Cronistoria dell’Italia
coloniale
Cronistoria dell’Italia colonialedi Davide Quaresima del 02/04/2017
L’Italia ha alle spalle una storia millenaria, ricca di eventi e di
figure intramontabili, con un patrimonio culturale superiore a
qualsiasi altro paese al mondo, ma da una non esaltante storia
coloniale.
Se si adopera un’analisi attenta, si può osservare come l’odio
sviluppatosi in tante zone del mondo sia legato ai molti paesi degli
ex-imperi. Sicuramente l’Italia non rientra nel novero dei grandi
paesi colonialisti. Fra questi ultimi possiamo citare Gran Bretagna,
Francia, Spagna, ma non la nostra penisola.
Se si ricercano le motivazioni, una buona analisi deve prendere avvio
dall’epoca moderna, tra la metà del XV secolo e l’epoca napoleonica.
L’Italia alla fine del quattrocento era uno dei paesi più ricchi
d’Europa, sia dal punto di vista culturale (Umanesimo e Rinascimento
presero avvio nel nostro paese per poi influenzare tutto il
continente), ma anche dal punto di vista economico e commerciale. Fra
i più attivi mercanti dell’occidente europeo vi erano veneziani e
genovesi, questi ultimi famosi soprattutto per via delle loro
operazioni bancarie e di prestito a favore dei grandi regnanti del
tempo, mentre la posizione geografica – con un Mediterraneo ancora al
centro dei traffici internazionali – era (ed è tuttora) molto pratica.
Purtroppo le continue battaglie fra le città stato, guidate dalle
potenti famiglie, furono un primo colpo al nostro paese. Nel 1513 un
abilissimo osservatore politico del suo tempo come Machiavelli, aveva
già intuito le difficoltà della penisola, avversità che ci saremmo
portati dietro fino a metà dell’800.
In questo lasso di tempo di circa tre secoli e mezzo l’Italia rimase
divisa e alla mercé delle grandi potenze europee, divenendo un luogo
estraneo alle nascenti reti commerciali che nel frattempo si andavano
affermando nel mondo, e che avrebbero poi contribuito in modo decisivo
alla formazione dei moderni imperi coloniali. Questa marginalità,
rese l’Italia un paese periferico per la sua frammetazione politica,
rendendolo ammirato e considerato unicamente a livello culturale. Tali
fattori furono decisivi per comprendere il tardivo e limitato
movimento coloniale italiano, la cui storia è molto recente e spesso,
purtroppo, se ne ignorano alcuni aspetti fondamentali.
La seconda metà dell’ottocento fu un’era ricca di eventi dal punto di
vista geopolitico. Tutti i paesi volevano possedere un impero
coloniale da sfruttare come sbocchi per le proprie merci e in cui
poter mandare manodopera in eccesso; per questo motivo preferivano
acquisire terre lungo rotte molto frequentate, non disdegnando di
scatenare conflitti per arrecare danni ai propri rivali e trarne ovvi
vantaggi territoriali. Dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869 le
previsioni di ingenti guadagni legati allo sviluppo del commercio nel
Mediterraneo portarono molti paesi ad interessarsi alle terre lungo il
Mar Rosso e al Golfo di Aden e fra questi paesi, vi era anche il Regno
d’Italia.
Nella prima immagine di destra, l’inaugurazione – da parte francese –
il 17 novembre del 1869, dell’apertura del Canale di Suez.
Nell’immagine centrale, vista satellitare del canale, fino al corno
d’Africa. Nell’ultima planimetria cartina politica dell’Eritrea: prima
colonia del regno d’Italia.
La prima penetrazione italiana in Africa avvenne nel 1882, un
ventennio dopo l’unità del paese. L’aspetto politico è quanto mai
necessario per tali azioni, difatti il nostro paese guardava
impassibile gli altri imperi coloniali, sognando di possederne
anch’esso una sua porzione. Le motivazioni alla base del colonialismo
italiano furono prevalentemente di prestigio; aspirare ad un impero
coloniale era un qualcosa di legittimo e per molti era sentito come un
dovere. L’Italia avrebbe dovuto rappresentare il paese civile che
diffonde la sua cultura e la sua ricchezza intellettuale al paese
“sottosviluppato”. Per il Regno d’Italia le motivazioni economiche
erano ovviamente importanti, ma non erano le uniche; il complesso di
inferiorità di cui soffrivamo nei confronti delle altre potenze doveva
essere curato.
Ovviamente non tutti nel nostro paese erano concordi verso un’azione
del genere. Il mondo militare e quello della borghesia meridionale
erano favorevoli all’espansione coloniale; mentre il clero (che
condannava più che altro il Paese in quanto “laicista e liberale”), la
borghesia settentrionale e i socialisti si schieravano su posizioni
opposte, come il deputato socialista Andrea Costa, il quale nel 1887
asserì dopo la sconfitta di Dogali come: “né un soldo né un uomo per
le pazzie africane”.
Le mire italiane ricaddero inizialmente sulla Tunisia, terra a noi
geograficamente vicina, sperando in una conquista abbastanza agevole.
Purtroppo però nel paese africano si stabilì un protettorato francese,
che nei fatti tagliò fuori l’Italia, alimentando la frustrazione nel
non essere riusciti a conquistare quella terra. Questo evento è
passato alla storia come lo “Schiaffo di Tunisi”, l’antica Cartagine.
A seguito di un episodio così tanto sconveniente il governo italiano
decise di agire prontamente e di dirigersi verso terre nel continente
africano ancora non possedute da nessuno. Fra le motivazioni di tanta
fretta vi era anche quella di gestire manodopera in eccesso sul suolo
italiano.
In quegli anni stava iniziando una vera e propria spartizione del
continente, passata alla storia per la sua violenza e velocità con il
nome di scramble for Africa (sgomitare per l’Africa) che avrebbe
portato i paesi europei in un ventennio a divorarne tutto il
territorio. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia si
poteva ancora definire indipendente.
La scelta perciò ricadde nel 1882 sull’Eritrea, striscia di terra
lungo il Mar Rosso. Ma anche in questo caso la politica coloniale
italiana fu tutt’altro che felice. Difatti, a pochi passi da queste
terre vi era il grande Impero Etiope, una compagine territoriale molto
vasta e potenzialmente pericolosa per i domini italiani. Il territorio
era retto da due Negus (Re): a nord vi era il Negus Neghesti (“Re dei
Re“) Giovanni IV, a sud invece il territorio era retto da Menelik II,
tristemente conosciuto da tutti sui libri di scuola per la cocente
sconfitta inferta alle forze italiane comandate dal tenente generale
Oreste Baratieri ad Adua, nel 1896. Nel 1885, d’accordo con la Gran
Bretagna, l’Italia occupò Massaua in Eritrea, che dal 1890 formerà con
Assab la Colonia Eritrea. Nel 1869 la Baia di Assab (Eritrea) era
stata acquistata dalla compagnia privata del genovese Raffaele
Rubattino al fine di fornire uno scalo per i rifornimenti di carbone
alle sue navi, cedendola poi al Governo italiano nel 1882. In realtà
il nostro paese si era interessato in un primo momento a dei territori
nel Pacifico, nel Borneo e in Nuova Guinea; progetti che infine non si
tradussero mai in realtà, preferendo non interferire negli equilibri
internazionali tra Inghilterra e Olanda (tanto che di lì a poco il
Borneo settentrionale, l’attuale stato di Sabah nella Malesia, sarebbe
stato inglobato dall’impero britannico).
La prima sconfitta arrivò a Dogali, il 26 gennaio 1887, a seguito di
una penetrazione italiana nell’altopiano etiope. La colonna del
tenente colonnello De Cristoforis venne accerchiata dagli uomini del
ras Alula e completamente annientata. Persero la vita 500 bersaglieri.
L’eco suscitato nel paese a seguito della sconfitta fu enorme; persino
Bismark fece tuonare le sue critiche. Tra il 1889 e il 1892, grazie ad
una serie di trattati, il nostro paese riuscì ad istituire dei
protettorati sul Sultanato di Obbia e su quello della Migiurtinia; nel
1892 il sultano dello Zanzibar concesse dei porti nel Benadir fra i
quali è opportuno ricordare Mogadiscio, capoluogo della zona. Di
conseguenza, nel giro di pochi anni anche l’Italia aveva delle terre
nella regione. Due mesi dopo la morte del Negus Giovanni IV (marzo
1889) venne firmato il Trattato di Uccialli, tra Menelik – oramai
imperatore e Negus Neghesti –
e il conte Antonelli, rappresentante di
Re Umberto I e fornitore di armi all’Etiopia.
Il trattato con il quale venne sancito questo rapporto fra il Regno
d’Italia e il Regno Etiope venne scritto in due lingue: in italiano e
aramaico (la lingua utilizzata nel paese), e da parte del nostro paese
venne interpretato in maniera completamente differente. A generare
problemi e controversie fu l’articolo 17, che nelle due lingue citava:
• “Sua maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del governo
di sua maestà, il Re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che
avesse con altre potenze o governi” (versione italiana);
• “Il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera
con i regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia” (versione
etiope).
Per l’Italia era a tutti gli effetti un protettorato; per Menelik un
affronto: la guerra era nell’aria. Mentre in Italia si vivevano giorni
di fuoco, alimentati anche dallo scandalo della Banca Romana e dal
ritorno in politica di Crispi, si decise di penetrare in Etiopia (o
Abissinia). Fu un’azione disordinata e poco curata dal governo
italiano che sottovalutò le forze nemiche, molto più numerose e ben
armate (dal conte Antonelli, appunto).
La disfatta di Adua suscitò un grande scalpore in Europa. Per la prima
volta un esercito africano era riuscito a schiacciare nettamente
truppe europee; la paura più grande adesso era quella di una possibile
presa di coscienza da parte del popolo africano nei confronti dei loro
“padroni” e, quindi, di possibili loro rivolte contro gli stessi. Per
il nostro paese, Adua significherà un grande mutamento politico che
spazzerà via la classe dirigente risorgimentale in maniera definitiva.
Ci furono rivolte e sommosse da parte dei ceti popolari che decisero
perfino di scendere in piazza. La tensione per crisi economica si
sommò alla figuraccia di Adua; il governo Crispi terminò qui.
Dal 1901 al 1943 l’Italia gestì una striscia di terra lungo il fiume
Hai-Ho, la Concessione di Tientsin (porto di Pechino). Non si trattò
di un grande possedimento (erano in totale 457.800 m²), e se si vanno
a guardare le mappe della zona appare più uno striminzito lembo di
terreno incastrato fra quelli ben più grandi delle altre super
potenze. Le ragioni che portarono il Regno d’Italia ad ottenere questa
Concessione risalgono alla Rivolta dei Boxer (1899-1901), la quale
scoppiò in Cina a causa di un gruppo di nazionalisti chiamatisi
inizialmente “Pugno della giustizia e della concordia” oramai stanchi
delle ingerenze straniere nel loro paese. Fin da subito i rivoltosi
vennero identificati come “Boxer” per via della parola “pugno” nel
loro nome, derivante dal fatto che i ribelli avevano spesso come basi
operative delle scuole di kung fu. L’Italia partecipò con l’Alleanza
delle otto nazioni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, Giappone,
Austria-Ungheria,
dell’insurrezione
Germania
e,
a
e
partire
Francia)
dal
7
alla
giugno
soppressione
1902,
le
venne
riconosciuta la zona di Tientsin.
Nella prima immagine, planimetria di Tientsin – possedimento italiano
in Cina. Nella foto centrale fanteria montata italiana in Cina durante
la Rivolta dei Boxer. Nella foto di destra la piazza Regina Elena a
Tientsin con il Monumento ai Caduti e la colonna della Vittoria.
Nel periodo in cui si approntava il Corpo, la Regia Marina spedì in
avanscoperta le unità navali dell’incrociatore Fieramosca e le Regia
Nave “Vesuvio” e “Vettor Pisani“, le quali cariche di quattro
compagnie di fanti di marina, comandati dell’ammiraglio Risolia. Il
Corpo di Spedizione partì la sera del 19 luglio 1900 e dopo aver
sostato a Port Said (il 23 luglio), ad Aden (il 29) e a Singapore (dal
12 al 14 agosto), giunse a Taku il 29 agosto 1900. Una volta sbarcato
il personale percorse in treno i 150 chilometri che lo separavano da
Pechino.
Il contingente internazionale nominò il 26 settembre quale
comandante generale il Feldmaresciallo tedesco Alfred von Waldersee.
Tale nomina incontrò le forti resistenze di Francia e Gran Bretagna,
meno dal Regno d’Italia. Al contingente militare italiano fu affidato
il presidio di un quartiere nei dintorni della caserma Huang Tsun. A
detta delle cronache gli scontri, i saccheggi e le repressioni in tale
zona furono minori che in altri quartieri. Al contingente militare
italiano venne inoltre affidato il compito di contrastare le ultime
resistenze all’interno della Cina. Il 2 settembre furono conquistati i
forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini su tre compagnie, due di
bersaglieri e una di fanti di marina. In un’altra occasione il
contingente militare francese occupò il villaggio di Paoting-fu, in
contrasto
con
gli
ordini
di
von
Waldersee
che
prevedevano
l’affidamento dei luoghi a un contingente misto tedesco e italiano.
Garioni anticipò il contingente militare francese riuscendo, alla
guida di 330 uomini, ad anticipare l’occupazione della cittadina
Cunansien originariamente affidata ai francesi.
Il rientro in Italia del Contingente ebbe inizio nell’agosto 1901. Due
compagnie di bersaglieri fecero ritorno nel 1902, mentre le restanti
compagnie, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al
1905 e fecero ritorno con la Perseo della Compagnia Florio Rubattino
nell’agosto 1905.
Durante la permanenza in Cina del Corpo di spedizione italiano, rimane
la ricca testimonianza di due ufficiali “fotografi”: Il tenente medico
Giuseppe Messerotti Benvenuti di Modena (al centro) armato di una
Kodak e il tenente Luigi Paolo Piovano di Chieri con una Goertz (a
sinistra). Entrambi non mancheranno di fotografare anche gli orrori
della repressione, ovvero le fucilazioni, le decapitazioni, le gogne e
le macerie. Nella foto di destra: truppe della Alleanza delle otto
nazioni, Tianjin 1900.
Con il Trattato di Pace del 7 settembre 1901, venne ottenuta la
Concessione italiana di Tientsin, una zona di 450.000 m², costituita
da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia
area paludosa adibita a cimitero. Dopo un periodo di disinteresse, fu
avviata una bonifica. La presenza italiana perdurò sino al 10
settembre 1943, quando le truppe giapponesi occuparono Tientsin e
fecero prigionieri civili e militari italiani.
Formalmente il dominio italiano dell’area venne riconosciuto fino al
Trattato di Parigi del 1947, ma di fatto l’occupazione giapponese nel
1943, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, aveva già tolto la
zona dalle disponibilità italiane.
Tornando verso il mediterraneo e in maniera specifica in nord-Africa,
oggi si parla spesso nei telegiornali del problema migranti, della
Libia e delle altre terre insanguinate dal fondamentalismo islamico,
delle misure che possono essere prese al fine di proteggere l’Europa
dagli attacchi dell’ISIS. L’Italia è senza dubbio al centro di tali
questioni che la legano indissolubilmente alla terra libica. Gli
stessi rapporti fra Berlusconi e Gheddafi ci portano a riconsiderare
le relazioni che la nostra penisola ha avuto nel corso del tempo con
questa
zona
sempre
particolarmente
calda
dal
punto
di
vista
geopolitico.
L’Italia nel settembre 1911 dichiarò guerra al decadente Impero
Ottomano per la conquista di due regioni, Cirenaica e Tripolitania,
che successivamente, nel 1934, avrebbero formato insieme ad altri
possedimenti la colonia di Libia. La guerra, che terminò nell’ottobre
del 1912, permise all’Italia di conquistare anche le isole del
Dodecaneso. Con il Trattato di Losanna nel 1912 venne inoltre
riconosciuto dalla Turchia il possesso italiano delle zone appena
conquistate, comprese le isole nel Mar Egeo, non più rivendicate dal
paese sconfitto.
Mappa che mostra i movimenti militari del regio-esercito italiano
nella regione che oggi chiamiamo Libia. Nell’immagine centrale una
stampa raffigurante i combattimenti durante le conquiste contro
l’esercito ottomano. Nella foto di destra, bersaglieri al riparo di
una trincea durante gli scontri vicino Sidi Messri.
Questo
conflitto
fu
importante
sotto
vari
punti
di
vista.
Innanzitutto, fu appoggiato in pieno dalla Francia che così sperava di
limitare la presenza britannica nella zona. Come vediamo, ancora una
volta si preferisce avere accanto un nemico di “serie B” come l’Italia
piuttosto che la potenza inglese. Inoltre, la campagna di Libia mise
in mostra le difficoltà dell’Impero Ottomano, una compagine oramai in
piena decadenza, sulla quale le forze balcaniche avrebbero potuto
avere gioco facile in un eventuale conflitto. Infine, questa guerra va
ricordata per i progressi tecnologici in campo militare che vennero
utilizzati. Fu il primo conflitto nel quale si utilizzarono automobili
(prodotte dalla FIAT); fecero la loro comparsa gli aeroplani, anche se
siamo lontani ancora dal loro utilizzo massiccio come avverrà invece
nella Seconda Guerra Mondiale. Infine, si registra l’utilizzo della
radio al fine di permettere una migliore cooperazione fra le truppe,
con Guglielmo Marconi che collaborò con il regio-esercito. Dopo il
Trattato di Losanna l’impero coloniale italiano contava Eritrea,
Somalia italiana (prima protettorato, poi dal 1908 colonia), Libia e
isole del Dodecaneso.
Abbiamo già detto in precedenza come, al termine della spartizione
dell’Africa nell’ultimo ventennio dell’800, solamente l’Impero Etiope,
assieme al piccolo stato della Liberia, fosse rimasto indipendente. In
Italia l’avvento della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime,
riuscì per poco tempo, ad occupare anche questo territorio e ad
istituire successivamente l’Impero.
A seguito del primo conflitto mondiale l’Italia era riuscita ad
ampliare leggermente alcuni suoi possessi in Somalia ed in Libia e le
mire verso i territori nei Balcani e in Africa naufragarono nel vuoto.
Sul finire degli anni ’20 il nuovo Capo del governo Benito Mussolini,
leader del partito nazionale fascista, rispolverò il progetto
imperialista – mai sopito – richiamandosi nei suoi discorsi all’antico
e glorioso impero romano. Con un passato così importante alle spalle
era inconcepibile che l’Italia non possedesse un impero, mentre paesi
come la Gran Bretagna o la Francia avessero terre in Asia e Africa;
addirittura il piccolo Portogallo veniva accusato di avere un impero
tropo esteso rispetto alle sue dimensioni.
La scelta ricadde sull’Abissinia, perché la sua annessione avrebbe
rappresentato un ottimo colpo, permettendo all’Italia di rafforzare la
sua presenza nella regione ai danni delle altre potenze (Gran Bretagna
e Francia in primis). Inoltro la nazione italiana nel 1935 era in
piena recessione economica, per le politica errate del regime, il
quale – dopo tre rivoluzioni industriali – aveva attuato il progetto
di uno Stato rurale. Tale recessione poteva essere superata solo con
un conflitto bellico che facesse smuovere l’economia del paese. Vi
era, in aggiunta, la remota possibilità di connettere il territorio
etiope con quello libico, divisi dal Sudan anglo-egiziano. La
conquista di Khartoum avrebbe consentito di collegare le colonie
italiane nel Corno d’Africa con la Cirenaica e dare così una grossa
spallata ai guadagni economici britannici nella zona, isolando
praticamente l’Egitto. Inoltre, era quanto mai necessario vendicare la
cocente sconfitta operata da Menelik nel 1896.
Si presentavano però anche notevoli difficoltà. La zona era nevralgica
per l’economia inglese, e la loro presenza nella regione non li
avrebbe visti certo indifferenti di fronte ad un’azione del genere da
parte dell’Italia. Inoltre, le truppe etiopi, mediante guerriglia,
avrebbero reso la conquista del territorio estremamente difficoltosa.
Infine, l’Etiopia era dal 1923 membro della Società delle Nazioni, e
un’azione militare di un membro contro un altro membro avrebbe portato
a dure sanzioni.
L’articolo XVI dell’organizzazione citava: “se un membro della Lega
ricorre alla guerra[…]sarà giudicato ipso facto come se avesse
commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui
prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le
relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra
i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e
all’astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale
tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di
qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”.
Il 3 ottobre 1935 l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia. Per la prima
volta, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un paese europeo
rompeva l’ordine postbellico. Mussolini seppe sfruttare abilmente un
attacco operato dagli etiopi un anno prima a Ual Ual, nel quale 80
italiani persero la vita nel cercare di difendere la postazione. Il
dispiegamento di truppe fu imponente; perfino gli aerei giocarono un
ruolo decisivo nelle sorti del conflitto. I combattimenti terminarono
l’anno seguente, quando Vittorio Emanuele III venne incoronato
Imperatore d’Etiopia, il 9 maggio del 1936. Da questo momento sarebbe
più
opportuno
parlare
di
Africa
Orientale
Italiana
(A.O.I.),
comprendente Impero Etiope, Eritrea e Somalia Italiana.
I Regi corpi truppe coloniali (RCTC) erano dei corpi delle forze
armate del Regno d’Italia nei quali vennero raggruppate tutte le
truppe di ogni colonia, fino alla fine della seconda guerra mondiale
in Africa. Tali truppe dipendevano direttamente dai governatori delle
colonie italiane. Erano corpi autonomi pluriarma, con unità di
fanteria, artiglieria, cavalleria e genio proprie. Dal 1924 ai RCTC di
Tripolitania e Cirenaica e alle forze armate dell’AOI vennero
aggregate le legioni e battaglioni della Milizia Coloniale della
Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Tutti gli Ufficiali
erano nazionali del Regio Esercito, i sottufficiali sia nazionali che
indigeni, mentre la truppa era nella quasi totalità composta da
eritrei, somali, etiopi, libici ed in piccola parte yemeniti e
sudanesi. Queste truppe furono impiegate su tutti i fronti africani a
partire dalla guerra d’Eritrea e dalla guerra di Abissinia, poi nella
guerra italo-turca, fino riconquista della Libia. Nella campagna di
conquista dell’Etiopia il RCTC d’Eritrea fornì un intero Corpo
d’armata eritreo. Nel 1940 erano presenti 182.000 ascari nell’Africa
Orientale Italiana e 68.000 nazionali, mentre 74.000 ascari erano di
stanza in Libia durante la seconda guerra mondiale.
Nei cinque anni nei quali l’Italia gestì questo territorio vennero
costruite strade, porti e ferrovie, ma anche scuole, ospedali ed
acquedotti, favorendo l’inizio dell’industrializzazione; venne inoltre
regolamentata la caccia e incentivata la protezione ambientale nei
territori dell’A.O.I. Purtroppo però, il mito degli “italiani brava
gente”
può
essere
facilmente
smentito
osservando
le
feroci
rappresaglie operate dai militari e le armi da essi utilizzate nei
territori appena conquistati: gas asfissianti ed iprite vennero
rivolti contro civili inermi, così come i molti campi definiti “della
morte” in Libia, dove la gli internati erano ridotti alla fame e a
dure fatiche: un lato oscuro e triste nella storia coloniale italiana.
Da capire come, le vessazioni verso la popolazione indigena erano
perpetrate in tutte le nazioni europee sia in africa che in asia e
questa pratica – oggi condannata giustamente da tutte le nazioni
democratiche – era considerata “normale”; anzi sotto i possedimenti
italiani le angherie – soprattutto dopo aver allontanato il generale
Graziani – erano molto meno pesanti che nei possedimenti anglo-
francesi. L’Italia ebbe il merito di aver costruito di più tra tutte
le potenze coloniali europee.
A seguito dell’attacco all’Etiopia le sanzioni della Società delle
Nazioni non tardarono ad arrivare il 6 ottobre del 1935. Si trattava
di limitazioni economiche che vietavano l’esportazione di prodotti
italiani all’estero e l’importazione di prodotti utili per la
continuazione della guerra in Africa. Il tutto non fece altro che
accentuare le politiche autarchiche mussoliniane, provocando grossi
danni ad alcuni settori della nostra industria e costringendo quindi
molti contadini a dover lasciare il paese per cercare fortuna e terra
in Africa, investendo per le infrastrutture di queste regioni
piuttosto che per quelle del Mezzogiorno.
Per la prima volta nella storia, la Società delle Nazioni multava un
paese membro. Purtroppo però le sanzioni vennero facilmente aggirate,
e paesi che al comitato le avevano decise e successivamente votate,
alla fin fine si astennero dal rispettarle. La Società delle Nazioni
nacque con un onorevole obiettivo, evitare con ogni mezzo altre guerre
e sconvolgimenti: questo fu uno dei suoi più clamorosi insuccessi
(addirittura le sanzioni verranno revocate da lì a sette mesi). La sua
presa di posizione nei confronti dell’Italia non fece altro che
velocizzare l’avvicinamento tra il nostro paese e la Germania di
Hitler.
Dal 7 aprile 1939 anche l’Albania venne annessa all’impero, mentre
Kosovo, parte della Macedonia e del Montenegro furono aggiunti nel
1941. Nel 1940 si provò ad includere anche il Somaliland (Somalia
britannica), ma già l’anno successivo queste zone, compresa la Somalia
Italiana e gli altri territori dell’Africa orientale, vennero occupate
una volta per tutte dagli inglesi, decretando la fine dell’A.O.I.
L’Italia
coloniale
si
ritrovò
subito
–
fin
dal
1940
–
nell’impossibilità di combattere una guerra pari a quella del nemico,
il quale disponeva dei carri armati: armamento e materiale bellico che
il regio-esercito non aveva e che non poteva perforare. Inoltre i
britannici
avevano
la
possibilità
di
ricevere
continui
approvvigionamenti (dati dal vasto impero coloniale), mentre il nostro
contingente africano era isolato completamente: l’esito fu scontato,
nonostante gesti eroici come quello di Amedeo Guillet o di Amedeo di
Savoia duca d’Aosta.
L’immagine ritrae la battaglia di Culqualber, combattuta in Abissinia
(l’attuale Etiopia) dal 6 agosto al 21 novembre 1941 fra italiani e
britannici. Eroica la resistenza dei reali-carabinieri del regioesercito.
Diverse le vicende in Libia (e in Tunisia), persa nel 1943 ad opera
delle forze alleate nella Campagna del Nord Africa. Nello stesso anno
anche i territori nei Balcani subirono un forte ridimensionamento
mentre le isole nel Mediterraneo vennero formalmente perse poiché
passarono sotto il controllo tedesco dopo l’8 settembre.
Da questo momento sarebbe sbagliato parlare di Impero coloniale. In
Italia la situazione era completamente degenerata e tutti i progetti
di Mussolini potevano dirsi tramontati. Il progetto di unificazione
fra i territori dell’A.O.I e la Libia avrebbe sicuramente permesso
all’Italia di essere determinante negli equilibri della zona,
assicurandole il controllo di Suez e degli introiti ad esso connessi.
Purtroppo però l’inefficienza degli approvvigionamenti e alcuni errori
militari degli alti comandi, giocarono un ruolo decisivo e l’Italia si
trovò a dipendere sempre di più dall’alleato tedesco.
Nel 1947, con
il Trattato di Parigi, il nostro paese venne spogliato ufficialmente
di tutti i suoi possedimenti.
Un’ultima parentesi, anche se di poco conto, si ebbe in Somalia
(comprendente
britannica),
adesso
la
anche
quale
ci
i
territori
venne
della
affidata
per
vecchia
dieci
Somalia
anni
in
amministrazione da parte delle Nazioni Unite nel 1950 fino alla
costituzione della Repubblica indipendente di Somalia (1960).
Concludo con questa frase di Ferdinando Martini, che forse riassume le
prospettive italiane in ambito coloniale: “Si dice che gli italiani
non
sanno
mai
quello
che
vogliono,
ma
su
certi
punti
sono
irremovibili: vogliono la grandezza senza spese, l’economia senza
sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è
difficile da effettuare.”
Per approfondimenti:
_Emanuele Felice, Ascesa e declino. storia Economica d’Italia
_Sabbatucci-Vidotto, Storia contemporanea. Il novecento
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