I filosofi presocratici – la filosofia della physis

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I filosofi presocratici – la filosofia della physis
Il primo periodo della filosofia (VI e V secolo a.C.) è chiamato, come abbiam detto, naturalistico, perché i primi
filosofi greci si occuparono della natura (=physis) e del cosmo, e in particolare del principio (=arché) della natura,
vale a dire della causa prima e del fondamento della realtà. I filosofi naturalisti vengono anche chiamati presocratici
perché precedono la svolta umanistica del pensiero filosofico che si realizzò ad Atene nella seconda metà del V
secolo.
La filosofia naturalista non si sviluppò nelle città dell'Ellade, ma nelle colonie greche della Ionia e della Magna
Grecia, che godevano di maggiore libertà politica e di un maggior dinamismo sociale ed economico.
Le opere scritte dai presocratici non sono giunte fino a noi: conosciamo il loro pensiero attraverso frammenti e
testimonianze. I frammenti sono citazioni contenute nelle opere di autori successivi, le testimonianze sono brevi
presentazioni delle dottrine dei presocratici fatte da autori successivi; il primo autore che ha riportato abbastanza
sistematicamente le tesi dei presocratici è stato Aristotele di Stagira, grande filosofo del IV secolo, il quale
generalmente, prima di esporre le proprie idee, riferisce e commenta quelle dei suoi predecessori. La conoscenza del
pensiero dei primi filosofi è quindi piuttosto incompleta e imprecisa, ma ci consente comunque di ricostruire con
buona attendibilità le tesi principali e il senso complessivo del pensiero dei primi filosofi.
La scuola ionica.
La filosofia greca nasce a Mileto, importante città greca della Ionia. I primi tre filosofi, Talete Anassimandro e
Anassimene, vivono in questa città e probabilmente Talete fu maestro di Anassimandro e Anassimandro fu maestro di
Anassimene. Certamente esistono temi comuni e influenze reciproche tra questi filosofi e per questo si fa riferimento
ad essi parlando di "scuola ionica".
TALETE
Il pensatore con il quale la tradizione fa iniziare la filosofia greca è Talete, vissuto a Mileto nella Ionia, probabilmente
negli ultimi decenni del VII secolo e nella prima metà del VI a.C. Oltre che filosofo, fu scienziato e assennato politico.
Non risulta che abbia scritto libri; conosciamo il suo pensiero solo attraverso testimonianze.
Talete fu iniziatore della filosofia della Physis, in quanto affermò per primo che esiste un principio originario unico,
causa di tutte le cose, e sostenne che tale principio è l'acqua.
"Principio" (arché) è, come rileva Aristotele nella sua esposizione del pensiero dei primi naturalisti, "ciò da cui
derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo tutti gli esseri", è "una realtà che permane identica nel
trasmutarsi delle sue affezioni".
Il principio è quindi:
 la fonte e l'origine di tutte le cose,
 la foce o il termine ultimo di tutte le cose,
 Il permanente sostegno di tutte le cose.
In breve, il principio può essere definito come ciò da cui vengono, ciò a cui vanno a finire, ciò per cui sono e
sussistono tutte le cose.
La tradizione indiretta dice che Talete ha desunto l’idea dell’acqua come principio “dalla constatazione che il
nutrimento di tutte le cose è umido” e che i semi e i germi di tutte le cose “hanno natura umida” e che il totale
disseccamento è la morte. Poiché, dunque, la vita è legata all’umido e all’acqua, l’acqua è l’origine ultima della vita e
di tutte le cose. Alcuni, già nell’antichità, avevano cercato di ridurre la portata di queste affermazioni di Talete,
richiamando come antecedenti i racconti mitologici (di Omero e altri) che consideravano Oceano e Teti padre e madre
delle cose. Ma la differenza tra la posizione di Talete e quella dei miti è nettissima, perché Talete basa le sue
asserzioni sul ragionamento, sul logos: presenta una forma di conoscenza motivata con precise argomentazioni e non
più con rappresentazioni create dall'immaginazione.
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Del resto, a quale livello di razionalità si fosse già elevato Talete è dimostrato dal fatto che egli aveva indagato i
fenomeni del cielo al punto di predire (fra lo stupore dei concittadini) una eclissi (forse quella del 585 a.C.). Al suo
nome è legato anche un celebre teorema di geometria.
Il fatto che l'acqua fosse considerata da Talete principio di tutte le cose in quanto principio di vita ci fa comprendere
che Talete aveva una concezione ilozoistoica (ile = materia + zoé=vita) e panpsichista (pan=tutto + psiché=anima),
riteneva cioè che tutta la natura fosse viva e animata. Ma la tradizione riferisce anche che Talete affermava che “tutto
è pieno di dei”: da ciò possiamo inferire che l'acqua era considerata da Talete un principio divino, animatore e
generatore di vita; in tal modo Talete introduceva anche una concezione panteistica della divinità, una concezione
fondata sulla ragione, molto lontana dal politeismo fantastico-poetico dei Greci.
ANASSIMANDRO
Nato a Mileto verso la fine del VII secolo a.C. e morto intorno alla metà del VI, Anassimandro fu probabilmente
discepolo di Talete. Scrisse un trattato Sulla natura, di cui ci è giunto un frammento; si tratta del primo trattato
filosofico dell'Occidente e della prima opera scritta in prosa dei Greci. La nuova forma di composizione letteraria era
resa necessaria dal fatto che il logos doveva essere libero dai vincoli del metro e del verso, per rispondere pienamente
alle proprie istanze. Anche Anassimandro, come Talete, partecipò attivamente alla vita politica della sua città.
Con Anassimandro la problematica del principio si approfondisce . Egli parte dalla considerazione che tutte le cose,
compresa l'acqua, sono finite e determinate (hanno cioè una qualità definita); il principio (arché) da cui provengono
tutte le cose dovrà essere del tutto diverso dalle cose derivate, dovrà quindi essere àpeiron, vale a dire infinito (o
illimitato) e indefinito (o indeterminato). Tutte le cose derivano dal principio àpeiron come sue delimitazioni e
determinazioni.
Questo infinito-àpeiron “appare come il divino, perché è immortale e indistruttibile”: osserviamo che anche
Anassimandro, come Talete, identifica l'arché con il divino e rifiuta le mitologie tradizionali, che attribuivano una
nascita agli dei (cfr. le teogonie).
Talete non aveva cercato di spiegare come e perché tutte le cose derivino dal principio, e poi si corrompano;
Anassimandro, al contrario, affronta questo problema e afferma che le cose derivano dall'àpeiron staccandosi da esso
per formare delle coppie di contrari (caldo e freddo, secco e umido, luce e tenebra ecc.) che continuamente lottano e
cercano di sopraffarsi, fino a distruggersi a vicenda e a dissolversi di nuovo nell’àpeiron. La causa dell’origine delle
cose è una ”ingiustizia”, e la causa della corruzione e della morte è una “espiazione dell’ingiustizia”: ingiustizia è la
separazione dall’àpeiron, la scissione dei contrari, la lotta continua tra di essi, espiazione dell’ingiustizia è la morte, la
dissoluzione, che pone fine alla lotta e riporta i contrari nell’unità indifferenziata dell’àpeiron. Come molti studiosi
hanno notato, sembra innegabile in questa visione un’influenza di concezioni religiose orfiche; nell’Orfismo, infatti, è
centrale l’idea di una colpa originaria (per cui le anime si separano dal divino) e dell’espiazione della colpa (che
permette il ritorno delle anime).
Anassimandro, frammento 1 DielsKranz: “Il principio degli esseri è l’infinito (…) di dove infatti gli esseri
hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto
dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”
ANASSIMENE
Sempre di Mileto è nativo Anassimene (VI secolo a.C.), discepolo di Anassimandro, del cui scritto Sulla natura ci
sono giunti tre frammenti.
Anassimene pensa che il principio debba essere infinito, ma debba essere pensato come aria infinita. E’ evidente che
Anassimene attua una sintesi tra il pensiero di Talete, in quanto individua come arché un elemento materiale
necessario alla vita, e il pensiero di Anassimandro, in quanto l’aria possiede i caratteri dell’àpeiron (illimitatezza e
indeterminatezza); il suo pensiero quindi potrebbe essere considerato poco originale. Tuttavia Anassimene ha il merito
di spiegare la derivazione delle cose in modo più razionale rispetto ai suoi maestri. Infatti, come abbiamo visto, Talete
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non aveva spiegato le cause e i modi della derivazione, e Anassimandro aveva dato una spiegazione che si ispirava a
concezioni religiose orfiche, più che ad argomentazioni logiche. Anassimene invece introduce una causa di tipo fisico,
infatti spiega che le cose derivano dall’aria per un processo di condensazione e di rarefazione: l’aria raffreddandosi si
condensa e si trasforma in acqua e in terra, l’aria riscaldandosi si rarefa e diventa fuoco. Sono così individuati i quattro
elementi fondamentali (aria, acqua, terra, fuoco) che corrispondono agli stati della materia (gassoso, liquido, solido e
igneo) e che combinandosi tra loro generano tutte le cose. La teoria secondo cui tutte le cose sono costituite solo da
questi quattro elementi è stata considerata valida per tutta l’antichità e per tutto il medioevo.
ERACLITO di Efeso
Fra il VI e il V secolo a.C. visse Eraclito, a Efeso. Scrisse un libro intitolato Sulla natura, di cui ci sono pervenuti
numerosi frammenti, costituito da una serie di aforismi, e volutamente composto in maniera oscura e con stile che
ricorda le sentenze oracolari, «perché vi si accostassero solo quelli che lo potevano» e il volgo se ne stesse lontano.
Era infatti scontroso di carattere e aveva un temperamento sdegnoso, tanto che non volle in alcun modo partecipare
alla vita pubblica: «Pregato dai concittadini di dar leggi alla città - scrive una fonte antica - rifiutò, perché essa era
già caduta in balìa della cattiva costituzione». Probabilmente egli apparteneva alla aristocrazia, e quindi rifiutava
l'ordinamento democratico della sua Polis, ma il suo atteggiamento altezzoso era motivato anche da una precisa
concezione gnoseologica: affermava infatti che tutti gli uomini possiedono l’intelletto (nous) e hanno quindi la
capacità di arrivare a un punto di vista comune, universale, ma in realtà solo i filosofi conoscono questo universale,
che viene chiamato Logos, cioè ragione e legge che regola e governa tutte le cose. La maggioranza degli uomini
invece non va oltre la conoscenza dei sensi, e conosce quindi solo l’apparenza delle cose, possiede solo opinioni
soggettive, senza giungere alla verità universale e oggettiva. Eraclito dunque è il primo filosofo che contrappone la
conoscenza empirica, superficiale e soggettiva, alla conoscenza razionale, profonda e oggettiva. Il disprezzo di
Eraclito per le opinioni delle masse si estendeva anche alle credenze religiose tradizionali e ai racconti favolosi di
Omero ed Esiodo.
Eraclito – Il Logos come legge universale
“Bisogna seguire ciò che è universale, ciò che è universale è comune ad ogni intelletto; ma i più vivono come se
avessero una loro saggezza particolare” (fr. 2 DK). “Il pensare è comune a tutti” (fr. 113 DK)
“Ascoltando non me, ma il Logos è saggio riconoscere l’unità del tutto” (fr. 50 DK)
II flusso perpetuo di tutte le cose
Eraclito porta la ricerca dei tre Milesi su posizioni decisamente più avanzate e apre nuovi orizzonti al pensiero
filosofico. I Milesi avevano notato l’universale dinamismo del mondo e delle cose che nascono, crescono e periscono;
tuttavia non avevano approfondito tale aspetto della realtà e le conseguenze che ciò comporta. Ed è appunto questo che
fece Eraclito. Tutto si muove, tutto scorre (panta rhei), nulla resta immobile e fisso, tutto cambia e trasmuta senza
eccezione, analogamente alla corrente di un fiume.
Eraclito - Tutto scorre [panta rhei)
“A chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre nuove.” (fr. 12 DK)
“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel
medesimo stato; ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (…),
viene e va”. (fr. 91 DK)
“Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo.” (fr. 49a DK)
Il fiume è “apparentemente” sempre lo stesso, mentre “in realtà” è costituito da acque sempre nuove e diverse che
sopraggiungono e si dileguano. Perciò nella medesima acqua del fiume non si può discendere due volte, appunto
perché, quando si discende la seconda volta, è ormai altra acqua che sopraggiunge; e anche perché noi stessi mutiamo
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e, al momento in cui abbiamo completato l’immersione nel fiume, siamo diventati diversi da quando ci siamo mossi
per immergerci.
E può anche dire che noi siamo e non siamo perché, per essere ciò che siamo in un determinato momento, dobbiamo
non-essere-più quello che eravamo in precedenza. Questo, secondo Eraclito, vale per ogni realtà senza eccezione.
Questo è, senza dubbio, l’aspetto più noto della dottrina di Eraclito divenuto più noto, anzi la filosofia di Eraclito è
stata identificata, fin dall’antichità, con il panta rhei (anche se in realtà questa frase non compare nei frammenti di
Eraclito giunti fino a noi)
La dottrina dell’armonia dei contrari
Ma, per Eraclito, tutto ciò non è che il punto di partenza per ulteriori riflessioni. Il divenire che caratterizza ogni cosa
è costituito da un continuo passare da un contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, le calde si raffreddano, le
umide si disseccano, le secche si inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che è morto rinasce
altra vita, e così via.
Fra i contrari che si avvicendano c’è, dunque, guerra perpetua. Ma poiché ogni cosa ha realtà proprio e solo nel
divenire, la guerra fra gli opposti si rivela essenziale: «La guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose è regina».
Ma questa guerra è, allo stesso tempo, pace, e questo contrasto è anche armonia.
Infatti lo scorrere perpetuo delle cose e il divenire universale si rivelano come unità e armonia di contrari: ogni cosa
esiste e si manifesta solo in rapporto al suo contrario, per cui apparentemente la luce distrugge il buio, e viceversa, ma
in realtà la luce esiste e si rende conoscibile grazie al buio. Un altro esempio proposto da un frammento di Eraclito è
quello dell’arco: l’arco esiste e funziona bene proprio perché è formato da due elementi “in lotta”: l’asta di legno che
tende la corda e la corda di legno che piega l’asta.
Questa armonia e unità degli opposti è il principio, e quindi Dio o il divino: «Il Dio è giorno-notte, è inverno-estate, è
guerra-pace, è sazietà-fame».
Eraclito: L'armonia degli opposti
“Il Conflitto (Pólemos) è padre di tutte le cose e di tutte re; gli uni li ha fatti essere dei, gli altri uomini, gli uni
schiavi e gli altri liberi.” (fr. 53 DK)
“Ciò che è opposto si concilia, che dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e che tutto si genera per via di
contesa.” (fr. 8 DK)
“Essi "uomini ignoranti" non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari,
come l'armonia dell'arco e della lira.” (fr. 51 DK)
“La malattia rende cosa dolce e buona la salute, la fame rende dolce la sazietà, e la fatica rende dolce il riposo.” (fr.
111 DK)
“La via in su e la via in giù sono una sola e medesima via.” (fr. 60 DK)
“Nella circonferenza del cerchio il principio e la fine coincidono.” (fr. 103 DK)
“Non dando ascolto a me, ma alla ragione (logos), è saggio ammettere che tutto è uno.” (fr. 50 DK)
Identificazione del principio con il fuoco e con il logos
Eraclito ha inoltre indicato il fuoco come principio fondamentale e ha considerato tutte le cose come sue
trasformazioni.
Tale elemento esprime infatti in maniera esemplare le caratteristiche del mutamento continuo, del contrasto e
dell’armonia. Il fuoco è continuamente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è continua trasformazione
di questo in cenere, in fumo e in vapori, è, come Eraclito dice del suo Dio, perenne «fame e sazietà».
Questo fuoco è come «fulmine che governa tutte le cose»; e ciò che governa tutte le cose è intelligenza, è ragione, è
logos, è legge razionale.
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Eraclito: il fuoco, simbolo del Logos e dell’unità dei contrari
“Questo ordine cosmico, identico per tutti, non lo fece né un dio né un uomo: esso era, è e sarà fuoco sempre vivo,
che regolarmente si accende e regolarmente si spegne” (fr. 30 DK)
“Il fuoco: fame-sazietà, guerra-pace” (fr. 116 DK)
PITAGORA E I PITAGORICI
Pitagora nacque a Samo. Secondo la tradizione visse nella seconda metà del VI secolo e morì all’inizio del V. Pare
che da Samo Pitagora sia passato in Italia dove, nella città di Crotone, fondò una scuola il cui messaggio, che
proponeva una nuova visione della vita di tipo mistico e ascetico, ebbe presto grandissimo successo e si diffuse in
molte altre città dell’Italia meridionale e della Sicilia: da Sibari a Reggio, da Locri a Metaponto, da Agrigento a
Catania.
La Scuola acquistò ben presto anche un notevole potere politico: l’ideale pitagorico proponeva una forma di
aristocrazia basata sui nuovi ceti dediti specialmente al commercio che, come abbiamo visto, avevano raggiunto un
livello elevato nelle colonie prima ancora che nella madrepatria. Il grande successo di queste nuove idee dovette
provocare una violenta rivolta dell’opposizione: si narra che i Crotonesi, temendo che Pitagora volesse diventare
tiranno della città, abbiano incendiato l’edifìcio in cui egli era radunato insieme con i suoi discepoli, che trovarono
quasi tutti la morte. Secondo alcune fonti, anche Pitagora sarebbe morto in questa circostanza; secondo altre, invece, si
sarebbe miracolosamente salvato fuggendo a Locri, per poi trasferirsi a Taranto e quindi a Metaponto, dove l’avrebbe
colto la morte.
A Pitagora sono attribuiti molti scritti; ma quelli pervenutici sotto il suo nome sono falsificazioni di epoca posteriore.
È possibile che il suo insegnamento sia stato solo (o prevalentemente) orale.
Circa il pensiero originario di questo filosofo possiamo dire ben poco. Le numerose Vite di Pitagora di epoca
posteriore non sono storicamente attendibili, perché il nostro filosofo già poco dopo la sua morte aveva perduto i tratti
umani agli occhi dei suoi seguaci; era venerato quasi come un nume, e la sua parola aveva quasi valore di oracolo. Già
Aristotele non aveva più a disposizione elementi che gli permettessero di distinguere Pitagora dai suoi discepoli e
parlava dei cosiddetti pitagorici, ossia di quei filosofi “che erano chiamati” o “che si chiamano Pitagorici”, filosofi che
(fenomeno nuovo rispetto ai filosofi precedentemente citati dove ciascuno rappresentava se stesso) ricercavano la
verità lavorando e studiando insieme.
Non è dunque possibile parlare del pensiero di Pitagora riferito a un personaggio singolo bensì del pensiero dei
pitagorici in senso globale.
Ma questo fatto, per quanto possa sembrare strano, non è anomalo, se si tengono presenti alcune prerogative peculiari
di questa Scuola. La Scuola era nata come una sorta di confraternita o di ordine religioso, organizzato secondo precise
regole di convivenza e di comportamento. Il suo fine era la realizzazione di un determinato tipo di vita, e, rispetto a
tale fine, la scienza e la dottrina costituivano come un mezzo: un mezzo che era come un bene comune, da cui tutti
attingevano e a cui tutti cercavano di dare incremento. Le dottrine erano considerate come un segreto di cui solo gli
adepti dovevano venire a conoscenza e di cui era severamente vietata la diffusione. Il primo pitagorico che pubblicò
opere fu Filolao, vissuto un secolo più tardi. Di conseguenza, fra la fine del VI secolo a.C. e gli inizi del IV secolo a.C.
il Pitagorismo potè arricchire notevolmente il proprio patrimonio dottrinale, senza che noi possiamo operare precise
distinzioni fra le dottrine originarie e quelle successive. Poiché, tuttavia, furono sostanzialmente omogenee le basi
sulle quali lavorò, è lecito considerare in blocco questa Scuola, appunto come già gli antichi hanno fatto, a cominciare
da Aristotele.
Il numero come arché
Con i pitagorici la ricerca filosofica passa dalle colonie ioniche di Oriente a quelle dell’Italia meridionale. Qui la
filosofìa crea una temperie culturale diversa e si affina notevolmente. Con netto mutamento di prospettiva, infatti, i
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pitagorici, invece che nell’acqua, nell’aria o nel fuoco, indicarono nel numero (e nei costitutivi del numero) il
principio.
Essi furono i primi a notare che in tutte le cose esiste una regolarità matematica, ossia numerica. Fu determinante la
scoperta che i suoni e la musica, alla quale i pitagorici dedicavano grande attenzione quale mezzo di purificazione e di
elevazione spirituale, sono traducibili in rapporti numerici e rappresentabili per mezzo della matematica: la diversità
dei suoni prodotta dai martelletti che battono sull'incudine dipende dalla diversità di peso (che è determinabile
secondo un numero), la diversità dei suoni delle corde di uno strumento musicale dipende dalla diversità di lunghezza
delle corde (anch’essa determinabile secondo un numero).
Non meno importante dovette essere la scoperta dell’incidenza determinante del numero nei fenomeni dell’universo:
sono leggi numeriche che determinano l’anno, le stagioni, i mesi, i giorni e così di seguito. Sono, ancora una volta,
precise leggi numeriche che regolano i tempi dell’incubazione del feto negli animali, i cicli dello sviluppo biologico e
i vari fenomeni della vita. È comprensibile che, spinti dall’euforia di queste scoperte, i pitagorici fossero portati a trovare anche inesistenti corrispondenze tra i numeri e fenomeni di vario genere. Ad esempio, per alcuni pitagorici, la
giustizia, in quanto ha come caratteristica quella di essere una sorta di contraccambio o di uguaglianza, era fatta
coincidere con il numero 4 o con il 9 (ossia 2 x 2 o 3 x 3, il quadrato del primo numero pari o quello del primo
dispari); l’intelligenza e la scienza, in quanto hanno il carattere di persistenza e immobilità, erano fatte coincidere con
l'1; mentre la mobile opinione, che oscilla in opposte direzioni, era fatta coincidere con il 2, e così via. In ogni caso
rimane indiscutibile la grande importanza della loro dottrina. Tuttavia l’uomo d’oggi ben difficilmente potrebbe
comprenderne a fondo il senso, se non cercasse di recuperare il significato arcaico del "numero". Per noi il numero è
un’astrazione mentale e quindi un ente di ragione; invece per l’antico modo di pensare (fino ad Aristotele) il numero è
una cosa reale, perché è pensato e rappresentato come un insieme di punti materiali 1, e proprio in quanto tale viene
considerato il principio costitutivo delle cose, come l’acqua per Talete o l’aria per Anassimene.
Gli elementi da cui derivano i numeri
Tutte le cose derivano dai numeri; tuttavia i numeri non sono il primum assoluto, ma derivano essi stessi da ulteriori
elementi e proprio tali elementi sono i principi primi di tutte le cose. In effetti, i numeri risultano essere una quantità
(indeterminata) che viene determinata da un limite. Due elementi risultano quindi costituire il numero: uno indeterminato o illimitato e uno determinante o limitante (o limite). Il numero nasce quindi «dall’accordo di elementi
limitanti e di elementi illimitati» e, a sua volta, genera tutte le altre cose. Ma proprio in quanto generati da un elemento
illimitato e da uno limitante, i numeri manifestano una certa prevalenza dell’uno o dell’altro di questi due elementi:
nei numeri pari predomina l’illimitato, mentre nei dispari prevale l’elemento limitante.
Se noi, infatti, raffiguriamo un numero con dei punti geometricamente disposti, notiamo che il numero pari lascia un
campo vuoto alla freccia che passa in mezzo e non trova un limite, mentre nel numero dispari, per contro, rimane
sempre una unità in più, che delimita e determina:
si pensi all’uso arcaico di utilizzare dei sassolini per indicare il numero e per fare operazioni, da cui è derivata
l’espressione “fare i calcoli” nonché il termine calcolare, dal latino calculus che vuol dire “sassolino”.
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Quindi anche per i pitagorici la realtà era costituita da coppie di contrari (realtà polare), che derivavano dall’originaria
opposizione tra illimitato e limitante: ecco i dieci contrari supremi individuati dai pitagorici:
1) limitante (limite) – illimitato , 2) dispari – pari , 3) quadrato – rettangolo , 4) uno - molteplice , 5) destro – sinistro ,
6) maschio - femmina , 7) fermo-mosso , 8) retto – curvo , 9) luce - tenebra , 10) buono - cattivo
Osserviamo che per i Pitagorici elementi positivi o perfetti erano il limitante e gli altri contrari collegabili al
limitante, mentre l’illimitato e gli altri elementi derivati da esso erano considerati negativi o imperfetti: infatti i
Pitagorici (e in genere tutti i Greci, con l’eccezione di Anassimandro) associavano l’illimitato all’incompiuto e
all’indefinito, e quindi lo consideravano imperfetto, mentre ritenevano perfetto ciò che aveva una misura precisa,
un’identità definita.
Il numero uno per i pitagorici non era né pari né dispari: è un parimpari, tanto è vero che da esso procedono tutti
i numeri, sia pari sia dispari; aggiunto a un pari genera un dispari e aggiunto a un dispari genera un pari. Lo zero
rimase invece sconosciuto ai pitagorici e alla matematica antica.
Il numero perfetto fu identificato con il 10, che visivamente era raffigurato come un triangolo perfetto, formato dai
primi quattro numeri, e avente il numero 4 per ogni lato (la tetraktys) :
La raffigurazione mostra che il 10 è uguale a 1 + 2 + 3 + 4. Ma c’è di più. Nella decade «sono contenuti egualmente il
pari (quattro pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari (quattro dispari 3, 5, 7, 9), senza che predomini una parte». Inoltre risultano
uguali i numeri primi e non composti (2, 3, 5, 7) e i numeri secondi e composti (4, 6, 8, 9) ecc. ecc.
Nasce così la teorizzazione del "sistema decimale" (si pensi alla tavola pitagorica) e la codificazione della
concezione della perfezione del 10 che resterà operante per interi secoli: «Il numero 10 è perfetto, ed è giusto secondo
natura che tutti, sia noi Greci sia gli altri uomini, ci imbattiamo in esso nel nostro numerare, anche senza volerlo».
Fondazione del concetto di cosmo
Tutto questo conduce a un’ulteriore conquista fondamentale. Se il numero è ordine («accordo di elementi illimitati e
limitanti»), e se tutto è determinato dal numero, tutto è ordine. E poiché in greco "ordine” si dice kosmos, i
pitagorici chiamarono l’universo “cosmo”, ossia “ordine”.
È dei pitagorici l’idea che i cieli, ruotando, appunto secondo numero e armonia, producano «una celeste musica di
sfere, bellissimi concerti, che le nostre orecchie non percepiscono, o non sanno più distinguere, perché abituatesi da
sempre a sentirla».
Con i pitagorici il pensiero ha ormai compiuto un passo decisivo: il mondo ha cessato di essere dominato da oscure e
indecifrabili potenze ed è diventato numero; il numero esprime ordine, razionalità e verità. Afferma il pitagorico
Filolao: «Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo, nulla sarebbe possibile pensare né conoscere»;
Con i pitagorici l’uomo ha imparato a vedere il mondo con altri occhi, ossia come l’ordine perfettamente
penetrabile dalla ragione.
Pitagora, l’Orfismo e la vita pitagorica
Come abbiamo visto, la scienza pitagorica era coltivata come mezzo per raggiungere un ulteriore fine che consisteva
nella pratica di un tipo di vita atto a purificare e a liberare l’anima dal corpo.
Pitagora sembra essere stato il primo dei filosofi a sostenere la dottrina orfica della metempsicosi, vale a dire quella
dottrina secondo la quale l’anima, a motivo di una colpa originaria, è costretta a reincarnarsi in successive esistenze
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corporee (e non solo in forme d’uomo, ma anche di animali), per espiare quella colpa. Le testimonianze antiche
riferiscono, tra l’altro, che egli diceva di ricordarsi delle sue precedenti vite. La dottrina, come sappiamo, viene dagli
orfici; ma i pitagorici modificarono l’Orfismo almeno in un punto essenziale: il fine della vita è quello di liberare
l’anima dal corpo, e per raggiungere tale fine occorre purificarsi. È appunto nella scelta degli strumenti e dei mezzi di
purificazione che i pitagorici si differenziano nettamente dagli orfici.
Questi infatti proponevano celebrazioni misteriche e pratiche religiose, e pertanto rimanevano legati a una mentalità
magica, affidandosi quasi per intero alla potenza taumaturgica dei riti. Invece i pitagorici additarono soprattutto nella
scienza la via della purificazione, oltre che in una severa pratica morale.
La “vita pitagorica” si differenziò nettamente dalla vita orfica, appunto per il culto della scienza come mezzo di
purificazione: la scienza divenne, in tal modo, il più alto dei "misteri".
I pitagorici furono, in tal modo, gli iniziatori di quel tipo di vita che fu chiamato bios theoretikós, vita contemplativa
ovvero vita pitagorica, cioè una vita spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza, che è la più
alta purificazione (comunione con il divino).
Lo “scandalo” della diagonale del quadrato
Secondo le teorie pitagoriche ogni cosa poteva essere associata ad un numero, e tra cose diverse c’erano sempre esatti
rapporti numerici. Questa teoria fu però messa in crisi dalla scoperta dell’incommensurabilità della diagonale del
quadrato (cioè dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele): infatti, in base al teorema di Pitagora (che era noto ai
pitagorici, anche se non è certo che sia stato davvero dimostrato da Pitagora), qualsiasi sia la misura del lato del
quadrato (=cateto del triangolo rettangolo isoscele), la misura della diagonale-ipotenusa sarà sempre un numero
irrazionale, cioè un numero con infiniti decimali. Per esempio se il lato è 2 l’ipotenusa sarà
22 + 22 = 8 = 2 2 = 2.1,414213………
non esiste la possibilità di stabilire esattamente il rapporto tra il lato e la diagonale (i pitagorici non avevano ancora
elaborato il concetto di numero irrazionale, per loro un numero come 2= 1,414213… era assurdo). In tal modo la
dottrina pitagorica incontrava una pesante smentita; si comprende allora come sia nata la storia, probabilmente
leggendaria, secondo la quale un pitagorico sarebbe stato ucciso per aver divulgato al di fuori della scuola questa
inquietante scoperta.