Zygmunt Bauman

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UMBERTO GALIMBERTI
UNO STUDIO DI ZYGMUNT BAUMAN
Mercato e libertà, la società degli incerti
Zygmunt Bauman, "La società dell'incertezza", Il Mulino, pagg. 150, lire 18.000
Esattamente settant'anni fa Freud scriveva ne Il disagio della civiltà (1929) che: "L'uomo civile ha scambiato
una parte delle sue possibilità di felicità per un po' di sicurezza". "Felicità" è per Freud l'esercizio della
libertà e prima di tutto della libertà individuale di procurarsi piacere. Oggi questa libertà regna sovrana. La
deregulation, che è la sua traduzione in soldoni, non è solo il principio che si va affermando nella
produzione, negli scambi commerciali, nelle organizzazioni, ma anche il principio a cui si ispirano i
comportamenti individuali e quelli collettivi. Non c'è norma, non c'è decisione sovraindividuale che possa
affermarsi senza confrontarsi con la libertà individuale, un tempo guardata con sospetto perché ritenuta per
l'ordine sociale autodistruttiva.
Oggi non è più così: uomini e donne scambiano una parte della loro sicurezza per un po' di felicità. E se al
tempo di Freud il disagio nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato
nella ricerca della felicità individuale, oggi sembra che il disagio nasca da un genere di libertà che, nella
ricerca del piacere e della felicità, assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale. Del resto
ogni valore acquista rilevanza quando, per ottenerlo, si devono abbandonare e sacrificare altri valori. Non ci
sono guadagni senza perdite, e perciò se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che
inseguono la sicurezza, l'insonnia e gli incubi disturbano le notti di chi persegue la libertà.
Nasce così quella che Zygmunt Bauman, professore di Sociologia all'Università di Leeds, chiama La società
dell'incertezza (Il Mulino, pagg. 150, lire 18.000), dove nulla è stabile in modo permanente, per cui il
perdente può dire che non tutto è ancora perduto, mentre il vincente sa che ogni successo tende ad essere
precario.
Questo messaggio ambivalente è iscritto nel collasso dell'ordine, avvenuto a tutti i livelli immaginabili globale, nazionale, istituzionale, ambientale - , e le "leggi di natura", sia nel modo di generare i figli sia nel
modo di preparare gli alimenti, sono state sostituite dalle "leggi del mercato" che a loro volta hanno
spodestato le "leggi della politica" in nome delle "leggi del progresso" che poggiano su quell'universo di
mezzi (la tecnica) che non ha in vista alcuno scopo. In questo mare di incertezza, dove tutti navighiamo a
vista, e dove non sembra profilarsi alcun orizzonte stabile, sorge inevitabile la domanda che chiede: tutto
questo è un bene o è un male?
È un bene se tutto ciò significa la morte di Dio e la fine della persuasione di essere in possesso dell'unica e
sola verità (espressione questa un po' pleonastica perché è implicito nel concetto di verità la falsità di ogni
altra convinzione, così come è una contraddizione in termini parlare di verità al plurale). Eppure capita
ancora di sentire che: "Se Dio non esiste, allora tutto è permesso", anche se la storia insegna che si è
verificato proprio l'opposto, non essendoci crudeltà e atrocità anche efferata che non possa essere commessa
in suo nome, come le atrocità dei conquistatori degli infedeli, dei cardinali della Santa Inquisizione, dei
leader delle guerre di religione, mentre è difficile individuare un solo atto di crudeltà perpetrato in nome
della pluralità e della tolleranza.
Proprio nella battaglia contro l'unicità della verità o l'unicità di Dio, in nome del quale gli uomini che
perpetuano crudeltà non si riconoscono alcuna responsabilità, proprio in questa battaglia l'uomo ha potuto
affermarsi come soggetto morale e come soggetto responsabile.
Infatti, se il monoteismo significa mancanza di libertà, la libertà che nasce da una realtà politeista (qual è
quella di oggi, dove nel bene e nel male siamo costretti a confrontarci con diverse culture, diverse idee,
diversi usi e costumi) non implica il nichilismo come sostengono i suoi detrattori. Essere libero, infatti, non
significa non credere a nulla, ma riporre la propria fiducia in molte cose, troppo numerose per il conforto
spirituale di una cieca obbedienza, ma essenziali per una scelta responsabile e tollerante fra di esse.
La voce della coscienza è la voce della con-scienza che tien conto dell'uno e dell'altro, nella discordanza dei
suoni dissonanti. Il consenso, l'unanimità e persino la "comunicazione perfetta" indicata da Habermas sono il
cimitero della responsabilità e della libertà, il cui esercizio non è un compito facile, non solo perché
introduce il tormento della scelta (che implica sempre una perdita e un guadagno), ma perché comporta la
perenne preoccupazione di aver compiuto o di essere in procinto di compiere un errore. E questo spiega
perché spesso la libertà è usata proprio per fuggire dalla libertà, dalla fatica di dover sostenere la propria
posizione, magari affidandosi senza riserve a qualcuno che sa vendersi come possessore della giusta scelta. E
anche se questi carismatici detentori della giusta scelta sostengono la libertà individuale come il nodo
scorsoio sostiene l'impiccato, c'è chi comunque trova vantaggioso continuare ad alimentare questo terribile
sogno.
Se dunque da un lato è bene vivere nella libertà, e quindi nell'incertezza che la libertà comporta, perché il suo
esercizio esige in ogni caso una deregulation delle norme che garantiscono la sicurezza, dall'altro non
dobbiamo diffondere un concetto troppo rozzo di libertà, come spesso ci capita di sentire da chi fa uso e
abuso di questo concetto per la sua propaganda.
E qui il discorso si fa subito politico, economico, e quindi concreto. Una conseguenza universalmente
riconosciuta della progressiva emancipazione della libertà individuale è infatti la divisione che si fa sempre
più profonda tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più esclusi dal banchetto del consumismo. Ciò
comporta, come linea di tendenza, la "degradazione" del povero e di conseguenza la sua "medicalizzazione"
e la sua "criminalizzazione", come avveniva nel secolo XIX, prima dell'avvento dello "stato sociale".
Tagliare le spese per lo stato sociale significa quindi aumentare quelle per la polizia, per le prigioni, per i
servizi di sicurezza, per le guardie armate, per i sistemi di allarme, e ridefinire la povertà come problema
medico-legale o come problema di ordine pubblico. A ciò si deve aggiungere che chi è escluso o si trova
sulla soglia dell'esclusione viene sospinto a forza e saldamente rinchiuso all'interno di muri invisibili, ma del
tutto tangibili, che dominano i territori dell'emarginazione, aumentando considerevolmente la sensazione
dell'insicurezza e dell'incertezza.
Se restringere la libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero, la strada dei tagli allo
stato sociale può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi, perché, stravolgendo
l'equilibrio tra i due versanti della libertà, fa sì che in qualche luogo, in qualche strada, in qualche rione, in
qualche città, in qualche ora del giorno e soprattutto della notte, il piacere della libertà si dissolve nella paura
e nell'angoscia. Una conferma tangibile che la libertà di chi è libero richiede, per il suo esercizio, la libertà di
tutti.
Se appena ci emancipiamo dalla concezione rozza della libertà, quale ad esempio viene propagandata dalla
nostra destra, non possiamo non renderci conto che la libertà è da subito una relazione sociale, perché se
cresce a dismisura il numero dei senza dimora disagiati, anche le dimore dei più agiati non sono più tanto
sicure. Se ne deduce che la libertà individuale (che oggi appare come il valore supremo e il metro in base al
quale ogni virtù e ogni vizio della società intera va valutato) non si raggiunge con gli sforzi individuali, ma
solo creando le condizioni che estendono tali possibilità a tutti. Un compito questo che non è possibile
perseguire individualmente, magari con la beneficenza organizzata o la carità all'angolo della strada, ma
unendo le energie di tutti in quell'impresa comune che si chiama: comunità politica, la sola che può garantire
non solo i diritti di libertà, ma soprattutto la perpetuazione delle condizioni per l'esercizio di questi diritti.
La società dell'incertezza, che abbiamo preferito alla società della sicurezza, perché sembra più idonea a
garantire i diritti di libertà e quindi di felicità, è in grado di produrre da sé deregulation e privatizzazione
sulla spinta esercitata dal mercato globale, ma non è in grado di generare da sola, cioè senza intervento
politico, la solidarietà che, come abbiamo visto, ma come la nostra destra ancora non vede quando si
sciacqua la bocca con la parola libertà, è condizione essenziale per l'esercizio della libertà.
E qui vengono in mente le parole di Albert Camus: "C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile
possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi". Non leggiamo questa espressione come un pio desiderio, o
un bisogno del cuore. La "fedeltà selettiva" alla sola bellezza, alla sola libertà, alla sola felicità individuale,
per il nesso strutturale che lega la fruizione di questi valori alla solidarietà, da sola non è in grado neppure di
difendere ciò che vorrebbe garantire.
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/990701a.htm
GIOVANNA PAJETTA
La voglia matta di costruire ancora comunità
Zygmunt Bauman, «Voglia di comunità», Editori Laterza, Bari 2001 pagg. 142.
Un tetto sicuro, un cerchio caldo e protettivo capace di trasformarsi però in una fortezza assediata e
soffocante, in un mondo di identici in perenne lotta contro i diversi, gli estranei. Ma anche, per usare le
parole di Zygmunt Bauman, «un sogno che non smetteremo mai di sognare». La comunità, il suo fascino e i
suoi orrori, è la protagonista del nuovo saggio del sociologo, e filosofo polacco. Presa di mira, fin dal loro
sorgere, dagli stati nazionali, e all'apparenza destinata oggi a soccombere sotto i colpi di grazia del flessibile
e interconnesso mondo della globalizzazione. Ma non è così, dice Bauman, perché dietro quel senso di
"mancanza", di nostalgia che permane in tutti noi (non a caso il titolo originale del libro è Missing
Community) c'è un nodo inconciliabile della modernità. Il conflitto interiore a cui è costretto l'individuo che
la abita, spinto ogni giorno a barattare la sicurezza per la libertà, e viceversa. O meglio ancora, a oscillare
come un pendolo, nella speranza di raggiungere l'agognato equilibrio tra due elementi «senza i quali
l'esistenza umana è assai dura da sopportare».
Libro breve, compatto, intriso di passione intellettuale e politica, Voglia idi comunità prende le mosse
proprio là dove si erano fermati i saggi precedenti. Perché è dalla triste «solitudine del cittadino globale» che
nascono in realtà i nuovi tentativi (e fallimenti) del comunitarismo. Diversi dalle piccole, autosufficienti, e
oggi impensabili, comunità contadine raccontate da Robert Redfield, ma non meno cocciutamente
perseguito. Visto che persino le «elítes extraterritoriali» del mondo globalizzato finiscono poi per sentire
«precaria e a volte spaventosa la vita vissuta in assenza di comunità». Di qui nascono però realtà effimere,
come le «comunità estetiche» dei fan club delle rockstar, le miriadi di «comunità dei sogni», piccole creature
frutto di «aggregazioni di anime solitarie», e le «comunità gruccia» destinate a durare, come le fragili
identità di chi le costruisce, lo spazio di un mattino.
Zygmunt Bauman non si limita però a disegnare un ritratto impietoso dei vani tentativi di chi ora, dopo ave
rifiutato le chiavi di volta della solidarietà e della fraternità, si arrabatta e inventa impossibili sensi di
appartenza. Si spinge più in là, indicando la strada su cui bisognerebbe avere oggi il coraggio di
incamminarsi. Sapendo che indietro non si torna e cercando di coniugare due mondi che sono andati sempre
più separandosi tra loro, quello delle battaglie di un tempo per l'uguaglianza sociale e quello delle attuali
«guerre di riconoscimento». Nate dalla rivendicazione delle differenze e delle identità che da queste
scaturiscono, ma viziate da una concezione dei diritti umani intesi come beni da godere ognuno per sé.
Guerre legittime dunque, ma capaci solo, se lasciate a se stesse, di produrre un miriade di comunità chiuse,
se no addirittura nemiche l'una dell'altra. Perché, sostiene Bauman citando l'americana Nancy Fraser, è
proprio dalla frattura tra «politica della differenza e politica sociale dell'uguaglianza» che nasce il
fondamentalismo del "politically correct". O quella trasformazione del «diritto alla differenza» in «diritto
all'indifferenza» che oggi prende il nome di multiculturalismo,
Nuovo razzismo, mistificazione conservatrice, parodia di un mondo che non si sa e non si vuole cambiare.
L'attacco di Bauman al "nuovo culturalismo", e ai suoi intellettuali, è violento. Ma motivato. Perché dietro
di esso si nasconde quel "disimpegno" delle classi colte che ha portato alla scomparsa, o messa tra parentesi
della "società", lasciando che al suo posto nascesse per l'appunto un mondo in cui, come dice Alain Tourain,
il multiculturalismo prende l'aspetto nocivo del multicomunitarismo. Certo, la soluzione non è dietro
l'angolo, ammette per primo Bauman. Ma l'unica via è cercare di costruire quella «società autonoma» di cui
parla Castoriadis, capace di difendere l'individuo cittadino sia dalle pressioni comunitarie che da quelle
anticomunitarie. Nella convinzione che oggi più che mai «la ricerca di una umanità comune è urgente e
imperativa».
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/010624f.htm
[Recensioni]
Zygmunt Bauman
La solidudine del cittadino globalizzato
Alle glorie della nuova era globale si contrappone la solitudine dell'uomo comune: la socialità è incerta,
confusa, sfocata. Si scarica in esplosioni sporadiche e spettacolari per poi ripiegarsi esaurita su stessa. Per
porre un freno a questo processo occorre ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato si connettono: l'antica
agorà, in cui la libertà individuale può diventare impegno collettivo.
Il libro
In un mondo senza alternative, in marcia verso un'unica società globale, tutto ciò che conta nella vita amicizie, amori, aspirazioni - appare transitorio, fuggevole, vulnerabile, incerto. L'interrogativo
fondamentale di questo libro è se e come sia possibile rimettere in comunicazione vita privata e mondo
pubblico. Bauman vuole dimostrare che la percezione della precarietà di tutto ciò che conta nella vita privata
delle persone è connessa all'assenza di uno spazio in cui costruire un mondo comune per difendersi
attraverso l'impegno collettivo dall'espropriazione di diritti e risorse personali. Bauman identifica questo
spazio nell'antica agorà, dove le afflizioni private sono convertite in questioni pubbliche, cioè nella ricerca di
strumenti collettivi per sollevare gli individui dalla miseria subìta privatamente. È qui che è dato ritrovare le
"tracce della politica", ridefinita come "arte di tradurre" il privato in pubblico, seguendo le quali si perviene a
una rilettura del ruolo che le istituzioni dovrebbero svolgere in una società di individui autonomi, cioè liberi
e responsabili.
L'introduzione:
Le credenze non devono essere coerenti per essere accettate. Le credenze generalmente accettate al giorno
d'oggi - le nostre credenze - non fanno eccezione. Certamente, noi consideriamo la libertà umana, almeno
nella "nostra parte" del mondo, un fatto ovvio e (salvo qualche lieve correzione da apportare qua e là) una
questione risolta nel modo più soddisfacente possibile; in ogni caso, non sentiamo il bisogno (di nuovo, a
parte la blanda irritazione che ci prende ogni tanto) di scendere in piazza per rivendicare ed esigere una
libertà maggiore o più completa di quella che ci sembra di possedere già. D'altro canto, tendiamo a credere
con uguale fermezza di non poter fare molto - individualmente, con alcuni altri o tutti insieme - per cambiare
il modo in cui vanno o sono fatte andare le cose nel mondo; inoltre, siamo convinti che, se anche riuscissimo
a produrre un cambiamento, sarebbe vano, per non dire irragionevole, elaborare insieme l'idea di un mondo
diverso da quello esistente e, qualora lo considerassimo migliore di quello in cui viviamo, impegnarci a
fondo nella sua costruzione. Come si possa credere l'una e l'altra cosa al tempo stesso è un mistero per
chiunque sia avvezzo a ragionare in termini logici. Se la battaglia per la libertà è stata vinta, come si spiega
che la capacità umana di immaginare un mondo migliore e di fare qualcosa per migliorarlo non è tra i trofei
di quella vittoria? E ancora, che genere di libertà è quella che frustra l'immaginazione e tollera l'impotenza
delle persone libere nelle questioni che le riguardano?
Le due credenze non sono coerenti tra loro, ma prestar fede a entrambe non significa mancare di logica. Esse
non sono il frutto della nostra immaginazione. Ciascuna delle due trova ampio sostegno nella nostra
esperienza comune. Nel momento in cui crediamo a ciò che facciamo siamo profondamente realistici e
razionali. È dunque importante sapere perché il mondo in cui viviamo continua a inviarci segnali così
palesemente contraddittori. Ed è anche importante sapere in che modo riusciamo a sopportare tale
contraddizione; e ancora, per quale motivo non vi prestiamo quasi mai attenzione e non siamo
particolarmente preoccupati quando lo facciamo.
Perché è importante sapere tutto ciò? Qualcosa cambierebbe in meglio se riuscissimo a conseguire questo
genere di conoscenza? In realtà, non possiamo affatto esserne sicuri. La consapevolezza di ciò che rende le
cose così come sono può indurci tanto a gettare la spugna quanto ad agire. La conoscenza del modo in cui
funzionano i meccanismi sociali complessi e non immediatamente visibili che forgiano la nostra condizione
è notoriamente un'arma a doppio taglio. Il più delle volte se ne fanno due usi ben distinti, che Pierre
Bourdieu ha definito, in modo appropriato, "cinico" e "clinico". Tale conoscenza può essere usata
"cinicamente": poiché il mondo è quello che è, penserò a una strategia che mi permetta di sfruttare le sue
regole a mio vantaggio; che il mondo sia equo o iniquo, piacevole o no, è una questione irrilevante. Quando
è usata "clinicamente", quella stessa conoscenza può aiutare te e me a combattere più efficacemente ciò che
entrambi consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale. Da sola, la conoscenza non ci fa
decidere per l'uno o l'altro degli usi. Questa, in ultima analisi, dovrà essere una scelta nostra. Ma senza quella
conoscenza non esisterebbe una scelta iniziale. Con quella conoscenza le donne e gli uomini liberi hanno
almeno un'opportunità di esercitare la propria libertà.
Ma cosa c'è da sapere? Questo libro rappresenta un tentativo di rispondere a questa domanda. E vi risponde
più o meno in questi termini: è possibile che l'aumento della libertà individuale coincida con l'aumento
dell'impotenza collettiva in quanto i ponti tra vita pubblica e vita privata sono stati abbattuti o non sono mai
stati costruiti; oppure, per dirla diversamente, in quanto non esiste un modo semplice e ovvio di tradurre le
preoccupazioni private in questioni pubbliche e, inversamente, di identificare e mettere in luce le questioni
pubbliche nei problemi privati. In assenza di ponti, la comunicazione sporadica tra la sponda del privato e
quella del pubblico viene mantenuta con l'aiuto di palloncini che hanno la seccante abitudine di afflosciarsi o
scoppiare nel momento in cui toccano terra; e molto spesso prima di giungere a destinazione. Se l'arte del
tradurre è ridotta in condizioni pietose, le sole lagnanze a trovare espressione nella sfera pubblica sono le
angosce e i tormenti privati che, comunque, non si trasformano in questioni pubbliche solo per il fatto di
essere esibiti pubblicamente.
In assenza di ponti solidi e duraturi, nonché di perizia nell'arte del tradurre, poco praticata o totalmente
dimenticata, gli affanni e le pene private non si sommano e non riescono a cementarsi in cause comuni. Date
le circostanze, che cosa può unirci? La socialità, per così dire, è incerta, alla vana ricerca di un punto fermo
cui appigliarsi, un traguardo visibile a tutti su cui convergere, compagni con cui serrare le file. Ce n'è molta
tutto intorno: caotica, confusa, sfocata. Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente
scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni.
L'occasione per liberare la socialità è fornita talvolta da orge di compassione e carità; talaltra da scoppi di
aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto (cioè, contro qualcuno che la maggior
parte degli occupanti la sfera pubblica può riconoscere come nemico privato); altre volte ancora da un evento
cui moltissime persone reagiscono intensamente nello stesso momento, sincronizzando la propria gioia,
come nel caso della vittoria della Nazionale ai mondiali di calcio, o il proprio dolore, come nel caso della
tragica morte della principessa Diana. Il guaio di tutte queste occasioni è che si consumano rapidamente: una
volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse
successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo,
mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima, sembra più buio che mai. E dopo
l'esplosione, non resta energia a sufficienza per riaccendere le luci della ribalta.
L'opportunità di mutare questa condizione dipende dall'agorà: lo spazio né privato né pubblico, ma più
esattamente privato e pubblico al tempo stesso. Lo spazio in cui i problemi privati si connettono in modo
significativo: vale a dire, non per trarre piaceri narcisistici o per sfruttare a fini terapeutici la scena pubblica,
ma per cercare strumenti gestiti collettivamente abbastanza efficaci da sollevare gli individui dalla miseria
subita privatamente; lo spazio in cui possono nascere e prendere forma idee quali "bene pubblico", "società
giusta", o "valori condivisi". Il problema è che oggi è rimasto poco degli antichi spazi privati/pubblici, ma
non se ne intravedono di nuovi idonei a rimpiazzarli. Le antiche agorà sono state rilevate da intraprendenti
immobiliari e riciclate in parchi dei divertimenti, mentre forze potenti cospirano con l'apatia politica per
rifiutare i permessi di costruirne di nuove.
La caratteristica più evidente della politica contemporanea, come disse Cornelius Castoriadis a Daniel
Mermet nel novembre 1996, è la sua insignificanza: "I politici sono impotenti, [...] Non hanno più un
programma. Ambiscono solo a rimanere in carica". L'avvicendarsi dei governi - persino degli "schieramenti
politici" - non è un fattore decisivo; al massimo, è un'increspatura sulla superficie di un fiume che scorre
ininterrottamente, uniformemente, inesorabilmente nella propria direzione, spinto dalla propria forza
propulsiva. Cent'anni fa, la formula politica dominante del liberalismo era l'ideologia provocatoria e spavalda
del "grande balzo in avanti". Oggi, è solo un tentativo di giustificare la resa: "Questo non è il migliore dei
mondi immaginabili, ma il solo mondo reale. Inoltre, tutte le alternative sono peggiori, devono essere
peggiori e si dimostrerebbero tali se si provasse a metterle in pratica". Il liberalismo odierno si riduce al
semplice credo della "mancanza di alternative". Volendo scoprire le radici della crescente apatia politica, si
può anche evitare di cercare altrove. Questa politica elogia e promuove il conformismo. E al conformismo si
può arrivare anche da soli; si ha forse bisogno della politica per uniformarsi? Perché sopportare politici che,
di qualunque colore siano, non possono promettere niente di diverso?
L'arte della politica, se parliamo di politica democratica, consiste nell'abbattere i limiti posti alla libertà dei
cittadini; ma anche nell'autolimitazione, il che significa rendere i cittadini liberi per consentire loro di
stabilire, individualmente e collettivamente, i propri limiti individuali e collettivi. Questo secondo aspetto è
ormai praticamente ignorato. Tutti i limiti sono off-limits. Qualsiasi tentativo di autolimitazione è visto come
il primo passo sulla via che conduce diritto al gulag, come se l'unica scelta possibile fosse quella tra la
dittatura del mercato e la dittatura del governo sui bisogni, come se l'unica forma di cittadinanza possibile
fosse quella basata sul consumismo. È questa (e soltanto questa) la forma che i mercati finanziari e
commerciali sarebbero disposti a tollerare. Ed è questa la forma promossa e coltivata dai governi attuali.
L'unico, grande scenario prevedibile è quello (per citare di nuovo Castoriadis) della continua accumulazione
di spazzatura. Tale accumulazione non deve avere limiti (cioè, tutti i limiti sono visti come una maledizione,
per cui nessun limite sarebbe tollerato). Ma è proprio da questa accumulazione che deve partire (se deve
partire) l'autolimitazione.
Ma l'ostilità verso l'autolimitazione, il conformismo generalizzato e la conseguente insignificanza della
politica hanno il loro prezzo: un prezzo, guarda caso, esorbitante. Per pagarlo si usa la stessa moneta con cui
viene normalmente pagato il prezzo della politica ingiusta: quella delle sofferenze umane. Tali sofferenze
hanno forme e sfumature diverse, ma sono riconducibili alla stessa causa. Inoltre, hanno la caratteristica di
autoperpetuarsi. é il genere di sofferenze che scaturiscono dalla degenerazione della politica, ma anche il
genere di sofferenze che costituiscono l'ostacolo principale alla sua integrità.
Le più infauste e dolorose tra le angustie contemporanee sono rese perfettamente dal termine tedesco
Unsicherheit, che designa il complesso delle esperienze definite nella lingua inglese uncertainty [incertezza],
insecurity [insicurezza esistenziale] e unsafety [assenza di garanzie di sicurezza per la propria persona,
precarietà]. La cosa singolare è che queste afflizioni costituiscono un enorme impedimento ai rimedi
collettivi: le persone che si sentono insicure, che diffidano di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che
temono per la propria sicurezza personale, non sono veramente libere di assumersi i rischi che l'azione
collettiva comporta. Non trovano il coraggio di osare né il tempo di immaginare modi alternativi di vivere
insieme; sono troppo assorbite da incombenze che non possono condividere per pensare (e tanto meno per
dedicare le loro energie) a quei compiti che possono essere svolti solo in comune.
Le istituzioni politiche esistenti, che dovrebbero sostenerle nella lotta contro l'insicurezza, sono di scarso
aiuto. In un mondo caratterizzato da una rapida globalizzazione, nel quale una larga fetta di potere, e la fetta
più importante, è preda della politica, queste istituzioni non possono fare granché per offrire sicurezza o
certezza. Quello che possono fare e che stanno cercando di fare è convogliare l'ansia, estesa e diffusa, verso
una sola componente della Unsicherheit, quella della sicurezza personale, l'unico ambito in cui qualcosa può
essere fatto e viene effettivamente fatto. Il guaio è che mentre un intervento efficace per debellare, o
perlomeno mitigare, l'insicurezza e l'incertezza richiede un'azione comune, gran parte delle misure adottate
in nome della sicurezza personale producono divisione: seminano il sospetto, allontanano le persone, le
spingono a fiutare nemici e cospiratori dietro ogni polemica o presa di distanza, e finiscono per isolare
ancora di più chi già vive isolato. Ma la cosa peggiore è che tali misure non solo lasciano intatte le vere fonti
dell'ansia, ma consumano tutta l'energia che esse generano: un'energia che potrebbe essere utilizzata molto
più efficacemente se venisse incanalata nello sforzo di riportare il potere nell'ambito dello spazio pubblico
gestito politicamente.
Questa è una delle ragioni principali per cui la richiesta di spazi privati/pubblici è così scarsa; e anche la
ragione per cui i pochi spazi rimasti sono quasi sempre vuoti, il che facilita chi persegue l'obiettivo di
ridimensionarli o, meglio ancora, di eliminarli gradualmente. Un'altra ragione della loro diminuzione e del
loro scadimento è la palese irrilevanza di qualunque cosa accada al loro interno. Supponiamo per un
momento che sia accaduto un evento eccezionale e che gli spazi privati/pubblici siano affollati di cittadini
che desiderano discutere dei loro valori e analizzare le leggi che devono guidarli: dov'è l'istituzione capace di
tradurre in realtà le loro decisioni? I poteri più forti fluttuano o scorrono come un fiume nel suo alveo, e le
decisioni cruciali vengono prese in uno spazio diverso dall'agorà, o anche dallo spazio pubblico organizzato
politicamente. Così, il meccanismo autopropellente e autorinforzante continuerà a generare la propria spinta
propulsiva e l'energia per rinforzarsi. Le fonti dell'Unsicherheit non si prosciugheranno, dal momento che il
proposito e il coraggio di opporvisi non sono frutto di immacolata concezione; il potere reale rimarrà a
distanza di sicurezza dalla politica e la politica continuerà a non poter fare quello che ci si aspetta faccia:
esigere da tutte le diverse forme di sodalizio umano la prova di essere fondate sulla libertà di pensiero e
azione e chiedere loro di uscire di scena se rifiutano o non sono in grado di farlo.
Un vero e proprio nodo gordiano: troppo intricato e complesso per essere sciolto completamente, e così può
essere solo tagliato La deregolamentazione e la privatizzazione dell'insicurezza, dell'incertezza e della
precarietà sono - almeno così sembra - ciò che impedisce di sciogliere il nodo, e dunque il punto giusto in cui
tagliare, se ci si vuole liberare del cappio.
Più facile a dirsi che a farsi, per la verità. Attaccare l'insicurezza alla fonte è un'impresa ardua, che richiede
addirittura di ripensare e rinegoziare alcuni dei presupposti fondamentali della società attuale: presupposti
tanto più saldi per il fatto che sono taciti, invisibili o indicibili, fuori discussione o scontati. Come sostiene
l'ultimo Castoriadis, il guaio della nostra civiltà è che ha smesso di interrogarsi. Nessuna società che
dimentichi l'arte del porsi domande o che permetta a quest'arte di cadere in disuso può sperare di trovare
risposte ai problemi che l'assillano, certamente non prima che sia troppo tardi e che le risposte, benché
corrette, siano divenute irrilevanti. Per nostra fortuna, non è detto che questo accada, e la consapevolezza che
potrebbe accadere rappresenta la garanzia che non accadrà. é qui che entra in scena la sociologia; essa deve
svolgere un ruolo responsabile, e non avrebbe giustificazioni se rifiutasse tale responsabilità.
La cornice in cui si inscrivono i temi affrontati nel libro è l'idea che la libertà individuale possa essere solo il
prodotto di un impegno collettivo (possa essere difesa e garantita solo collettivamente). Nondimeno, oggi
tendiamo alla privatizzazione dei mezzi per assicurare, tutelare e garantire la libertà individuale, e se questa
è una terapia per i mali del nostro tempo si tratta di una cura destinata a provocare malattie iatrogene del
genere più subdolo e atroce (la povertà di massa, la disoccupazione e la morsa della paura sono le più
temibili). La disperata situazione attuale e la prospettiva di porvi rimedio sono rese ancora più complesse dal
fatto che viviamo in un periodo di privatizzazione dell'utopia e dei modelli di bene (tale per cui i modelli di
"vita buona" tendono a prevalere sul modello di società buona, con il quale non si identificano più). L'arte di
trasformare i problemi privati in questioni pubbliche corre il rischio di cadere in disuso e di essere
dimenticata; il modo in cui si definiscono i problemi privati rende estremamente difficile la loro
"agglomerazione", e quindi il loro cementarsi in una forza politica. Questo libro rappresenta un sforzo
(probabilmente vano, purtroppo) per rendere di nuovo possibile tale conversione.
Il primo capitolo tratta del significato mutevole della politica; nel secondo capitolo analizzo i problemi che
devono affrontare le istituzioni preposte all'azione politica e le ragioni della loro sempre più scarsa efficacia;
nel terzo capitolo tratteggio un modello di società buona che possa guidare la tanto necessaria riforma. Le
prospettive dell'ideologia in un mondo postideologico, della tradizione nel mondo post-tradizionale e dei
valori condivisi in una società tormentata dalla "crisi dei valori" sono trattate in sezioni separate.
Questo libro è animato in gran parte da spirito polemico, così come era nelle mie intenzioni. Le questioni più
controverse sono probabilmente quelle trattate nell'ultimo capitolo, e ciò per due ragioni.
I modelli di società creati e proposti in una società autonoma o in una società che aspira a diventare
autonoma sono e devono essere molti e diversi, per cui, volendo evitare polemiche, si dovrebbe evitare di
pensare a situazioni diverse da quella attuale, e soprattutto a situazioni migliori di quella attuale. (La migliore
amica del male, come sappiamo bene, è la banalità, e la banalità scambia la routine per il massimo della
saggezza.) Ma ciò che rende il capitolo ancora più controverso è che i modelli in quanto tali sono attualmente
caduti in discredito. "La fine della storia" è di gran moda, e le questioni più controverse per i nostri
predecessori sono generalmente considerate risolte, o trattate come tali in quanto ignorate (in ogni caso, non
sono viste come problemi). Tendiamo a sentirci orgogliosi di ciò per cui dovremmo invece provare
vergogna: vivere nell'epoca "postideologica" o "postutopica", mostrare indifferenza per qualunque immagine
coerente di società buona e aver barattato la preoccupazione per il bene pubblico con la libertà di perseguire
l'appagamento personale. Ma se anche ci fermassimo a riflettere sui motivi per cui la ricerca della felicità
raramente dà i risultati sperati e sui motivi per cui il gusto amaro dell'insicurezza rende la felicità meno soave
di quanto ci fosse stato fatto credere, non andremmo molto lontano senza richiamare dall'esilio idee quali il
bene pubblico, la società buona, l'equità, la giustizia e così via: idee che non hanno alcun senso se non sono
condivise e coltivate con altri. E forse non riusciremmo neppure a evitare che l'insicurezza sciupi la libertà
individuale senza ricorrere alla politica, senza far uso del tramite costituito dall'azione politica e senza
tracciare la direzione che quel tramite dovrebbe seguire.
Certi punti di riferimento sembrano decisivi quando si pianifica l'itinerario. Il terzo capitolo ne mette in
evidenza tre: il modello repubblicano dello stato e della cittadinanza, il diritto universale a un reddito minimo
garantito e l'espansione delle istituzioni proprie di una società autonoma fino al punto da ristabilirne le
capacità d'azione, mediante l'appropriazione di poteri che sono al momento extraterritoriali. I tre punti sono
discussi per accendere e alimentare un dibattito, non per offrire soluzioni che, in una società autonoma,
possono comunque arrivare soltanto alla fine, e non al principio, dell'azione politica.
Credo che le domande non siano mai sbagliate; le risposte potrebbero esserlo. Ma credo anche che astenersi
dal fare domande sia la risposta peggiore di tutte.
http://www.kore.it/caffe2/zygmunt_bauman.htm
Umberto Galimberti su: Il Venerdì di Repubblica (22/04/2007)
Se vogliamo capire in che mondo viviamo e non sbagliare le mosse, interpretandolo con le categorie che
abbiamo utilizzato in passato e che oggi non servono più, è opportuno leggere l’ultimo libro di Zygmunt
Bauman, Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, che l'editore Laterza pubblicherà in questi
giorni.Da anni Bauman va ripetendo che oggi viviamo in una società liquida, dove le strutture che delimitano
lo spazio delle scelte individuali si dissolvono, le istituzioni che garantiscono la continuità delle abitudini e
dei comportamenti si scompongono, e le nuove forme sociali e istituzionali che le sostituiscono hanno poco
tempo per solidificarsi, per cui non si hanno quadri di riferimento che non siano di breve periodo.Un secondo
fattore di liquidità è costituito dalla separazione tra potere e politica, nel senso che il potere non è più
incarnato dallo Stato e dalle sue istituzioni democraticamente elette, ma si é trasferito nei potentati
economici che prescindono da qualsiasi legittimazione democratica, per cui quando Marx diceva a suo tempo
che i governi erano comitati d'affari al servizio dei potentati economici forse sbagliava solo per difetto.
Quando la competizione è tra lo Stato e il mercato, il potere non ha alcun dubbio dove collocarsi.L'impotenza
dello Stato riduce la protezione e l'assicurazione pubblica che lo Stato garantiva e la solidarietà collassa.Le
città, che un tempo erano luoghi di abitazione e di radicamento sono diventate luoghi di scambio e di
agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario fra gli abitanti
del territorio, i quali, anche se non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era
l’uso e il costume degli abitanti della città. Più che una «struttura» solida, la società è diventata una «rete»
dove ci si scambia messaggi funzionali, informazioni utili, senza più uno straccio di autentica
comunicazione.Il pensiero, che è alla base della progettazione e dell'ideazione di lungo periodo, è sostituito
da «trovate» di breve periodo, sfruttamenti di «opportunità», capacità di inserirsi in circostanze opportune
favorevoli. Nulla quindi che dia garanzia di continuità, all'interno della quale, costruire percorsi di
formazione, perché nessuna delle esperienze passate sembra rivestire una qualche utilità per percorsi che di
volta in volta si improvvisano.In un contesto del genere quel che si richiede al singolo individuo non é
più la «conformità a norme», peraltro scarse e spesso contraddittorie, ma la «flessibilità» e la prontezza
a cambiare tattiche e stili a breve scadenza, salvo poi pagare personalmente il conto delle proprie scelte, che
avvengono all’interno di uno scenario le cui coordinate sfuggono, perché trascendono la capacità di
comprensione e di azione dei singoli individui.
La diagnosi di Bauman è perfetta, la terapia non è indicata perché, scrive Bauman: «Le risposte sarebbero
perentorie, premature e potenzialmente fuorvianti». Ma forse la società non è tanto liquida come pensa
Bauman.Al contrario a me pare solida, anzi solidissima, dove però la solidità è data non più dal fattore
umano, ma dal fattore tecnico.La tecnica, infatti, oggi non è più un «mezzo» nelle mani dell'uomo, ma, per
effetto della sua espansione, è diventata il vero soggetto della storia che ha ridotto l'uomo a semplice
funzionario dei suoi apparati, regolati da quegli unici criteri che sono la produttività e l'efficienza. È chiaro a
questo punto che il potere non é più una competenza della politica, perché la politica per decidere guarda
l'economia, e questa, per decidere guarda le risorse tecnologiche, per cui luogo della decisione finisce con
l'essere la tecnica.La tecnica non conosce il pensiero che «pensa», ma solo il pensiero che «calcola», che fa
di conto, che tende a ottimizzare l'impiego minimo dei mezzi per il maggior raggiungimento di scopi.Che
cosa sia bello, cosa sia buono, cosa sia vero, cosa sia giusto, oggi non lo sappiamo più, non perché la
società è liquida, ma perché il pensiero è stato solidificato e ristretto alla ricognizione e al perseguimento
esclusivo dell’«utile».Progetti a lunga durata non se ne possono fare, per la semplice ragione che la tecnica
conosce solo quel tempo breve che è il recente passato e l’immediato futuro.Infatti, perché uno scopo non sia
un sogno i mezzi devono essere disponibili oggi, e perché un mezzo sia davvero tale è necessario che lo
scopo sia a portata di mano, qui nell' immediato.Nell'età della tecnica i rapporti umani sono diventati
rapporti «funzionali». I biglietti da visita sono buoni indicatori, non perché riportano il nostro nome,
ma perché segnalano la nostra funzione. Noi ci incontriamo solo come funzionari di apparati. Anche le
colazioni sono diventate «colazioni di lavoro». Altro che società liquida. Siamo tutti incatenati alle nostre
professioni che ci danno identità e socializzazione, anche se gli incontri che ci propiziano più che «sociali»
sono «professionali». E se nell'Ottocento Marx poteva dire che: «L'uomo non aveva nulla da perdere tranne
le sue catene», oggi potremmo dire che «senza queste catene saremmo persi».Questa è la situazione. Il libro
di Bauman è bellissimo. La condizione umana, dipinta come un inferno, invoca un'utopia che la possa
riscattare. Ma tutto ciò non dipende dalla liquidità in cui si sono dissolti i nostri legami sociali, ma dalla
rigidità in cui sono stati costretti.Innanzitutto dall'economia, che ha eretto il denaro a generatore simbolico di
tutti i valori, e poi dalla tecnica che ha ridotto gli uomini a semplici funzionari dei suoi apparati, indicando
nella macchina il modello da imitare in termini di efficienza e funzionalità, perché la macchina non ha
«inconvenienti umani».
http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842087465
Vita Liquida
di Roberto Vincenzi
Zygmunt Bauman, “VITA LIQUIDA”, Editori Laterza, Roma 2006
Definizione
"Vita liquida", "Società liquida", “Modernità liquida” sono espressioni create, di recente, dal
sociologo Zygmunt Bauman, per descrivere le caratteristiche del mondo in cui viviamo. La "vita
liquida" è una vita nella quale sembra non ci siano punti fermi; tutto cambia molto velocemente,
troppo velocemente. Stiamo ancora imparando come affrontare una situazione, ma, nel frattempo, la
realtà è cambiata, la situazione è diversa, e i nostri strumenti diventano subito inadeguati o, come si
dice oggi, "obsoleti". Tutto si mescola, che noi vogliamo o no, e si presenta diverso da come era in
passato. Il "melting pot", cioè la pentola dove le cose si mescolano insieme, era l'espressione creata,
negli Stai Uniti, qualche anno fa, per descrivere la mescolanza delle razze, delle culture, delle
tradizioni, degli stili che confluivano a comporre la società americana.
Questo modo di essere, che adesso chiamano "fusion", si sta estendendo pian piano a tutto il mondo.
Cinquant'anni fa, vedere un negro per le strade d’Italia, era abbastanza un avvenimento, oggi questo
fatto non desta stupore in nessuno, e percorriamo le vie delle nostre città assieme a negri, arabi,
sudamericani, russi, rumeni, cinesi, giapponesi, e tanti altri che, pian piano, hanno costituito un nuovo
tessuto sociale.
In certe vie, i negozi aperti dagli immigrati hanno cambiato l'atmosfera, le merci esposte provengono
da paesi lontani, si sentono nell'aria i profumi di cibi diversi dai nostri, e capita, certe volte, di
percorrere anche lunghi tratti di strada in città, e non sentire mai parlare in italiano.
Situazione 1 : progresso della tecnologia
Il progresso della tecnologia non è mai stato così veloce come oggi. Nel campo dell'informatica, poi,
possiamo essere sicuri che quello che compriamo oggi (hardware o software) diventerà presto vecchio,
se non è vecchio già nel momento dell'acquisto. Per quel che riguarda i computers, è attuale e moderno
quello che viene inventato oggi in California o in Giappone. L'ultima novità, che abbiamo appena
comperato in Italia, è già vecchia di almeno sei mesi, che sono più o meno il tempo necessario per la
produzione e la distribuzione.
Situazione 2 : contraddizioni sociali e globalizzazione
Grosse contraddizioni vengono assorbite senza farci troppo caso: le persone che vivono a livello
europeo, nordamericano, giapponese, con tutti gli agi, le comodità e le modernità, rappresentano circa
l'otto per cento della popolazione mondiale, ma detengono più del settanta per cento delle risorse
economiche e produttive del mondo.
E' stato calcolato che, se tutti vivessero allo standard americano o europeo, ci vorrebbero tre pianeti
come la Terra per produrre le risorse necessarie.
Per gli americani, europei e giapponesi, che se lo possono permettere, il mondo di oggi offre
possibilità di godimento sconosciute o impossibili fino a cinquant’anni fa.
Possiamo passare da un aereo all’altro, girare tutto il mondo e assaporarne il meglio. Possiamo violare
il tempo e inseguire l’estate, volando ai Tropici in dicembre. Guidiamo macchine sempre più potenti e
veloci, in strade con limiti di velocità sempre più bassi.
La globalizzazione porta sulla nostra tavola cibi che provengono da continenti diversi. Ascoltiamo la
musica di un paese lontano, leggiamo storie scritte da chi vive a decine di migliaia di chilometri da
noi. Internet ha aperto, nel bene e nel male, la nostra porta di casa a tutto il mondo.
I custodi dei cancelli
Chi guadagna in questo mondo non è soltanto chi produce o vende servizi o prodotti. Chi oggi vive
nella sicurezza spesso si annoia, e ha fame di esperienze emozionali, di assumere identità provvisorie,
o altre identità. E così entrano in campo i “gate keepers” (“custodi del cancello”), cioè quelli che
consentono di vivere queste esperienze e provare queste identità. Fanno parte di questo nuovo lavoro,
i provider, che ti permettono di accedere a Internet, le televisioni satellitari o via cavo, i gestori delle
reti telefoniche, chiunque faccia godere di qualche forma di intrattenimento, dal teatro al cinema, alle
agenzie di viaggio che ti mandano in paesi lontani, dove potrai essere un altro, se vuoi …………
Identità individuale e sociale
Chi vive nelle società industrializzate può comporre la sua identità mescolando stili diversi, come
abbigliamento, cultura, cibo, musica, tecnologia, modi di vivere, importati da tutto il pianeta.
Il gioco andrà avanti, finché alla nostra ricchezza corrisponderà la povertà del terzo mondo, di coloro
ai quali non è stato concesso scegliere uno stile di vita, cui il destino è stato assegnato, ai quali la
società ha imposto il rango di “scarti di produzione”, nel sistema economico mondiale del “libero
scambio”.
Il modello del consumismo
Perché il modello che viene offerto e presentato è solo e sempre quello del consumismo, mentre gli
slogan pubblicitari ribadiscono che la nostra identità è legata ai beni che possediamo. Casa,
automobile, vestiti, secondo questo modo di pensare, rivelano chi noi siamo veramente. Se l'abito è
griffato, posso sentirmi più sicuro di me stesso. Se invece tutti ci tenessimo quello che abbiamo, finché
non si consuma davvero, il sistema economico mondiale andrebbe in collasso.
Evoluzione della pubblicità
Negli ultimi dieci anni la pubblicità è cambiata profondamente: non dice più che il detersivo "lava più
bianco"; ti fa capire invece che, se usi un certo prodotto, ti potrai identificare con i giovani, belli,
ricchi, potenti, playboy o con le ninfette, veline, maggiorate, bellone, donne in carriera, che compaiono
nelle réclames in TV, radio, giornali, manifesti. In alternativa, c’è chi vende l’immagine della famiglia
felice, che abita nella valle degli orti, vicino al mulino bianco.
Oltre a questo aspetto, un’altra importante caratteristica del cambiamento nella pubblicità di oggi: si
chiama “branding”.
“Brand” è la marca di un prodotto.
Ciò che i pubblicitari cercano di trasmettere coi loro annunci, è la convinzione che un certo marchio
sia quanto di meglio c’è nel settore, e che chi indossa o usa prodotti con quel marchio ne ottenga
prestigio personale.
Si cerca, in questo modo, di enfatizzare il marchio, per creare dei clienti “fedeli”; clienti disposti a
comprare quasi tutto, a patto che sopra ci sia stampato il marchio della azienda che amano.
Per fare questo, viene utilizzato un martellamento pubblicitario che presenta sempre la stessa
equazione: marchio = qualità = distinzione = prestigio.
In più, vengono organizzati “eventi” sponsorizzati dal marchio stesso: serate di gala, inaugurazione di
nuove sedi, concorsi, awards, premiazioni, gare sportive, sponsorizzazioni di squadre o atleti, perfino
azioni a favore dei popoli meno fortunati di noi, magari attraverso “maratone di solidarietà”.
La presenza a questi “events” di celebrità del mondo del cinema o dello sport rafforza l’immagine del
marchio e lo identifica con personaggi famosi e vincenti.
Aziende multinazionali e globalizzazione
Tutto questo, se ben gestito, consente alle aziende di cavalcare, a proprio favore, la tigre della
globalizzazione. Se il mio marchio è forte, posso smettere di produrre con la mia azienda, magari in
Italia, a costi più alti rispetto al Terzo Mondo, alla Cina, all’Est Europeo.
Naomi Klein osservava che: “Molte, tra le aziende più note, non si occupano più di produrre le merci,
ma piuttosto le acquistano, e vi appongono il proprio marchio.”
Per Bauman: “E’ il sacchetto, col marchio bene in vista, a dare significato al prodotto acquistato. Il
marchio di un prodotto, non aggiunge valore a quel prodotto, ma è il valore del prodotto. Il valore di
mercato, e dunque il solo valore che conti.”
Il messaggio della TV
Anche la TV è cambiata, ed è sempre più “autoreferenziale”, cioè si riferisce a se stessa. Crea un
evento, un personaggio, una storia, e poi, in altri programmi, commenta questi eventi, personaggi,
storie, e ne allarga la portata. E poi commenta chi commenta, e così via. In altre parole, crea un
mondo.
Essere se stessi ?
E, se chi vive nel terzo mondo, oppresso da bisogni vitali, non può scegliere la propria identità, ma può
cercare solo di sopravvivere, chi invece vive negli agi, è sottoposto continuamente ad un dilemma tra
due messaggi contrastanti, un “doppio messaggio” che continuamente riceve.
Da un lato l’invito ad “essere se stessi”, con tanto di corsi e manuali psicologici già pronti, per
impararlo; dall’altro, il fatto che l’unico comportamento “individuale”, che la società tolleri, è quello
del conformismo: essere uguale agli altri, potersi distinguere solo per gli oggetti che possediamo.
Libertà vs. sicurezza
Un altro dilemma è quello tra libertà e sicurezza: più aumenta una, più diminuisce l’altra e viceversa.
La "società liquida" ha perso i valori del passato, le tradizioni degli antenati, i principi che guidavano
le generazioni precedenti. Nell’inquietante quadro, descritto da Zygmund Bauman, viaggiamo, privi di
strumenti di riferimento, verso una meta che non conosciamo, senza sapere nemmeno quanto durerà il
viaggio.
Martiri ed eroi
La società occidentale dei nostri giorni si oppone a sacrificare le soddisfazioni di oggi, in vista di
finalità remote. Delega al consumo la soddisfazione immediata di ogni bisogno dell’individuo,
che, solo nel privato, può realizzarsi.
“Gratificazione istantanea” e “felicità individuale” , ottenuti attraverso il consumo, hanno svilito gli
ideali del “lungo periodo” e della ”totalità”. Non esistono più valori per i quali sacrificarsi ed
impegnarsi, non c’è più bisogno di martiri ed eroi. Gli eroi, protagonisti delle civiltà precristiane,
misuravano la loro gloria sulla base dei nemici uccisi. I martiri, dai primi cristiani in avanti, erano
disposti al sacrificio, per difendere un’idea, per dimostrare che la ragione non è sempre dalla parte del
più forte e la forza non è garanzia di giustizia. Sia gli uni che gli altri, e i miti che ne sono stati tratti,
hanno alimentato, in Europa, nel Cinquecento, la nascita dello Stato-Nazione.
Agli inizi dell’Era Moderna, l’Europa era ancora divisa in stati dinastici, in una mescolanza di gruppi
etnici e linguistici. Lo Stato-Nazione, per nascere e crescere, aveva bisogno di consenso, e
patriottismo. I martiri, gli eroi della patria, i caduti nelle guerre, il milite ignoto, e i loro mausolei,
elevavano a divinità il concetto di nazione.
Tutto questo, per noi europei, appartiene ormai al passato, e lo stato nazione, che, con la propria
sovranità, poteva garantire l’incolumità dei suoi cittadini, scricchiola oggi sempre più sotto le spinte
della globalizzazione, mentre subisce macro decisioni economiche, commerciali e di mercato, prese
altrove.
Profughi e indesiderabili
Un’altra nuova caratteristica riguarda il trattamento riservato agli “indesiderabili”. I criminali del
passato, condannati dai Tribunali, venivano rinchiusi(dentro lo Stato)in fortezze e prigioni.
I profughi di oggi, condannati dalla fame, vengono ricacciati indietro alla frontiera(fuori dallo stato):
se ne occupi qualcun altro.
Qualcosa di simile a quello che succedeva in Europa verso la fine del Medioevo. La "nave dei folli"
non é solo una creazione letteraria successiva, ma una realtà ben presente, soprattutto in Germania,
dove i borgomastri delle varie città, usavano consegnare i pazzi ai marinai e ai mercanti che
percorrevano il territorio coi battelli fluviali, affidando ad essi il compito di scaricarli in qualche altra
città, possibilmente molto lontana, o di lasciarli, sempre molto lontano, in qualche deserta regione di
campagna.
Le guerre dei nostri giorni vengono sempre più controllate da organismi internazionali, ONU, che
cercano una mediazione tra le parti; abbiamo abbandonato l’antica usanza della vendetta e l’abbiamo
trasformata in risarcimento economico dei danni, magari pagato dall’assicurazione. Ogni ferita ha il
cartellino col prezzo.
Identità attraverso il terrorismo
Per tutti questi motivi, a noi occidentali, che abbiamo sostituito il consumo dei beni e la rapida
soddisfazione a tutti gli ideali del passato, resta molto difficile capire che, ancora oggi, ci sia qualcuno
disposto a sacrificare la propria vita per una causa. Gli “attentatori suicidi” islamici vengono da parte
nostra ricondotti nella sfera del fanatismo religioso di persone ignoranti, che sono state condizionate
fin dalla nascita.
Chi ha soldi, e vive nel mondo occidentale, può costruire la sua identità personale attraverso gli oggetti
di consumo che acquista (dai vestiti alle automobili).
Chi non ha queste possibilità, spesso si attacca alla fede, che è gratuita; torna indietro nel tempo e
diventa un martire religioso, rivestendo così
un’identità molto forte. Così forte da farlo morire, spesso.
Il mondo delle celebrità
La “società liquida” ha quindi abbandonato il culto dei martiri ed eroi, e lo ha sostituito con
l’ammirazione per le “celebrità”, che è molto meno impegnativo.
Per Bauman, le caratteristiche principali della celebrità sono la continua visibilità sui media,
l’onnipresenza dell’immagine, la frequenza con cui viene pronunciato il nome della persona. Attori
del cinema e, soprattutto, della televisione, cantanti, musicisti, sportivi, campioni, politici, esperti vari,
rientrano in questa categoria di “persone note per la loro notorietà” (D.J.Boorstin, 1961).
Se ammiro un eroe o un martire, religioso o civile, vuol dire che ne seguo il pensiero, la fede, che
faccio parte di un gruppo di persone accomunate da un ideale.
Se sono un “fan” di una celebrità, mi posso illudere di far parte di un gruppo mondiale di persone unite
dall’ammirazione per quel personaggio, non mi è richiesto nessun impegno, posso mollare da un
momento all’altro, e passare ad ammirare qualcun altro. Posso anche essere “fan” di più celebrità
contemporaneamente, nessuno mi criticherà per questo.
L’arte oggi
In questo contesto, anche l’arte, il suo significato, il suo valore, subiscono dei cambiamenti di fronte al
mercato globale.
L’antica contesa, che vedeva da un lato gli “artisti” e dall’altro i “managers”, si è appiattita in una
“rivalità tra fratelli”. Gli uni hanno bisogno degli altri e viceversa. I “managers” mercanti d’arte
hanno bisogno di opere da vendere; gli artisti hanno bisogno di qualcuno che venda le loro opere. Se
litigano tra loro, è solo per decidere chi comanda. L’arte, oggi, viene trattata dai galleristi come un
qualsiasi prodotto, che deve avere certe caratteristiche, per poter essere immesso sul mercato con
speranza di successo. Il gallerista esegue uno studio di mercato per individuare i possibili clienti.
Impone all’artista, che ha messo sotto contratto, di essere costante nello stile, riconoscibile, di produrre
opere di piccola dimensione, di avere già eseguito qualche centinaio di opere, e averle pronte, per
poter soddisfare eventuali future improvvise richieste di mercato. Richiede, cioè, il marchio e la
distribuzione, come per l’abbigliamento. L’arte “buona” è quella famosa, perché esposta nelle gallerie
di prestigio, presentata alle mostre, commentata sulle riviste specializzate; l’arte “cattiva”, o la “non
arte”, è ciò che non ha mercato, l’opera che il gallerista ha rifiutato, perché poco commerciabile. Non
esiste altro criterio, oggi, per distinguere il “valore dell’opera d’arte”.
L’arte attuale non è più “rivoluzionaria”; il sistema economico mondiale non ha più paura degli artisti;
anzi, tollera benissimo il fatto che ci sia una zona, l’Arte, controllata e recintata, nella quale è possibile
esprimere, “artisticamente”, anche contenuti eversivi, ribelli, di critica al sistema.
Eternità dell’arte ?
Un altro cambiamento riguarda la durata nel tempo dell’opera d’arte.
Uno dei principali elementi che, fino ad oggi, caratterizzavano l’opera d’arte era la sua permanenza nel
tempo, la sua “eternità immortale”.
Come diceva Hannah Arendt: “L’oggetto culturale resiste al tempo”, ed ancora:
“Un oggetto è culturale, in quanto sopravvive a qualsiasi utilizzo abbia potuto presiedere alla sua
creazione.”
Oggi non più; il sistema economico spinge avanti velocemente, ed anche le opere d’arte devono essere
ammirate, usate, fruite velocemente e poi essere sostituite con nuove opere. Altrimenti il mercato si
ferma.
Se osserviamo da questa angolazione varie tendenze dell’arte moderna, ne rileviamo la condizione di
precarietà e di breve durata nel tempo.
Prendiamo, ad esempio, tutte le “installazioni” che si vedono oggi nelle mostre, gli “art video”, che
concentrano tutto il mondo dell’artista in pochi minuti e in altrettanto poco tempo scompaiono;
l’utilizzo di materiali “poveri”, degradabili, friabili, deperibili, come cartone, stracci, carta, che non
resistono al tempo; gli interventi sulla natura, magari realizzati solo per poter scattare delle foto
dall’alto; i dipinti realizzati con vernici non resistenti, le immagini che svaniscono sui computers
…………
I padroni dell’agricoltura
Se, dall’arte, passiamo a considerare l’agricoltura, notiamo come, con le tecnologie e le macchine
agricole, portate dalla globalizzazione, l’agricoltura, oggi, produce sempre più cibo, occupando sempre
meno personale. E i guadagni non ricadono sul territorio.
Di conseguenza, la maggior parte della popolazione agricola, che ha perso il lavoro, e non ha altra
specializzazione lavorativa, va a costituire le baraccopoli, che sorgono intorno alle grandi città.
Fuori, nelle baracche, vive un numero enorme di abitanti privi di qualsiasi forma di reddito.
Dentro, in città, si reagisce a questa situazione, concentrandosi sulla propria sicurezza personale e
domestica.
L’incubo della sicurezza
Si mettono in atto sofisticati sistemi di protezione domestica, con telecamere, antifurti, rivelatori di
presenza.
Si paga la vigilanza privata, oppure si va ad abitare in una “gated community”, centri residenziali
cintati da un alto muro, con accessi sorvegliati da guardie armate, che pattugliano 24 ore su 24 il
quartiere. In questa situazione, c’è chi va a lezione di arti marziali, chi frequenta il poligono di tiro, chi
si mette indumenti protettivi, come certi scarponi americani. Se si esce in macchina, con la paura degli
altri, allora bisogna scegliere il SUV più grosso, pesante, potente, climatizzato, corazzato, dotato di
ogni sistema di sicurezza attiva e passiva. E se consuma tanto, e inquina, pazienza.
Di fronte alla paura di un cambiamento sociale, inarrestabile e imprevedibile, alla ricerca di qualcosa
di stabile, seguendo quelli che Freud chiamava “fenomeni di spostamento”, si conducono battaglie
contro il fumo delle sigarette, i fast food, l’obesità, l’uso dei preservativi, l’esposizione al sole, il
colesterolo ………
Villaggio globale e spazio pubblico
Il “villaggio globale”, che ipotizzava Marshall McLuhan, non si è ancora realizzato. In compenso, le
città della terra si globalizzano e diventano sempre più simili.
Lo spazio e l’arredo pubblico delle città, sono “vittime collaterali” della globalizzazione e subiscono
un po’ ovunque limitazioni dovute alla paura degli altri: in molti parchi degli Stati Uniti, le panchine
sono a forma circolare, per impedire che i barboni ci possano dormire; oppure, dopo la chiusura del
parco, si possono azionare getti d’acqua che spruzzano tutte le panchine impedendone l’uso.
Già nel 1990 Richard Rogers, uno dei più famosi architetti britannici, scriveva: “Se proponiamo un
progetto ad un investitore, ci chiederà subito: “A che servono gli alberi e perché mettere dei portici?”.
Agli investitori interessa solo lo spazio destinato ad uffici o abitazioni. Se non riusciamo a garantire
che l’edificio sarà ammortizzato entro dieci anni, è inutile fargli proposte.”
Lo spazio pubblico dell’antica Grecia, la piazza (agorà) dove si svolgeva la vita sociale della città,
rischia di diventare, come diceva l’architetto sudafricano Jonathan Manning, “spazio inutilizzabile tra
sacche di spazio privato”. In città come queste, “le interfacce tra sfera pubblica e spazi privati, sono
costituite solo dalle vetrine dei negozi o dai complessi meccanismi difensivi per tenere a distanza il
prossimo: portinerie, muri, filo spinato, recinzioni elettriche.”
Paura e sperequazioni
Viviamo quindi in una società impaurita, che propone solo il consumo come ideale di vita. In questo
contesto, vengono creati sempre nuovi bisogni e vengono alimentati desideri che possano essere
provvisoriamente soddisfatti solo con beni di consumo.
Il consumismo attuale, scrive Bauman, “è un’economia basata sull’inganno, sull’esagerazione e sullo
spreco, che non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute,
l'unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza.”
Ed ancora: “La società di oggi interpella coloro che ne fanno parte, soltanto in quanto consumatori. La
sindrome consumista si basa sulla velocità, sull’eccesso, sullo scarto.” Compro e butto via;
destinazione finale dei miei acquisti: pattumiera.
Amore liquido
Se tutto è incerto e provvisorio, gestire un legame affettivo di lunga durata diventa un’impresa. La crisi
del settimo anno di matrimonio è qualcosa che appartiene al passato. Negli Stati Uniti, la punta delle
separazioni, viaggia ormai intorno ai diciotto mesi – due anni dal matrimonio. Questa società non
insegna la pazienza, il sacrificio, la mediazione, lo sforzo costruttivo. Certo, liberarsi di un partner è
molto più straziante, che far fuori un vecchio PC o cambiare la macchina, ma la mentalità è quella del
tutto e subito, e poi di nuovo tutto e subito.
Anche le amicizie richiedono costanza e impegno; in un momento come questo, avere degli amici
diventa sempre più prezioso. Ma, in una società liquida, dove tutto cambia in fretta e il lavoro
costringe le persone a frequenti cambi e spostamenti, mantenere viva un’amicizia diventa molto
difficile, in certi casi impossibile.
La cura del corpo
Per distrarsi da queste ed altre sofferenze molte persone si dedicano alla cura del proprio corpo, oggi
più che nell’Antica Grecia. Il proliferare di terme, SPA, wellness center, palestre, saune, centri di
massaggio, assieme ai volumi di vendita dei prodotti dedicati alla cura del corpo e alla bellezza , ne
sono la prova. Osserva Bauman: “Nella società dei consumatori, la fitness sta al consumatore come la
salute stava al produttore nella società dei produttori.” Salute e fitness, tuttavia, non sono obiettivi che
possano essere raggiunti una volta per sempre, ma rappresentano un impegno che dura per tutta la vita,
e che produce, in molte persone, un’ansia che non riesce a spegnersi, se non provvisoriamente. Su
questi timori si innestano le azioni pubblicitarie di esperti di marketing, che cercano di pilotare l’ansia,
della donna e dell’uomo di oggi nei confronti del proprio corpo, come qualcosa di risolvibile, magari
con un bagno turco in una SPA di lusso.
A chi troppo ……
L’attenzione, a questo punto, si sposta sulla alimentazione.
La questione “grasso o magro”, è strettamente legata alla promozione del corpo del consumatore,
come obiettivo centrale del marketing.
Anoressia e bulimia, in questo contesto, possono essere viste come caratteristiche della società dei
consumi.
La percentuale degli obesi negli Stati Uniti non accenna a calare. Il New York Times ha definito,
recentemente, la guerra contro l’obesità come “la guerra culturale del nuovo secolo”.
Avere un figlio oggi
In questa trasformazione permanente, nella società occidentale, opulenta e liquida, anche il concetto di
maternità e il desiderio di avere figli subiscono dei cambiamenti.
Viene affermata la morte del “mito della maternità”, e si mette in luce il costante, faticoso impegno,
che pesa sulle spalle di chi si occupa di bambini.
La donna che lavora, la “donna in carriera”, oggi, ha poco tempo a disposizione ed é molto lontana
dall’immagine del passato di “regina della casa”, “angelo del focolare”, “casalinga” più o meno
“disperata”.
Fare un figlio e seguirlo è un impegno a lunga scadenza, ben diverso dalla soddisfazione immediata di
un desiderio, come ci viene proposto dalla pubblicità. Bauman lo paragona a firmare un assegno in
bianco o prendersi la responsabilità, per cose che non si conoscono, e non sono prevedibili. A livello
finanziario, avere un figlio significa quasi sempre una perdita di reddito, associata ad un grosso
aumento delle spese familiari.
Bambini: futuri consumatori
I bambini di una volta, considerati “il futuro della nazione”, venivano educati per la continuità dello
Stato nel quale vivevano. Dovevano diventare cittadini responsabili, partecipare al processo produttivo
oppure difendere lo Stato servendo sotto le armi.
Il destino dei bambini di oggi è diventare dei consumatori sempre più precoci.
L’attività di marketing, rivolta ai bambini, tende a trasformarli in “decisori informati”, dotati di
conoscenza dei prodotti, che possano pilotare gli stessi genitori negli acquisti.
Lavoro provvisorio e formazione permanente
Se consideriamo, adesso, il mondo del lavoro nella società liquida rileviamo anche in questo campo i
continui cambiamenti prodotti dalla globalizzazione del mercato dei consumi. Jacek Wojciechowski,
esperto di insegnamento universitario, nel 2004, osservava: “Una volta la laurea offriva un
salvacondotto per esercitare la professione, sino all’età della pensione: ma questa ormai è storia. Al
giorno d’oggi, la conoscenza deve essere continuamente rinnovata, e anche le professioni devono
cambiare.” La necessità di acquisire sempre nuove conoscenze, per poter galleggiare sul mondo del
lavoro, unita al rapido invecchiamento delle tecniche di ieri, producono ignoranza e alimentano il
mercato dei vari “corsi professionali” e “di aggiornamento”. Il concetto di “lifelong education” o
“educazione permanente”, è frutto di questa situazione e tende a diventare una necessità per la gran
parte delle categorie lavorative.
Il rischio costante, che ne deriva, è quello di essere “esclusi dal gioco” e “buttati fuori bordo”, di subire
la perdita del lavoro, sia a livello individuale che come azienda. Tutto questo alimenta l’ansia di
vivere.
Se poi si considera questo fenomeno su scala mondiale, rileviamo che è su questa base che si fonda la
differenza tra Terzo Mondo e Mondo Occidentale.
Quante più conoscenze, tecniche soprattutto, saranno necessarie per affrontare il mondo del lavoro,
tanto più si allargherà il gap tra i due mondi, creando e aumentando ingiustizie sociali, con tutti i
possibili, devastanti, effetti collaterali.
Istruzione pubblica vs. privata
Il discorso diventa politico e si concentra sulla scelta se gestire l’istruzione a livello statale o lasciarla
al mercato “privato e libero”. Quest’ultimo è rappresentato dalle scuole professionali e di
specializzazione, gestite come aziende, senza nessuna “mission” sociale.
Negli Stati Uniti, solo il 19 % di coloro che appartengono alle classi sociali meno abbienti, riesce a
completare i propri studi e ottenere un diploma. Se invece osserviamo classi sociali con maggiore
reddito, questa percentuale sale al 80 %.
Se il “mercato dell’insegnamento” viene affidato alle scuole private a pagamento, e lo Stato non
interviene, assisteremo ad un sempre maggiore aumento delle ingiustizie sociali e di tutte le tensioni
che ne derivano.
Empowerment
Contro questo fenomeno dell’ignoranza, che produce poi abbandono della sfera politica, la
Commissione delle Comunità Europee, già nel 2001, ha ribadito la necessità di creare, a livello dei vari
Stati, sotto la gestione dei diversi Ministeri dell’Istruzione, uno spazio dedicato all’apprendimento e
all’aggiornamento. Questo impegno dei singoli Stati sarà coordinato dalla Comunità Europea, che lo
manterrà tra i suoi obiettivi prioritari. Una gestione pubblica dell’istruzione, realizzata in un contesto
europeo democratico, produce il cosiddetto “enablement” o “empowerment”. Secondo Bauman, “un
autentico empowerment, richiede che si acquisiscano non solo le abilità necessarie, per giocare con
successo un gioco progettato da altri, ma anche dei poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le
regole del gioco: non solo le abilità personali, ma anche i poteri sociali.
(…………) L’empowerment è la ricostruzione dello spazio pubblico progressivamente abbandonato,
in cui gli uomini e le donne possano impegnarsi, in una continua traduzione tra ciò che è individuale e
ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri, privati e pubblici.”
Per Bauman, se la sfera pubblica e sociale deve rinascere nel mondo occidentale, oltre alle abilità
tecniche, abbiamo fortemente bisogno di “capacità di interazione con gli altri – di dialogo, di
negoziato, di raggiungimento della comprensione reciproca e di gestione o risoluzione dei conflitti,
inevitabili in ogni situazione della vita collettiva.” Dobbiamo cioè acquisire delle competenze in
materia di cittadinanza attiva.
Il consumatore è nemico del cittadino
Ma, osserva Bauman: “Il consumatore è nemico del cittadino (………) e, ovunque, nella parte
sviluppata e opulenta del pianeta, si moltiplicano i sintomi dell’allontanamento delle persone dalla
politica, della crescita della apatia e del calo di interesse per il funzionamento del processo politico.”
“Il mondo vuole essere ingannato”, scriveva Theodor W. Adorno, ma la democrazia è in pericolo,
quando i cittadini non riescono a tradurre le proprie ansie e difficoltà personali, sotto forma di azioni
democratiche collettive e preoccupazione a livello pubblico e politico.
Parafrasando una frase di Pierre Bordieu, colui che non comprende il presente, non può pensare di
controllare il futuro. Dobbiamo imparare a pensare in modo diverso, da come siamo stati abituati
finora.
Mercato globale
I mercati dei capitali e delle merci si sono trasferiti in “un nuovo spazio, socialmente extraterritoriale”,
ben più forte dello spazio del singolo Stato Nazione, e per affrontare questa nuova situazione sono
necessari strumenti diversi da quelli finora adoperati.
Altrimenti, per la maggior parte dell’umanità, la globalizzazione significherà un netto e progressivo
deterioramento delle condizioni di vita, accompagnato da continua insicurezza e ansia esistenziale.
Nuove soluzioni
Le condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità non sono più divisibili e gestibili a livello
locale o statale. Se le nostre difficoltà sono originate da problemi planetari, sono necessarie soluzioni
planetarie.
Lo spazio pubblico dello Stato Nazione è stato allargato a tutto il mondo: come osserva Bauman, “il
dramma contemporaneo è vasto come l’umanità, clamorosamente e decisamente globale”.
A questa situazione si può opporre la logica della “responsabilità planetaria” che, per Bauman,
significa “il riconoscimento del fatto che tutti noi, che viviamo su questo pianeta, dipendiamo gli uni
dagli altri, per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, oppure omettiamo di
fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e
trovare un riparo privato, dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo”.
E’ quindi indispensabile creare un nuovo tipo di “cornice globale”, che impedisca alle iniziative
economiche, in qualsiasi luogo sulla Terra, di seguire soltanto il profitto, ignorando gli effetti e i danni
collaterali e trascurando l’impatto sociale dell’equilibrio costi e risultati.
Come sarà questa nuovo modo di pensare? Secondo Bauman “non possiamo conoscere i contorni e la
forma che assumerà. Tuttavia possiamo essere certi che la forma non ci apparirà familiare. Essa sarà
diversa da tutto ciò che per noi è consueto”.
http://www.liberamentemagazine.org/Vita%20Liquida.htm
BENEDETTO VECCHI
Nella morsa della comunità
Le élite globali costruiscono le loro enclave dorate, il "dominio della flessibilità" alimenta le politiche
di apartheid per lo "straniero in casa" e la società capitalistica è ridotta a un enorme ghetto. Il nuovo
libro di Zygmunt Bauman edito da Laterza
Calda, accogliente, rassicurante come solo le braccia dell'amante o del genitore possono essere. Ma anche
artificio che cancella la singolarità in nome di una presunta omogeneità sociale e culturale. Sono questi
alcuni dei sentimenti che suscita la comunità, termine così
controverso da originare, appena si ritorna con la memoria agli orrori compiuti in suo nome, rigetto, rifiuto.
O, all'opposto, vissuta come la stella polare che guida l'attraversamento di un deserto chiamato vita. Di
questa ambivalenza è consapevole Zygmunt Bauman che alla comunità dedica alcuni saggi raccolti nel
volume da poco pubblicato da Laterza con il titolo Voglia di comunità (pp. 145, L. . 24.000), che tradisce
però non poco la lapidaria sentenza che accompagnava la pubblicazione in inglese del libro. E' cosa infatti
diversa parlare di un oggetto desiderato o argomentare sulla comunità scomparsa, come recitava il titolo
originale in inglese. (Per il resto la traduzione di Sergio Minucci è impeccabile, e la lettura del libro scorre
piacevolmente come negli ultimi anni raramente accade per molta della saggistica tradotta). Resta
inconfutabile che "scomparsa della comunità" restituisca meglio lo spirito del libro. Da una parte c'è la
sottolineatura in positivo di una forma di organizzazione sociale; dall'altra il semplice riconoscimento che la
comunità non esiste, né è forse mai esistita.
Bauman, infatti, sostiene che la comunità è da sempre il risultato di una produzione sociale di "significati",
perché di essa, in natura, non c'è mai stata traccia. Allo stesso tempo c'è da aggiungere che il termine ha
acquisito una pregnanza teorica e quindi politica solo nei momenti di passaggio della modernità. A quel
presunto insieme organico di comportamenti
e stili di vita ci si è infatti rivolti solo quando è risultato difficile "sentirsi in società".
Maliziosamente, ma non troppo, si potrebbe altresì affermare che la comunità entra in
scena come reazione a una modernità che spazza via consuetudini e rapporti sociali in cui
la polarità e l'oscillazione tra "varietà" e "identicità" era regolata dallo scettro di un
imperatore o dalla tiara di un papa.
Né si può parlare di una comunità originaria dei naufraghi dello sviluppo capitalista, come invece
suggeriscono alcuni critici del mercato mondiale. Nel pieno della rivoluzione
industriale, il generale Ludd e Captain Swing a capo dell'esercito luddista non invocano la
comunità, ma l'"identicità" di una condizione materiale contrapposta alla "identicità" della
moderna società capitalista. Di questo impossibilità nell'individuare nella resistenza degli
"oppressi" la culla politica della comunità è del resto consapevole Zygmunt Bauman, che
alla nascita del movimento operaio ha dedicato uno dei suo libri più belli (Memorie di
classe, Einaudi). E pur tuttavia la fondazione teorica della comunità inizia proprio in quello stesso periodo.
Basta rileggere alcune pagine de La divisione del lavoro sociale di Emile Durkheim o di Comunità o società
di Ferdinand Toennies, libri tra loro molto diversi, ma concordi nel distinguere due diverse organizzazioni
sociali, dove la comunità è individuata come un modo di vivere associati precedente alla società moderna.
Ma se per Durkheim è vitale individuare e distinguere le diverse modalità di integrazione sociale, per il
fondatore della "Società sociologica tedesca" alla cesura operata dallo sviluppo capitalistico è comunque da
contrapporre una gemeinschaft che semplifichi e riduca al minimo la "varietà", elaborando
contemporaneamente lo statuto teorico e politico della "identicità". Il motto nazista di "suolo e sangue" trova
quindi le sue radici proprio nell'idealizzazione di una comunità che ha nella mitologia celtica e in quella
nibelunga le sue fondamenta. Argomento questo già affrontato da Bauman nel suo Modernità e Olocausto (Il
Mulino), quando spiega la Shoah come frutto del terribile matrimonio della "comunità di popolo" e della
moderna burocrazia.
Termine dunque negativo, ma sempre interrogato, quasi sempre per decretarne l'inapplicabilità. Ad esempio,
Jean Paul Sartre, rileggendo il Sessantotto parigino, preferisce illustrare il tormentato cammino dalla "serie"
al "gruppo" per evidenziare un senso di appartenenza dove la singolarità - che nel linguaggio di Bauman
trova nella "varietà" l'ambito dove manifestarsi - possa essere valorizzata senza cadere nella camicia di forza
della comunità. Oppure la sua demistificazione operata da Maurice Blanchot ne La
comunità inconfessabile, che vede nel gruppo fusionale il passaggio obbligato della rivolta
contro la società di massa. Infine la provocazione di Jean-Luc Nancy, che ne La comunità
inoperosa afferma che si potrà parlare senza reticenze di comunità solo quando il regime
del lavoro salariato sarà corroso dall'irruzione in società di una singolarità desiderante.
In questo libro di Bauman prevale però l'urgenza politica di svelare il carattere strumentale
della comunità, specialmente se messo in relazione con la convergenza tra la politica
dell'identità e i processi di globalizzazione economica. Si invoca la comunità perché il
"dominio della flessibilità" aumenta il sentimento di incertezza, afferma il sociologo di origine polacca. E per
sentirsi al sicuro dall'inquietante "desiderio proteiforme del molteplice" insito nella globalizzazione si mette
in conto financo la perdita della libertà. Temi già trattati da Bauman in quasi tutti i suoi libri a partire da Le
sfide dell'etica (Feltrinelli), quando la "sensibilità postmoderna" è vista come fuga dalla responsabilità da
quella "riflessività" insita nella modernità capitalistica. Solo così si spiega La decadenza degli intellettuali,
che abdicano al ruolo tradizionale di "produttori di significati" socialmente condivisi. (Per estenzione si può
affermare che il conflitto sociale e di classe sono per Bauman espressione della riflessività del Moderno).
E' quindi con la globalizzazione che la comunità ritorna in scena. Di questo relazione causa effetto Bauman è
attento osservatore. Ma se la globalizzazione produce sradicamento, incertezza e insicurezza e senso della
precarietà, le idee di comunità proposte sono delle "grucce" per sorreggere il "cittadino globale". La fobia per
il molteplice che accompagna la politica delle identità, quest'ultima da intendere come autocostruzione e
autoaffermazione, è però destinata a naufragare contro l'unica vera comunità esistente. Può sembrare un
paradosso quello di Bauman, che per gran parte del libro sottolinea l'inconsistenza teorica della comunità, e
poi presentarne una. Ma se seguiamo il suo pacato ragionamento, scopriamo che l'autore ha in mente le élite
globali, che godono di extraterritorialità e sfuggono perciò a ogni possibile regolamentazione del loro
operato. Siedono sicuramente nei piani alti delle imprese transnazionali; abitano ovviamente nelle enclave
fortificate delle città globali; fanno del "desiderio proteiforme" la linea di condotta nel rapporto con gli altri.
Ma per fare tutto ciò devono instaurare un vero e proprio "stato di sicurezza nazionale" che garantisca la
riuscita della loro "fuga dalla società" nutrendosi al tempo stesso proprio dalla idea di una comunità che
cancella le differenze e che fa della segregazione dello "straniero in casa" la misura politica della sua
legittimazione.
La comunità è quindi un termine squisitamente politico che legittima l'extraterritorialità delle élite globali e
trasforma la società in un "ghetto volontario" in cui lo "straniero in casa" è proiezione e quindi capro
espiatorio del sentimento di incertezza e della precarietà
- cioè della deregolamentazione del mercato del lavoro e della demolizione del welfare
state - che accompagnano la globalizzazione. Una lettura delle vicende americane e europee meno avvelenata
dalla contingenza potrà rintracciare molti dei temi dominanti la
discussione pubblica. La sicurezza della città, del quartiere, della strada, del condominio è l'argomento delle
élite globali per costruire uno "stato di sicurezza nazionale". Si può chiamare "tolleranza zero"
"conservatorismo compassionevole" o "città sicure", ma sono tutte variazioni sullo stesso tema. Bauman non
è certo un radical che pensa a un sovvertimento dello status quo. E' però indubbio che, da Le sfide dell'etica
fino a questo Voglia di comunità, la sua ricognizione del presente è sicuramente una denuncia dello
scadimento della sfera pubblica. Ma anche, e sopratutto, una amara e disincantata ricognizione delle nuove
forme di potere nella società capitalistica, dove la rinuncia alla
libertà insita nell'idea di comunità torna ad occupare un posto d'onore.
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/rassegna/010531.htm
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