DALLE CENERI dall’opera di Tahar Ben Jelloun con Ibrahima Diouf, Ndiawar Diagne, Marie Madaleine Mendy, Mamadou Seye, Jean Guillaume Tekagne regia e scena MASSIMO LUCONI costumi Aurora Damanti luci Roberto Innocenti musiche Mirio Cosottini, Selif Keita produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana con la collaborazione di Centro culturale francese di St. Louis (Senegal), Associazione APPI, Comunità senegalese di Prato PRIMA NAZIONALE Spettacolo visto al Fabbricone il 29 gennaio 2015 Recensione di Laura Buscemi Molte volte ci ritroviamo ad ascoltare o a leggere storie di eventi drammatici, di esseri umani rapiti dalla morte per i vizi dei potenti, di coloro che pensano di essere vivi perché possono sedere su una poltrona d’oro, discutendo sul futuro dei popoli con un’arma nel cassetto, al di sopra di ogni sospetto. Molti sono infatti gli avvenimenti conflittuali a cui oramai assistiamo da secoli, così tanti da sembrare quasi la normalità, senza lasciar spazio allo stupore e senza accorgersi di quanti innocenti, che siano bambini o adulti, profughi o clandestini, perdono la vita tutti i giorni, o comunque la loro dignità, i loro diritti, divenendo cenere sperduta nel vento. Ed è questo che spinge il regista Massimo Luconi a portare per la prima volta in scena al Teatro Fabbricone di Prato lo spettacolo Dalle ceneri, dando voce ai tanti corpi insepolti delle guerre attraverso i versi del poeta marocchino Tahar Ben Jelloun, noto principalmente per i suoi scritti sull'immigrazione e sul razzismo. Quattro angeli illuminano la scena con il loro candore, spolverando la memoria di un soldato devastato (protagonista interpretato dal giovane talento senegalese Ibrahima Diouf), un uomo dalla grande spiritualità che in maniera onirica e profonda, delicata e forte allo stesso tempo, riesce a scuotere i nostri animi, molto spesso indifferenti alle tragedie del nostro tempo. In una narrazione linguisticamente articolata, tra francese, wolof e italiano, fatta ora di canti e di litanie, ora di preghiere e di percussioni, gli spettatori sono immersi nella scena, sul palcoscenico, a stretto contatto con gli attori. Fra poesia e sogno, in un momento storico di cattiva informazione e di massificazione culturale e di perdita di valori, assistiamo ad una produzione teatrale dal grande spessore artistico che denuncia l’assurdità delle guerre e che ci porta inevitabilmente a riflettere, affinché tutti i morti abbandonati possano nuovamente rivivere ed essere perlomeno considerati. Recensione di Chiara Collina È Ibrahima Diouf il protagonista dello spettacolo Dalle ceneri del regista Massimo Luconi, che ci ha presentato un adattamento teatrale di un'opera dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun. Il regista porta lo spettatore in un altro mondo, o meglio, nel non mondo dove lo spazio non è definito perché non è né cielo né terra. Anche il tempo sembra continuamente ripetersi su se stesso ed è qui che si trova il protagonista, in questo non luogo senza tempo, perché lui non è più tra i vivi ma neppure tra i morti: il limbo. Questo destino è inevitabile per coloro che non vengono sepolti secondo i riti religiosi a causa della guerra; i loro corpi restano senza vita coperti dalla sabbia o sul fondo del mare e nessuno è interessato a recuperarli. Per questo non possono trovare la pace e vengono perseguitati dal loro passato: la memoria che riaffiora fa soffrire e le persone della vita precedente diventano solo delle ombre. La poesia accompagna il protagonista in questo viaggio senza meta e sembra essere l'unico aiuto che può ricevere. La sensazione di trovarsi in un luogo atemporale è favorita da due scelte registiche e scenografiche: la prima è stata quella di ricoprire tutto il palcoscenico con un grosso telo e di conseguenza non permettere allo spettatore di definire lo spazio in cui avviene la vicenda e la seconda di avere la presenza del pubblico direttamente sul palco a pochi passi dagli attori. In questo modo viene eliminato definitivamente quel distacco tra il pubblico e gli attori che nel teatro tradizionale nemmeno l'immaginazione dello spettatore più fervido può riuscire a colmare. Il protagonista parla in francese ma in molti casi le traduzioni non servono perché il dolore da lui espresso è universale e non ha bisogno di essere esplicitato. Il regista Luconi ha deciso di mettere a fianco di Ibrahima Diouf, l'unico vero attore, altri quattro attori non professionisti che però sono legati al primo non solo per la provenienza dal Senegal, ma anche da un profondo amore per il teatro e la recitazione. Recensione di Julia Margaret Pagliuca Massimo Luconi lavora con i suoi attori non professionisti concentrandosi sulle loro tradizioni e sul loro stile di vita, dando importanza all'Africa e in particolar modo al Senegal. Questa rappresentazione parla dei morti di guerra, un messaggio universale che può far riferimento a qualsiasi momento di conflitti, morti, disastri, orrori. È per coloro che sono abbandonati e dimenticati, distrutti da una guerra che lascia senza dignità i corpi degli uomini non sepolti e non ricordati. Lo spettacolo mette in scena quattro angeli neri (N. Diagne, M. M. Mendy, J. G. Tekagne, M. Seine) e un uomo morto a causa della guerra. Recitato in italiano e principalmente in francese, il pubblico trova posto anche a lato della scena, creando un effetto di coinvolgimento totale favorito dalla predisposizione del Fabbricone. L'opera punta all'essenza della poesia; un teatro, dunque, poetico che pone i suoi riferimenti nella cultura africana, con i suoi canti e i suoi riti. La messa in scena infatti si presenta come un rito di dolore e di preghiera, un'esorcizzazione. All'inizio tre angeli al centro della scena sono su un telo bianco e in sottofondo si ode il suono del mare. Trascinando il tessuto, al di sotto compare un uomo disteso in un baule. Un morto senza tomba, senza dignità, né memorie o nome. Ecco cosa resta di un'anima dopo la guerra, di un corpo sotto terra. Non restano che polveri e l'uomo (I. Diouf) racconta ciò che ha vissuto, quello che prova e del limbo nel quale si trova. Le lacrime sono verso gli uomini che si credono grandi e consapevoli, colti e superiori, c'è un grido di domanda per sapere se quella è dignità. Lo spettacolo è un inno al dolore, al rito per un corpo che non ha avuto sepoltura ma che senza membra, braccia, gambe e occhi, ha solo la sua anima che vaga senza tregua e senza pace in cerca di una giustizia e la cui stessa fine prende il nome di Destino. La scenografia si presenta essenziale e il baule è come una sorta di vita terrena, di raccoglimento di frammenti che hanno accompagnato la vita dell'uomo e adesso viene aperto, portato sempre dietro, trascinato, perché è l'unica cosa sulla quale aggrapparsi. Sul fondo della scena vengono proiettate le traduzioni dalla lingua francese e l'attore principale viene a contatto col pubblico avvicinandosi quasi a sfiorarlo. Le luci si proiettano sui singoli attori per isolarli da tutto il resto che sostanzialmente non esiste. Suoni, talvolta, accompagnano il rito, fino ad arrivare verso la fine della stessa rappresentazione in cui canti africani vengono rievocati dall'uomo morto. Le parole di questo teatro, dunque, diventano il modo per trovare un respiro dal dolore e per cercare sollievo in un luogo senza memorie.