Le due facce del risorgimento, seconda parte – Fabio

Non è possibile sapere se gli accordi di Plombiers sottoscritti da Cavour per il Piemonte sabaudo con
la Francia di Napoleone III non siano stati sottoscritti con delle riserve mentali da parte dello
statista piemontese, ma il progetto di risistemazione dell’Italia che disegnavano, funzionale agli
interessi del liberalismo internazionale e della massoneria, di nazionale e patriottico avevano assai
poco; il progetto contemplava semplicemente la sostituzione dell’egemonia francese a quella
austriaca in Italia, l’attribuzione della Lombardia al regno sabaudo e un napoleonide al posto del
Borbone sul trono di Napoli. In sostanza, l’Italia rimaneva un terreno di spartizione fra le potenze
europee e i loro contrapposti interessi, come era stata un secolo prima con le guerre di successione,
durante l’epoca napoleonica, ma potremmo dire fin dalla calata in Italia del re di Francia Carlo VIII
nel 1494, ma forse addirittura dall’alto medioevo con le lotte fra bizantini e longobardi.
In più, la prevista cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, rappresentava per quest’ultima un
incremento territoriale modesto, ma doveva avere un considerevole valore psicologico: poiché si
trattava proprio della città di Garibaldi e della culla della dinastia sabauda, avrebbe dovuto sancire il
fatto che la nuova Italia nata dalla guerra che ci si apprestava a muovere all’Austria, sarebbe dovuta
essere del tutto succube della Francia.
Un’ipotesi che è stata avanzata, e a me sembra molto verosimile, è che la ragione per la quale
Napoleone III cambiò idea a guerra iniziata e stipulò con gli Austriaci l’armistizio di Villafranca
lasciando il Piemonte nelle peste ad affrontare da solo la reazione austriaca o a sottoscrivere a sua
volta la pace alla svelta, furono le insurrezioni che si erano verificate nell’Italia centrale, in Toscana,
nei ducati e nella legazioni che formano oggi l’Emilia Romagna. Queste convinsero l’imperatore dei
Francesi che la guerra non avrebbe portato alla realizzazione del progetto di Plombiers, ma alla
nascita di uno stato unitario nella Penisola, cosa che per la Francia non rappresentava nessuna
convenienza. Furono gli Italiani, semmai, a sentirsi legati a Plombiers con un servilismo
sorprendente dopo che il Bonaparte li ebbe scaricati, ma questo lo vedremo più avanti.
Tutte le volte che l’interesse dell’Italia era in contrasto con quello della loggia, i “patrioti” scelsero
quest’ultimo, dando così un’implicita dimostrazione di quale fosse la loro vera “patria”.
Cominciarono i garibaldini comandati da Nino Bixio reprimendo con estrema durezza l’insurrezione
contadina di Bronte; lì c’era la Ducea di Nelson, lì c’erano interessi inglesi da tutelare. Cerchiamo di
avere le idee chiare a questo proposito: mille uomini o poco più, quante erano le camicie rosse, non
avrebbero mai potuto avere la meglio su di un regno esteso a metà della Penisola come era quello
borbonico, senza il consenso e l’attivo sostegno delle popolazioni. Senza di esso, Garibaldi non
avrebbe potuto fare altro che ripetere le esperienze disastrose e suicide già fatte dai fratelli
Bandiera e da Carlo Pisacane.
Pochi anni dopo esplodeva nel meridione la rivolta popolare fatta passare per “brigantaggio”, lo
scollamento fra le plebi meridionali e lo stato unitario era completo. Questo lo si dovette all’esosa
fiscalità piemontese, al servizio di leva obbligatorio, ma prima ancora a Bronte ed episodi dello
stesso genere, ma ancora di più al nuovo stato unitario che aveva iniziato a trattare il meridione
italiano come terra di conquista, come una colonia.
Nel 1870 i garibaldini accorrono in Francia ad aiutare i Francesi contro i Prussiani, quegli stessi
Francesi, per intenderci, che nel 1848 avevano soffocato nel sangue la Repubblica Romana, che nel
1859 avevano abbandonato il Piemonte in guerra con l’Austria concludendo unilateralmente
l’armistizio di Villafranca, che nonostante ciò nel 1860 avevano preteso ugualmente e ottenuto
l’annessione di Nizza e della Savoia, le cui truppe nel 1867 a Mentana avevano fatto a pezzi gli stessi
garibaldini, e che al momento presente erano l’ostacolo all’annessione di Roma.
La cosa che sembrerebbe a tutti gli effetti un’assurdità inspiegabile, ha in realtà la sua spiegazione
nel fatto che a Sedan non solo l’esercito francese era stato pesantemente sconfitto dai Prussiani, ma
Fabio Calabrese
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lo stesso imperatore Napoleone III era stato catturato. L’improvvisa fine del secondo impero
napoleonico fece senza dubbio pensare a costoro che si era prossimi alla resurrezione della Francia
giacobina di ottant’anni prima, e del tutto infondata questa previsione non doveva essere, infatti di lì
a poco su questa vicenda si innestò l’episodio della Comune. In ogni caso, tutto ciò ci impone di
rileggere l’immagine, il cliché del garibaldino come combattente ideologico, non patriottico, e
appunto di puro odio ideologico possiamo parlare nei confronti della Prussia e del nuovo impero
tedesco sorto attorno ad essa, in quanto la Germania rappresentava per il mondo “liberale”
massonico occidentale anglo-franco-americano un avversario ben più temibile dei vecchi regimi
reazionari restaurati col Congresso di Vienna, un odio nel quale si trova la radice la reale causa delle
tragedie che arriveranno nel XX secolo con le due guerre mondiali.
Con la Prussia e con quella che di lì a poco sarebbe stata la nuova Germania, non solo l’Italia non
aveva alcun genere di contenzioso, ma anzi, era proprio grazie all’alleanza con essa che avevamo
avuto il Veneto nel 1966, e sarebbe stata proprio la vittoria prussiana sulla Francia ad aprirci la
strada all’annessione di Roma. Si vede bene dunque come l’ultima impresa garibaldina non solo era
dettata da motivazioni esclusivamente ideologiche, ma era in netto contrasto con i nostri interessi
nazionali.
A questo punto forse sarà utile fare un passo indietro e dire qualcosa della guerra austro-prussiana
del 1866, per noi terza guerra d’indipendenza, che ci fruttò l’annessione del Veneto ma sul campo ci
fece registrare la sconfitta terrestre di Custoza e quella navale di Lissa.
Io sono sempre dell’idea che uno straniero che andasse a esaminare la nostra storiografia
mettendosi nei nostri panni, non cesserebbe di provare a ogni momento o quasi un moto di stupore.
Laddove gli appartenenti a una qualsiasi altra nazionalità cercherebbero di esaltare le proprie glorie
nazionali e di attutire o almeno giustificare gli smacchi, sembra che gli Italiani, o almeno certi
italiani godano a ricoprirsi di fango. In realtà noi sappiamo bene che la vera causa di tutto ciò è la
cultura sinistro-cattolica che domina da noi, radicalmente avversa al principio di nazionalità.
Che la prima prova militare del nuovo stato unitario sia stata tutt’altro che esaltante, questo si deve
obiettivamente riconoscere, ma sono molti i fattori che vanno considerati sui quali gli storici che si
sono assunti il compito di denigrare quanto più possibile il risorgimento glissano alla grande. Prima
di tutto occorre ricordare che l’Austria che a quel tempo era una delle maggiori potenze europee,
aveva concentrato le sue forze soprattutto sul fronte italiano, seguendo probabilmente una logica
che risaliva alle guerre di successione settecentesche, per la quale la partita per l’Egemonia in
Europa si giocava sostanzialmente in Italia, e fu proprio il fatto che le truppe austriache fossero
prevalentemente schierate sul fronte italiano, che permise alla Prussia di riportare la travolgente
vittoria di Sadowa.
Oltre a ciò, bisogna considerare il fatto che l’esercito e la mariana italiani erano, per così dire “in
mezzo al guado”. Lo stato unitario nato cinque anni prima non aveva ancora portato a termine la
degli eserciti degli stati pre-unitari in un’unica forza armata nazionale armonizzando scuole e
tradizioni diverse. Si pensi anche al fatto che il grosso delle nuove forze che si erano venute ad
aggiungere a quelle piemontesi, era rappresentato per ovvi motivi di estensione geografica e relativa
demografia, dagli appartenenti all’ex regno delle Due Sicilie, che erano stati fino ad allora una forza
armata concepita non per combattere avversari esterni, ma essenzialmente per mantenere l’ordine
pubblico nello stato borbonico (lo scomparso Ferdinando II di Borbone soleva dire che il suo regno
era un’isola circondata da tre lati dall’acqua salata e dal quarto dall’acqua santa, cioè lo stato
pontificio).
I nostri anti-risorgimentali che potrebbero dedicare il loro zelo a miglio causa, hanno elaborato la
“teoria” (siamo molto caritatevoli a chiamarla così) delle tre “S”, cioè Solferino, Sadowa, Sedan.
Fabio Calabrese
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Ossia la vittoria francese di Solferino, e quelle prussiane nella guerra del 1866 e in quella del 1870,
cioè in definitiva che la nostra unità nazionale sarebbe stata il risultato fra i conflitti tra le potenze
europee nel XIX secolo, nei quali avremmo avuto ben poca parte attiva. Si tratta di una vera e
propria mistificazione che esprime uno spirito che è l’esatto opposto dei sentimenti verso la propria
nazionalità che troviamo ovunque fuori dai nostri confini, lo spirito di chi, ignorando e mistificando
quello che i nostri avi hanno fatto nel risorgimento, sulle pietraie del Carso, a Nikolaewka, a El
Alamein, negli ultimi settant’anni ha fatto di tutto per cucirci addosso l’immagine dell’italiano
furbetto-vigliacchetto, si è adoperato perché l’Italia fosse meno caserma possibile, per essere quanto
più possibile sacrestia e cellula di partito.
Di Sadowa ho appena detto, e quanto a Solferino, gioverà ricordare che parallelamente (al punto che
i due eventi possono essere considerati un’unica grande battaglia) ci fu la vittoria dei Piemontesi a
San Martino, ma una certa storiografia, che purtroppo è quella che domina nelle nostre scuole,
ricorda o perlomeno evidenzia solo ciò che le fa comodo.
Ma torniamo a quello che fu il comportamento di Cavour, che scomparve nel giugno 1861, poco dopo
la proclamazione del regno d’Italia, e dei suoi diretti eredi, la cosiddetta destra storica, un
comportamento peggiore e più esiziale di quello della sinistra garibaldina. Come abbiamo visto, il
risorgimento ha due facce e, visto alla luce degli interessi nazionali italiani, esso appare
obiettivamente incomprensibile, mentre ben si spiega considerando la sudditanza di costoro a quella
che possiamo considerare l’internazionale liberal-massonica. A dare l’esempio fu lo stesso Cavour
portando a compimento la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia come se il voltafaccia di
Villafranca non fosse mai avvenuto.
Peggio, molto peggio fecero i suoi diretti eredi nel quindicennio 1861-1876, che rinunciarono a priori
a qualsiasi progetto di sviluppo industriale e di espansione coloniale perché l’Italia non entrasse in
concorrenza con gli interessi inglesi e francesi. Un ritardo che, sommandosi a quelli accumulati nella
nostra storia preunitaria, doveva avere conseguenze pesanti per noi per quasi un secolo. D’altra
parte, neppure la scelta suicida della rinuncia a uno sviluppo industriale avrebbe potuto far sì che il
nuovo stato italiano non si trovasse in concorrenza piuttosto con i franco-britannici che con il mondo
germanico, come testimonia la cosiddetta guerra del vino scoppiata fra Italia e Francia alla fine del
XIX secolo.
A ripercorrere la storia di quel quindicennio che fu disgraziatamente cruciale, perché fu quello della
formazione del nostro stato unitario, c’è di che rimanere sbalorditi. Nonostante Villafranca, il
servilismo nei confronti della Francia continuò a essere totale: l’impero francese fu preso a modello
dell’organizzazione amministrativa, e così pure l’organizzazione dell’esercito nato dalla fusione delle
forze piemontesi con quelle degli stati pre-unitari, con conseguenze che durante la prima guerra
mondiale si riveleranno disastrose.
Ancora oggi passeggiando per Torino, si nota che l’impianto urbanistico con gli ampi viali che ne
fanno forse la città più estesa d’Italia in proporzione alla popolazione, impianto che fu realizzato
allora, si nota che esso ricalca il modello degli ampi boulevard parigini, che in realtà furono creati
per scoraggiare le sollevazioni popolari, rendendo impossibile sbarrarli con barricate.
Un cambio di rotta si ebbe con la “rivoluzione parlamentare” del 1876 che portò al governo la
sinistra storica, una sinistra, grazie al Cielo, molto diversa da quelle di oggi e di un recente passato.
Poiché bene o male, più male che bene, l’Italia era stata fatta, se se ne voleva fare una nazione in
grado di avere un posto nel “concerto delle potenze” degno della sua storia e del suo popolo,
occorreva una politica che fosse precisamente l’opposto di quella che la destra storica aveva
perseguito: industrializzazione, espansione coloniale e un riavvicinamento al mondo germanico.
Fabio Calabrese
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L’Austria, contro cui avevamo combattuto la maggior parte delle guerre risorgimentali, non era stato
che l’ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri iniziata con gli Eruli di Odoacre e gli
Ostrogoti di Teodorico. L’Austria come tale, non aveva mai neppure invaso la Penisola ma aveva
ereditato i possessi italiani della Spagna in seguito alla guerra di successione spagnola.
Quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che diede vita
al risorgimento, non era stato una rivolta contro gli Austriaci ma contro i Francesi: la ribellione di
Verona ai soprusi delle truppe napoleoniche, che doveva portare alla repressione tristemente nota
come “pasque veronesi”; i Francesi erano poi stati di nuovo nostri nemici nel 1848, quando le truppe
di Napoleone III erano accorse a soffocare la repubblica romana e a ripristinare lo stato pontificio.
Con la Prussia, divenuta impero germanico nel 1871, non avevamo nessun genere di contenzioso;
anzi, era grazie ad essa e a Bismark, che avevamo avuto il Veneto nel 1866 e il Lazio con Roma nel
1870.
La Triplice Alleanza stipulata da Germania, Austria-Ungheria e Italia nel 1882 era nella logica delle
cose; non solo per l’Italia era essenziale in quanto l’esigenza di una politica coloniale la portava in
diretto conflitto con Francia e Inghilterra, ma, considerando le cose in una prospettiva geopolitica e
geostrategica, il mondo italo-austro-germanico rappresentava un asse naturale, il nucleo, lo “zoccolo
duro” dell’Europa di fronte alla doppia minaccia alla sua preminenza planetaria che veniva da
occidente con Londra e Parigi che recitavano sempre più il ruolo di battistrada e vassalli della
potenza d’oltre atlantico, e da oriente nella forma fino al 1917 del panslavismo e, a partire da quella
data, del comunismo sovietico.
Bisogna tuttavia riconoscere che sotto diversi aspetti la sinistra storica non seppe o non volle
realizzare quel distacco dalla politica della destra ex cavouriana che sarebbe stato auspicabile, ad
esempio evitando di partecipare alla spartizione coloniale fra le potenze europee decisa nel 1884 con
la conferenza di Berlino, salvo poi doversi accontentare delle briciole, incuneandosi negli spazi che
le altre potenze avevano lasciato liberi, in Abissinia, e più tardi sostenendo una guerra con la
Turchia per la sponda africana dell’impero ottomano, quella che sarebbe diventata la colonia libica.
Dovemmo anche subire lo smacco dell’annessione della Tunisia da parte della Francia proprio
quando l’Italia si apprestava a occuparla.
Della prima guerra mondiale vi ho già parlato in un nostro precedente incontro, e ora non riprenderò
l’argomento se non in estrema sintesi. Dal punto di vista del completamento dell’unità nazionale, si
può dire che gli obiettivi che ci potevamo porre schierandoci a fianco dell’Intesa o degli Imperi
Centrali, si equivalessero, infatti se rimanevano in mano all’Austria Trento e Trieste, la Corsica,
Nizza e la Savoia erano dominio francese, e Malta britannico.
Ma c’era un grosso ma: noi eravamo in concorrenza diretta con Francesi e Britannici per
l’espansione coloniale. In più, il controllo britannico del Mediterraneo attraverso l’asse Gibilterra –
Malta – Alessandria d’Egitto, di fatto ci racchiudeva entro le nostre acque territoriali. Una guerra,
sia pure vittoriosa al fianco dell’Intesa non poteva portarci altro che a una vittoria mutilata, come
difatti fu.
I motivi che avevano indotto alla stipula della Triplice Alleanza rimanevano validi, e difatti fra le due
guerre, ridotta l’Austria alle dimensioni attuali comprendenti quelli che erano stati i soli domini
etnicamente tedeschi degli Asburgo, si riproporrà la necessità dell’alleanza con la Germania,
alleanza certamente favorita dall’affinità ideologica fra i regimi tedesco e italiano, ma dettata anche
da inevitabili considerazioni geopolitiche, sebbene su questo punto la gran parte degli storici attuali
che preferisce considerare unicamente l’affinità ideologica tra fascismo e nazionalsocialismo, glissi
volutamente.
Fabio Calabrese
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Occorre dire anche che noi eravamo legati a Germania e Austria dalla Triplice Alleanza, e il nostro
cambiamento di fronte, il venir meno alla parola data, non poteva non essere percepito come un
tradimento, un tradimento che pare quasi l’anticipazione di quello avvenuto l’8 settembre 1943,
tanto più grave in quanto avvenuto in piena guerra, e che ha comportato tutte le conseguenze
tragiche che sappiamo, oltre a consacrare al livello internazionale un’immagine del tutto falsa
dell’italiano come vigliacco e inaffidabile.
Deleteria dal punto di vista nazionale italiano, la scelta del maggio 1915, era però funzionale agli
interessi della massoneria internazionale a cui casa Savoia era certamente legata.
Oggi la massoneria è sempre un centro di intrighi, di affari poco puliti, di amicizie impresentabili che
opera nella buia zona d’ombra dove si sovrappongono politica, affari e criminalità organizzata, con
occasionali puntate nella zona della politica “importante” come fu ad esempio in tempi relativamente
recenti il caso della loggia P 2, ma la sua importanza è enormemente diminuita rispetto ai tempi
precedenti la seconda guerra mondiale, è stata messa da parte, non serve più perché in ultima
analisi anch’essa non era/è niente altro che uno strumento
. Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta dell’Unione Sovietica, il vero potere planetario non ne
ha più bisogno perché ormai può mostrarsi (quasi) allo scoperto: il potere dell’aristocrazia del
denaro, l’informe moloch che ha oro nelle vene, il cui dominio mondiale creato attraverso la
dissoluzione di etnie, popoli e culture in una massa amorfa che è il perfetto mercato, ha oggi preso il
nome di globalizzazione, e la “democrazia” è un teatrino recitato a uso dei gonzi per dare alla plebe
l’illusione di contare qualcosa. Forse l’unico motivo per cui non si riesce ancora a scorgere il volto di
questo potere, è che esso non ha nessun volto umano.
In tutto questo, forse, c’è un’unica nota positiva: noi oggi siamo in grado di dissipare il grande
equivoco, e sappiamo che fra il senso di appartenenza alla nostra nazione, quel patriottismo del
quale proprio non c’è inflazione, che pare sia cosa normale a qualsiasi latitudine tranne che da noi, e
la ripulsa, il sentimento di ribellione verso le forze che hanno distrutto la struttura tradizionale delle
nazioni europee e le hanno ridotte a colonie degli Stati Uniti, non c’è alcuna contraddizione.
Fabio Calabrese
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