Pompili et al Psi_Psicot2006

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Psichiatria e Psicoterapia (2006) 25, 3, 207-225
Psichiatria di Comunità
SUICIDIO NELLE CARCERI. I: FATTORI DI RISCHIO E MODALITÀ DELL’ATTO
SUICIDARIO
Maurizio Pompili, Camilla Ferrara, Piera Maria Galeandro, Carlo Olivieri, Caterina Cecchitelli,
Roberto Tatarelli
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) circa un milione di
persone muore a causa del suicidio, mentre i tentativi di suicidio sono stimati circa 10-20 volte di
più. Questo significa, approssimativamente, un tentativo di suicidio ogni tre secondi e un suicidio
ogni quaranta secondi. L’OMS considera il suicidio un problema complesso, prevalentemente
non riconducibile a una sola causa o a un motivo preciso, ma piuttosto derivante da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali e ambientali. In relazione
a questi riscontri di carattere generale appare evidente che le particolari condizioni di vita che il
regime carcerario impone rappresentano un fattore importante e non trascurabile di possibili sostanziali differenziazioni di comportamento negli individui sottoposti a restrizione della libertà.
Moltissimi studi hanno confermato questa relazione, evidenziando percentuali di suicidio nelle
carceri superiori a quelli del resto della popolazione (Dalton 1999, Gross et al. 2002). I suicidi
nelle prigioni sono di circa nove volte superiori a quelli della popolazione generale (Hayes e
Rowan 1988). Molti suicidi avvengono 24-48 ore dopo l’arresto, un dato che suggerisce come gli
interventi di valutazione all’ingresso del carcere siano di primaria importanza. Ciò ha suscitato
notevole interesse negli ambienti psichiatrici e psicologici internazionali e nazionali sia per le
implicazioni sociali, etiche e istituzionali, che per la possibilità di applicare cure e trattamenti di
nuova generazione capaci di contenere e ridurre in maniera sostanziale queste problematiche.
L’addestramento del personale è in questo ambito l’elemento principe per ridurre la probabilità di
comportamenti suicidari nelle carceri (Bonner 2000, Hayes 1999).
Al di fuori dell’Italia le problematiche connesse ai suicidi in ambiente carcerario sono state
affrontate e studiate sin dal secolo scorso (Szitty 1925), ma è solo dagli anni ’70 che vengono
sviluppate ricerche approfondite e organiche sui molteplici aspetti che comporta il suicidio in
carcere (Chesnais 1976, Topp 1979, Hankoff 1980, Wilmotte et al. 1983, Bucarelli e Pintor 1991,
Liebling e Ward 1994, Joukamaa 1997).
Una delle prime pubblicazioni fu intitolata Jailhouse Blues (Danto 1973), in cui l’autore
descrive un aumento della percentuale dei suicidi in carcere e le principali caratteristiche dei
detenuti a rischio.
Dooley (1990) ha riportato che la percentuale di suicidi in carcere è stata valutata approssimativamente 12 volte superiore rispetto a quella della popolazione generale. Questo dato è stato
confermato da McKee (1998), il quale ha messo in evidenza come il suicidio sembra essere 11-14
volte più prevalente nelle prigioni rispetto alla popolazione generale, e da Lloyd (1995). Konrad
(2002) ha messo in evidenza che dal 1983 al 1998 il tasso di suicidio nei detenuti tedeschi era 6,5
volte più alto rispetto alla popolazione generale (Dhale et al. 2005). Bland et al. (1998) hanno
rilevato che il 22,8% dei detenuti intervistati aveva più volte commesso un tentativo di suicidio.
Tale percentuale è risultata essere 7,1 volte maggiore rispetto al tasso della popolazione generale.
In uno studio effettuato da Pèrez-Càrceles et al. (2000), tra il 1984 e il 1997 in un ospedale
psichiatrico di un carcere spagnolo, è stata trovata un’associazione significativa tra la causa di
morte (naturale, suicidio o omicidio) e l’età: su 36 casi di morte innaturale e 28 di morte naturale,
RICEVUTO FEBBRAIO 2006, ACCETTATO SETTEMBRE 2006
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Maurizio Pompili et al.
34 erano suicidi. Il 47% dei soggetti suicidari rientravano in un range di età compresa tra i 18 e i
30 e il 29.4% di morti naturali aveva un’età compresa tra i 30 e i 45. Altri risultati, sono stati
ottenuti da Granzow e Puschel (1998), in uno studio effettuato in un carcere di Amburgo tra il
1962 e il 1995. Il rischio più alto di suicidio è stato riscontrato in soggetti di età inferiore a 25
anni, con una storia passata di disturbi psichiatrici e dipendenza da sostanze (Shaller et al. 1996).
Per quanto riguarda il genere la prevalenza di soggetti, con maggior rischio di suicidio in
carcere, risultavano essere maschi. Per esempio, in uno studio condotto da Fruehwald et al. (2003)
è emerso che circa il 97,3% dei suicidi su 220 casi riguardavano uomini; mentre in quello di
Pèrez-Càrceles et al. (2001), su 64 morti, 62 erano uomini e 2 erano donne. A questo proposito lo
studio condotto da He et al. (2001) ha riportato queste percentuali inerenti i suicidi commessi in
carcere: 96% di uomini rispetto ad un 4% di donne; confermato da uno studio dell’Home Office
(2002), il cui risultato rileva come il rapporto di genere sia di 18:1 con una prevalenza maschile.
In Italia l’interesse per gli episodi di morte in carcere si è sviluppato a partire dal 19° secolo.
Tra i primi studi troviamo E. Morselli (1879) ha documentato come il tasso di suicidi nelle carceri
italiane fosse assai più elevato che nelle altre istituzioni e nel complesso della società. Tutti gli
studi successivi, condotti in Italia, (Ricci, Salierno 1971; Rizo 1987) hanno confermano questo
dato.
Materiali e Metodi
Abbiamo effettuato un’accurata ricerca utilizzando Pubmed, Psycinfo, Embase dal 1966 al
2006 per identificare articoli in inglese pubblicati su riviste “peer-reviewed” e capitoli di libri con
ricerca incrociata sulle voci bibliografiche. I termini di ricerca sono stati: “suicid* (per identificare tutti gli elementi dello spettro suicidario)”, “prison”, “jail”, “inmate”. Abbiamo inoltre utilizzato i comandi MeSH (Medical Subject Headings) ove possibile. Sono stati esclusi tutti i lavori
che non presentavano contributi originali o non presentavano una descrizione dettagliata del contesto in cui lo studio era stato svolto o mancavano di una chiara descrizione inerente i materiali e
i metodi di ricerca, o che presentavano revisioni sommarie della letteratura. Ulteriori articoli
pertinenti sono stati identificati con motore di ricerca computerizzato. Abbiamo inoltre effettuato
una ricerca con il Cochrane Database of Systematic Reviews per reperire possibili lavori di revisione della letteratura.
Il principale reviewer (MP) ha ispezionato tutti i lavori selezionati. Poi gli altri reviewer
hanno indipendentemente ispezionato tutte le citazioni e i lavori reperiti, e ognuno li ha raggruppati secondo il tema centrale dell’articolo. I reviewer hanno ottenuto la versione integrale per tutti
i lavori selezionati. Nel caso di disaccordo, dubbi e incertezze sono stati risolti discutendone con
CF e PMG, che con metodo in cieco hanno ispezionato tutti gli articoli e raggruppati secondo
l’area di interesse del lavoro. Se i dubbi rimanevano, i lavori venivano messi in attesa di giudizio
o di maggiori informazioni.
Risultati
La ricerca ha portato a identificare circa 120 lavori. Sono stati inclusi in questo lavoro solo
quelli che riportavano dati originali e utili alla discussione del rischio di suicidio in ambiente
carcerario. Nell’analisi dei lavori si sono delineati vari campi di interesse; in particolare abbiamo
ricercato, negli articoli selezionati, dati inerenti i fattori di rischio per il suicidio nelle carceri, il
ruolo dei disturbi psichiatrici e dell’abuso di sostanze nell’accrescere il rischio suicidario; inoltre
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Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
non deve sfuggire il ruolo primario dei precedenti tentativi per la predizione di successivi atti e di
maggiore conoscenze sui metodi e sui luoghi in cui più frequentemente viene portato a termine
l’atto letale. In base a tale suddivisione si è proceduto alla stesura dei paragrafi elencati di seguito.
Fattori di rischio
È possibile identificare diverse tipologie di fattori di rischio nei detenuti.
Fattori relativi alle circostanze della detenzione riguardano:
la visione dell’incarcerazione come una punizione,
la perdita del controllo sulla propria vita,
la perdita della privacy,
la perdita della famiglia e degli amici,
il sistema sociale chiuso della prigione,
un’atmosfera di violenza, paura e terrore
Fattori riguardanti le caratteristiche del recluso:
angoscia per problemi economici
storia di violenza
storia familiare caratterizzata da abuso e/o violenza
storia di trattamento psichiatrico, ospedalizzazione
correnti problemi di salute fisica e mentale
abuso di alcol o/e droghe (Correctional Services Canada 1994, WHO 2000)
Un obiettivo importante è l’identificare e riconoscere le situazioni a rischio, come il periodo
durante il quale può aumentare, in modo da rendere disponibili risorse di varia natura per prevenire l’atto letale (Power e Modie 1997).
Per esempio molte ricerche hanno posto l’attenzione su come le fasi iniziali della custodia
siano particolarmente delicate per il detenuto. Infatti i reclusi sono più esposti al suicidio nelle
fasi iniziali della custodia, principalmente nei primi tre mesi, e circa la metà di tutti i suicidi nelle
carceri avviene nei primi 6 mesi dalla sentenza (Task Force on Suicide in Canada, 1994). Bogue
e Power (1995) hanno riportato che il 34% dei suicidi si verifica durante la prima settimana di
prigione (Dahle et al. 2005).
Uno studio di Frottier et al. (2001), condotto tra il 1975 ed il 1996 in 29 prigioni austriache,
ha analizzato tutti i suicidi (n=206 documentato dal ministero della giustizia) avvenuti per rilevare quando il rischio di suicidio aumenta in relzione al periodo per permanenza in carcere (iniziale,
intermedio o finale). I risultati suggeriscono tre periodi diversi di rischio di suicidio: immediatamente dopo l’ammissione (per prigionieri su carcerazione preventiva); due mesi dopo (per prigionieri su carcerazione preventiva); il rischio è correlato con la durata del processo ed aumenta
leggermente durante il tempo di custodia (per prigionieri condannati).
Winkler (1992) riscontrò il più alto rischio di suicidio nel primo periodo di reclusione mentre Backett (1987) subito dopo l’ammissione in prigione. Bourgoin (1993), ha invece riportato
una relazione più lineare tra il rischio di suicidio e la lunghezza del periodo detentivo.
Lo studio di Frottier et al. (2001) ha suddiviso i prigionieri in due gruppi: carcerazione
preventiva (n=126) e condannati (n=80). Successivamente il secondo gruppo (condannati), suddiviso in prigionieri condannati ad un breve periodo di detenzione (n=38) e prigionieri a lungo
termine (n=42). I risultati dimostrano che il rischio di suicidio è più alto nel primo periodo e
decresce durante il periodo di carcerazione. Occorre, tuttavia, precisare che: per i prigionieri su
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Maurizio Pompili et al.
carcerazione preventiva, il rischio di suicidio si concentra in un periodo di tempo stimabile in 150
giorni; in particolare, i detenuti hanno un rischio alto all’inizio che decresce dopo i 20 giorni ed
aumenta dopo a valori anche più alti; per i condannati il rischio di suicidio è lievemente crescente
dopo i 150 giorni (1/6 di quello che è stato osservato per i prigionieri su carcerazione preventiva);
il rischio di suicidio per i prigionieri a lungo termine è più alto di quello per i prigionieri a breve
termine: ciò vuol dire che la probabilità di commettere il suicidio è più alta per le reclusioni a
lungo termine rispetto a quelle a breve termine.
Frottier et al. (2001) hanno evidenziato, relativamente ai prigionieri su carcerazione preventiva, due ulteriori periodi diversi di rischio di suicidio. Suicidi nell’ambito delle prime 48 ore
dall’incarceramento motivati da una crisi immediata dovuta al sentimento di vergogna, imbarazzo, debolezza, isolamento improvviso, insicurezza per l’arresto; di solito questo tipo di detenuto
non ha una storia significativa di criminalità alle spalle (Arboleda-Florez e Holley 1998) e suicidi
dopo 60 giorni. Nel 1946, Swank e Marchand hanno paragonato la vulnerabilità di tali detenuti a
quella dei soldati che svilupparono il deperimento da combattimento durante la seconda guerra
mondiale.
Liebling (1995) ha messo l’accento sull’approccio statistico utilizzato negli studi sui suicidi
nelle carceri; poi alcuni studi utilizzano soltanto prigionieri su carcerazione preventiva o prigionieri condannati come l’unica popolazione a rischio (Bourgoin 1993) o singole istituzioni (Hardie
1998, Markus e Alcabes 1993). Ad esempio, lo studio di Bourgoin (1993) calcola solo il rischio
per i prigionieri condannati e non le differenze tra prigionieri su carcerazione preventiva e definitiva (condannati).
Un altro rilievo è relativo al fatto che nessuno studio, di quelli precedentemente menzionati,
ha considerato la frequenza di scarcerazioni: questa è molto alta e (soprattutto per i prigionieri su
carcerazione preventiva) ciò significa che la popolazione a rischio diminuisce entro un periodo di
tempo che è relativamente breve.
L’osservazione che molti suicidi avvengono entro la prima settimana di carcerazione, riflette principalmente il fatto che la popolazione a rischio è più vasta all’inizio della reclusione (Marcus
et al. 1993). Gli stessi autori, esaminando 48 suicidi avvenuti tra il 1980 e 1988 in un Dipartimento Penitenziario di New York, riscontrarono che nel 52% dei soggetti suicidatisi era stato diagnosticato un grave disturbo psichiatrico e il 46% aveva già ricevuto cure psichiatriche.
Nonostante le diverse critiche al metodo statistico utilizzato, anche altri autori però, hanno
concordato che il periodo di maggior rischio di suicidio in carcere è quello iniziale; ad esempio:
Shaw et al. (2004) hanno trovato che su un campione di 172 individui suicidi, circa l’85% era in
detenzione preventiva; il 55% delle morti era avvenuto entro i primi 7 giorni dall’ingresso in
prigione.
Per Kerkhof e Bernesco (1990) i maggiori fattori di rischio per il suicidio devono essere
presi in considerazione nel periodo iniziale della carcerazione.
Disturbi Psichiatrici
Studi recenti hanno rilevato che i detenuti presentavano un’incidenza di disturbi psichiatrici
maggiore rispetto alla popolazione generale. Lo studio di Butler et al. (2004) hanno riportato che
il 43% dei detenuti australiani selezionati soddisfacevano i criteri per almeno un disturbo psichiatrico. I soggetti recentemente accolti in custodia presentavano più diagnosi di disturbo psichiatrico rispetto a coloro che soggiornavano nel carcere da più tempo. Inoltre le donne avevano un
tasso di disturbi psichiatrici maggiore degli uomini. Il 9% di tutti i detenuti soffriva di psicosi; il
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Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
Tabella 1. Fattori di rischio per il suicidio nei detenuti in carcere
Luogo
Studio
Hurley (1989)
Australia
Salive, Smith e Brewer (1989) Maryland (U.S.A.)
Fattori
Primo periodo di carcerazione, stato legale: in attesa di giudizio, storia di cure
psichiatriche, precedenti tentativi suicidi.
Razza bianca, età tra i 25 e i 34 anni, condannati per reati aggressivi, ergastolo, reclusione in un carcere di massima sicurezza.
Griffiths (1990)
Stati Uniti
Precedenti condanne.
Dooley (1990)
Inghilterra
Precedenti cure psichiatriche, precedenti
tentativi di suicidio, lunghezza della carcerazione, condanna per violenza o abuso sessuale.
Kerkhof e
Bernasco (1990)
Paesi Bassi
Prima carcerazione, nazionalità straniera,
lunghezza della carcerazione.
Skegg e Cox (1991)
Nuova Zelanda
Presenza di disturbi mentali.
Winkler (1992)
Wisconsin (U.S.A.)
Tossicodipendenza, isolamento, prime 24
ore di carcerazione.
Bourgoin (1993)
Francia
Alto livello di integrazione sociale e familiare, lunghezza della carcerazione.
Green et al. (1993)
Canada
Precedenti tentativi di suicidio, presenza
di disturbi mentali, tossicodipendenza,
stato celibe.
Marcus e
Alcabes (1993)
New York
Primo periodo di carcerazione, isolamento, presenza di disturbi mentali, precedenti
trattamenti in istituti psichiatrici.
Ben-David e
Silfen (1993)
Israele
Abuso sessuale in carcere.
DuRand et al. (1995)
Detroit (U.S.A.)
Primo mese di carcerazione, condanna per
omicidio volontario o colposo.
Schaller et al. (1996)
Svizzera
Età inferiore a 25 anni, precedenti tentativi di suicidio, precedenti cure psichiatriche, tossicodipendenza.
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Maurizio Pompili et al.
Tabella 1. (continua)
Tatarelli et al. (1999)
Italia
Omicidio, scarsa scolarità; celle di isolamento; attesa di giudizio; disturbi depressivi e disturbi di personalità.
Shaw et al. 2004
Inghilterra e Galles
Disturbi mentali, abuso di droghe, crimini violenti.
Blaauw et al. (2005)*
The Netherlands
Età>40 anni; senza dimora, crimini violenti, precedenti incarcerazioni, storia di
terapie psichiatriche, storia di grave abuso di sostanze.
Preti e Cascio 2006
Italia
Fascia di età 25-44 anni, ricovero in ospedale psichiatrico, affollamento delle carceri
20% di disturbi dell’umore; il 36% di disturbi d’ansia; il disturbo post-traumatico da stress è stato
diagnosticato nel 26% degli accolti e nel 21% dei sentenziati. Inoltre tali percentuali sono molto
più alte rispetto alla popolazione generale. Anche Fazel e Danesh (2002) hanno confermato tale
dato, compiendo uno studio su un campione di 22.790 detenuti, verificando che il rischio di
presentare disturbi mentali (disturbi in asse I e II) era sostanzialmente più alto rispetto alla popolazione generale.
Uno studio particolarmente interessante è quello di Hunt et al. (2003) che ha indagato il
suicidio nei pazienti psichiatrici di minoranze etniche, mettendo in evidenza che il 74% del campione considerato era affetto da schizofrenia (confrontato con il 18% del campione di bianchi).
Fazel et al. (2001) hanno invece riscontrato che, su 203 detenuti uomini di età superiore ai 59
anni, il 32% del campione aveva una diagnosi di disturbo psichiatrico in asse I, in particolare
nello studio è risultata essere molto comune la diagnosi di depressione, mentre il 30% del campione aveva una diagnosi di disturbi di personalità. In particolare gli autori hanno messo in evidenza come il rischio di depressione aumenti se il detenuto ha alle spalle una storia di problemi
psichiatrici. Fleischmann et al. (2005) hanno svolto una ricerca sulla relazione tra giovani e disturbi mentali, mettendo in risalto che l’88,6% del campione presentava un disturbo psichiatrico,
in particolar modo disturbi dell’umore (42,1%). Infatti, i disturbi psichiatrici rappresentano un
elemento fortemente correlato con l’incidenza di suicidio in carcere rispetto alla popolazione
generale (Harris e Barraclough 1997).
Nello studio di Bland et al. (1998), emerge che il 76% dei detenuti, che avevano tentato il
suicidio, presentava un disturbo di personalità antisociale, il 42% un disturbo affettivo ed il 39%
un disturbo d’ansia.
Mentre in uno studio di Way et al. (2004), condotto tra il 1993 e il 2001 nel New York State
Department of Correctional Service, è emerso che nell’ 84% dei casi di suicido vi erano disturbi
mentali e che il 74% dei 76 detenuti suicidatisi era in trattamento per tali disturbi.
He et al. (2001) hanno identificato su 25 suicidi, che il 60% delle vittime hanno avuto una
storia di disturbi psichiatrici. Il 76% erano stati diagnosticati con disturbi psichiatrici durante la
carcerazione. Nel 67% (N=10) dei detenuti suicidatisi, il primo episodio psichiatrico era comparso prima dei 18 anni. Inoltre 11 di questi detenuti aveva alle spalle un trattamento in ospedale
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Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
Figura 1. Disturbi psichiatrici tra le vittime di suicidio (He et al. 2001)
psichiatrico prima dell’ingresso in carcere Farmer et al. 1996 avevano notato che il 53,8% di
detenuti residenti in una prigione provinciale che avevano commesso suicidio, presentavano inoltre
storie di trattamenti psichiatrici mentre erano in carcere. Inoltre il 20% dei detenuti suicidatisi
aveva una storia familiare di disturbi psichiatrici.
I risultati di questo studio differiscono da quelli di Rich e Runeson (1992), i quali asserirono
che più del 90% di tutte le persone che commettono suicidio hanno una malattia psichiatrica
diagnosticabile come depressione e abuso di sostanze, mentre sulle altre persone a rischio di
suicidio sono stati diagnosticati: schizofrenia, disturbo borderline o antisociale, malattia maniaco-depressiva, distimia e disturbi d’ansia (Stevenson 1998, Weissman 1974).
In un altro studio effettuato da Joukamaa (1997), in un carcere finlandese tra il 1969 e il
1992, viene messo in rilievo che il tasso di suicidio nei prigionieri è il triplo rispetto alla popolazione generale e che tra coloro che si erano suicidati più della metà presentava disturbi psichiatrici. Inoltre viene riportato che una parte di quest’ultimi aveva ricevuto un aiuto dal servizio di
salute mentale all’interno del carcere non più di una settimana prima del suicidio. Jenkins et al.
(2005), notarono come pensieri di suicidio e tentativi di suicidio fossero più diffusi nelle prigioni
rispetto alla popolazione generale e che un alto tasso di psicosi, nevrosi e disturbi di personalità
nei prigionieri fosse associato a tutto lo spettro suicidario (tentativi di suicidio, pensieri di suicidio ecc.). In più, fattori come l’essere solo, giovane, un basso livello di scolarità, la povertà e
avversità sociali di vario genere, avessero un ruolo importante nell’esortare il detenuto a pensare
al suicidio. Fondamentalmente non c’era una categoria separata di detenuti a rischio suicidio che
non presentasse problemi psichiatrici. Concludendo, l’alto tasso di comportamenti suicidari in
prigione non può non essere affrontato senza un’adeguata attenzione all’alto tasso di disturbi
psichiatrici e fattori di vulnerabilità nei detenuti.
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Maurizio Pompili et al.
Per esempio nelle prigioni austriache sono stati individuati 250 suicidi avvenuti tra il 1975 e il
1999. Dall’esame dei singoli casi è emersa una flessione dei suicidi tra i detenuti stranieri e un
aumento tra quelli austriaci. Di tutte le vittime suicide, il 41% non avevano finito la scuole né avevano una formazione professionale, il 44% erano disoccupati prima di essere imprigionati, il 50% non
svolgeva lavori durante la detenzione. C’era già un’elevata frequenza di comportamenti suicidi (precedenti al suicidio) e un’alta prevalenza di disturbi mentali: il 37% era in cura con psicofarmaci, il
48,6% avevano avuto una diagnosi psichiatrica. Un profilo simile è stato riscontrato anche nelle
prigioni texane dove il 60% dei suicidi aveva disturbi psichiatrici, nel 75% dei casi diagnosticati
durante la detenzione. Tra i più frequenti, i sintomi depressivi (64%), psicosi (44%), disturbi della
personalità (56%) spesso anche associati ad abuso di alcol e droghe (Fruhwald et al. 2002).
Moeller e Hell (2003) nel loro studio hanno stimato la prevalenza dei disturbi affettivi, la
storia di eventi traumatici e il disturbo post-traumatico da stress in relazione alla psicopatia, in un
campione di giovani rei entrati nell’istituto di correzione. Nel campione di 102 detenuti di età
compresa tra i 17 e i 27 anni si sono rilevato disturbi affettivi nel 28% dei casi, mentre il 29%
aveva una storia di tentativi di suicidio.
Lo studio di Kullgren et al. (1998) su 1943 detenuti, ha messo in rilievo come il tasso di
mortalità tra i detenuti con disturbo di personalità era 12 volte più alto rispetto alla popolazione
generale. He et al. (2001) hanno riportato che il 56% dei detenuti suicidatisi presentava questa
diagnosi.
I disturbi di personalità antisociali sono molto più frequenti negli ambienti penitenziari rispetto ad altri ambiti (Rotter et al. 2002), e sono sempre in relazione ad atteggiamenti violenti,
impulsività e comportamenti manipolativi. A questo proposito Fawcett (2001) ha identificato
come l’impulsività sia un importante fattore di rischio per il suicidio (Way et al. 2005). Dear
(2000) ha sottolineato che la relazione tra ideazione suicidaria e impulsività è meglio comprensibile considerando l’associazione tra ideazione suicidaria e “impulsività disfunzionale”, ossia la
tendenza a intraprendere un rapido processamento delle informazioni con tendenza all’errore a
causa dell’inabilità ad usare un approccio più lento e metodico in circostanze di vari natura (per
contro l’impulsività funzionale si riferisce all’utilizzo rapido e a modalità di comportamento che
favorisce l’individuo grazie ad altri tratti di personalità dell’individuo). Verona et al. (2005) hanno riportato che in un campione di donne detenute il rischio di suicidio era associato agli items
inerenti l’impulsività, stimulating-seeking, aggressività ed altre tendenze antisociali inclusi nella
psicopatia carceraria. Negli ultimi anni il numero di suicidi nelle carceri è aumentato, risultando
evidente il collegamento con l’alto tasso di disturbi psichiatrici tra i detenuti oltre a fattori di
vulnerabilità nella popolazione carceraria.
Nello studio di Tye e Mullen (2006) l’obiettivo è stato quello di individuare il tasso di disturbi mentali nelle donne detenute, comparandoli con quelli delle donne nella comunità. I disturbi
prevalenti, riscontrati nel campione, erano: disturbo da abuso di sostanze (57%), depressione
maggiore (44%), disturbo post-traumatico da stress (36%) e disturbi di personalità. Il 24% dei
casi presentata quadra clinici riconducibili al gruppo delle psicosi. La prevalenza di disturbi mentali nelle detenute, rispetto alle donne presenti nella comunità, è stata messa in rilievo anche nello
studio di Jordan et al. (1996).
Teplin et at. (2002) hanno svolto un’indagine, su un campione di 1172 maschi e 657 femmine detenuti tra i 10-18 anni, e riscontrarono che circa 2/3 dei maschi e circa 2/4 delle femmine
erano caratterizzati da uno o più disturbi mentali. La metà dei maschi e circa la metà delle femmine aveva disturbi da uso di sostanze e più del 40% dei maschi e delle femmine erano positivi per
criteri per un disturbo di personalità (ad es. il disturbo da comportamento dirompente). Disturbi
affettivi erano prevalenti per lo più nelle femmine; più del 20% delle femmine era positivo per i
criteri di un episodio depressivo maggiore.
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Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
Justes et al. (2004) hanno rilevato che su un campione di 107 giovani detenuti, in un carcere
di Catalonia (Spagna), 26 (24%) avevano avuto uno o più episodi di autolesionismo intenzionale
e i rimanenti 81 (76%) non avevano avuto nessun episodio. Scott et al. (1997) hanno sottolineato
che ci sono delle differenze significative tra soggetti con un solo episodio di deliberate self-harm
(DSH) e soggetti che ne presentano più di uno. Infatti, soggetti con DSH ripetuti presentano
molte più strategie di coping passive, più sintomi depressivi e disturbi relativi all’uso di droga e
alcol (Kreitman et al. 1991, Stock et al. 1991) Questi detenuti, presentavano una grande prevalenza di disturbi di personalità: schizoide, evitante, dipendente, schizotipico e borderline. I disturbi
borderline ed antisociale di personalità rappresentano il 96,68% di questi soggetti. Questi disturbi
di personalità rappresentano i fattori che meglio predicono i fattori di rischio o vulnerabilità per
episodi di DSH durante la carcerazione. Queste risultati confermano l’idea portata avanti da molti
autori: cioè, che la maggior parte dei comportamenti autolesivi intenzionali si riscontrano in
pazienti con disturbi borderline di personalità (Suominem et al. 1996, Cunha et al. 1998, Hawton
et al. 2001). Liebling (1992), ha riportato che i detenuti con DSH hanno presentato le più grandi
difficoltà nelle loro relazioni interpersonali rispetto agli altri detenuti, in riferimento al disturbo
borderline di personalità. Haw et al. (2001), Schaffer et al. (1982), conclusero che soggetti con
DSH sono molto più frequentemente diagnosticati come casi di disturbo borderline di personalità. Per Pattison e Kahan (1983) una personalità antisociale e violenta, all’interno di un setting
istituzionale, è un fattore di rischio per episodi di DSH.
Un esempio di rilievo è quello dell’assistenza psichiatrica fornita negli istituti penitenziari
di New York. Fin dagli anni ottanta è stato messo a punto un programma per pazienti psichiatrici
in detenzione con finalità terapeutiche riabilitative (Smith et al. 2004). Tale programma di assistenza ai detenuti prevede l’accesso in strutture di sostegno del sistema carcerario distinte dalle
comuni celle. I motivi di ammissione in queste strutture erano nella maggior parte dei casi riferibili
alla prevenzione del rischio di suicidio. L’utilizzo del programma di assistenza a detenuti con
disturbi psichiatrici ha portato ad una riduzione dei tentativi di suicidio, delle sanzioni disciplinari e un maggior rispetto delle norme carcerarie. Un ulteriore dato emerge dallo studio di Power e
Monodie (1997) eseguito in Scozia; da tale lavoro emerge che la maggior parte di coloro che
erano stati identificati “a rischio” appena giunti in carcere venivano privati di qualsiasi supervisione
per ciò che concerne il rischio di suicidio nella visita effettuata dopo 24 ore. Sembrerebbe che il
personale infermieristico che accoglie i detenuti enfatizzi il rischio di suicidio che viene poi
ridimensionato ad un esame accurato; infatti, i fattori di rischio spesso identificano molti falsi
positivi. Per contro è cruciale identificare gli individui con scarse abilità di coping e che presentano fattori di rischio. Per tale motivo nell’ambito di questo studio fu deciso di lasciare a discrezione del personale infermieristico la scelta di ammettere o meno il detenuto in strutture di sorveglianza del rischio suicidario.
In Italia dal 1987 è stato istituito il “Servizio nuovi giunti”, un provvedimento atto ad evitare
comportamenti suicidari e violenze sul detenuto giunto nell’istituto di pena. Questa prima valutazione si avvale di psicologi ed esperti di criminologia che dopo adeguata valutazione decidono se
ammettere il detenuto in sezioni protette per meglio valutare il rischio di comportamenti autolesi
o dello spettro suicidario.
Abuso di alcol e di droghe, comorbilità tra malattie psichiatriche e abuso di sostanze
Alcune ricerche svolte a Londra segnalano fra i tossicodipendenti tassi di suicidio molti alti
(intorno al 20%) e sostengono che il rischio di togliersi la vita è fra loro 20 volte più alto rispetto
alla popolazione generale (Bewly 1968, Noble 1972); l’OMS stima che i suicidi riguardano alme215
Maurizio Pompili et al.
no una su tre morti per overdose da eroina.
Lo studio di He et al. (2001) condotto su 25 suicidi in un reparto di giustizia criminale del
Texas, all’interno di 20 delle 107 unità di prigione, durante il periodo da giugno del ’96 e giugno
del ’97, ha rilevato che il 68% dei detenuti che commisero il suicidio, avevano alle spalle una
storia di abuso di sostanze (alcol e droga). Fra le droghe oggetto di abuso si sono riscontrate le
seguenti percentuali: 48% marijuana, 32% cocaina, 28% eroina, 24% barbiturici, 24% metadone,
24% LSD, 20% anfetamine e 12% benzodiazepine. Il 48% aveva una storia di abuso di alcol e di
droga, il 34% abusavano in modo combinato di diverse droghe. Di solito, non c’erano dati disponibili nelle statistiche sull’abuso di sostanze durante la carcerazione (perché ne è vietato l’utilizzo in tale ambiente); tuttavia, nei rapporti di autopsia è stato dimostrato che, una vittima di suicidio fu riscontrata positiva all’uso di una droga al momento del gesto letale.
A conferma, lo studio di Pérez-Cárceles (2001), su 34 casi di suicidio il 62% avevano una
storia di abuso di alcol, il 40,6% di droga e il 15,6% erano anche HIV positivi. Anche Fruehwald
et al. (2003) confermano come il 55,9% dei detenuti suicidatisi presentava un problema di abuso
di sostanze.
Altri autori quali Suominem et al. (1996), Farmer et al. (1983) e Haw et al. (2001), hanno
rilevato una maggior prevalenza di alcol rispetto all’uso di droga in carcere.
Secondo Hayes (1983) i detenuti che abusano di droga e alcol sono molto più esposti al
suicidio soprattutto durante le prime ore o giorni dopo l’arresto; questo perché secondo l’autore,
l’astinenza da alcol o da droga, priva questo tipo di detenuti suicidi delle loro primarie strategie di
coping all’interno di questo ambiente “stressante”. La droga è considerata come l’unico mezzo
per alleviare il loro stato di disagio.
In uno studio di Fotiadou et al. (2004) è risultato che in un campione di 80 detenuti greci, il
27,5% di quest’ultimi era dipendente da oppiacei, il 26,3% da alcol e il 3,8% da cannabis, mentre
il 13,8% era poliabusante. Di questi detenuti, il 31,2% soddisfava i criteri per la depressione e il
37,5% per i disturbi di personalità. Dei detenuti abusatori di sostanze, il 15% presentava una
storia di autolesionismo deliberato e il 16% era considerato a rischio di suicidio.
Nella ricerca di Way et al. (2005) è risultato che il 95% delle vittime di suicidio aveva una
storia di abuso di sostanze, il 70% aveva mostrato agitazione ed ansia prima del suicidio e il 48%
aveva cambiato atteggiamento e comportamento. Farrel et al. (2002) hanno esplorato la relazione
tra psicosi e dipendenza da sostanze in un campione di detenuti, mettendo in evidenza come la
grave dipendenza da cannabis e psicostimolanti sia associata ad un alto rischio di psicosi, in
contrasto con la dipendenza da eroina; ma anche Abram et al. (2003) hanno parlato di disturbi
mentali e da sostanze, affermando che la comorbilità psichiatrica è uno dei maggiori problemi tra
i giovani detentuti.
Nello studio di Borrill et al. (2003) lo scopo è stato non solo quello di individuare le differenze etniche che ci possono essere nei tentativi di suicidio e autolesionismo nelle donne detenute
nel corso della vita ma è stata anche esaminata la relazione tra self-harm, suicidio e uso e dipendenza da sostanze. Delle 301 donne, circa la metà ha riportato almeno a un atto di autolesionismo
nella vita e il 46% ha parlato di più tentativi di suicidio. I self-harm durante la vita erano associati
a una storia di dipendenza da droghe.
Secondo Kaplan et al. (1988) i soggetti che abusano di sostanze sono portati a sviluppare
disturbi psicotici, disturbi dell’umore e ansia. Questi soggetti spesso utilizzano proprio l’alcol o
la droga come l’unico mezzo per alleviare il loro stato di disagio.
La prevalenza di questi importanti fattori di rischio per il suicidio, come le malattie mentali
e l’uso di sostanze, contemporaneamente, e di quanto questi siano molto più influenti nel suicidio
in carcere rispetto alla popolazione generale, è stato sottolineato da diversi altri autori, tra cui:
Jenkins et al. (1995), Singleton et al. (1998), Meltzer et al. (1999).
216
Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
Precedenti tentativi di suicidio
Uno dei fattori di rischio più importanti per il rischio di suicidio (in generale e anche nello
specifico: il carcere) è rappresentato dai precedenti tentativi di suicidio. Secondo un’indagine
svolta in Svezia, su 1547 adolescenti che avevano già tentato il suicidio, il 4,3% si è ucciso in un
periodo di tempo compreso tra i 10 e i 15 anni successivi al primo tentativo (Otto 1972). Più in
generale, la maggioranza dei ricercatori sostiene che il 40-60% dei giovani suicidi ha tentato il
suicidio almeno una volta nel corso della vita; in altre parole questo dato suggerisce che circa
l’1,5% dei giovani che tentano di suicidarsi vi riesce entro dodici mesi da quel tentativo.
Secondo Pelkonen et al. (2003), uno dei fattori di rischio per suicidio nei giovani è l’aver
tentato in passato il suicidio.
Nello specifico del carcere, molti studi hanno posto l’attenzione su come una storia di precedenti tentativi di suicidio aumenti il rischio di suicidio. (Dooley 1990, Marcus e Alcabes 1993,
Fruhwald et al. 2002).
Nello studio di Penn et al. (2003), una storia di tentato suicidio, nei giovani detenuti, è
collegabile al suicidio e a comportamenti autolesivi durante l’incarcerazione. È stato, infatti,
riportato che su 289 adolescenti detenuti, il 12,4% ha alle spalle un tentativo di suicidio.
Nello studio di Way et al. (2003), è stato messo in evidenza che, tra i 76 suicidi avvenuti tra
il 1993 e il 2001 nello New York State Department of Correctional Services, circa il 52% dei
soggetti aveva alle spalle un precedente tentativo di suicidio.
Lo studio è stato condotto su un campione di 289 adolescenti presenti in istituti di correzione
minorile dei quali 78 furono assegnati per accertamento psichiatrico.
Dei 278 adolescenti il 12.4% avevano riportato un precedente tentativo di suicidio; dei 78
assegnati clinicamente il 30% aveva riportato un’ideazione suicidaria e infine il 30% comportamenti autolesionistici durante la carcerazione.
I risultati dello studio suggeriscono che i detenuti adolescenti hanno percentuali di tentativi
più alte che negli adolescenti della popolazione generale, le percentuali vanno dal 19,4% per
questi ultimi (Rohde et al. 1997) sino al 61% (Alessi et al. 1984) fra i giovani detenuti. Inoltre,
queste percentuali di tentativo aumentano nell’ultimo anno di detenzione.
Anche lo studio di He et al. (2001), confermò tutti i dati sopra elencati; nello specifico: su 25
suicidi metà dei detenuti riportò almeno un tentativo prima della detenzione e su questa metà i 2/
3 avevano tentato più volte. In definitiva, il 64% dei suicidi in carcere erano preceduti da almeno
un tentativo in prigione e il 56% dei 2/3 sopra menzionati, avevano tentato almeno per una volta
in prigione.
Altri studi trovarono che la gravità dei disturbi dell’umore e dell’ansia erano collegati ai
tentativi di suicidio (Zimmerman et al. 2006, Valtonen et al. 2005, Oquendo et al. 2000). Un’altra
correlazione, è stata rintracciata tra tentativi e l’uso di sostanze quali: allucinogeni, sedativi,
narcotici, eccitanti e uso di alcol prima della carcerazione (Morris et al. 1995, Putnins 1995,
Rohde et al. 1997).
Altri aspetti correlati al tentativo di suicidio sono: il suicidio di un amico, precedenti suicidi
o tentati suicidi tra i genitori e i parenti più stretti, scarse strategie di coping o rabbia. Anche i
conflitti personali fanno parte dei fattori di rischio suicidio. Infatti un fattore comune di stress
indicato dalle vittime di suicidio erano relazioni con i loro familiari e amici deteriorate. Vi sono
poi condizioni mediche, conflitti con l’ambiente istituzionale, conflitti tra i detenuti (He et al.
2001). Gli studi inoltre riportano l’importanza di prendere in considerazione il tipo di crimine
commesso. Per esempio, Way et al. (2004) sottolineano come i detenuti incarcerati per crimini
violenti fossero predisposti al suicidio (Dooly 1990).
Interessante è notare a questo proposito l’importanza dell’abuso sessuale tra i detenuti, stu217
Maurizio Pompili et al.
diato da Ben-David e Silfen (1993). Questo studio effettuato in Israele, su 235 detenuti il 23,8%
confessarono di essere stati violentati; di quest’ultimi, undici prigionieri avevano avuto una reazione violenta (incluso un tentativo di suicidio) dopo aver confessato l’evento traumatico; il rimanente 77,7% non aveva avuto una reazione violenta perché questi avevano anche loro commesso violenza.
In una popolazione di individui che avevano commesso seri atti criminali e che erano stati
sottoposti ad accertamenti presso un dipartimento di psichiatria forense, il 38% aveva all’attivo
almeno un tentativo di suicidio (Stalenheim 2001). In questo studio i pazienti presentavano un
alto tasso di disturbi psichiatrici; soprattutto disturbi di personalitá. Sembrerebbe che la
concettualizzazione del suicidio, come atto autoaggressivo al pari di quello eteroaggressivo, possa adattarsi a questo gruppo di pazienti, i quali presentavano storie di violenze e di atti suicidari.
Non deve sfuggire l’impatto che un tentatativo di suicidio ha su coloro che ne sono testimoni; questo è ancor più allarmante nel caso di detenuti adolescenti a causa dell’aumento del rischio
di suicidio. In uno studio condotto in Gran Bretagna, il 43% dei soggetti facenti parte del campione di adolescenti detenuti era stato testimone di un atto suicidario compiuto in carcere (Hales et
al. 2003). Gli autori di questo studio hanno sottolineato l’ipotesi del contagio come elemento
determinante nell’indurre comportamenti autolesivi/suicidari in soggetti che sono stati testimoni
di un tentativo di suicidio in carcere.
Metodo e luogo di suicidio
Il metodo più usato per commettere il suicidio in carcere è: l’impiccagione (Dooley 1990,
Green et al. 1993, He et al. 2001, Shaw et al 2004, Gunnell et al. 2005). Pèrez-Càrceles et al.
(2001) hanno riportato che il 94% dei 34 suicidi era avvenuto attraverso tale metodo. Anche Way
et al. (2005) hanno confermato come l’86% dei suicidi fosse stato eseguito con tale modalità.
Mentre, He et al. (2001), hanno riportato che 19 su 25 suicidi era avvenuto attraverso
l’impiccagione. Altri metodi comuni sono: il soffocamento con oggetti vari, l’avvelenamento, in
alcuni casi anche overdose con antidepressivi triciclici (Steinhauser 1997, Shaw et al. 2004).
Wobeser et al. (2002), che ha messo in rilievo che più della metà dei detenuti suicidatisi (59%) sia
morto per cause quali strangolamento, avvelenamento e altri effetti da intossicazione.
I materiali più utilizzati per l’impiccamento sono: la biancheria da letto, calzini, elastici di
abbigliamento, lacci di scarpe e cinture; i principali punti di legatura sono: condutture d’aria,
ringhiere dei muri, sbarre dei letti o delle celle, armadi, lavandini, porte (Dooley 1990, Dooley
1997, Steinhauser 1997).
In riferimento a queste caratteristiche non c’è un modo costante di tempo, di giorno e di ora
in cui accade il suicidio in carcere, ma nonostante questo, si evincono alcune indicazioni dalla
letteratura.
Nello studio di He et al. (2001), su 25 suicidi, commessi in tutto l’arco delle 24 ore, il 64%
delle vittime si suicidano tra le 19:00 di sera e le 7:00 di mattina, il 36% tra le 7:00 di mattina e le
19:00 di sera.
Il 76% di suicidi furono commessi in celle singole mentre il resto in celle condivise (He et al.
2001). Pérez-Cárceles et al. (2001) hanno trovato che negli ospedali psichiatrici di massima sicurezza, il 94% delle vittime per suicidio erano sole. Questo a dimostrazione del fatto che lo stato di
isolamento influenza fortemente la condizione del detenuto (Way et al. 2004).
Pérez-Cárceles et al. (2001), avevano dimostrato che su 34 suicidi il 32,4% erano accaduti in
inverno; il giorno più frequente era il lunedì (9 casi, 26,5%) e più della metà (55,9%) tra sabato e
lunedì, tra le 16:00 e le 20:00 di sera.
218
Suicidio nelle carceri: fattori di rischio e modalità
Secondo Dooley (1997) e Morrison (1996) la maggior parte di suicidi accadono durante la
sera tra le 16:00 le 20:00, con una vetta tra le 15:00 e le 18:00, quando i detenuti si rilassano nelle
loro celle dopo pranzo e soprattutto perché queste in queste ore è molto facile passare inosservati.
Il resto dei suicidi accaddero tra le 20:00 di sera e le 6:00 di mattina soprattutto tra il lunedì
e il sabato.
Un dato di notevole interesse, ormai ampiamente confermato per qualsiasi suicidio, è la
comunicazione dell’intento. Nello studio di Fruehwald et al. (2003), nel 21,5% dei casi vi erano
stati segnali che facevano presagire il gesto letale. Tali segnali erano stati notati dalle guardie
carcerarie ma non aveno indotto né consulenza psichiatrica né altri provvedimenti.
Conclusioni
I detenuti hanno nel complesso un tasso di suicidio superiore rispetto ai soggetti della popolazione generale. Inoltre per ogni suicidio si registrano diversi tentativi di suicidio. Un primo
importante intervento per la riduzione del rischio di suicidio è la definizione del profilo del detenuto ad alto rischio. Ad esempio, ci sono differenze nel rischio di suicidio tra detenuti in attesa di
giudizio e detenuti che hanno avuto una condanna formalizzata. Il suicidio nei detenuti è fortemente legato alla patologia psichiatrica e all’hopelessness e dunque un accurato assessment è un
prerequisito fondamentale per la prevenzione. A tal proposito abbiamo descritto gli interventi
preventivi e la gestione del rischio di suicidio nelle carceri nel companion paper al quale si
rimanda.
In questa review della letteratura ci siamo focalizzati su diverse aree di interesse per la
facilitazione di interventi preventivi del suicidio nelle carceri. In particolare la conoscenza dei
fattori di rischio, sebbene con il rischio di incappare in molti falsi positivi, permette di riconoscere il detenuto a rischio. Allo stesso modo, i soggetti con storia di abuso di sostanze e disturbi
psichiatrici dovrebbero ricevere una valutazione particolare con l’attuazione di misure preventive, data l’alta probabilità di mettere in atto un gesto letale. Inoltre, come ormai dato acquisito
dalla letteratura internazionale, coloro che hanno compiuto un tentativo di suicidio sono ad alto
rischio di ripetere un gesto suicidario; per questo motivo dovrebbero essere monitorati attentamente. Abbiamo anche fornito una descrizione sui metodi e sui luoghi in cui il suicidio viene
compiuto dai detenuti; senza dubbio la conoscenza delle dinamiche che ruotano intorno a tale
gesto sono condizioni irrinunciabili per arginare il fenomeno suicidario nelle carceri.
Questo studio presenta una review narrativa della letteratura sul fenomeno del suicidio nelle
carceri e dunque ha varie limitazioni. In questo lavoro non sono stati presentati dati frutto di
metanalisi che invece potrebbero fornire migliori stime del fenomeno. Infatti, sebbene una review
sistematica assicuri rigore e precisione, in alcuni casi la selezione degli studi ha portato a eliminare ricerche con dati ridondanti oppure poco chiari. Il loro uso in processi statistici può fornire
importanti conclusioni sul fenomeno suicidario nelle carceri. Per tale motivo questo aspetto è una
limitazione dello studio presentato. Inoltre i criteri di selezioni delle fonti possono aver escluso
lavori importanti reperibili solo tramite ricerca in altri archivi, di minore entitá rispetto a quelli
consultati ma che potrebbero fornire elementi nuovi per una migliore comprensione del fenomeno.
Acknowledgements: Supported in part by an unrestricted research grant by Eli Lilly Italy (to
MP)
219
Maurizio Pompili et al.
Riassunto
Il suicidio è una delle principali cause di morte nelle carceri, costituendo non solo un grave fattore di
allarme sociale ma anche un elemento di preoccupazione politico-istituzionale per la risonanza che può
avere sugli organi di informazione. Gli istituti di pena sono infatti responsabili del controllo e della salvaguardia della popolazione carceraria e quindi rispondono penalmente di eventuali carenze. In tale ambito la
messa a punto di un sistema di prevenzione e di sostegno per la popolazione è individuare ed aiutare i i
reclusi con patologie psichiatriche, o tendenze suicide, attraverso apposite strutture di sostegno e modalità
operative: i carcerati a rischio di suicidio non vanno messi da soli in cella, il personale di guardia e assistenza
deve essere appositamente formato al riconoscimento di eventuali intenzioni auto-distruttive, ecc. In carcere, infatti, la frequenza del suicidio è molto alta rispetto al resto della popolazione, raggiungendo anche
rapporti da tre a dieci volte superiori. A questo bisogna aggiungere che anche i tentativi di suicidio sono
molto superiori alla media della popolazione.
Nel presente lavoro vengono esaminati i fattori di rischio e le modalità del suicidio in carcere.
SUICIDE IN PRISONS. I: RISK FACTORS AND METHODS OF SUICIDAL BEHAVIOR
Summary
Key Words: Suicide – Prison – Risk factors
Suicide is often the single most common cause of death in correctional settings. Jails and prisons are
responsible for protecting the health and safety of their inmate populations, and the failure to do so, can be
open to legal challenge. Further fuelled by media interest, a suicide in correctional facility can easily escalate
into a political scandal. Therefore, the provision of adequate suicide prevention and intervention services is
both beneficial to the prisoners in custody, as well as to the institution in which the services are offered. The
number of suicides in prison has increased over recent years. The high rates of suicidal behaviour in prisons
cannot be addressed without adequate attention to the high rates of psychiatric disorder and vulnerability
factors in prisoners. All inmates with a psychiatric history or potential suicidality be identified and linked
with ongoing mental health services while incarcerated, that potentially suicidal inmates never be housed
alone in a cell, and that correctional staff be trained to recognize potentially self-destructive inmates and to
prevent suicide. As a group, inmates have higher suicide rates than their community counterparts. For example,
in pretrial facilities housing short-term inmates, the suicide rate is ten times that of the outside community.
In facilities housing sentenced prisoners, the suicide rate is three times higher than in the outside community.
Also, for every completed suicide that occurs, there are many more suicide attempts. In this paper risk
factor, time and place of suicide among inmates are reviewed.
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Department of Psychiatry – Sant’Andrea Hospital
University of Rome “La Sapienza”, Italy
2
McLean Hospital – Harvard Medical School, Boston, MA – USA
1
Corresponding Author
Maurizio Pompili, M.D., Dept. of Psychiatry, Sant’Andrea Hospital, Via di Grottarossa, 1035,
00189 Roma Italy. Email: [email protected] or [email protected]
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