allo svolgersi, nel tempo, delle diverse fasi del pensiero
filosofico, a partire dalle sue origini.
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Tale, annosa quanto appetibile, tematica, il cui fine precipuo, lo
si vuole ricordare, è la ricerca dell’Essere e la determinazione dei
suoi attributi, sarà articolata, al fine di semplificarne la trattazione,
in tre sezioni, ciascuna delle quali comprenderà alcune delle correnti
dottrinali, da cui la stessa tematica ha tratto origine, modo e forza di
svilupparsi, poi, attraverso i secoli.
Saranno, dunque, oggetto di trattazione:
a) L’esistenza e gli attributi dell’Essere, nonché l’immortalità dell’anima, secondo Socrate, Platone e Aristotele.
La concezione patristica di Dio, e le controversie sulle sue qualità,
tra gli stessi Patristi; il metodo di Sant’Agostino per dimostrare
l’esistenza della Verità, che è in ognuno di noi e s’identifica con
la Divinità; la natura umana e divina di Gesù Cristo; la consustanzialità delle tre persone della Santissima Trinità: Padre, Figliolo
e Spirito Santo; La comprensione della verità rivelata, supportata
dalla filosofia, intesa come mezzo di ricerca, secondo i lumi della
Scolastica; la prova ontologica di Sant’Anselmo; la disputa sugli
universali; l’identità di Essenza ed Esistenza in Dio, secondo la
concezione di San Tommaso; le controversie fra i sostenitori di
quest’ultimo, da una parte, e dall’altra gli occamisti, e gli scotisti,
difensori, rispettivamente, del pensiero di Guglielmo D’Occam, e
di Duns Scoto.
b) L
a contrapposizione sulla concezione dell’Essere tra le teorie
razionalistiche di Cartesio, Spinoza, e Leibniz, e l’empirismo di
Locke, Berkeley e Hume; il criticismo di Kant.
c) L’idealismo tedesco, e la teoria di Hegel sull’identità di reale
e razionale, relativamente al concetto di “spirito”, inteso come
“idea” che, dopo essersi “straniata” da sé, nel mondo naturale, ritorna a se stessa; l’Essere ideale di Rosmini; l’ontologismo, visto
alla luce della teoria di Gioberti, sempre inteso come processo
dimostrativo dell’esistenza di Dio; l’idealismo italiano, e il divenire in atto dello spirito, nella filosofia di Giovanni Gentile, e in
quella di Benedetto Croce; l’esistenzialismo religioso di Kierkegaard, e quello dei suoi continuatori, Heidegger, Jaspers.
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Parte prima
IL CONCETTO DI ESSERE NELLE PRIME DUE
EPOCHE: ANTICA E MEDIOEVALE
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Capitolo primo
L’ontologia come ramo della filosofia
Si è detto, nella premessa, come già nel periodo presocratico il
problema dell’Essere fosse assurto a grande importanza, in forza
dell’interesse che questo suscitava in molti filosofi dell’epoca, tra
cui Parmenide, che, per primo, definì tale problema alla luce di una
concezione, nuova per quei tempi, di tipo metafisico-ontologico.
Lo fece, come si è già avuta occasione di dire, considerando, quanto più possibile, tutti gli aspetti dell’Essere, nella sua universalità,
e non soltanto quello fisico, così come asserivano i teorici naturalisti di quel periodo. Prima, però, di passare a una più approfondita conoscenza degli attributi di quest’ultimo, quali quelli di
“necessario”, “unico”, e “immutabile”, e di identità di “essenza”
ed “esistenza”, determinati da varie filosofie, antiche, medioevali,
moderne e contemporanee, si ritiene necessario sintetizzare alcuni
punti fondamentali, cui si è fatto cenno nella parte introduttiva.
è importante, innanzi tutto, tener conto del fatto che il principio
di unità e immutabilità fu subito oggetto di contestazione contro
Parmenide, da parte dei fisici posteriori, Empedocle e Anassagora,
giusto per citarne qualcuno; i quali sostenevano che il principio di
ogni cosa, per poter spiegare anche il suo continuo divenire, non
fosse unico, ma molteplice. In quanto, poi, al problema dell’identità di “essenza” ed “esistenza” fu risolto da molti altri con argomentazioni ontologiche.
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1.1 La coniazione del termine “ontologia” come nome
della scienza che indica i caratteri generali dell’Essere
È bene ricordare, ora, che il termine “ontologia” indica quel ramo
della filosofia che studia l’Essere in quanto tale, tralasciando le sue
concrete manifestazioni. Lo stesso significato hanno, in linea di
principio, gli altri due termini che ne derivano: “ontologico” e “ontologismo”. Differiscono, però, tra loro, a seconda dei fini e degli
orientamenti di ciascuna dottrina. Con il primo dei tre termini, in ordine di citazione, il Cleuberg, che l’aveva coniato, stando a quanto si
apprende dall’Enciclopedia Universale Fabbri, distingueva la branca
della metafisica, finalizzata allo studio dell’Ente nella sua generalità,
dalla teologia intesa più propriamente come processo di dimostrazione dell’esistenza di Dio: così concepita, però, l’ontologia non entrò
subito nell’uso comune. Ciò avvenne successivamente, ad opera del
Wolf, che se ne servì per indicare, accentuando la teoria del suo predecessore, la parte generale della metafisica, che fungeva, com’egli
diceva, da introduzione alle parti speciali: cosmologia, psicologia,
teologia. Gli altri due termini, secondo e terzo, derivanti, come si
è detto, dal primo, indicano, in genere, come base di ogni altra cognizione, una conoscenza prioritaria della trascendenza dell’Essere
supremo, ossia di Dio. L’ontologia fu, dunque, oggetto di diverse interpretazioni, per cui, differenti, a seconda delle dottrine, erano pure
le sue funzioni, le fonti cui filosofi e teologi attingevano, e i fini che
gli stessi intendevano perseguire in base all’uso che ne facevano. Si
può dire che fossero davvero tantissimi gli studiosi che, nel passato,
hanno fatto ricorso ad essa, così come continuano a farlo nel presente, quale che sia il loro modo di concepirla, e il metodo, aprioristico
o meno, che vogliano applicare, nella dimostrazione dell’esistenza
di Dio. E non erano pochi neppure quelli che la respingevano, o, per
lo meno, l’avversavano, come facevano, ad esempio, gli autori di
filosofie soggettivistiche e idealistiche, che ai principi dell’ontologia
anteponevano teorie trascendentali, o di tipo idealistico.
Su quest’ultimo punto si avrà, comunque, modo di approfondire,
più avanti, l’argomento, per vedere quanta importanza questo termi30
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ne assunse, nell’indicare una disciplina che stava all’apice di ogni
altra dottrina dello scibile oggettivo.
1.2 Genesi e sviluppo della metafisica, e uso dell’ontologia,
come ramo della filosofia
Tornando alle origini dell’ontologia, ossia ai tempi in cui ancora
non era conosciuta con questo nome, essa coincideva con quella che
Aristotele chiamava “filosofia prima”, la quale, poi, in progresso di
tempo, in epoca moderna, tramutò definitivamente questo suo nome
in “metafisica”.
Il termine “metafisica” fu coniato, probabilmente, anche secondo
l’Abbagnano, da un peripatetico vissuto in epoca anteriore a quella
di Andronico di Rodi. La cosa più certa è, comunque, che deriverebbe dall’ordine con cui lo stesso Andronico aveva sistemato le opere aristoteliche, facendo risultare, nell’edizione, un gruppo di libri
senza titolo, concernenti, appunto, la “filosofia prima”, posposti a
quelli di fisica. Ed è proprio da tale posposizione che ebbe nome la
metafisica, che in greco significa, alla lettera: “dopo i libri di fisica”.
In origine, dunque, questo termine indicava l’ordine con cui
erano stati catalogati questi scritti, il posto da essi occupato, e non
il loro contenuto. Così come l’aveva concepita Aristotele, la filosofia prima aveva il compito di studiare l’Ente in quanto tale, che
egli chiamò primo motore immobile, in cui s’identifica Dio stesso;
il Quale, nella sua immobilità, è necessario, immutabile, immateriale ed eterno; ed è atto puro, ossia del tutto scevro di potenza,
essenza ingenerata e incorruttibile, logos, puro pensiero che pensa
se stesso: “pensiero del pensiero”. E, come tale, va considerato
avulso, come si è detto, da ogni altra determinazione che faccia
capo a quelle che sono le scienze filosofiche particolari già citate:
fisica, psicologia, teologia, ecc.
L’essere, per lui, è la stessa sostanza, la “sostanza prima” che è
principio di se stessa, ed è altresì “causa” di tutte le cose. Qui trova
il suo fine tutto ciò che attiene alla sostanza, nel suo divenire, pas31
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sando dal suo stato potenziale, pura materia, all’atto, cioè alla forma
che la stessa materia contiene in sé. Non essendo possibile procedere all’infinito nel passaggio dalla potenza all’atto, è necessario,
dunque, risalire a quell’Essere di cui si è fatta menzione.
Prima, però, di andare avanti nella descrizione del suo rapporto
con gli esseri, che, con termine aristotelico, sono chiamati “sinoli”,
in quanto costituiti dalla sintesi di materia e forma, si ritiene doveroso ricordare che il riferimento alle diverse dottrine filosofiche sarà
strettamente limitato a quelli che sono stati gli studi e le ricerche
sull’Essere, onde evitare inutili prolissità espositive, che, pur essendo contestuali, servirebbero solo a rendere più intricato e complicato, e forse anche più noioso, l’argomento.
A differenza del primo motore immobile che, come si è detto,
è l’essenza dell’essere necessario, eterno, immutabile, ecc., i sinoli, avendo in sé anche la materia, sono soggetti al “divenire”, ossia
al continuo passaggio dalla potenza all’atto, cioè dalla materia alla
forma che diverrà ancora materia e, poi, di nuovo, forma, e così via,
verso il suo fine. Ed è, questo, il cosiddetto movimento qualitativo,
cioè il mutamento o l’alterazione, per distinguerlo sia da quello sostanziale (generazione e corruzione), sia dagli altri due, chiamati:
quantitativo, e locale, rispettivamente corrispondenti all’aumento e
alla diminuzione, e al movimento propriamente detto.
Il passaggio dalla potenza all’atto comporta, dunque, quattro diversi tipi di movimento, che agiscono sulla materia, imprimendole
l’effetto di cui ciascuno movimento è causa. Anche l’uomo, essendo
costituito da materia e forma, è soggetto al divenire. Egli, come “sinolo”, è un essere sostanziale, costituito da materia e forma: è materia, nella sua particolarità; ed è forma, in forza della sua sostanza,
che Aristotele chiama anche “specie”.
Ora, venendo al concetto di anima, essa è intesa da Aristotele
come forma vivificatrice di un corpo (entelechia), e, come tale, ha
la vita stessa in potenza, ma, essendo incorporata nella materia, non
è immortale, com’era, invece, per il suo maestro Platone. Di essa,
alla fine, resta soltanto l’intelletto attivo, e non anche quello passivo
(o potenziale) destinato a corrompersi e a perire col corpo. Non vi è
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stata, però, alcuna spiegazione, da parte del filosofo, in merito a chi
appartenga tale intelletto attivo, se all’uomo, o a Dio stesso.
Dio, come causa prima, ha creato l’ordine dell’universo e, con
esso, anche il movimento. Ciò non vuol dire, però, secondo Aristotele, che sia il creatore anche dell’Essere del mondo, la cui struttura
sostanziale va oltre quelli che sono i limiti di ogni creazione divina,
essendo la sua sostanza eterna: il mondo non è soggetto né a nascere, né a morire, come avviene per i singoli individui che, come già
detto, in essi, alla forma si unisce anche la materia, la quale, in quanto corruttibile, è destinata a perire. La sostanza, come causa prima,
è eterna anche nell’essere del mondo: Dio vi partecipa, in quanto
anch’Egli sostanza «nello stesso senso in cui sono tali le altre sostanze» come scrive l’Abbagnano, riportando alla lettera il concetto
espresso nell’Etica a Nicomaco (I, 6, 1096 a, 24), in una delle sue
opere Storia della Filosofia. E aggiunge, con una frase tratta da uno
scritto di logica, intitolato Categorie, sempre di Aristotele: «Nessuna sostanza è più o meno sostanza di un’altra».
Quello di Aristotele è un Dio, non creatore ma solo ordinatore
dell’universo, non potendo Egli essere superiore con nessuno degli
altri esseri che sono coeterni con Lui, in quanto questi partecipano,
allo stesso modo, della sostanza.
La sua superiorità non sta, quindi, nella sostanza, ma nell’assoluta “perfezione della sua vita”, come scrive ancora Abbagnano. Per
Aristotele, essendo egli politeista, Dio non è il solo motore immobile, nell’universo: ve ne sono degli altri, anche loro coeterni con Lui,
e sono tanti quante sono le sfere celesti.
Ognuno di Essi governa il movimento, nella propria sfera, di cui
è anche principio. E le sfere celesti sono tante, quante ne occorrono
a tutti i pianeti per essere mossi. Tenuto conto, però, che il moto
apparente di ciascuno di essi intorno alla terra è dato non da una sola
sfera, ma da alcune di esse, ne consegue che il numero di queste sia
maggiore rispetto a quello dei pianeti, e che, a seconda di quante ce
ne vogliono per ognuno degli stessi, oscilli tra 47 e 55.
Tale oscillazione nasce dal disaccordo degli astronomi Eudosso e
Callippo, citati sempre dall’Abbagnano, la cui teoria era seguita da
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Aristotele. I cieli sono delle sfere concentriche, al cui unico centro
sta la terra (cioè il mondo sublunare). E tutti, nel loro insieme, formano l’universo, unico e finito.
Il cielo più esterno è quello delle stelle fisse, costituito da materia incorruttibile, chiamata etere o anche “quinto elemento”, il cui
movimento è dato da Dio, che s’identifica nel primo motore immobile, e come tale, regola anche il moto degli altri cieli, ad esso
interni, formati dallo stesso elemento.
L’acqua, la terra, l’aria e il fuoco, formano, invece, con la loro
materia corruttibile, il mondo sublunare. Essi si muovono rispettivamente verso il basso e verso l’alto, in senso rettilineo, nello spazio
che intercorre tra il centro dell’universo, dove, appunto, sta la terra,
e la prima sfera, cioè quella della luna.
E, ciò va detto, sia pure nella forma più sintetica possibile, per
capire meglio che, in questo mondo (che è quello in cui noi viviamo,
operiamo, e moriamo), i quattro elementi su citati, incontrandosi e
separandosi, danno luogo, secondo Aristotele, rispettivamente, alla
nascita e alla morte.
La realtà in cui si vive è costituita, dunque, da “sostanze” di cui
Dio, Ente supremo, ha creato l’ordine con cui le stesse sono sistemate, secondo il grado d’importanza, non solo nel nostro mondo
sublunare, ma in tutto l’universo. E, in quest’ordine, egli è il fine,
come realtà in atto, verso cui ogni cosa tende, quale che sia la stessa,
e la scienza che la studia.
Così intesa, la filosofia prima assumerà, poi, come si avrà occasione di vedere, un’importanza più generalizzata, nel campo dello
scibile: sarà chiamata infatti “metafisica”, su cui si reggerà l’ontologia, come scienza dell’Essere, che sta gerarchicamente all’apice
nell’ordine delle sostanze. Si vedrà, poi, come, sotto quest’aspetto, il
pensiero di Aristotele fosse alla base di studi particolarmente approfonditi sull’essenza e l’esistenza di Dio, inteso come Essere dotato
di tutti gli attributi di perfezione, sia in epoca antica e medioevale,
sia in età moderna e contemporanea.
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1.3 Il diffondersi, in Occidente, del pensiero greco
orientato alla ricerca dell’Essere
Prima di tutto c’è da dire che la filosofia e le altre scienze greche
giunsero in Occidente dall’Oriente, dove si erano diffuse alcuni secoli prima, ad opera di Alessandro Magno, discepolo di Aristotele.
Alessandro, con il suo esercito macedone, unito a quello della Grecia, riuscì, infatti, ad assoggettare molte di quelle terre, in cui lui
aveva vinto le sue guerre, tra cui la Siria, la Persia e l’Egitto.
In quegli Stati egli divulgò la lingua, la cultura, gli usi, i costumi
e le opere dei greci, e sul delta del Nilo fondò la città d’Alessandria.
Fu così che l’idioma e la cultura dei greci divennero oggetto di conoscenza e di studio anche tra le popolazioni di altri paesi che si affacciano sul mediterraneo. I quali, alla morte di Alessandro, avvenuta
all’età di 33 anni, continuarono l’ellenizzazione intrapresa da lui.
A riportare in Occidente la cultura ellenistica, soprattutto quella
che fa capo alla filosofia e alla ricerca razionale dell’Essere, furono,
però, gli arabi. Anch’essi, infatti, intendevano arrivare alla dimostrazione delle verità rivelate con l’uso della ragione. Il loro filosofare
era, dunque, più o meno simile a quello della Scolastica occidentale.
I filosofi e i teologi medioevali dell’Occidente li presero, infatti,
a modello, in quanto vedevano in essi la rivalutazione della ragione,
come mezzo di liberazione dall’autoritarismo tradizionale.
Per questo, la cultura ellenistica trasmessa per lo più, dagli arabi,
ma anche dagli stessi greci, fu altresì bene accetta in periodo umanistico-rinascimentale, specie per quanto attiene all’aspetto naturalistico.
In epoca moderna fu, inoltre, apprezzata per l’utilità della sua
logica deduttiva; e, in quella contemporanea, per la metafisica: la
quale fu ereditata dal mondo religioso della Neoscolastica, ed usata
alla luce della rivisitazione fattane da San Tommaso.
La dottrina aristotelica fu, dunque, presa in grande considerazione, tanto da essere posta alla base di diverse filosofie e teologie
anche attuali, createsi centinaia di secoli dopo di lui.
Si può dire, perciò, che tra i più grandi pensatori della Grecia
antica, Aristotele e il suo maestro Platone siano quelli che hanno
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lasciato una maggiore impronta del loro pensiero, non solo nell’età
in cui sono vissuti, ma anche in quelle medioevale, moderna e contemporanea.
Si è voluto introdurre Aristotele, prima di Socrate e Platone, in
questo argomento, nella certezza che così possa essere, per il lettore,
più facile capire le differenze tra gli stessi, nella ricerca dell’Essere.
Aristotele è, per natura, un grande ed abile ricercatore e, come
tale, imposta la sua indagine scientifica sull’effettiva realtà delle
cose, in contrapposizione all’idealismo platonico, cui facevano capo
talune concezioni di Socrate.
Ciononostante era d’accordo con l’uno e con l’altro sul “concetto
universale”, poiché questo, anche per lui, rispecchia l’essenza delle
cose; e come tale costituisce il fondamento della scienza, elevandosi
dalle rappresentazioni sensibili.
Non accetta, però, che le idee, di cui parla il suo esimio maestro,
siano separate dalla realtà che si percepisce coi sensi: ne respinge,
quindi, il principio dualistico costituito, appunto, dal mondo delle
idee (o iperuranio), da una parte, e da quello sensibile, dall’altra.
Era assurdo, per Aristotele, che questi due mondi fossero separati
e che, dunque, nelle cose non vi fosse insita anche l’idea di quel che
le stesse sono, oggettivamente, di fatto.
Un altro motivo di divergenza era dato dal fatto che, per il suo
maestro le cose fossero un’imitazione delle idee, ossia copie solo
somiglianti di queste ultime e, perciò, imperfette.
Egli non accetta questa dottrina, poiché partendo dal principio
che le cose non sono che copie somiglianti delle idee, anche la
somiglianza, stando sempre allo spirito di questa teoria, dovrebbe essere, allora, un’idea che si interpone tra la cosa e l’idea stessa, cui essa assomiglia. In tal modo, il problema, più che risolto,
viene complicato, ad avviso di chi contesta. Era, inoltre, inspiegabile, sempre secondo Aristotele, come si potesse concepire che
dall’idea, “universale”, che, in se stessa, è “una”, possa avere
origine la molteplicità delle cose; e che dalla sua “immutabilità”
e “universalità” derivi il continuo ed eterno mutamento di ciascuna di esse: ciò è impossibile, per lui, non avendo esse stesse alcun
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potere d’azione; e, in quanto tali, non potendo neppure servire a
spiegare nulla di tutto ciò che avviene nella realtà sensibile, in
forza del suo movimento.
Ne discende, dunque, che le cose non possano essere separate
dalla loro sostanza. E, perciò, Aristotele rigetta anche il principio
platonico che l’idea lasci l’iperuranio, che è il mondo in cui essa si
trova, per immedesimarsi e concretizzarsi nell’essere e nel divenire
del mondo, e non sia, invece, elemento costitutivo di quest’ultimo,
nella sua struttura sostanziale.
Platone, invece, difende, nei suoi scritti, questa forma di dualismo. Ne parla anche nel Fedone, in cui Socrate, rivolgendosi al suo
interlocutore Simmia, gli dice: «Non può darsi che uno se vede un
cavallo dipinto e una lira dipinta si ricordi di un uomo?».
“Certamente” risponde Simmia. “Ma quando qualcuno ricorda”
prosegue Socrate «una cosa movendo da un’altra che le somiglia,
non è necessario che gli venga fatto di pensare che quest’altra cosa
sia o no, riguardo alla somiglianza, difettiva per qualche lato in confronto di quella da lui ricordata?».
“È necessario” risponde ancora Simmia.
“E non può darsi”, continua Socrate, «che se uno vede Simmia
dipinto, si ricordi di Simmia reale». E, dopo aver fatto altri esempi,
soggiunge: «considera allora se è così. Noi diciamo senza dubbio
che c’è qualcosa di eguale; voglio dire non già legno eguale a legno,
né pietra a pietra, né qualcos’altro di simile, ma un che di diverso,
che è di là di tutte queste cose, l’eguale in sé» (Platone, a cura di
Gaetano Capone, 1941).
La differenza tra Platone, e il suo discepolo Aristotele consiste anche nel fatto che: il primo mette a fondamento del “Sommo Bene” i
valori morali, osservandoli rigorosamente egli stesso, nel condurre una
vita esemplare, sempre alla ricerca di quei principi che fanno capo alla
scienza dell’essere in sé. L’uomo virtuoso è anche sapiente, egli dice,
per cui virtù e scienza s’identificano, in quanto sono un’unica cosa.
Il secondo, invece, concepisce teleologicamente il bene immanente all’essere, al contrario del suo maestro, che lo pone, al di sopra
di questo.
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