UMBERTO GALIMBERTI UNO STUDIO DI ZYGMUNT BAUMAN Mercato e libertà, la società degli incerti Zygmunt Bauman, "La società dell'incertezza", Il Mulino, pagg. 150, lire 18.000 Esattamente settant'anni fa Freud scriveva ne Il disagio della civiltà (1929) che: "L'uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po' di sicurezza". "Felicità" è per Freud l'esercizio della libertà e prima di tutto della libertà individuale di procurarsi piacere. Oggi questa libertà regna sovrana. La deregulation, che è la sua traduzione in soldoni, non è solo il principio che si va affermando nella produzione, negli scambi commerciali, nelle organizzazioni, ma anche il principio a cui si ispirano i comportamenti individuali e quelli collettivi. Non c'è norma, non c'è decisione sovraindividuale che possa affermarsi senza confrontarsi con la libertà individuale, un tempo guardata con sospetto perché ritenuta per l'ordine sociale autodistruttiva. Oggi non è più così: uomini e donne scambiano una parte della loro sicurezza per un po' di felicità. E se al tempo di Freud il disagio nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità individuale, oggi sembra che il disagio nasca da un genere di libertà che, nella ricerca del piacere e della felicità, assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale. Del resto ogni valore acquista rilevanza quando, per ottenerlo, si devono abbandonare e sacrificare altri valori. Non ci sono guadagni senza perdite, e perciò se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguono la sicurezza, l'insonnia e gli incubi disturbano le notti di chi persegue la libertà. Nasce così quella che Zygmunt Bauman, professore di Sociologia all'Università di Leeds, chiama La società dell'incertezza (Il Mulino, pagg. 150, lire 18.000), dove nulla è stabile in modo permanente, per cui il perdente può dire che non tutto è ancora perduto, mentre il vincente sa che ogni successo tende ad essere precario. Questo messaggio ambivalente è iscritto nel collasso dell'ordine, avvenuto a tutti i livelli immaginabili globale, nazionale, istituzionale, ambientale - , e le "leggi di natura", sia nel modo di generare i figli sia nel modo di preparare gli alimenti, sono state sostituite dalle "leggi del mercato" che a loro volta hanno spodestato le "leggi della politica" in nome delle "leggi del progresso" che poggiano su quell'universo di mezzi (la tecnica) che non ha in vista alcuno scopo. In questo mare di incertezza, dove tutti navighiamo a vista, e dove non sembra profilarsi alcun orizzonte stabile, sorge inevitabile la domanda che chiede: tutto questo è un bene o è un male? È un bene se tutto ciò significa la morte di Dio e la fine della persuasione di essere in possesso dell'unica e sola verità (espressione questa un po' pleonastica perché è implicito nel concetto di verità la falsità di ogni altra convinzione, così come è una contraddizione in termini parlare di verità al plurale). Eppure capita ancora di sentire che: "Se Dio non esiste, allora tutto è permesso", anche se la storia insegna che si è verificato proprio l'opposto, non essendoci crudeltà e atrocità anche efferata che non possa essere commessa in suo nome, come le atrocità dei conquistatori degli infedeli, dei cardinali della Santa Inquisizione, dei leader delle guerre di religione, mentre è difficile individuare un solo atto di crudeltà perpetrato in nome della pluralità e della tolleranza. Proprio nella battaglia contro l'unicità della verità o l'unicità di Dio, in nome del quale gli uomini che perpetuano crudeltà non si riconoscono alcuna responsabilità, proprio in questa battaglia l'uomo ha potuto affermarsi come soggetto morale e come soggetto responsabile. Infatti, se il monoteismo significa mancanza di libertà, la libertà che nasce da una realtà politeista (qual è quella di oggi, dove nel bene e nel male siamo costretti a confrontarci con diverse culture, diverse idee, diversi usi e costumi) non implica il nichilismo come sostengono i suoi detrattori. Essere libero, infatti, non significa non credere a nulla, ma riporre la propria fiducia in molte cose, troppo numerose per il conforto spirituale di una cieca obbedienza, ma essenziali per una scelta responsabile e tollerante fra di esse. La voce della coscienza è la voce della con-scienza che tien conto dell'uno e dell'altro, nella discordanza dei suoni dissonanti. Il consenso, l'unanimità e persino la "comunicazione perfetta" indicata da Habermas sono il cimitero della responsabilità e della libertà, il cui esercizio non è un compito facile, non solo perché introduce il tormento della scelta (che implica sempre una perdita e un guadagno), ma perché comporta la perenne preoccupazione di aver compiuto o di essere in procinto di compiere un errore. E questo spiega perché spesso la libertà è usata proprio per fuggire dalla libertà, dalla fatica di dover sostenere la propria posizione, magari affidandosi senza riserve a qualcuno che sa vendersi come possessore della giusta scelta. E anche se questi carismatici detentori della giusta scelta sostengono la libertà individuale come il nodo scorsoio sostiene l'impiccato, c'è chi comunque trova vantaggioso continuare ad alimentare questo terribile sogno. Se dunque da un lato è bene vivere nella libertà, e quindi nell'incertezza che la libertà comporta, perché il suo esercizio esige in ogni caso una deregulation delle norme che garantiscono la sicurezza, dall'altro non dobbiamo diffondere un concetto troppo rozzo di libertà, come spesso ci capita di sentire da chi fa uso e abuso di questo concetto per la sua propaganda. E qui il discorso si fa subito politico, economico, e quindi concreto. Una conseguenza universalmente riconosciuta della progressiva emancipazione della libertà individuale è infatti la divisione che si fa sempre più profonda tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più esclusi dal banchetto del consumismo. Ciò comporta, come linea di tendenza, la "degradazione" del povero e di conseguenza la sua "medicalizzazione" e la sua "criminalizzazione", come avveniva nel secolo XIX, prima dell'avvento dello "stato sociale". Tagliare le spese per lo stato sociale significa quindi aumentare quelle per la polizia, per le prigioni, per i servizi di sicurezza, per le guardie armate, per i sistemi di allarme, e ridefinire la povertà come problema medico-legale o come problema di ordine pubblico. A ciò si deve aggiungere che chi è escluso o si trova sulla soglia dell'esclusione viene sospinto a forza e saldamente rinchiuso all'interno di muri invisibili, ma del tutto tangibili, che dominano i territori dell'emarginazione, aumentando considerevolmente la sensazione dell'insicurezza e dell'incertezza. Se restringere la libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero, la strada dei tagli allo stato sociale può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi, perché, stravolgendo l'equilibrio tra i due versanti della libertà, fa sì che in qualche luogo, in qualche strada, in qualche rione, in qualche città, in qualche ora del giorno e soprattutto della notte, il piacere della libertà si dissolve nella paura e nell'angoscia. Una conferma tangibile che la libertà di chi è libero richiede, per il suo esercizio, la libertà di tutti. Se appena ci emancipiamo dalla concezione rozza della libertà, quale ad esempio viene propagandata dalla nostra destra, non possiamo non renderci conto che la libertà è da subito una relazione sociale, perché se cresce a dismisura il numero dei senza dimora disagiati, anche le dimore dei più agiati non sono più tanto sicure. Se ne deduce che la libertà individuale (che oggi appare come il valore supremo e il metro in base al quale ogni virtù e ogni vizio della società intera va valutato) non si raggiunge con gli sforzi individuali, ma solo creando le condizioni che estendono tali possibilità a tutti. Un compito questo che non è possibile perseguire individualmente, magari con la beneficenza organizzata o la carità all'angolo della strada, ma unendo le energie di tutti in quell'impresa comune che si chiama: comunità politica, la sola che può garantire non solo i diritti di libertà, ma soprattutto la perpetuazione delle condizioni per l'esercizio di questi diritti. La società dell'incertezza, che abbiamo preferito alla società della sicurezza, perché sembra più idonea a garantire i diritti di libertà e quindi di felicità, è in grado di produrre da sé deregulation e privatizzazione sulla spinta esercitata dal mercato globale, ma non è in grado di generare da sola, cioè senza intervento politico, la solidarietà che, come abbiamo visto, ma come la nostra destra ancora non vede quando si sciacqua la bocca con la parola libertà, è condizione essenziale per l'esercizio della libertà. E qui vengono in mente le parole di Albert Camus: "C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi". Non leggiamo questa espressione come un pio desiderio, o un bisogno del cuore. La "fedeltà selettiva" alla sola bellezza, alla sola libertà, alla sola felicità individuale, per il nesso strutturale che lega la fruizione di questi valori alla solidarietà, da sola non è in grado neppure di difendere ciò che vorrebbe garantire. http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/990701a.htm GIOVANNA PAJETTA La voglia matta di costruire ancora comunità Zygmunt Bauman, «Voglia di comunità», Editori Laterza, Bari 2001 pagg. 142. Un tetto sicuro, un cerchio caldo e protettivo capace di trasformarsi però in una fortezza assediata e soffocante, in un mondo di identici in perenne lotta contro i diversi, gli estranei. Ma anche, per usare le parole di Zygmunt Bauman, «un sogno che non smetteremo mai di sognare». La comunità, il suo fascino e i suoi orrori, è la protagonista del nuovo saggio del sociologo, e filosofo polacco. Presa di mira, fin dal loro sorgere, dagli stati nazionali, e all'apparenza destinata oggi a soccombere sotto i colpi di grazia del flessibile e interconnesso mondo della globalizzazione. Ma non è così, dice Bauman, perché dietro quel senso di "mancanza", di nostalgia che permane in tutti noi (non a caso il titolo originale del libro è Missing Community) c'è un nodo inconciliabile della modernità. Il conflitto interiore a cui è costretto l'individuo che la abita, spinto ogni giorno a barattare la sicurezza per la libertà, e viceversa. O meglio ancora, a oscillare come un pendolo, nella speranza di raggiungere l'agognato equilibrio tra due elementi «senza i quali l'esistenza umana è assai dura da sopportare». Libro breve, compatto, intriso di passione intellettuale e politica, Voglia idi comunità prende le mosse proprio là dove si erano fermati i saggi precedenti. Perché è dalla triste «solitudine del cittadino globale» che nascono in realtà i nuovi tentativi (e fallimenti) del comunitarismo. Diversi dalle piccole, autosufficienti, e oggi impensabili, comunità contadine raccontate da Robert Redfield, ma non meno cocciutamente perseguito. Visto che persino le «elítes extraterritoriali» del mondo globalizzato finiscono poi per sentire «precaria e a volte spaventosa la vita vissuta in assenza di comunità». Di qui nascono però realtà effimere, come le «comunità estetiche» dei fan club delle rockstar, le miriadi di «comunità dei sogni», piccole creature frutto di «aggregazioni di anime solitarie», e le «comunità gruccia» destinate a durare, come le fragili identità di chi le costruisce, lo spazio di un mattino. Zygmunt Bauman non si limita però a disegnare un ritratto impietoso dei vani tentativi di chi ora, dopo ave rifiutato le chiavi di volta della solidarietà e della fraternità, si arrabatta e inventa impossibili sensi di appartenza. Si spinge più in là, indicando la strada su cui bisognerebbe avere oggi il coraggio di incamminarsi. Sapendo che indietro non si torna e cercando di coniugare due mondi che sono andati sempre più separandosi tra loro, quello delle battaglie di un tempo per l'uguaglianza sociale e quello delle attuali «guerre di riconoscimento». Nate dalla rivendicazione delle differenze e delle identità che da queste scaturiscono, ma viziate da una concezione dei diritti umani intesi come beni da godere ognuno per sé. Guerre legittime dunque, ma capaci solo, se lasciate a se stesse, di produrre un miriade di comunità chiuse, se no addirittura nemiche l'una dell'altra. Perché, sostiene Bauman citando l'americana Nancy Fraser, è proprio dalla frattura tra «politica della differenza e politica sociale dell'uguaglianza» che nasce il fondamentalismo del "politically correct". O quella trasformazione del «diritto alla differenza» in «diritto all'indifferenza» che oggi prende il nome di multiculturalismo, Nuovo razzismo, mistificazione conservatrice, parodia di un mondo che non si sa e non si vuole cambiare. L'attacco di Bauman al "nuovo culturalismo", e ai suoi intellettuali, è violento. Ma motivato. Perché dietro di esso si nasconde quel "disimpegno" delle classi colte che ha portato alla scomparsa, o messa tra parentesi della "società", lasciando che al suo posto nascesse per l'appunto un mondo in cui, come dice Alain Tourain, il multiculturalismo prende l'aspetto nocivo del multicomunitarismo. Certo, la soluzione non è dietro l'angolo, ammette per primo Bauman. Ma l'unica via è cercare di costruire quella «società autonoma» di cui parla Castoriadis, capace di difendere l'individuo cittadino sia dalle pressioni comunitarie che da quelle anticomunitarie. Nella convinzione che oggi più che mai «la ricerca di una umanità comune è urgente e imperativa». http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/010624f.htm [Recensioni] Zygmunt Bauman La solidudine del cittadino globalizzato Alle glorie della nuova era globale si contrappone la solitudine dell'uomo comune: la socialità è incerta, confusa, sfocata. Si scarica in esplosioni sporadiche e spettacolari per poi ripiegarsi esaurita su stessa. Per porre un freno a questo processo occorre ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato si connettono: l'antica agorà, in cui la libertà individuale può diventare impegno collettivo. Il libro In un mondo senza alternative, in marcia verso un'unica società globale, tutto ciò che conta nella vita amicizie, amori, aspirazioni - appare transitorio, fuggevole, vulnerabile, incerto. L'interrogativo fondamentale di questo libro è se e come sia possibile rimettere in comunicazione vita privata e mondo pubblico. Bauman vuole dimostrare che la percezione della precarietà di tutto ciò che conta nella vita privata delle persone è connessa all'assenza di uno spazio in cui costruire un mondo comune per difendersi attraverso l'impegno collettivo dall'espropriazione di diritti e risorse personali. Bauman identifica questo spazio nell'antica agorà, dove le afflizioni private sono convertite in questioni pubbliche, cioè nella ricerca di strumenti collettivi per sollevare gli individui dalla miseria subìta privatamente. È qui che è dato ritrovare le "tracce della politica", ridefinita come "arte di tradurre" il privato in pubblico, seguendo le quali si perviene a una rilettura del ruolo che le istituzioni dovrebbero svolgere in una società di individui autonomi, cioè liberi e responsabili. L'introduzione: Le credenze non devono essere coerenti per essere accettate. Le credenze generalmente accettate al giorno d'oggi - le nostre credenze - non fanno eccezione. Certamente, noi consideriamo la libertà umana, almeno nella "nostra parte" del mondo, un fatto ovvio e (salvo qualche lieve correzione da apportare qua e là) una questione risolta nel modo più soddisfacente possibile; in ogni caso, non sentiamo il bisogno (di nuovo, a parte la blanda irritazione che ci prende ogni tanto) di scendere in piazza per rivendicare ed esigere una libertà maggiore o più completa di quella che ci sembra di possedere già. D'altro canto, tendiamo a credere con uguale fermezza di non poter fare molto - individualmente, con alcuni altri o tutti insieme - per cambiare il modo in cui vanno o sono fatte andare le cose nel mondo; inoltre, siamo convinti che, se anche riuscissimo a produrre un cambiamento, sarebbe vano, per non dire irragionevole, elaborare insieme l'idea di un mondo diverso da quello esistente e, qualora lo considerassimo migliore di quello in cui viviamo, impegnarci a fondo nella sua costruzione. Come si possa credere l'una e l'altra cosa al tempo stesso è un mistero per chiunque sia avvezzo a ragionare in termini logici. Se la battaglia per la libertà è stata vinta, come si spiega che la capacità umana di immaginare un mondo migliore e di fare qualcosa per migliorarlo non è tra i trofei di quella vittoria? E ancora, che genere di libertà è quella che frustra l'immaginazione e tollera l'impotenza delle persone libere nelle questioni che le riguardano? Le due credenze non sono coerenti tra loro, ma prestar fede a entrambe non significa mancare di logica. Esse non sono il frutto della nostra immaginazione. Ciascuna delle due trova ampio sostegno nella nostra esperienza comune. Nel momento in cui crediamo a ciò che facciamo siamo profondamente realistici e razionali. È dunque importante sapere perché il mondo in cui viviamo continua a inviarci segnali così palesemente contraddittori. Ed è anche importante sapere in che modo riusciamo a sopportare tale contraddizione; e ancora, per quale motivo non vi prestiamo quasi mai attenzione e non siamo particolarmente preoccupati quando lo facciamo. Perché è importante sapere tutto ciò? Qualcosa cambierebbe in meglio se riuscissimo a conseguire questo genere di conoscenza? In realtà, non possiamo affatto esserne sicuri. La consapevolezza di ciò che rende le cose così come sono può indurci tanto a gettare la spugna quanto ad agire. La conoscenza del modo in cui funzionano i meccanismi sociali complessi e non immediatamente visibili che forgiano la nostra condizione è notoriamente un'arma a doppio taglio. Il più delle volte se ne fanno due usi ben distinti, che Pierre Bourdieu ha definito, in modo appropriato, "cinico" e "clinico". Tale conoscenza può essere usata "cinicamente": poiché il mondo è quello che è, penserò a una strategia che mi permetta di sfruttare le sue regole a mio vantaggio; che il mondo sia equo o iniquo, piacevole o no, è una questione irrilevante. Quando è usata "clinicamente", quella stessa conoscenza può aiutare te e me a combattere più efficacemente ciò che entrambi consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale. Da sola, la conoscenza non ci fa decidere per l'uno o l'altro degli usi. Questa, in ultima analisi, dovrà essere una scelta nostra. Ma senza quella conoscenza non esisterebbe una scelta iniziale. Con quella conoscenza le donne e gli uomini liberi hanno almeno un'opportunità di esercitare la propria libertà. Ma cosa c'è da sapere? Questo libro rappresenta un tentativo di rispondere a questa domanda. E vi risponde più o meno in questi termini: è possibile che l'aumento della libertà individuale coincida con l'aumento dell'impotenza collettiva in quanto i ponti tra vita pubblica e vita privata sono stati abbattuti o non sono mai stati costruiti; oppure, per dirla diversamente, in quanto non esiste un modo semplice e ovvio di tradurre le preoccupazioni private in questioni pubbliche e, inversamente, di identificare e mettere in luce le questioni pubbliche nei problemi privati. In assenza di ponti, la comunicazione sporadica tra la sponda del privato e quella del pubblico viene mantenuta con l'aiuto di palloncini che hanno la seccante abitudine di afflosciarsi o scoppiare nel momento in cui toccano terra; e molto spesso prima di giungere a destinazione. Se l'arte del tradurre è ridotta in condizioni pietose, le sole lagnanze a trovare espressione nella sfera pubblica sono le angosce e i tormenti privati che, comunque, non si trasformano in questioni pubbliche solo per il fatto di essere esibiti pubblicamente. In assenza di ponti solidi e duraturi, nonché di perizia nell'arte del tradurre, poco praticata o totalmente dimenticata, gli affanni e le pene private non si sommano e non riescono a cementarsi in cause comuni. Date le circostanze, che cosa può unirci? La socialità, per così dire, è incerta, alla vana ricerca di un punto fermo cui appigliarsi, un traguardo visibile a tutti su cui convergere, compagni con cui serrare le file. Ce n'è molta tutto intorno: caotica, confusa, sfocata. Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. L'occasione per liberare la socialità è fornita talvolta da orge di compassione e carità; talaltra da scoppi di aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto (cioè, contro qualcuno che la maggior parte degli occupanti la sfera pubblica può riconoscere come nemico privato); altre volte ancora da un evento cui moltissime persone reagiscono intensamente nello stesso momento, sincronizzando la propria gioia, come nel caso della vittoria della Nazionale ai mondiali di calcio, o il proprio dolore, come nel caso della tragica morte della principessa Diana. Il guaio di tutte queste occasioni è che si consumano rapidamente: una volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo, mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima, sembra più buio che mai. E dopo l'esplosione, non resta energia a sufficienza per riaccendere le luci della ribalta. L'opportunità di mutare questa condizione dipende dall'agorà: lo spazio né privato né pubblico, ma più esattamente privato e pubblico al tempo stesso. Lo spazio in cui i problemi privati si connettono in modo significativo: vale a dire, non per trarre piaceri narcisistici o per sfruttare a fini terapeutici la scena pubblica, ma per cercare strumenti gestiti collettivamente abbastanza efficaci da sollevare gli individui dalla miseria subita privatamente; lo spazio in cui possono nascere e prendere forma idee quali "bene pubblico", "società giusta", o "valori condivisi". Il problema è che oggi è rimasto poco degli antichi spazi privati/pubblici, ma non se ne intravedono di nuovi idonei a rimpiazzarli. Le antiche agorà sono state rilevate da intraprendenti immobiliari e riciclate in parchi dei divertimenti, mentre forze potenti cospirano con l'apatia politica per rifiutare i permessi di costruirne di nuove. La caratteristica più evidente della politica contemporanea, come disse Cornelius Castoriadis a Daniel Mermet nel novembre 1996, è la sua insignificanza: "I politici sono impotenti, [...] Non hanno più un programma. Ambiscono solo a rimanere in carica". L'avvicendarsi dei governi - persino degli "schieramenti politici" - non è un fattore decisivo; al massimo, è un'increspatura sulla superficie di un fiume che scorre ininterrottamente, uniformemente, inesorabilmente nella propria direzione, spinto dalla propria forza propulsiva. Cent'anni fa, la formula politica dominante del liberalismo era l'ideologia provocatoria e spavalda del "grande balzo in avanti". Oggi, è solo un tentativo di giustificare la resa: "Questo non è il migliore dei mondi immaginabili, ma il solo mondo reale. Inoltre, tutte le alternative sono peggiori, devono essere peggiori e si dimostrerebbero tali se si provasse a metterle in pratica". Il liberalismo odierno si riduce al semplice credo della "mancanza di alternative". Volendo scoprire le radici della crescente apatia politica, si può anche evitare di cercare altrove. Questa politica elogia e promuove il conformismo. E al conformismo si può arrivare anche da soli; si ha forse bisogno della politica per uniformarsi? Perché sopportare politici che, di qualunque colore siano, non possono promettere niente di diverso? L'arte della politica, se parliamo di politica democratica, consiste nell'abbattere i limiti posti alla libertà dei cittadini; ma anche nell'autolimitazione, il che significa rendere i cittadini liberi per consentire loro di stabilire, individualmente e collettivamente, i propri limiti individuali e collettivi. Questo secondo aspetto è ormai praticamente ignorato. Tutti i limiti sono off-limits. Qualsiasi tentativo di autolimitazione è visto come il primo passo sulla via che conduce diritto al gulag, come se l'unica scelta possibile fosse quella tra la dittatura del mercato e la dittatura del governo sui bisogni, come se l'unica forma di cittadinanza possibile fosse quella basata sul consumismo. È questa (e soltanto questa) la forma che i mercati finanziari e commerciali sarebbero disposti a tollerare. Ed è questa la forma promossa e coltivata dai governi attuali. L'unico, grande scenario prevedibile è quello (per citare di nuovo Castoriadis) della continua accumulazione di spazzatura. Tale accumulazione non deve avere limiti (cioè, tutti i limiti sono visti come una maledizione, per cui nessun limite sarebbe tollerato). Ma è proprio da questa accumulazione che deve partire (se deve partire) l'autolimitazione. Ma l'ostilità verso l'autolimitazione, il conformismo generalizzato e la conseguente insignificanza della politica hanno il loro prezzo: un prezzo, guarda caso, esorbitante. Per pagarlo si usa la stessa moneta con cui viene normalmente pagato il prezzo della politica ingiusta: quella delle sofferenze umane. Tali sofferenze hanno forme e sfumature diverse, ma sono riconducibili alla stessa causa. Inoltre, hanno la caratteristica di autoperpetuarsi. é il genere di sofferenze che scaturiscono dalla degenerazione della politica, ma anche il genere di sofferenze che costituiscono l'ostacolo principale alla sua integrità. Le più infauste e dolorose tra le angustie contemporanee sono rese perfettamente dal termine tedesco Unsicherheit, che designa il complesso delle esperienze definite nella lingua inglese uncertainty [incertezza], insecurity [insicurezza esistenziale] e unsafety [assenza di garanzie di sicurezza per la propria persona, precarietà]. La cosa singolare è che queste afflizioni costituiscono un enorme impedimento ai rimedi collettivi: le persone che si sentono insicure, che diffidano di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che temono per la propria sicurezza personale, non sono veramente libere di assumersi i rischi che l'azione collettiva comporta. Non trovano il coraggio di osare né il tempo di immaginare modi alternativi di vivere insieme; sono troppo assorbite da incombenze che non possono condividere per pensare (e tanto meno per dedicare le loro energie) a quei compiti che possono essere svolti solo in comune. Le istituzioni politiche esistenti, che dovrebbero sostenerle nella lotta contro l'insicurezza, sono di scarso aiuto. In un mondo caratterizzato da una rapida globalizzazione, nel quale una larga fetta di potere, e la fetta più importante, è preda della politica, queste istituzioni non possono fare granché per offrire sicurezza o certezza. Quello che possono fare e che stanno cercando di fare è convogliare l'ansia, estesa e diffusa, verso una sola componente della Unsicherheit, quella della sicurezza personale, l'unico ambito in cui qualcosa può essere fatto e viene effettivamente fatto. Il guaio è che mentre un intervento efficace per debellare, o perlomeno mitigare, l'insicurezza e l'incertezza richiede un'azione comune, gran parte delle misure adottate in nome della sicurezza personale producono divisione: seminano il sospetto, allontanano le persone, le spingono a fiutare nemici e cospiratori dietro ogni polemica o presa di distanza, e finiscono per isolare ancora di più chi già vive isolato. Ma la cosa peggiore è che tali misure non solo lasciano intatte le vere fonti dell'ansia, ma consumano tutta l'energia che esse generano: un'energia che potrebbe essere utilizzata molto più efficacemente se venisse incanalata nello sforzo di riportare il potere nell'ambito dello spazio pubblico gestito politicamente. Questa è una delle ragioni principali per cui la richiesta di spazi privati/pubblici è così scarsa; e anche la ragione per cui i pochi spazi rimasti sono quasi sempre vuoti, il che facilita chi persegue l'obiettivo di ridimensionarli o, meglio ancora, di eliminarli gradualmente. Un'altra ragione della loro diminuzione e del loro scadimento è la palese irrilevanza di qualunque cosa accada al loro interno. Supponiamo per un momento che sia accaduto un evento eccezionale e che gli spazi privati/pubblici siano affollati di cittadini che desiderano discutere dei loro valori e analizzare le leggi che devono guidarli: dov'è l'istituzione capace di tradurre in realtà le loro decisioni? I poteri più forti fluttuano o scorrono come un fiume nel suo alveo, e le decisioni cruciali vengono prese in uno spazio diverso dall'agorà, o anche dallo spazio pubblico organizzato politicamente. Così, il meccanismo autopropellente e autorinforzante continuerà a generare la propria spinta propulsiva e l'energia per rinforzarsi. Le fonti dell'Unsicherheit non si prosciugheranno, dal momento che il proposito e il coraggio di opporvisi non sono frutto di immacolata concezione; il potere reale rimarrà a distanza di sicurezza dalla politica e la politica continuerà a non poter fare quello che ci si aspetta faccia: esigere da tutte le diverse forme di sodalizio umano la prova di essere fondate sulla libertà di pensiero e azione e chiedere loro di uscire di scena se rifiutano o non sono in grado di farlo. Un vero e proprio nodo gordiano: troppo intricato e complesso per essere sciolto completamente, e così può essere solo tagliato La deregolamentazione e la privatizzazione dell'insicurezza, dell'incertezza e della precarietà sono - almeno così sembra - ciò che impedisce di sciogliere il nodo, e dunque il punto giusto in cui tagliare, se ci si vuole liberare del cappio. Più facile a dirsi che a farsi, per la verità. Attaccare l'insicurezza alla fonte è un'impresa ardua, che richiede addirittura di ripensare e rinegoziare alcuni dei presupposti fondamentali della società attuale: presupposti tanto più saldi per il fatto che sono taciti, invisibili o indicibili, fuori discussione o scontati. Come sostiene l'ultimo Castoriadis, il guaio della nostra civiltà è che ha smesso di interrogarsi. Nessuna società che dimentichi l'arte del porsi domande o che permetta a quest'arte di cadere in disuso può sperare di trovare risposte ai problemi che l'assillano, certamente non prima che sia troppo tardi e che le risposte, benché corrette, siano divenute irrilevanti. Per nostra fortuna, non è detto che questo accada, e la consapevolezza che potrebbe accadere rappresenta la garanzia che non accadrà. é qui che entra in scena la sociologia; essa deve svolgere un ruolo responsabile, e non avrebbe giustificazioni se rifiutasse tale responsabilità. La cornice in cui si inscrivono i temi affrontati nel libro è l'idea che la libertà individuale possa essere solo il prodotto di un impegno collettivo (possa essere difesa e garantita solo collettivamente). Nondimeno, oggi tendiamo alla privatizzazione dei mezzi per assicurare, tutelare e garantire la libertà individuale, e se questa è una terapia per i mali del nostro tempo si tratta di una cura destinata a provocare malattie iatrogene del genere più subdolo e atroce (la povertà di massa, la disoccupazione e la morsa della paura sono le più temibili). La disperata situazione attuale e la prospettiva di porvi rimedio sono rese ancora più complesse dal fatto che viviamo in un periodo di privatizzazione dell'utopia e dei modelli di bene (tale per cui i modelli di "vita buona" tendono a prevalere sul modello di società buona, con il quale non si identificano più). L'arte di trasformare i problemi privati in questioni pubbliche corre il rischio di cadere in disuso e di essere dimenticata; il modo in cui si definiscono i problemi privati rende estremamente difficile la loro "agglomerazione", e quindi il loro cementarsi in una forza politica. Questo libro rappresenta un sforzo (probabilmente vano, purtroppo) per rendere di nuovo possibile tale conversione. Il primo capitolo tratta del significato mutevole della politica; nel secondo capitolo analizzo i problemi che devono affrontare le istituzioni preposte all'azione politica e le ragioni della loro sempre più scarsa efficacia; nel terzo capitolo tratteggio un modello di società buona che possa guidare la tanto necessaria riforma. Le prospettive dell'ideologia in un mondo postideologico, della tradizione nel mondo post-tradizionale e dei valori condivisi in una società tormentata dalla "crisi dei valori" sono trattate in sezioni separate. Questo libro è animato in gran parte da spirito polemico, così come era nelle mie intenzioni. Le questioni più controverse sono probabilmente quelle trattate nell'ultimo capitolo, e ciò per due ragioni. I modelli di società creati e proposti in una società autonoma o in una società che aspira a diventare autonoma sono e devono essere molti e diversi, per cui, volendo evitare polemiche, si dovrebbe evitare di pensare a situazioni diverse da quella attuale, e soprattutto a situazioni migliori di quella attuale. (La migliore amica del male, come sappiamo bene, è la banalità, e la banalità scambia la routine per il massimo della saggezza.) Ma ciò che rende il capitolo ancora più controverso è che i modelli in quanto tali sono attualmente caduti in discredito. "La fine della storia" è di gran moda, e le questioni più controverse per i nostri predecessori sono generalmente considerate risolte, o trattate come tali in quanto ignorate (in ogni caso, non sono viste come problemi). Tendiamo a sentirci orgogliosi di ciò per cui dovremmo invece provare vergogna: vivere nell'epoca "postideologica" o "postutopica", mostrare indifferenza per qualunque immagine coerente di società buona e aver barattato la preoccupazione per il bene pubblico con la libertà di perseguire l'appagamento personale. Ma se anche ci fermassimo a riflettere sui motivi per cui la ricerca della felicità raramente dà i risultati sperati e sui motivi per cui il gusto amaro dell'insicurezza rende la felicità meno soave di quanto ci fosse stato fatto credere, non andremmo molto lontano senza richiamare dall'esilio idee quali il bene pubblico, la società buona, l'equità, la giustizia e così via: idee che non hanno alcun senso se non sono condivise e coltivate con altri. E forse non riusciremmo neppure a evitare che l'insicurezza sciupi la libertà individuale senza ricorrere alla politica, senza far uso del tramite costituito dall'azione politica e senza tracciare la direzione che quel tramite dovrebbe seguire. Certi punti di riferimento sembrano decisivi quando si pianifica l'itinerario. Il terzo capitolo ne mette in evidenza tre: il modello repubblicano dello stato e della cittadinanza, il diritto universale a un reddito minimo garantito e l'espansione delle istituzioni proprie di una società autonoma fino al punto da ristabilirne le capacità d'azione, mediante l'appropriazione di poteri che sono al momento extraterritoriali. I tre punti sono discussi per accendere e alimentare un dibattito, non per offrire soluzioni che, in una società autonoma, possono comunque arrivare soltanto alla fine, e non al principio, dell'azione politica. Credo che le domande non siano mai sbagliate; le risposte potrebbero esserlo. Ma credo anche che astenersi dal fare domande sia la risposta peggiore di tutte. http://www.kore.it/caffe2/zygmunt_bauman.htm Umberto Galimberti su: Il Venerdì di Repubblica (22/04/2007) Se vogliamo capire in che mondo viviamo e non sbagliare le mosse, interpretandolo con le categorie che abbiamo utilizzato in passato e che oggi non servono più, è opportuno leggere l’ultimo libro di Zygmunt Bauman, Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, che l'editore Laterza pubblicherà in questi giorni.Da anni Bauman va ripetendo che oggi viviamo in una società liquida, dove le strutture che delimitano lo spazio delle scelte individuali si dissolvono, le istituzioni che garantiscono la continuità delle abitudini e dei comportamenti si scompongono, e le nuove forme sociali e istituzionali che le sostituiscono hanno poco tempo per solidificarsi, per cui non si hanno quadri di riferimento che non siano di breve periodo.Un secondo fattore di liquidità è costituito dalla separazione tra potere e politica, nel senso che il potere non è più incarnato dallo Stato e dalle sue istituzioni democraticamente elette, ma si é trasferito nei potentati economici che prescindono da qualsiasi legittimazione democratica, per cui quando Marx diceva a suo tempo che i governi erano comitati d'affari al servizio dei potentati economici forse sbagliava solo per difetto. Quando la competizione è tra lo Stato e il mercato, il potere non ha alcun dubbio dove collocarsi.L'impotenza dello Stato riduce la protezione e l'assicurazione pubblica che lo Stato garantiva e la solidarietà collassa.Le città, che un tempo erano luoghi di abitazione e di radicamento sono diventate luoghi di scambio e di agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario fra gli abitanti del territorio, i quali, anche se non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l’uso e il costume degli abitanti della città. Più che una «struttura» solida, la società è diventata una «rete» dove ci si scambia messaggi funzionali, informazioni utili, senza più uno straccio di autentica comunicazione.Il pensiero, che è alla base della progettazione e dell'ideazione di lungo periodo, è sostituito da «trovate» di breve periodo, sfruttamenti di «opportunità», capacità di inserirsi in circostanze opportune favorevoli. Nulla quindi che dia garanzia di continuità, all'interno della quale, costruire percorsi di formazione, perché nessuna delle esperienze passate sembra rivestire una qualche utilità per percorsi che di volta in volta si improvvisano.In un contesto del genere quel che si richiede al singolo individuo non é più la «conformità a norme», peraltro scarse e spesso contraddittorie, ma la «flessibilità» e la prontezza a cambiare tattiche e stili a breve scadenza, salvo poi pagare personalmente il conto delle proprie scelte, che avvengono all’interno di uno scenario le cui coordinate sfuggono, perché trascendono la capacità di comprensione e di azione dei singoli individui. La diagnosi di Bauman è perfetta, la terapia non è indicata perché, scrive Bauman: «Le risposte sarebbero perentorie, premature e potenzialmente fuorvianti». Ma forse la società non è tanto liquida come pensa Bauman.Al contrario a me pare solida, anzi solidissima, dove però la solidità è data non più dal fattore umano, ma dal fattore tecnico.La tecnica, infatti, oggi non è più un «mezzo» nelle mani dell'uomo, ma, per effetto della sua espansione, è diventata il vero soggetto della storia che ha ridotto l'uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, regolati da quegli unici criteri che sono la produttività e l'efficienza. È chiaro a questo punto che il potere non é più una competenza della politica, perché la politica per decidere guarda l'economia, e questa, per decidere guarda le risorse tecnologiche, per cui luogo della decisione finisce con l'essere la tecnica.La tecnica non conosce il pensiero che «pensa», ma solo il pensiero che «calcola», che fa di conto, che tende a ottimizzare l'impiego minimo dei mezzi per il maggior raggiungimento di scopi.Che cosa sia bello, cosa sia buono, cosa sia vero, cosa sia giusto, oggi non lo sappiamo più, non perché la società è liquida, ma perché il pensiero è stato solidificato e ristretto alla ricognizione e al perseguimento esclusivo dell’«utile».Progetti a lunga durata non se ne possono fare, per la semplice ragione che la tecnica conosce solo quel tempo breve che è il recente passato e l’immediato futuro.Infatti, perché uno scopo non sia un sogno i mezzi devono essere disponibili oggi, e perché un mezzo sia davvero tale è necessario che lo scopo sia a portata di mano, qui nell' immediato.Nell'età della tecnica i rapporti umani sono diventati rapporti «funzionali». I biglietti da visita sono buoni indicatori, non perché riportano il nostro nome, ma perché segnalano la nostra funzione. Noi ci incontriamo solo come funzionari di apparati. Anche le colazioni sono diventate «colazioni di lavoro». Altro che società liquida. Siamo tutti incatenati alle nostre professioni che ci danno identità e socializzazione, anche se gli incontri che ci propiziano più che «sociali» sono «professionali». E se nell'Ottocento Marx poteva dire che: «L'uomo non aveva nulla da perdere tranne le sue catene», oggi potremmo dire che «senza queste catene saremmo persi».Questa è la situazione. Il libro di Bauman è bellissimo. La condizione umana, dipinta come un inferno, invoca un'utopia che la possa riscattare. Ma tutto ciò non dipende dalla liquidità in cui si sono dissolti i nostri legami sociali, ma dalla rigidità in cui sono stati costretti.Innanzitutto dall'economia, che ha eretto il denaro a generatore simbolico di tutti i valori, e poi dalla tecnica che ha ridotto gli uomini a semplici funzionari dei suoi apparati, indicando nella macchina il modello da imitare in termini di efficienza e funzionalità, perché la macchina non ha «inconvenienti umani». http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842087465 Vita Liquida di Roberto Vincenzi Zygmunt Bauman, “VITA LIQUIDA”, Editori Laterza, Roma 2006 Definizione "Vita liquida", "Società liquida", “Modernità liquida” sono espressioni create, di recente, dal sociologo Zygmunt Bauman, per descrivere le caratteristiche del mondo in cui viviamo. La "vita liquida" è una vita nella quale sembra non ci siano punti fermi; tutto cambia molto velocemente, troppo velocemente. Stiamo ancora imparando come affrontare una situazione, ma, nel frattempo, la realtà è cambiata, la situazione è diversa, e i nostri strumenti diventano subito inadeguati o, come si dice oggi, "obsoleti". Tutto si mescola, che noi vogliamo o no, e si presenta diverso da come era in passato. Il "melting pot", cioè la pentola dove le cose si mescolano insieme, era l'espressione creata, negli Stai Uniti, qualche anno fa, per descrivere la mescolanza delle razze, delle culture, delle tradizioni, degli stili che confluivano a comporre la società americana. Questo modo di essere, che adesso chiamano "fusion", si sta estendendo pian piano a tutto il mondo. Cinquant'anni fa, vedere un negro per le strade d’Italia, era abbastanza un avvenimento, oggi questo fatto non desta stupore in nessuno, e percorriamo le vie delle nostre città assieme a negri, arabi, sudamericani, russi, rumeni, cinesi, giapponesi, e tanti altri che, pian piano, hanno costituito un nuovo tessuto sociale. In certe vie, i negozi aperti dagli immigrati hanno cambiato l'atmosfera, le merci esposte provengono da paesi lontani, si sentono nell'aria i profumi di cibi diversi dai nostri, e capita, certe volte, di percorrere anche lunghi tratti di strada in città, e non sentire mai parlare in italiano. Situazione 1 : progresso della tecnologia Il progresso della tecnologia non è mai stato così veloce come oggi. Nel campo dell'informatica, poi, possiamo essere sicuri che quello che compriamo oggi (hardware o software) diventerà presto vecchio, se non è vecchio già nel momento dell'acquisto. Per quel che riguarda i computers, è attuale e moderno quello che viene inventato oggi in California o in Giappone. L'ultima novità, che abbiamo appena comperato in Italia, è già vecchia di almeno sei mesi, che sono più o meno il tempo necessario per la produzione e la distribuzione. Situazione 2 : contraddizioni sociali e globalizzazione Grosse contraddizioni vengono assorbite senza farci troppo caso: le persone che vivono a livello europeo, nordamericano, giapponese, con tutti gli agi, le comodità e le modernità, rappresentano circa l'otto per cento della popolazione mondiale, ma detengono più del settanta per cento delle risorse economiche e produttive del mondo. E' stato calcolato che, se tutti vivessero allo standard americano o europeo, ci vorrebbero tre pianeti come la Terra per produrre le risorse necessarie. Per gli americani, europei e giapponesi, che se lo possono permettere, il mondo di oggi offre possibilità di godimento sconosciute o impossibili fino a cinquant’anni fa. Possiamo passare da un aereo all’altro, girare tutto il mondo e assaporarne il meglio. Possiamo violare il tempo e inseguire l’estate, volando ai Tropici in dicembre. Guidiamo macchine sempre più potenti e veloci, in strade con limiti di velocità sempre più bassi. La globalizzazione porta sulla nostra tavola cibi che provengono da continenti diversi. Ascoltiamo la musica di un paese lontano, leggiamo storie scritte da chi vive a decine di migliaia di chilometri da noi. Internet ha aperto, nel bene e nel male, la nostra porta di casa a tutto il mondo. I custodi dei cancelli Chi guadagna in questo mondo non è soltanto chi produce o vende servizi o prodotti. Chi oggi vive nella sicurezza spesso si annoia, e ha fame di esperienze emozionali, di assumere identità provvisorie, o altre identità. E così entrano in campo i “gate keepers” (“custodi del cancello”), cioè quelli che consentono di vivere queste esperienze e provare queste identità. Fanno parte di questo nuovo lavoro, i provider, che ti permettono di accedere a Internet, le televisioni satellitari o via cavo, i gestori delle reti telefoniche, chiunque faccia godere di qualche forma di intrattenimento, dal teatro al cinema, alle agenzie di viaggio che ti mandano in paesi lontani, dove potrai essere un altro, se vuoi ………… Identità individuale e sociale Chi vive nelle società industrializzate può comporre la sua identità mescolando stili diversi, come abbigliamento, cultura, cibo, musica, tecnologia, modi di vivere, importati da tutto il pianeta. Il gioco andrà avanti, finché alla nostra ricchezza corrisponderà la povertà del terzo mondo, di coloro ai quali non è stato concesso scegliere uno stile di vita, cui il destino è stato assegnato, ai quali la società ha imposto il rango di “scarti di produzione”, nel sistema economico mondiale del “libero scambio”. Il modello del consumismo Perché il modello che viene offerto e presentato è solo e sempre quello del consumismo, mentre gli slogan pubblicitari ribadiscono che la nostra identità è legata ai beni che possediamo. Casa, automobile, vestiti, secondo questo modo di pensare, rivelano chi noi siamo veramente. Se l'abito è griffato, posso sentirmi più sicuro di me stesso. Se invece tutti ci tenessimo quello che abbiamo, finché non si consuma davvero, il sistema economico mondiale andrebbe in collasso. Evoluzione della pubblicità Negli ultimi dieci anni la pubblicità è cambiata profondamente: non dice più che il detersivo "lava più bianco"; ti fa capire invece che, se usi un certo prodotto, ti potrai identificare con i giovani, belli, ricchi, potenti, playboy o con le ninfette, veline, maggiorate, bellone, donne in carriera, che compaiono nelle réclames in TV, radio, giornali, manifesti. In alternativa, c’è chi vende l’immagine della famiglia felice, che abita nella valle degli orti, vicino al mulino bianco. Oltre a questo aspetto, un’altra importante caratteristica del cambiamento nella pubblicità di oggi: si chiama “branding”. “Brand” è la marca di un prodotto. Ciò che i pubblicitari cercano di trasmettere coi loro annunci, è la convinzione che un certo marchio sia quanto di meglio c’è nel settore, e che chi indossa o usa prodotti con quel marchio ne ottenga prestigio personale. Si cerca, in questo modo, di enfatizzare il marchio, per creare dei clienti “fedeli”; clienti disposti a comprare quasi tutto, a patto che sopra ci sia stampato il marchio della azienda che amano. Per fare questo, viene utilizzato un martellamento pubblicitario che presenta sempre la stessa equazione: marchio = qualità = distinzione = prestigio. In più, vengono organizzati “eventi” sponsorizzati dal marchio stesso: serate di gala, inaugurazione di nuove sedi, concorsi, awards, premiazioni, gare sportive, sponsorizzazioni di squadre o atleti, perfino azioni a favore dei popoli meno fortunati di noi, magari attraverso “maratone di solidarietà”. La presenza a questi “events” di celebrità del mondo del cinema o dello sport rafforza l’immagine del marchio e lo identifica con personaggi famosi e vincenti. Aziende multinazionali e globalizzazione Tutto questo, se ben gestito, consente alle aziende di cavalcare, a proprio favore, la tigre della globalizzazione. Se il mio marchio è forte, posso smettere di produrre con la mia azienda, magari in Italia, a costi più alti rispetto al Terzo Mondo, alla Cina, all’Est Europeo. Naomi Klein osservava che: “Molte, tra le aziende più note, non si occupano più di produrre le merci, ma piuttosto le acquistano, e vi appongono il proprio marchio.” Per Bauman: “E’ il sacchetto, col marchio bene in vista, a dare significato al prodotto acquistato. Il marchio di un prodotto, non aggiunge valore a quel prodotto, ma è il valore del prodotto. Il valore di mercato, e dunque il solo valore che conti.” Il messaggio della TV Anche la TV è cambiata, ed è sempre più “autoreferenziale”, cioè si riferisce a se stessa. Crea un evento, un personaggio, una storia, e poi, in altri programmi, commenta questi eventi, personaggi, storie, e ne allarga la portata. E poi commenta chi commenta, e così via. In altre parole, crea un mondo. Essere se stessi ? E, se chi vive nel terzo mondo, oppresso da bisogni vitali, non può scegliere la propria identità, ma può cercare solo di sopravvivere, chi invece vive negli agi, è sottoposto continuamente ad un dilemma tra due messaggi contrastanti, un “doppio messaggio” che continuamente riceve. Da un lato l’invito ad “essere se stessi”, con tanto di corsi e manuali psicologici già pronti, per impararlo; dall’altro, il fatto che l’unico comportamento “individuale”, che la società tolleri, è quello del conformismo: essere uguale agli altri, potersi distinguere solo per gli oggetti che possediamo. Libertà vs. sicurezza Un altro dilemma è quello tra libertà e sicurezza: più aumenta una, più diminuisce l’altra e viceversa. La "società liquida" ha perso i valori del passato, le tradizioni degli antenati, i principi che guidavano le generazioni precedenti. Nell’inquietante quadro, descritto da Zygmund Bauman, viaggiamo, privi di strumenti di riferimento, verso una meta che non conosciamo, senza sapere nemmeno quanto durerà il viaggio. Martiri ed eroi La società occidentale dei nostri giorni si oppone a sacrificare le soddisfazioni di oggi, in vista di finalità remote. Delega al consumo la soddisfazione immediata di ogni bisogno dell’individuo, che, solo nel privato, può realizzarsi. “Gratificazione istantanea” e “felicità individuale” , ottenuti attraverso il consumo, hanno svilito gli ideali del “lungo periodo” e della ”totalità”. Non esistono più valori per i quali sacrificarsi ed impegnarsi, non c’è più bisogno di martiri ed eroi. Gli eroi, protagonisti delle civiltà precristiane, misuravano la loro gloria sulla base dei nemici uccisi. I martiri, dai primi cristiani in avanti, erano disposti al sacrificio, per difendere un’idea, per dimostrare che la ragione non è sempre dalla parte del più forte e la forza non è garanzia di giustizia. Sia gli uni che gli altri, e i miti che ne sono stati tratti, hanno alimentato, in Europa, nel Cinquecento, la nascita dello Stato-Nazione. Agli inizi dell’Era Moderna, l’Europa era ancora divisa in stati dinastici, in una mescolanza di gruppi etnici e linguistici. Lo Stato-Nazione, per nascere e crescere, aveva bisogno di consenso, e patriottismo. I martiri, gli eroi della patria, i caduti nelle guerre, il milite ignoto, e i loro mausolei, elevavano a divinità il concetto di nazione. Tutto questo, per noi europei, appartiene ormai al passato, e lo stato nazione, che, con la propria sovranità, poteva garantire l’incolumità dei suoi cittadini, scricchiola oggi sempre più sotto le spinte della globalizzazione, mentre subisce macro decisioni economiche, commerciali e di mercato, prese altrove. Profughi e indesiderabili Un’altra nuova caratteristica riguarda il trattamento riservato agli “indesiderabili”. I criminali del passato, condannati dai Tribunali, venivano rinchiusi(dentro lo Stato)in fortezze e prigioni. I profughi di oggi, condannati dalla fame, vengono ricacciati indietro alla frontiera(fuori dallo stato): se ne occupi qualcun altro. Qualcosa di simile a quello che succedeva in Europa verso la fine del Medioevo. La "nave dei folli" non é solo una creazione letteraria successiva, ma una realtà ben presente, soprattutto in Germania, dove i borgomastri delle varie città, usavano consegnare i pazzi ai marinai e ai mercanti che percorrevano il territorio coi battelli fluviali, affidando ad essi il compito di scaricarli in qualche altra città, possibilmente molto lontana, o di lasciarli, sempre molto lontano, in qualche deserta regione di campagna. Le guerre dei nostri giorni vengono sempre più controllate da organismi internazionali, ONU, che cercano una mediazione tra le parti; abbiamo abbandonato l’antica usanza della vendetta e l’abbiamo trasformata in risarcimento economico dei danni, magari pagato dall’assicurazione. Ogni ferita ha il cartellino col prezzo. Identità attraverso il terrorismo Per tutti questi motivi, a noi occidentali, che abbiamo sostituito il consumo dei beni e la rapida soddisfazione a tutti gli ideali del passato, resta molto difficile capire che, ancora oggi, ci sia qualcuno disposto a sacrificare la propria vita per una causa. Gli “attentatori suicidi” islamici vengono da parte nostra ricondotti nella sfera del fanatismo religioso di persone ignoranti, che sono state condizionate fin dalla nascita. Chi ha soldi, e vive nel mondo occidentale, può costruire la sua identità personale attraverso gli oggetti di consumo che acquista (dai vestiti alle automobili). Chi non ha queste possibilità, spesso si attacca alla fede, che è gratuita; torna indietro nel tempo e diventa un martire religioso, rivestendo così un’identità molto forte. Così forte da farlo morire, spesso. Il mondo delle celebrità La “società liquida” ha quindi abbandonato il culto dei martiri ed eroi, e lo ha sostituito con l’ammirazione per le “celebrità”, che è molto meno impegnativo. Per Bauman, le caratteristiche principali della celebrità sono la continua visibilità sui media, l’onnipresenza dell’immagine, la frequenza con cui viene pronunciato il nome della persona. Attori del cinema e, soprattutto, della televisione, cantanti, musicisti, sportivi, campioni, politici, esperti vari, rientrano in questa categoria di “persone note per la loro notorietà” (D.J.Boorstin, 1961). Se ammiro un eroe o un martire, religioso o civile, vuol dire che ne seguo il pensiero, la fede, che faccio parte di un gruppo di persone accomunate da un ideale. Se sono un “fan” di una celebrità, mi posso illudere di far parte di un gruppo mondiale di persone unite dall’ammirazione per quel personaggio, non mi è richiesto nessun impegno, posso mollare da un momento all’altro, e passare ad ammirare qualcun altro. Posso anche essere “fan” di più celebrità contemporaneamente, nessuno mi criticherà per questo. L’arte oggi In questo contesto, anche l’arte, il suo significato, il suo valore, subiscono dei cambiamenti di fronte al mercato globale. L’antica contesa, che vedeva da un lato gli “artisti” e dall’altro i “managers”, si è appiattita in una “rivalità tra fratelli”. Gli uni hanno bisogno degli altri e viceversa. I “managers” mercanti d’arte hanno bisogno di opere da vendere; gli artisti hanno bisogno di qualcuno che venda le loro opere. Se litigano tra loro, è solo per decidere chi comanda. L’arte, oggi, viene trattata dai galleristi come un qualsiasi prodotto, che deve avere certe caratteristiche, per poter essere immesso sul mercato con speranza di successo. Il gallerista esegue uno studio di mercato per individuare i possibili clienti. Impone all’artista, che ha messo sotto contratto, di essere costante nello stile, riconoscibile, di produrre opere di piccola dimensione, di avere già eseguito qualche centinaio di opere, e averle pronte, per poter soddisfare eventuali future improvvise richieste di mercato. Richiede, cioè, il marchio e la distribuzione, come per l’abbigliamento. L’arte “buona” è quella famosa, perché esposta nelle gallerie di prestigio, presentata alle mostre, commentata sulle riviste specializzate; l’arte “cattiva”, o la “non arte”, è ciò che non ha mercato, l’opera che il gallerista ha rifiutato, perché poco commerciabile. Non esiste altro criterio, oggi, per distinguere il “valore dell’opera d’arte”. L’arte attuale non è più “rivoluzionaria”; il sistema economico mondiale non ha più paura degli artisti; anzi, tollera benissimo il fatto che ci sia una zona, l’Arte, controllata e recintata, nella quale è possibile esprimere, “artisticamente”, anche contenuti eversivi, ribelli, di critica al sistema. Eternità dell’arte ? Un altro cambiamento riguarda la durata nel tempo dell’opera d’arte. Uno dei principali elementi che, fino ad oggi, caratterizzavano l’opera d’arte era la sua permanenza nel tempo, la sua “eternità immortale”. Come diceva Hannah Arendt: “L’oggetto culturale resiste al tempo”, ed ancora: “Un oggetto è culturale, in quanto sopravvive a qualsiasi utilizzo abbia potuto presiedere alla sua creazione.” Oggi non più; il sistema economico spinge avanti velocemente, ed anche le opere d’arte devono essere ammirate, usate, fruite velocemente e poi essere sostituite con nuove opere. Altrimenti il mercato si ferma. Se osserviamo da questa angolazione varie tendenze dell’arte moderna, ne rileviamo la condizione di precarietà e di breve durata nel tempo. Prendiamo, ad esempio, tutte le “installazioni” che si vedono oggi nelle mostre, gli “art video”, che concentrano tutto il mondo dell’artista in pochi minuti e in altrettanto poco tempo scompaiono; l’utilizzo di materiali “poveri”, degradabili, friabili, deperibili, come cartone, stracci, carta, che non resistono al tempo; gli interventi sulla natura, magari realizzati solo per poter scattare delle foto dall’alto; i dipinti realizzati con vernici non resistenti, le immagini che svaniscono sui computers ………… I padroni dell’agricoltura Se, dall’arte, passiamo a considerare l’agricoltura, notiamo come, con le tecnologie e le macchine agricole, portate dalla globalizzazione, l’agricoltura, oggi, produce sempre più cibo, occupando sempre meno personale. E i guadagni non ricadono sul territorio. Di conseguenza, la maggior parte della popolazione agricola, che ha perso il lavoro, e non ha altra specializzazione lavorativa, va a costituire le baraccopoli, che sorgono intorno alle grandi città. Fuori, nelle baracche, vive un numero enorme di abitanti privi di qualsiasi forma di reddito. Dentro, in città, si reagisce a questa situazione, concentrandosi sulla propria sicurezza personale e domestica. L’incubo della sicurezza Si mettono in atto sofisticati sistemi di protezione domestica, con telecamere, antifurti, rivelatori di presenza. Si paga la vigilanza privata, oppure si va ad abitare in una “gated community”, centri residenziali cintati da un alto muro, con accessi sorvegliati da guardie armate, che pattugliano 24 ore su 24 il quartiere. In questa situazione, c’è chi va a lezione di arti marziali, chi frequenta il poligono di tiro, chi si mette indumenti protettivi, come certi scarponi americani. Se si esce in macchina, con la paura degli altri, allora bisogna scegliere il SUV più grosso, pesante, potente, climatizzato, corazzato, dotato di ogni sistema di sicurezza attiva e passiva. E se consuma tanto, e inquina, pazienza. Di fronte alla paura di un cambiamento sociale, inarrestabile e imprevedibile, alla ricerca di qualcosa di stabile, seguendo quelli che Freud chiamava “fenomeni di spostamento”, si conducono battaglie contro il fumo delle sigarette, i fast food, l’obesità, l’uso dei preservativi, l’esposizione al sole, il colesterolo ……… Villaggio globale e spazio pubblico Il “villaggio globale”, che ipotizzava Marshall McLuhan, non si è ancora realizzato. In compenso, le città della terra si globalizzano e diventano sempre più simili. Lo spazio e l’arredo pubblico delle città, sono “vittime collaterali” della globalizzazione e subiscono un po’ ovunque limitazioni dovute alla paura degli altri: in molti parchi degli Stati Uniti, le panchine sono a forma circolare, per impedire che i barboni ci possano dormire; oppure, dopo la chiusura del parco, si possono azionare getti d’acqua che spruzzano tutte le panchine impedendone l’uso. Già nel 1990 Richard Rogers, uno dei più famosi architetti britannici, scriveva: “Se proponiamo un progetto ad un investitore, ci chiederà subito: “A che servono gli alberi e perché mettere dei portici?”. Agli investitori interessa solo lo spazio destinato ad uffici o abitazioni. Se non riusciamo a garantire che l’edificio sarà ammortizzato entro dieci anni, è inutile fargli proposte.” Lo spazio pubblico dell’antica Grecia, la piazza (agorà) dove si svolgeva la vita sociale della città, rischia di diventare, come diceva l’architetto sudafricano Jonathan Manning, “spazio inutilizzabile tra sacche di spazio privato”. In città come queste, “le interfacce tra sfera pubblica e spazi privati, sono costituite solo dalle vetrine dei negozi o dai complessi meccanismi difensivi per tenere a distanza il prossimo: portinerie, muri, filo spinato, recinzioni elettriche.” Paura e sperequazioni Viviamo quindi in una società impaurita, che propone solo il consumo come ideale di vita. In questo contesto, vengono creati sempre nuovi bisogni e vengono alimentati desideri che possano essere provvisoriamente soddisfatti solo con beni di consumo. Il consumismo attuale, scrive Bauman, “è un’economia basata sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco, che non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute, l'unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza.” Ed ancora: “La società di oggi interpella coloro che ne fanno parte, soltanto in quanto consumatori. La sindrome consumista si basa sulla velocità, sull’eccesso, sullo scarto.” Compro e butto via; destinazione finale dei miei acquisti: pattumiera. Amore liquido Se tutto è incerto e provvisorio, gestire un legame affettivo di lunga durata diventa un’impresa. La crisi del settimo anno di matrimonio è qualcosa che appartiene al passato. Negli Stati Uniti, la punta delle separazioni, viaggia ormai intorno ai diciotto mesi – due anni dal matrimonio. Questa società non insegna la pazienza, il sacrificio, la mediazione, lo sforzo costruttivo. Certo, liberarsi di un partner è molto più straziante, che far fuori un vecchio PC o cambiare la macchina, ma la mentalità è quella del tutto e subito, e poi di nuovo tutto e subito. Anche le amicizie richiedono costanza e impegno; in un momento come questo, avere degli amici diventa sempre più prezioso. Ma, in una società liquida, dove tutto cambia in fretta e il lavoro costringe le persone a frequenti cambi e spostamenti, mantenere viva un’amicizia diventa molto difficile, in certi casi impossibile. La cura del corpo Per distrarsi da queste ed altre sofferenze molte persone si dedicano alla cura del proprio corpo, oggi più che nell’Antica Grecia. Il proliferare di terme, SPA, wellness center, palestre, saune, centri di massaggio, assieme ai volumi di vendita dei prodotti dedicati alla cura del corpo e alla bellezza , ne sono la prova. Osserva Bauman: “Nella società dei consumatori, la fitness sta al consumatore come la salute stava al produttore nella società dei produttori.” Salute e fitness, tuttavia, non sono obiettivi che possano essere raggiunti una volta per sempre, ma rappresentano un impegno che dura per tutta la vita, e che produce, in molte persone, un’ansia che non riesce a spegnersi, se non provvisoriamente. Su questi timori si innestano le azioni pubblicitarie di esperti di marketing, che cercano di pilotare l’ansia, della donna e dell’uomo di oggi nei confronti del proprio corpo, come qualcosa di risolvibile, magari con un bagno turco in una SPA di lusso. A chi troppo …… L’attenzione, a questo punto, si sposta sulla alimentazione. La questione “grasso o magro”, è strettamente legata alla promozione del corpo del consumatore, come obiettivo centrale del marketing. Anoressia e bulimia, in questo contesto, possono essere viste come caratteristiche della società dei consumi. La percentuale degli obesi negli Stati Uniti non accenna a calare. Il New York Times ha definito, recentemente, la guerra contro l’obesità come “la guerra culturale del nuovo secolo”. Avere un figlio oggi In questa trasformazione permanente, nella società occidentale, opulenta e liquida, anche il concetto di maternità e il desiderio di avere figli subiscono dei cambiamenti. Viene affermata la morte del “mito della maternità”, e si mette in luce il costante, faticoso impegno, che pesa sulle spalle di chi si occupa di bambini. La donna che lavora, la “donna in carriera”, oggi, ha poco tempo a disposizione ed é molto lontana dall’immagine del passato di “regina della casa”, “angelo del focolare”, “casalinga” più o meno “disperata”. Fare un figlio e seguirlo è un impegno a lunga scadenza, ben diverso dalla soddisfazione immediata di un desiderio, come ci viene proposto dalla pubblicità. Bauman lo paragona a firmare un assegno in bianco o prendersi la responsabilità, per cose che non si conoscono, e non sono prevedibili. A livello finanziario, avere un figlio significa quasi sempre una perdita di reddito, associata ad un grosso aumento delle spese familiari. Bambini: futuri consumatori I bambini di una volta, considerati “il futuro della nazione”, venivano educati per la continuità dello Stato nel quale vivevano. Dovevano diventare cittadini responsabili, partecipare al processo produttivo oppure difendere lo Stato servendo sotto le armi. Il destino dei bambini di oggi è diventare dei consumatori sempre più precoci. L’attività di marketing, rivolta ai bambini, tende a trasformarli in “decisori informati”, dotati di conoscenza dei prodotti, che possano pilotare gli stessi genitori negli acquisti. Lavoro provvisorio e formazione permanente Se consideriamo, adesso, il mondo del lavoro nella società liquida rileviamo anche in questo campo i continui cambiamenti prodotti dalla globalizzazione del mercato dei consumi. Jacek Wojciechowski, esperto di insegnamento universitario, nel 2004, osservava: “Una volta la laurea offriva un salvacondotto per esercitare la professione, sino all’età della pensione: ma questa ormai è storia. Al giorno d’oggi, la conoscenza deve essere continuamente rinnovata, e anche le professioni devono cambiare.” La necessità di acquisire sempre nuove conoscenze, per poter galleggiare sul mondo del lavoro, unita al rapido invecchiamento delle tecniche di ieri, producono ignoranza e alimentano il mercato dei vari “corsi professionali” e “di aggiornamento”. Il concetto di “lifelong education” o “educazione permanente”, è frutto di questa situazione e tende a diventare una necessità per la gran parte delle categorie lavorative. Il rischio costante, che ne deriva, è quello di essere “esclusi dal gioco” e “buttati fuori bordo”, di subire la perdita del lavoro, sia a livello individuale che come azienda. Tutto questo alimenta l’ansia di vivere. Se poi si considera questo fenomeno su scala mondiale, rileviamo che è su questa base che si fonda la differenza tra Terzo Mondo e Mondo Occidentale. Quante più conoscenze, tecniche soprattutto, saranno necessarie per affrontare il mondo del lavoro, tanto più si allargherà il gap tra i due mondi, creando e aumentando ingiustizie sociali, con tutti i possibili, devastanti, effetti collaterali. Istruzione pubblica vs. privata Il discorso diventa politico e si concentra sulla scelta se gestire l’istruzione a livello statale o lasciarla al mercato “privato e libero”. Quest’ultimo è rappresentato dalle scuole professionali e di specializzazione, gestite come aziende, senza nessuna “mission” sociale. Negli Stati Uniti, solo il 19 % di coloro che appartengono alle classi sociali meno abbienti, riesce a completare i propri studi e ottenere un diploma. Se invece osserviamo classi sociali con maggiore reddito, questa percentuale sale al 80 %. Se il “mercato dell’insegnamento” viene affidato alle scuole private a pagamento, e lo Stato non interviene, assisteremo ad un sempre maggiore aumento delle ingiustizie sociali e di tutte le tensioni che ne derivano. Empowerment Contro questo fenomeno dell’ignoranza, che produce poi abbandono della sfera politica, la Commissione delle Comunità Europee, già nel 2001, ha ribadito la necessità di creare, a livello dei vari Stati, sotto la gestione dei diversi Ministeri dell’Istruzione, uno spazio dedicato all’apprendimento e all’aggiornamento. Questo impegno dei singoli Stati sarà coordinato dalla Comunità Europea, che lo manterrà tra i suoi obiettivi prioritari. Una gestione pubblica dell’istruzione, realizzata in un contesto europeo democratico, produce il cosiddetto “enablement” o “empowerment”. Secondo Bauman, “un autentico empowerment, richiede che si acquisiscano non solo le abilità necessarie, per giocare con successo un gioco progettato da altri, ma anche dei poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le regole del gioco: non solo le abilità personali, ma anche i poteri sociali. (…………) L’empowerment è la ricostruzione dello spazio pubblico progressivamente abbandonato, in cui gli uomini e le donne possano impegnarsi, in una continua traduzione tra ciò che è individuale e ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri, privati e pubblici.” Per Bauman, se la sfera pubblica e sociale deve rinascere nel mondo occidentale, oltre alle abilità tecniche, abbiamo fortemente bisogno di “capacità di interazione con gli altri – di dialogo, di negoziato, di raggiungimento della comprensione reciproca e di gestione o risoluzione dei conflitti, inevitabili in ogni situazione della vita collettiva.” Dobbiamo cioè acquisire delle competenze in materia di cittadinanza attiva. Il consumatore è nemico del cittadino Ma, osserva Bauman: “Il consumatore è nemico del cittadino (………) e, ovunque, nella parte sviluppata e opulenta del pianeta, si moltiplicano i sintomi dell’allontanamento delle persone dalla politica, della crescita della apatia e del calo di interesse per il funzionamento del processo politico.” “Il mondo vuole essere ingannato”, scriveva Theodor W. Adorno, ma la democrazia è in pericolo, quando i cittadini non riescono a tradurre le proprie ansie e difficoltà personali, sotto forma di azioni democratiche collettive e preoccupazione a livello pubblico e politico. Parafrasando una frase di Pierre Bordieu, colui che non comprende il presente, non può pensare di controllare il futuro. Dobbiamo imparare a pensare in modo diverso, da come siamo stati abituati finora. Mercato globale I mercati dei capitali e delle merci si sono trasferiti in “un nuovo spazio, socialmente extraterritoriale”, ben più forte dello spazio del singolo Stato Nazione, e per affrontare questa nuova situazione sono necessari strumenti diversi da quelli finora adoperati. Altrimenti, per la maggior parte dell’umanità, la globalizzazione significherà un netto e progressivo deterioramento delle condizioni di vita, accompagnato da continua insicurezza e ansia esistenziale. Nuove soluzioni Le condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità non sono più divisibili e gestibili a livello locale o statale. Se le nostre difficoltà sono originate da problemi planetari, sono necessarie soluzioni planetarie. Lo spazio pubblico dello Stato Nazione è stato allargato a tutto il mondo: come osserva Bauman, “il dramma contemporaneo è vasto come l’umanità, clamorosamente e decisamente globale”. A questa situazione si può opporre la logica della “responsabilità planetaria” che, per Bauman, significa “il riconoscimento del fatto che tutti noi, che viviamo su questo pianeta, dipendiamo gli uni dagli altri, per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, oppure omettiamo di fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e trovare un riparo privato, dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo”. E’ quindi indispensabile creare un nuovo tipo di “cornice globale”, che impedisca alle iniziative economiche, in qualsiasi luogo sulla Terra, di seguire soltanto il profitto, ignorando gli effetti e i danni collaterali e trascurando l’impatto sociale dell’equilibrio costi e risultati. Come sarà questa nuovo modo di pensare? Secondo Bauman “non possiamo conoscere i contorni e la forma che assumerà. Tuttavia possiamo essere certi che la forma non ci apparirà familiare. Essa sarà diversa da tutto ciò che per noi è consueto”. http://www.liberamentemagazine.org/Vita%20Liquida.htm BENEDETTO VECCHI Nella morsa della comunità Le élite globali costruiscono le loro enclave dorate, il "dominio della flessibilità" alimenta le politiche di apartheid per lo "straniero in casa" e la società capitalistica è ridotta a un enorme ghetto. Il nuovo libro di Zygmunt Bauman edito da Laterza Calda, accogliente, rassicurante come solo le braccia dell'amante o del genitore possono essere. Ma anche artificio che cancella la singolarità in nome di una presunta omogeneità sociale e culturale. Sono questi alcuni dei sentimenti che suscita la comunità, termine così controverso da originare, appena si ritorna con la memoria agli orrori compiuti in suo nome, rigetto, rifiuto. O, all'opposto, vissuta come la stella polare che guida l'attraversamento di un deserto chiamato vita. Di questa ambivalenza è consapevole Zygmunt Bauman che alla comunità dedica alcuni saggi raccolti nel volume da poco pubblicato da Laterza con il titolo Voglia di comunità (pp. 145, L. . 24.000), che tradisce però non poco la lapidaria sentenza che accompagnava la pubblicazione in inglese del libro. E' cosa infatti diversa parlare di un oggetto desiderato o argomentare sulla comunità scomparsa, come recitava il titolo originale in inglese. (Per il resto la traduzione di Sergio Minucci è impeccabile, e la lettura del libro scorre piacevolmente come negli ultimi anni raramente accade per molta della saggistica tradotta). Resta inconfutabile che "scomparsa della comunità" restituisca meglio lo spirito del libro. Da una parte c'è la sottolineatura in positivo di una forma di organizzazione sociale; dall'altra il semplice riconoscimento che la comunità non esiste, né è forse mai esistita. Bauman, infatti, sostiene che la comunità è da sempre il risultato di una produzione sociale di "significati", perché di essa, in natura, non c'è mai stata traccia. Allo stesso tempo c'è da aggiungere che il termine ha acquisito una pregnanza teorica e quindi politica solo nei momenti di passaggio della modernità. A quel presunto insieme organico di comportamenti e stili di vita ci si è infatti rivolti solo quando è risultato difficile "sentirsi in società". Maliziosamente, ma non troppo, si potrebbe altresì affermare che la comunità entra in scena come reazione a una modernità che spazza via consuetudini e rapporti sociali in cui la polarità e l'oscillazione tra "varietà" e "identicità" era regolata dallo scettro di un imperatore o dalla tiara di un papa. Né si può parlare di una comunità originaria dei naufraghi dello sviluppo capitalista, come invece suggeriscono alcuni critici del mercato mondiale. Nel pieno della rivoluzione industriale, il generale Ludd e Captain Swing a capo dell'esercito luddista non invocano la comunità, ma l'"identicità" di una condizione materiale contrapposta alla "identicità" della moderna società capitalista. Di questo impossibilità nell'individuare nella resistenza degli "oppressi" la culla politica della comunità è del resto consapevole Zygmunt Bauman, che alla nascita del movimento operaio ha dedicato uno dei suo libri più belli (Memorie di classe, Einaudi). E pur tuttavia la fondazione teorica della comunità inizia proprio in quello stesso periodo. Basta rileggere alcune pagine de La divisione del lavoro sociale di Emile Durkheim o di Comunità o società di Ferdinand Toennies, libri tra loro molto diversi, ma concordi nel distinguere due diverse organizzazioni sociali, dove la comunità è individuata come un modo di vivere associati precedente alla società moderna. Ma se per Durkheim è vitale individuare e distinguere le diverse modalità di integrazione sociale, per il fondatore della "Società sociologica tedesca" alla cesura operata dallo sviluppo capitalistico è comunque da contrapporre una gemeinschaft che semplifichi e riduca al minimo la "varietà", elaborando contemporaneamente lo statuto teorico e politico della "identicità". Il motto nazista di "suolo e sangue" trova quindi le sue radici proprio nell'idealizzazione di una comunità che ha nella mitologia celtica e in quella nibelunga le sue fondamenta. Argomento questo già affrontato da Bauman nel suo Modernità e Olocausto (Il Mulino), quando spiega la Shoah come frutto del terribile matrimonio della "comunità di popolo" e della moderna burocrazia. Termine dunque negativo, ma sempre interrogato, quasi sempre per decretarne l'inapplicabilità. Ad esempio, Jean Paul Sartre, rileggendo il Sessantotto parigino, preferisce illustrare il tormentato cammino dalla "serie" al "gruppo" per evidenziare un senso di appartenenza dove la singolarità - che nel linguaggio di Bauman trova nella "varietà" l'ambito dove manifestarsi - possa essere valorizzata senza cadere nella camicia di forza della comunità. Oppure la sua demistificazione operata da Maurice Blanchot ne La comunità inconfessabile, che vede nel gruppo fusionale il passaggio obbligato della rivolta contro la società di massa. Infine la provocazione di Jean-Luc Nancy, che ne La comunità inoperosa afferma che si potrà parlare senza reticenze di comunità solo quando il regime del lavoro salariato sarà corroso dall'irruzione in società di una singolarità desiderante. In questo libro di Bauman prevale però l'urgenza politica di svelare il carattere strumentale della comunità, specialmente se messo in relazione con la convergenza tra la politica dell'identità e i processi di globalizzazione economica. Si invoca la comunità perché il "dominio della flessibilità" aumenta il sentimento di incertezza, afferma il sociologo di origine polacca. E per sentirsi al sicuro dall'inquietante "desiderio proteiforme del molteplice" insito nella globalizzazione si mette in conto financo la perdita della libertà. Temi già trattati da Bauman in quasi tutti i suoi libri a partire da Le sfide dell'etica (Feltrinelli), quando la "sensibilità postmoderna" è vista come fuga dalla responsabilità da quella "riflessività" insita nella modernità capitalistica. Solo così si spiega La decadenza degli intellettuali, che abdicano al ruolo tradizionale di "produttori di significati" socialmente condivisi. (Per estenzione si può affermare che il conflitto sociale e di classe sono per Bauman espressione della riflessività del Moderno). E' quindi con la globalizzazione che la comunità ritorna in scena. Di questo relazione causa effetto Bauman è attento osservatore. Ma se la globalizzazione produce sradicamento, incertezza e insicurezza e senso della precarietà, le idee di comunità proposte sono delle "grucce" per sorreggere il "cittadino globale". La fobia per il molteplice che accompagna la politica delle identità, quest'ultima da intendere come autocostruzione e autoaffermazione, è però destinata a naufragare contro l'unica vera comunità esistente. Può sembrare un paradosso quello di Bauman, che per gran parte del libro sottolinea l'inconsistenza teorica della comunità, e poi presentarne una. Ma se seguiamo il suo pacato ragionamento, scopriamo che l'autore ha in mente le élite globali, che godono di extraterritorialità e sfuggono perciò a ogni possibile regolamentazione del loro operato. Siedono sicuramente nei piani alti delle imprese transnazionali; abitano ovviamente nelle enclave fortificate delle città globali; fanno del "desiderio proteiforme" la linea di condotta nel rapporto con gli altri. Ma per fare tutto ciò devono instaurare un vero e proprio "stato di sicurezza nazionale" che garantisca la riuscita della loro "fuga dalla società" nutrendosi al tempo stesso proprio dalla idea di una comunità che cancella le differenze e che fa della segregazione dello "straniero in casa" la misura politica della sua legittimazione. La comunità è quindi un termine squisitamente politico che legittima l'extraterritorialità delle élite globali e trasforma la società in un "ghetto volontario" in cui lo "straniero in casa" è proiezione e quindi capro espiatorio del sentimento di incertezza e della precarietà - cioè della deregolamentazione del mercato del lavoro e della demolizione del welfare state - che accompagnano la globalizzazione. Una lettura delle vicende americane e europee meno avvelenata dalla contingenza potrà rintracciare molti dei temi dominanti la discussione pubblica. La sicurezza della città, del quartiere, della strada, del condominio è l'argomento delle élite globali per costruire uno "stato di sicurezza nazionale". Si può chiamare "tolleranza zero" "conservatorismo compassionevole" o "città sicure", ma sono tutte variazioni sullo stesso tema. Bauman non è certo un radical che pensa a un sovvertimento dello status quo. E' però indubbio che, da Le sfide dell'etica fino a questo Voglia di comunità, la sua ricognizione del presente è sicuramente una denuncia dello scadimento della sfera pubblica. Ma anche, e sopratutto, una amara e disincantata ricognizione delle nuove forme di potere nella società capitalistica, dove la rinuncia alla libertà insita nell'idea di comunità torna ad occupare un posto d'onore. http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/rassegna/010531.htm