Terapia genica - Centro di Medicina Rigenerativa

Medicina
Terapia
genica:
secondo
atto
Illustrazione di Kotryna Zukauskaite
Quindici anni fa una serie
di tragici fallimenti
ha costretto a ripensare
la terapia genica, ma ora
gli scienziati sostengono
che questa tecnica è pronta
per l’ambito clinico
di Ricky Lewis
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Ricki Lewis è giornalista scientifica, con un PhD
in genetica. È autrice di diversi libri di testo, articoli
per periodici e del libro The Forever Fix: Gene Therapy
and the Boy Who Saved It (St. Martin’s Press, 2012).
tenti al mondo industriale, la prima approvazione statunitense di
un trattamento genico commerciale potrebbe arrivare nel 2016. La
terapia genica, dopo aver perso una decina d’anni, sta finalmente
realizzando il suo destino di tratamento rivoluzionario (per l’importante contributo italiano si veda il box a p. 50).
Il problema dell’introduzione
L
a terapia genica potrebbe finalmente mantenere le sue
promesse. Negli ultimi sei anni la procedura sperimentale con cui inserire i geni sani dove sono necessari
nell’organismo ha ridato la vista a circa 40 persone con
una forma ereditaria di cecità. I medici hanno osservato risultati senza precedenti in oltre 120 pazienti con diversi tumori del sangue, molti dei quali tre anni dopo
il trattamento sono ancora liberi dal cancro. La terapia
genica è stata usata per permettere ad alcuni pazienti
emofiliaci, un disturbo emorragico a volte fatale, di rimanere più a lungo senza episodi pericolosi o senza le
necessarie dosi elevate di farmaci coagulanti.
I risultati positivi sono ancora più impressionanti considerando
che la terapia genica si era praticamente fermata 15 anni fa, dopo la prematura morte di Jesse Gelsinger, un adolescente con una
rara malattia della digestione. Il sistema immunitario di Gelsinger
aveva reagito alla terapia genica a cui era stato sottoposto scatenando un contrattacco di inaspettata ferocia, che lo aveva ucciso.
I primi successi della terapia genica avevano effettivamente alimentato irragionevoli speranze tra medici e ricercatori, e forse un
po’ di superbia.
Questo fallimento, insieme ad altri, ha costretto gli scienziati a
ripensare ad alcuni loro approcci e a essere più realistici riguardo
alla possibilità di usare la terapia genica come trattamento di diverse malattie. I ricercatori hanno ridimensionato le loro aspettative e sono tornati alla ricerca di base, hanno analizzato gli effetti
collaterali potenzialmente fatali, come quelli sofferti da Gelsinger, e hanno capito come evitarli. Inoltre gli scienziati hanno posto maggiore attenzione nello spiegare rischi e benefici ai volontari e alle loro famiglie.
Secondo molti osservatori la svolta è avvenuta sei anni fa,
quando Corey Haas, un bambino di otto anni, è stato curato per
una malattia degenerativa degli occhi che rovinava progressivamente la vista. La terapia genica impiegata ha permesso alla retina difettosa dell’occhio sinistro di Corey di produrre una proteina
che altrimenti il suo organismo non avrebbe prodotto. Dopo quattro giorni il bambino è andato a visitare uno zoo, e con grande
piacere e meraviglia ha scoperto di riuscire a vedere il Sole e una
mongolfiera. Tre anni dopo è stato curato anche l’occhio destro, e
oggi Corey vede abbastanza bene da poter andare a caccia di tacchini con il nonno.
Sebbene la terapia genica non sia ancora disponibile negli ospedali, è probabile che nel prossimo decennio la situazione
cambi. In Europa nel 2012 è stato approvato il primo trattamento genico per una malattia rara ma estremamente dolorosa, il deficit di lipoproteina lipasi. A fine 2013 gli statunitensi National Institutes of Health (NIH) hanno rimosso alcuni ostacoli normativi
oggi considerati non più necessari. Secondo alcuni osservatori at-
In breve
Negli anni novanta gli esperimenti di terapia
genica avevano suscitato aspettative non
realistiche sul potenziale di questa tecnologia.
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Dopo diversi tragici fallimenti si è tornati a
studiarne fondamenti biologici e tecniche.
Trattamenti più sicuri sono ora pronti per entrare
in ambito clinico. L’Europa ha approvato la prima
terapia genica nel 2012, gli Stati Uniti potrebbero
seguire nel 2016.
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I primi fallimenti della terapia genica hanno evidenziato quanto sia difficile progettare un modo sicuro ed efficiente per far arrivare i geni nei tessuti bersaglio. Troppo spesso gli strumenti più
sicuri non erano molto efficaci, e alcuni dei più efficaci si erano
rivelati poco sicuri, scatenando una reazione immunitaria parossistica, come nel caso di Gelsinger, o l’insorgere di leucemia, come in altri casi.
Per capire che cosa causava questi effetti collaterali e ridurne il
rischio, gli scienziati si erano concentrati sul sistema più usato per
introdurre i geni: un virus ingegnerizzato in modo da funzionare
come una sorta di siringa microscopica.
Come prima cosa, sono rimossi alcuni geni dal virus, per far
spazio ai geni sani che si vogliono introdurre nel paziente. Questo
passaggio ha anche il vantaggio di evitare che il virus faccia copie di se stesso una volta nell’organismo, aumentando le possibi-
mento per la stessa malattia aveva mostrato effetti collaterali così
gravi. I ricercatori sapevano che gli adenovirus potevano provocare una risposta immunitaria, ma a parte uno studio con un virus
ingegnerizzato leggermente diverso in cui era morta una scimmia, non avevano capito quanto esplosiva potesse essere la reazione. «Gli esseri umani sono molto più eterogenei delle colonie
di animali», dice James Wilson dell’Università della Pennsylvania, che ha sviluppato il sistema di introduzione virale usato nel
trial clinico a cui ha partecipato Gelsinger. «In quella sperimentazione abbiamo osservato una reazione eccessiva in un soggetto
su 18». Con il senno di poi forse sarebbe stato più saggio iniettare
meno virus geneticamente modificati nell’organismo, limitandosi
a qualche miliardo. I ricercatori sono stati criticati anche per non
aver informato Gelsinger e famiglia della morte della scimmia, in
modo da far decidere autonomamente al paziente e ai suoi cari se
si fosse trattato, o meno, di un evento non collegato.
La morte di Gelsinger non è stata l’unica tragedia della terapia genica. Poco tempo dopo, il trattamento per un’altra malattia,
l’immunodeficienza combinata grave X1 (SCID-X1), ha causato 5
casi di leucemia in 20 bambini, e uno di loro è morto. Ancora una
volta era colpa del sistema di introduzione dei geni. In quel caso,
però, il sistema di iniezione era costituito da un retrovirus, un tipo di virus che inserisce il suo carico genetico
direttamente nel DNA di una cellula. Il posizionamento esatto dei geni terapeutici però è un
po’ casuale, e a volte i retrovirus hanno inserito il proprio contenuto in un oncogene, cioè
in un gene che in alcune circostanze può causare il cancro.
Il lungo viaggio verso una terapia genica
efficace è lontano dall’essere concluso.
Ma grazie ai recenti progressi questo
approccio sperimentale è più vicino
a diventare una terapia convenzionale
per curare alcune malattie
lità di una reazione immunitaria. Successivamente i virus vengono iniettati nel paziente, nel quale inseriscono i nuovi geni in vari
punti delle cellule, in funzione del tipo di virus usato.
Quando Gelsinger si era offerto volontario per la sperimentazione clinica gli strumenti di inserimento preferiti erano gli
adenovirus, che in natura negli esseri umani possono causare infezioni delle vie aeree superiori. Un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania aveva scoperto che c’erano maggiori
possibilità di successo iniettando i virus nel fegato, in cui si trovano le cellule che normalmente producono l’enzima digestivo
che mancava a Gelsinger. Gli scienziati avevano inserito una copia funzionante del gene per quell’enzima in adenovirus svuotati di quasi tutto il loro materiale genetico, e avevano iniettato circa 1000 miliardi di questi virus, ognuno con il proprio contenuto
su misura, direttamente nel fegato.
Una volta nell’organismo, però, alcuni virus hanno fatto una
tragica deviazione. Si sono introdotti nelle cellule epatiche, come
previsto, ma hanno anche infettato numerosi macrofagi, le grandi
cellule circolanti che agiscono da sentinelle per il sistema immunitario, e di cellule dendritiche che annunciano un’invasione. Il sistema immunitario ha reagito distruggendo le cellule infette, un
processo violento che alla fine ha devastato il corpo di Gelsinger.
La ferocia della reazione immunitaria ha sorpreso i ricercatori. Nessuno dei 17 volontari che già si erano sottoposti al tratta-
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Ripensare la tecnologia
Data la propensione degli adenovirus a provocare reazioni immunitarie letali e dei retrovirus a innescare il cancro, l’attenzione dei ricercatori si è rivolta ad altri virus, per vedere se
offrivano risultati migliori, e presto gli scienziati si sono concentrati su altri due candidati più adatti.
Il primo di questi nuovi vettori, il virus adeno-associato (AAV),
non causa malattie, sebbene abbia infettato almeno una volta quasi tutti noi. Dato che così comune, è improbabile che il virus adeno-associato stimoli reazioni immunitarie gravi. Questo virus ha
un’altra caratteristica che dovrebbe minimizzare gli effetti collaterali: è disponibile in diverse varietà, o sierotipi, che preferiscono specifici tipi di cellule o tessuti. Per esempio AAV2 funziona
bene negli occhi, mentre AAV8 preferisce il fegato e AAV9 si inserisce nei tessuti del cuore e del cervello. È possibile quindi scegliere
il miglior virus adeno-associato per una specifica parte dell’organismo, in modo da ridurre la quantità di virus da iniettare e minimizzare le possibilità di una forte risposta immunitaria o di altre
reazioni indesiderate. Inoltre gli AAV inseriscono il proprio patrimonio genetico fuori dai cromosomi, e quindi non possono causare accidentalmente il cancro interferendo con gli oncogeni.
I virus adeno-associati sono stati usati per la prima volta nel
1996, in un trial clinico sulla fibrosi cistica. Da allora sono stati identificati 11 sierotipi, e i loro componenti sono stati mescolati e riorganizzati per creare centinaia di strumenti di introduzione
di geni che sembrano sicuri e selettivi. Oggi diversi studi valutano
la terapia genica con virus adeno-associati per numerose malattie
del cervello, tra cui Parkinson e Alzheimer, e per emofilia, distrofia muscolare, insufficienza cardiaca e cecità.
Le Scienze 49
tra i primi al mondo
Terapia genica made in Italy
Cervelli in casa. Luigi Naldini, il primo dall’alto, con il suo
gruppo di ricerca dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia
genica dopo la pubblicazione dei due studi su «Science» nel 2013.
S
e c’è un campo in cui la ricerca biomedica italiana primeggia nel
mondo, questo è senza dubbio quello della terapia genica. A certificarlo sono arrivati, negli ultimi anni, numerosi riconoscimenti internazionali. Come la presenza di ben due studi italiani nella top ten di «Science»
nel 2009. O l’ambita qualifica di «metodo dell’anno» che nel 2011 «Nature»
ha assegnato al «bisturi del DNA» usato per la terapia genica all’Istituto San
Raffaele Telethon per la terapia genica (TIGET). O ancora, per arrivare a giorni più recenti, all’Outstanding Investigator Award che l’American Society for
Gene and Cell Therapy assegnerà a Washington, in questo mese di maggio,
al direttore del TIGET, Luigi Naldini.
Premi e riconoscimenti a parte, negli ambienti scientifici mondiali è noto come l’Italia sia all’avanguardia da oltre vent’anni in questo promettente campo della medicina. Dal 1992 per l’esattezza, quando il gruppo di Claudio Bordignon all’Ospedale San Raffaele di Milano usò per la prima volta al mondo
cellule staminali emopoietiche (cioè del sangue) geneticamente modificate
per la terapia genica di una grave immunodeficienza combinata congenita, il
deficit di adenosina deaminasi (SCID-ADA).
Uno sguardo sul domani
50 Le Scienze
stesso Luigi Naldini quando lavorava a La Jolla, in California, nel 1996 e meritò la copertina di «Science». Ricorda lo scienziato che dopo la pubblicazione i colleghi gli facevano grandi complimenti per l’intuizione, ma subito dopo
gli dicevano: «Non penserai di sperimentarla sull’uomo, vero?». Lo ha fatto, invece, con successo, 17 anni dopo. Gli stessi vettori saranno usati per
le prossime sperimentazioni cliniche di terapia genica previste al TIGET sulla
beta talassemia e sulla mucopolisaccaridosi (MPS) di tipo I, una grave malattia da accumulo lisosomiale. I trial partiranno nel 2015 e coinvolgeranno una
ventina di pazienti, provenienti da tutto il mondo.
Altri vettori, altre malattie, altro gruppo di ricerca. Siamo a Napoli, presso l’Istituto Telethon di genetica e medicina (TIGEM). Alberto Auricchio, professore
associato di genetica medica all’Università «Federico II», studia da sei anni come applicare la terapia genica sulla mucopolisaccaridosi di tipo VI, che colpisce scheletro, occhi e cuore ma che, a differenza dalle altre MPS, non intacca
il sistema nervoso. «Usiamo vettori adeno-associati – spiega Auricchio - che
una volta infusi infettano il fegato, il quale a sua volta comincia a produrre la
proteina mancante». Dopo aver raccolto risultati incoraggianti in laboratorio è
iniziata la preparazione per la sperimentazione clinica, che dovrebbe cominciare a Napoli entro il 2015. Un progetto da 8 milioni di euro, di cui 6 stanziati
dall’Unione Europea e 2 dalla Fondazione Telethon.
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ANSA
I risultati ottenuti
Oggi gli studi riguardano malattie genetiche rare del sistema nervoso e di
quello immunitario, patologie lisosomiali e della pelle, fino ad arrivare a sperimentazioni promettenti nel campo dei tumori. In questi ultimi casi si tratta
di esperimenti che hanno funzionato nel modello animale e che potrebbero
essere applicati sull’uomo entro breve tempo. Negli altri, invece, i trial clinici sono già stati avviati, con ottimi risultati. Per la prima malattia trattata, la
SCID-ADA, la sperimentazione è invece da considerarsi conclusa, ed è stato avviato l’iter regolatorio per arrivare alla produzione del farmaco. Dopo la
prima pubblicazione (su «Nature», nel 1995), il protocollo per la terapia genica della SCID-ADA è stato ottimizzato sempre al TIGET da Maria Grazia Roncarolo e Alessandro Aiuti, e ha guarito a oggi 18 bambini da tutto il mondo. Il
primo caso fu quello di Salsabil, bambina palestinese indirizzata a Milano da
un medico israeliano, trattata con successo nel 2000.
La terapia genica della SCID-ADA prevede il prelievo di cellule staminali del
sangue dal midollo osseo del paziente, l’introduzione di un gene Ada funzionante correttivo con l’uso di vettori retrovirali di prima generazione e la reinfusione nel paziente. Nel 2010 la Fondazione Telethon e l’Ospedale San Raffaele hanno firmato un accordo con l’azienda farmaceutica GlaxoSmithKline
che affida alla multinazionale il compito di portare a compimento le fasi regolatorie e la successiva produzione e commercializzazione del farmaco.
A fine 2013 la stessa azienda ha esercitato un’opzione su due nuovi protocolli di terapia genica messi a punto al TIGET per altre due malattie genetiche: leucodistrofia metacromatica (MLD), una patologia neurodegenerativa,
e sindrome di Wiskott-Aldrich (WAS), un’immunodeficienza congenita associata a deficit di piastrine e autoimmunità. L’opzione è arrivata pochi mesi
dopo la pubblicazione, in due articoli sullo stesso numero di «Science», dei
promettenti risultati dei trial clinici. A tre anni dalla terapia genica, i sei bambini trattati (tre per ciascuna malattia) non mostravano i sintomi tipici delle loro
patologie. E anche per gli altri 12 piccoli pazienti che nel frattempo sono stati
trattati (9 con MLD e 3 con WAS) la malattia sembra essersi arrestata.
Nel caso della terapia genica su MLD e WAS sono stati usati vettori genetici di nuova generazione, i lentivirali ricavati dal virus HIV, responsabile
dell’AIDS. L’idea di sfruttare il potere altamente infettante del virus, una volta depotenziato, per fargli introdurre nelle cellule il gene corretto, venne allo
Con una biopsia gli fu prelevato un frammento di cute per isolarne le cellule staminali epiteliali, che vennero poi corrette e usate per coltivare in laboratorio lembi di epidermide, che furono poi trapiantati sulle gambe del paziente.
«È stato un intervento complesso – spiega De Luca – perché le condizioni
della pelle dei pazienti colpiti da questa malattia sono spesso critiche e c’è
un alto rischio di infezioni». Ciò nonostante, la nuova pelle attecchì alla perfezione e, dopo tanti anni di controlli periodici, si mantiene ancora stabile, senza la formazione di bolle o ferite. Ma dopo aver pubblicato i risultati su «Nature Medicine» nel 2006 il gruppo di De Luca fu costretto a un lungo stop, a
causa dell’entrata in vigore della normativa europea 1394/2007 che equiparava le terapie geniche e cellulari ai farmaci, fissando criteri molto più rigorosi per la sperimentazione. Ci sono voluti tre anni per costruire e mettere a
norma il centro di Modena. E altri due anni per ultimare le certificazioni. Oggi è tutto pronto per ripartire con il trial. Nei prossimi mesi dovrebbe riprendere la sperimentazione su Claudio, mentre un analogo trial verrà condotto
in Austria, con la collaborazione di Johann Bauer, della Clinica dermatologica di Salisburgo.
Auricchio e altri scienziati dell’istituto napoletano diretto da Andrea Ballabio
hanno partecipato anche a una sperimentazione clinica di terapia genica per
una grave patologia dell’occhio, l’amaurosi congenita di Leber. Per altre forme come la retinite pigmentosa e la malattia di Stargardt i risultati degli studi preclinici sono molto promettenti. In questi casi gli scienziati del TIGEM si
avvalgono di una decennale collaborazione, per la traslazione clinica dei loro
studi, con il gruppo di Francesca Simonelli, professore di oculistica alla Seconda Università di Napoli.
Pronto a ripartire, dopo uno stop forzato di sette anni, è invece il trial clinico
di terapia genica sull’epidermolisi bollosa (EB) o «sindrome dei bambini farfalla», un nome che indica un gruppo di malattie genetiche in cui la cute e i
tessuti che rivestono le mucose (gli epiteli) vanno incontro a scollamento e
a formazione di bolle e ferite che costringono i pazienti a lunghe e dolorose
medicazioni quotidiane. Ne esistono diverse forme, tra cui le principali sono
le semplici, le giunzionali e le distrofiche. Sull’EB lavora da tempo il gruppo di
Michele De Luca, direttore del Centro di medicina rigenerativa dell’Università
di Modena e Reggio Emilia. «Nel 2003 – racconta – abbiamo ricevuto l’approvazione per un trial di fase 1/2 (che deve provare la sicurezza e l’efficacia del trattamento, N.d.R.) sulla forma giunzionale laminina 5 dipendente».
Il primo paziente a essere trattato fu Claudio, un adulto di Torino, nel 2005.
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Per il futuro De Luca ha obiettivi ambiziosi: mettere a punto e sperimentare
nuovi vettori, su cui sta già lavorando, per riuscire a curare anche altre forme
di epidermolisi bollosa. A lungo termine, la vera sfida è intervenire precocemente. «Se riusciamo ad avere una diagnosi molecolare del bambino malato entro i primi mesi di vita – spiega – potremmo prelevare un pezzo di tessuto con una biopsia, riparare il difetto del gene e sviluppare una banca di
cellule, geneticamente corrette. In questo modo al primo manifestarsi delle
bolle potremmo impiantare la nuova pelle e prevenire di fatto lo sviluppo della malattia».
Al San Raffaele di Milano, invece, il futuro della terapia genica è legato all’editing del genoma, una tecnica rivoluzionaria messa a punto dal gruppo di
Luigi Naldini. Se la terapia genica sviluppata fino a oggi prevede l’introduzione di una copia funzionante del gene difettoso nelle cellule dei pazienti tramite un vettore virale, l’editing del genoma permette di correggere direttamente sul DNA il difetto genico. Si usano, per questo, le zinc-finger
nucleases (ZFN), ovvero proteine artificiali costruite in laboratorio in grado di
riconoscere sequenze specifiche di DNA e di provocare tagli nella sua doppia elica.
Questa tecnica avveniristica ha già raggiunto risultati molto promettenti in fase preclinica. È di aprile 2012, infatti, la pubblicazione su «Nature Medicine»
del lavoro di un gruppo internazionale e multidisciplinare, guidato da Chiara Bonini, responsabile dell’Unità di ematologia sperimentale del San Raffaele, che usando le ZFN ha messo a punto una nuova tecnica di immunoterapia cellulare per il cancro. «Lavoriamo da anni sull’immunoterapia cellulare
– spiega Bonini – e questa nuova tecnica ci permette di usare in modo più efficace e mirato i linfociti T per eliminare le cellule tumorali. Adesso dobbiamo progettare il trial clinico e trovare i finanziamenti. Se tutto va bene la sperimentazione sui pazienti potrebbe partire entro qualche anno».
Sull’uso dei linfociti T per la cura di gravi tumori del sangue, al San Raffaele,
lavora anche Attilio Bondanza, responsabile dell’Unità di immunoterapia delle leucemie. Nel settembre 2013 è stato pubblicato su «Blood» un suo studio che dimostra l’efficacia di linfociti geneticamente modificati con un recettore chimerico o CAR (chimeric antigen receptor), creato in laboratorio,
specifico per l’antigene tumorale espresso nelle forme più maligne, come la
leucemia mieloide acuta e il mieloma multiplo. Anche in questo caso i tempi per l’avvio della sperimentazione sull’uomo potrebbero non essere particolarmente lunghi.
Marco Piazza
Le Scienze 51
C ON C ETT I E S F I DE
Come riparare
un gene difettoso
Due scelte per i vettori
La terapia genica tenta di riparare i danni causati da geni danneggiati o che non funzionano a dovere. Nell’approccio più
comune (sotto) si inserisce una copia del gene corretto in un
virus ( a ) svuotato di quasi tutto il suo contenuto originale.
Questo virus ibrido con il suo carico terapeutico è poi iniettato nell’organismo, dove si attacca ai recettori ( b ) sulle cellule
bersaglio. Una volta nella cellula, la copia corretta del gene inizia a produrre la proteina ( c ) che prima non riusciva a sintetizzare. Effetti collaterali negativi possono verificarsi se i geni si
inseriscono accidentalmente nel genoma della cellule ricevente in modo da causare l’insorgere di un tumore, o se il sistema immunitario del paziente cerca di difendere con forza l’organismo da quello che crede essere un’invasione dall’esterno
(non mostrato).
Invece di iniettare i virus direttamente nei
pazienti, è possibile rimuovere le cellule
dall’organismo, inserirci i virus con i geni
terapeutici e iniettare le cellule modificate
(sotto a destra). Dato che
l’informazione genetica corretta
è incorporata nel DNA delle
cellule, la riparazione
verrà trasmessa alle
cellule figlie che
sono generate.
Virus ibrido
Iniezione diretta
nell’organismo
Recettore
Gene terapeutico
Anche gli adenovirus, che hanno provocato la morte di Gelsinger, sono di nuovo sperimentati per terapie mirate a parti dell’organismo in cui è improbabile che causino reazioni immunitarie.
Un’applicazione promettente è la terapia della «bocca secca» nei
pazienti curati con radiazioni per tumori del collo e della testa,
che danneggiano le ghiandole salivari situate subito sotto la superficie all’interno della guancia.
I National Institutes of Health hanno in corso una piccola sperimentazione clinica per studiare l’inserimento di un gene che
crea canali per l’acqua nelle ghiandole. Dato che le ghiandole sono piccole e ben delimitate, e visto che l’esperimento richiede mille volte meno virus di quelli usati su Gelsinger, le possibilità di
una reazione immunitaria sono ridotte. Inoltre i virus che non arrivano al loro obiettivo dovrebbero finire nella saliva, ingoiata o
sputata, con poche possibilità di irritare il sistema immunitario.
Dal 2006 a oggi, 6 degli 11 pazienti trattati hanno mostrato di
produrre una quantità significativa di saliva in più. Bruce Baum,
odontoiatra e biochimico che ha guidato lo studio prima di andare
in pensione, definisce i risultati «cautamente incoraggianti».
Il trattamento genico
avviene fuori
dall’organismo
Porzione
difettosa
del genoma
(in nero)
Cellula
del paziente
a
Capsula virale
con il gene
terapeutico
Sull’onda dei successi ottenuti con le malattie rare, ora i ricercatori
cercano di usare la terapia genica nella riparazione dei danni
genetici che si verificano naturalmente nel corso della vita
b
Nuovi obiettivi
Cellula del paziente
Porzione difettosa
del DNA del paziente
Nucleo
della cellula
c
Migliorare la sicurezza
Geni virali con
il gene terapeutico
incorporato
Proteine
terapeutiche
Il secondo e più sorprenden­
te nuovo vettore è una versione svuotata dell’HIV, il virus che
causa l’AIDS. Se guardiamo oltre la reputazione da killer dell’HIV,
emergono i suoi vantaggi per la terapia genica. Come membro del
genere Lentivirus dei retrovirus, riesce a sfuggire al sistema immunitario e, caratteristica cruciale per un retrovirus, tipicamente
non disturba gli oncogeni.
Dopo la rimozione dei geni che rendono letale l’HIV, la restante
scatola virale è di grande capacità, secondo Stuart Naylor, ex responsabile scientifico di Oxford Biomedica nel Regno Unito, che
studia «farmaci basati sui geni» per le malattie degli occhi. A differenza dei più piccoli virus adeno-associati, l’HIV «è ottimo per in-
52 Le Scienze
I rischi di tumori e di pericolosi attacchi
immunitari possono essere minimizzati con
un’accurata scelta del tipo di virus usato,
limitandone il numero o i tessuti da trattare.
trodurre molti geni o geni molto grandi. Non c’è tossicità e nessuna reazione immunitaria avversa». I lentivirus sono ora usati per
molte sperimentazioni cliniche, tra cui la terapia per l’adrenoleucodistrofia, la malattia del film L’olio di Lorenzo, del 1992. Finora
alcuni dei ragazzi che hanno ricevuto questo trattamento stanno
bene a sufficienza da tornare a scuola.
Sebbene le sperimentazioni cliniche con AAV o HIV siano in
aumento, sono stati modificati o reindirizzati anche i vecchi vettori virali, che ora possono essere usati in alcune circostanze particolari. Per esempio, i retrovirus non-HIV sono geneticamente
modificati in modo da inattivarsi prima che possano scatenare la
leucemia.
549 maggio 2014
Illustrazione di Tami Tolpa
DNA del
paziente
Sull’onda di questi successi, i ricercatori sono andati oltre la terapia delle malattie ereditarie, cercando di riparare i danni genetici che si verificano in modo naturale nel corso della vita.
All’Università della Pennsylvania, per esempio, la terapia genica è usata per combattere un cancro infantile comune, la leucemia linfoblastica acuta. Anche se la maggior parte dei bambini con questa leucemia risponde alla chemioterapia standard, il 20
per cento dei piccoli pazienti però non risponde affatto. I ricercatori tentano quindi di usare la terapia genica per dare uno stimolo
extra alle cellule immunitarie di questi bambini per cercare e distruggere le cellule tumorali recalcitranti.
L’approccio sperimentale è complesso, ed è basato sulla cosiddetta tecnologia del recettore chimerico per l’antigene. Come la
chimera dei miti greci era composta di animali diversi, un recettore chimerico per l’antigene è composto da due molecole del sistema immunitario che normalmente non vanno insieme. Alcune
cellule immunitarie, i linfociti T, sono equipaggiate con i recettori
chimerici che permettono a queste cellule di legarsi a proteine che
si trovano in grandi quantità sulle cellule leucemiche. I linfociti T,
armati e dispiegati, possono quindi distruggere le cellule tumorali. I primi soggetti della sperimentazione erano adulti con la leucemia cronica, che hanno avuto buoni risultati. Il tentativo successivo su una bambina è andato al di là delle migliori aspettative.
Emily Whitehead aveva cinque anni nel maggio 2010, quando le è stata diagnosticata la leucemia. Due cicli di chemioterapia
non avevano avuto effetti. Nella primavera 2012 le è stata «data
una terza dose di chemioterapia che avrebbe ucciso un adulto, e
ancora c’erano lesioni nei reni, nel fegato e nella milza», racconta Bruce Levine, uno dei medici di Emily. La bambina aveva pochi giorni di vita.
I medici hanno prelevato un campione del sangue di Emily,
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isolando alcuni linfociti T. Poi in quel campione hanno iniettato
lentivirus ingegnerizzati con geni appropriati. Dopo un inizio difficile, Emily è migliorata rapidamente. Tre settimane dopo il trattamento, un quarto dei linfociti T nel midollo osseo mostrava la
correzione genetica, e cominciavano a dare la caccia alle cellule
tumorali, che presto sono scomparse. «In aprile era calva – ricorda
Levine – ad agosto era al primo giorno di scuola».
Le cellule modificate potrebbero non durare per sempre, nel
qual caso il trattamento verrebbe ripetuto, ma intanto da due anni questa bella ragazzina mora con i capelli lunghi è libera dal
cancro. E non è la sola. Alla fine del 2013 diversi gruppi di ricerca hanno annunciato di aver usato la tecnica del recettore chimerico per l’antigene su oltre 120 pazienti per la forma di leucemia
che aveva colpito Emily Whitehead e per altri tre tipi di tumori del
sangue. Cinque adulti e 19 bambini su 22 hanno avuto una remissione completa, e quindi attualmente sono sani.
Nella clinica
Grazie ai vettori virali più sicuri, gli specialisti della terapia genica devono ora affrontare la sfida più severa per ogni nuova terapia negli Stati Uniti: ottenere l’approvazione della Food and Drug
Administration (FDA). Questo passaggio richiede i trial clinici di
fase III, progettati per stabilire l’efficacia in un gruppo più ampio
di pazienti volontari, e normalmente ci vogliono da uno a cinque
anni per completarli. A fine 2013, più o meno il 5 per cento di circa 2000 sperimentazioni cliniche della terapia genica era in fase
III. Uno dei più avanzati ha come obiettivo l’amaurosi congenita di
Leber, la malattia che stava togliendo la vista a Corey Haas. Finora
a diverse decine di pazienti è stato inserito il gene corretto in entrambi gli occhi, e riescono a vedere il mondo.
La Cina è stata il primo paese ad approvare una terapia genica,
nel 2004, per un tumore della testa e del collo. Nel 2012 in Europa
è stato approvato Glybera, un farmaco basato sulla terapia genica per il deficit di lipoproteina lipasi. Nei muscoli delle gambe sono
iniettate copie funzionanti del gene mutante, impacchettate in un
AAV. La società olandese UniQure collabora con la FDA per l’approvazione negli Stati Uniti. C’è un potenziale ostacolo: il prezzo
per una dose curativa è di 1,6 milioni di dollari, ma il costo potrebbe ridursi con la scoperta di procedure più efficienti.
Come è successo con molte altre tecnologie mediche, il lungo
viaggio verso una terapia genica efficace è stato tortuoso, e ancora non è completo. Ma grazie ai successi accumulati, come quelli
di Corey Haas e Emily Whitehead, è sempre più vicina a diventare
una terapia di uso comune per curare alcune malattie, e una nuova promettente opzione per altre. n
per approfondire
Gene Therapy of Inherited Retinopathies: A Long and Successful Road from
Viral Vectors to Patients. Colella P. e Auricchio A., in «Human Gene Therapy», Vol. 8,
n. 23, pp. 796-807, agosto 2012.
Sito web degli NIH sulla terapia genica: http://ghr.nlm.nih.gov/handbook/therapy.
Le Scienze 53