Storia della scienza per le lauree triennali Prof. Giuliano Pancaldi 2011-12 Modulo 5 Le controversie sul darwinismo tra Otto e Novecento “L’uomo di Neanderthal e la pietà dei morti” Cranio dell'uomo del Circeo I (Homo sapiens neanderthalensis); circa 40.000 anni fa; capacità cranica = 1550 cc; Grotta Guattari, Lazio, 1939; Soprintendenza speciale alla preistoria e alla etnografia, Museo Pigorini, Roma. Il cranio, attribuito a un individuo adulto (40-50 anni) di sesso maschile, presenta le tipiche caratteristiche dei neanderthaliani classici. La volta cranica è molto appiattita e larga, la fronte è sfuggente; la visiera sopraorbitaria continua e la sporgenza della regione posteriore dell'osso occipitale (chignon), caratterizzata da un accentuato ispessimento (torus), conferiscono al cranio una notevole lunghezza. La capacità cranica è particolarmente elevata. La faccia è massiccia, alta e larga, il mascellare rigonfio, gli zigomi ridotti e sfuggenti, l'apertura nasale larga e le orbite rotonde e grandi. II cranio fu rinvenuto nel fondo della grotta al centro di un circolo di pietre in posizione capovolta con il forame occipitale allargato; il carattere sacrale della deposizione è manifesto. (Da: Homo. Viaggio alle origini della storia, Marsilio, 1985) Ancora prima della pubblicazione dell‟Origine delle specie erano stati trovati - nel 1856-7 - nella valle di Neander, vicino a Düsseldorf, i resti di un uomo dall‟aspetto molto “primitivo”. Dopo la pubblicazione dell‟Origine di Darwin e del Posto dell’uomo nella natura di Huxley, si diffuse la convinzione che dovesse trattarsi di uno stadio intermedio tra l‟uomo e le scimmie: gli esseri scimmieschi testimoniati da quel rinvenimento dovevano essere vissuti nelle stesse regioni oggi occupate dai “più civilizzati” abitanti d‟Europa e, se si adottava un punto di vista evoluzionistico, erano forse i loro diretti antenati. In realtà, le incertezze sulla datazione dei resti di Neanderthal e i pochi e imperfetti esemplari rinvenuti rendevano oltremodo problematico raggiungere delle conclusioni sicure. Ancora negli anni 1870-80 si poteva sospettare che i resti di Neanderthal appartenessero a un uomo deforme: un individuo singolo e anomalo, che non poteva dirci nulla sulle origini scimmiesche della specie umana. Quel che è sicuro è che, negli anni tra il 1859 e il 1882 – anno della morte di Darwin – la questione delle origini animali dell‟uomo si intrecciò in profondità con il dibattito su alcune questioni che erano all‟ordine del giorno in quella che intanto, in Europa e negli Stati Uniti, a causa dei notevoli sviluppi dell‟industria e della tecnica veniva chiamata sempre più spesso l’età del “trionfo della scienza”. Ecco le questioni più dibattute in quei decenni: ● Si doveva accettare l’evoluzionismo come una teoria scientifica di carattere generale, una concezione del mondo collegabile alle idee che in quegli stessi anni circolavano sul “progresso” delle società umane? ● La teoria darwiniana della selezione naturale (vedi Modulo 1) spiegava davvero in modo convincente l’evoluzione biologica? Le obiezioni e le difficoltà sollevate contro la teoria darwiniana in quegli anni, come vedremo, spinsero molti a riproporre alcune vecchie idee avanzate all‟inizio dell‟Ottocento da Lamarck. Rispondendo a quelle domande, in effetti, nella seconda metà dell’Ottocento molti si dichiaravano evoluzionisti, MA respingevano o correggevano in profondità la teoria particolare dell’evoluzione proposta da Darwin. Le vecchie idee di Lamarck - secondo cui gli organismi, modificando il loro comportamento in risposta alle sollecitazioni dell‟ambiente, plasmano essi stessi il loro futuro e vi è una “marcia progressiva” della natura - si sposavano meglio (rispetto alla teoria darwiniana della selezione, che insisteva invece su dei mutamenti lentissimi e accidentali) con l’evoluzionismo inteso come visione del mondo e come concezione delle società umane. Un‟altra domanda che spesso si poneva era: ● E’ opportuno o meno di divulgare e insegnare le idee evoluzionistiche? Considerate le incertezze sul piano scientifico e, soprattutto, le pericolose implicazioni sociali, ideologiche e politiche che molti scorgevano nell’evoluzionismo come visione del mondo, la questione attirava molta attenzione anche tra i non addetti ai lavori e sulla stampa. L‟evoluzionismo veniva infatti presentato, a seconda dei casi, come una “religione laica” che sanciva la possibilità per l‟uomo di “migliorarsi da solo” (in un‟epoca in cui alcuni concepivano la scienza come “religione dell‟avvenire”), e poteva essere contrapposta alla religione tradizionale. Altri presentavano l‟evoluzionismo come la “prova scientifica” di teorie conservatrici o reazionarie in campo sociale (insistendo sui temi della “lotta” e sulla “sopravvivenza del più adatto”, un‟espressione del filosofo Herbert Spencer che Darwin aveva adottato per rendere più popolare la sua teoria). Queste teorie conservatrici ispirate al darwinismo furono chiamate più tardi “darwinismo sociale”. Altri ancora ritenevano la teoria darwiniana compatibile con una teoria sociale basata sull‟altruismo e la solidarietà (Alfred Russel Wallace) e altri (compreso Karl Marx) consideravano l‟evoluzionismo compatibile con le idee socialiste che stavano conquistando consensi in quegli anni in Europa. Su queste controversie e interpretazioni disparate del darwinismo si fa il punto nell‟articolo riprodotto qui sotto, che si consiglia come lettura per approfondire i temi toccati in questo “modulo” e nel precedente. L’evoluzionismo darwiniano: successi e controversie di Giuliano Pancaldi (da Storia della scienza, direttore Sandro Petruccioli, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VII, L’Ottocento, Roma, 2003, pagg. 850-856) 1. Premessa La pubblicazione dell‟Origine delle specie nel 1859 è un evento fondamentale nella storia della biologia e della scienza in generale. Come accade per gli avvenimenti che assumono un valore simbolico, d‟altra parte, è difficile distinguere con precisione gli elementi che hanno contribuito a decretarne il successo. La difficoltà è ancora maggiore nel caso di un‟opera come quella di Darwin che, nonostante il profondo radicamento nell‟Inghilterra dell‟età vittoriana, conteneva idee e suggestioni che continuano a esercitare una forza straordinaria un secolo e mezzo più tardi, in una varietà di contesti anche assai lontani da quelli originari. Per rendere ragione di questo successo, gli storici della scienza hanno trattato i motivi scientifici, filosofici, religiosi, ideologici e politici che hanno scandito la storia del darwinismo privilegiando questo o quel filo della complessa trama. In quel che segue dovremo anche noi distinguere le diverse facce del fenomeno. Prima, tuttavia, dobbiamo sottolineare che forse in nessun momento quelle facce furono del tutto separate l‟una dall‟altra, così come non erano separate nella paziente, rigorosa e insieme accorta azione di Darwin a favore dell‟evoluzionismo. In questo senso il darwinismo appartiene a un‟epoca (in cui tuttora ci troviamo) nella quale alcune idee fondamentali della scienza godono di una visibilità pubblica che interagisce in profondità con l‟opera stessa degli scienziati. Darwin, come vedremo, era perfettamente consapevole di quell‟interazione: finché fu in suo potere esercitò un ruolo diretto e importante nella diffusione del darwinismo presso gli esperti e il pubblico colto dei suoi tempi, orientandolo per quanto poteva con le sue nuove pubblicazioni e con la rete di corrispondenti che manteneva attiva in diversi continenti. Le idee d‟altra parte – anche quelle della scienza e della tecnica – godono di una notevole autonomia nei confronti di chi le ha originate: neppure la sistematica, tenace regia di Darwin poté indirizzare le vicende del darwinismo, che assunse una varietà di accenti tale da far dubitare a volte della loro coerenza e della comune origine nell‟opera di quello che intanto era diventato uno dei simboli più celebrati dell‟epoca, che molti consideravano l‟epoca del trionfo della scienza. Le pagine che seguono si concentrano sul periodo che va dal 1859 alla morte di Darwin, nel 1882, e adottano come filo conduttore – ma spesso anche come contrappunto, vedremo – la regia tessuta da Darwin per i darwiniani: l‟insieme delle proposte conoscitive e delle mediazioni su diversi fronti che consentirono a Darwin e ai suoi ammiratori di assicurare, a partire dagli anni ‟70 dell‟Ottocento, l‟affermazione dell‟evoluzionismo, gettando importanti premesse di quello che, con qualche eccezione e in forme imprevedibili dai protagonisti di allora, è stato il successo dell‟evoluzionismo fino ad oggi. 2. Evoluzione o creazione Il titolo dell‟Origine delle specie, concordato tra autore e editore, richiamava l‟attenzione sull‟idea che Darwin considerava più importante nella lunga argomentazione contenuta nell‟opera: l‟idea di una trasformazione naturale di tutte le forme viventi da forme precedenti, contrapposta all‟idea, ritenuta fino ad allora dominante, della creazione indipendente di ciascuna specie per cause soprannaturali. Darwin, com‟è noto, aveva esitato a lungo prima di pubblicare e anche nel libro proponeva quella contrapposizione in termini prudenti. Nell‟ultima pagina, per esempio, invitava a considerare la sua teoria come capace di spiegare l‟origine delle specie per trasformazioni successive a partire da una o poche forme viventi create in principio da Dio. La contrapposizione fra la trasformazione naturale delle specie – nell‟Origine Darwin non usava la parola evoluzione, che però fu presto adottata dagli specialisti e dal pubblico – e l‟idea di una loro creazione divina, si prestava ovviamente a confronti drammatici. Fin da quando, nell‟età dell‟Illuminismo, la possibilità di una trasformazione delle forme viventi si era fatta strada tra i sostenitori di una concezione laica e naturalistica del mondo, aveva sollevato polemiche e attirato condanne. Darwin aveva deciso di non entrare nel merito delle implicazioni filosofiche e religiose dell‟evoluzionismo e nelle cinquecento pagine del libro aveva piuttosto accumulato una serie di prove che mettevano in gioco le conoscenze da lui acquisite in vent‟anni di lavoro sull‟argomento e il suo già notevole prestigio scientifico. Ma quelle implicazioni furono immediatamente rievocate dalla pubblicazione dell‟opera. Le recensioni apparse nei primi mesi del 1860 non lasciavano dubbi sulla propensione del pubblico e di molti esperti a considerare l‟Origine come l‟occasione per un nuovo confronto tra i sostenitori di diverse concezioni dei rapporti tra scienza e religione. Thomas Henry Huxley, per esempio, zoologo e anatomista che amava quel genere di polemiche a differenza dell‟amico Darwin, nel momento in cui coniava nell‟aprile del 1860 il termine “darwinismo”, per designare la teoria della selezione naturale, dipingeva l‟Origine come “un‟arma”: un‟arma sofisticata e micidiale nelle mani del liberalismo. Negli stessi mesi il vescovo anglicano di Oxford, recensendo l‟opera protetto dall‟anonimato, com‟era consuetudine, ricordava le vecchie simpatie evoluzionistiche e illuministiche del nonno di Charles Darwin, Erasmus, considerato dai suoi nemici un seguace dei giacobini, e dipingeva le idee del nipote al pari di quelle del nonno come una minaccia per l‟ordine morale e spirituale. Con il successivo confronto pubblico tra il vescovo e Huxley nel giugno dello stesso anno a Oxford, davanti alla comunità scientifica britannica riunita e a un folto pubblico, ogni valutazione dell‟opera di Darwin risultava presa nelle strettoie di un conflitto tra scienziati e teologi circa quale dei due gruppi avesse il diritto di pronunciarsi sull‟origine delle specie e in particolare dell‟uomo, di cui Darwin, peraltro, aveva evitato di parlare nell‟Origine. Di fronte a tanto clamore Darwin dovette correre ai ripari. Per lui voleva dire – e continuò a significare per una parte degli anni ‟60 – attenuare le polemiche con delle concessioni tattiche agli avversari e fare leva sulle ricerche originali che intanto continuava a produrre con alacrità, anche in settori nei quali non aveva ancora pubblicato, come la botanica e in particolare i meravigliosi adattamenti tra i fiori e gli insetti che ne assicurano la fecondazione. Quegli adattamenti meravigliosi erano un tradizionale argomento per sostenere l‟esistenza di un piano divino in natura. Darwin dedicò ai fiori e agli insetti un libro intero nel 1862 – ancora nel mezzo delle polemiche sollevate dall‟Origine – concentrandosi sul caso particolare delle orchidee e senza menzionare la spiegazione evoluzionistica che, a suo giudizio, rendeva ragione di quegli adattamenti evitando il ricorso a qualsiasi piano divino e basandosi su quella che oggi chiameremmo la coevoluzione di fiori e insetti per lunghi periodi di tempo nelle stesse regioni. La ricchezza e la varietà degli adattamenti descritti nell‟opera, d‟altra parte, erano tali da sedurre anche i lettori propensi a un‟interpretazione religiosa. Con quell‟opera Darwin svolgeva così un‟azione moderatrice, volta a smorzare i toni più accesi delle polemiche in corso, e insieme sembrava avvicinarsi a quelli tra i suoi ammiratori che, come il botanico Asa Gray negli Stati Uniti, stavano sostenendo la possibilità di conciliare la teoria darwiniana e la “teologia naturale” della tradizione religiosa. Asa Gray, che intratteneva con Darwin una corrispondenza schietta, vide nell‟opera sulle orchidee un “movimento di aggiramento ai fianchi” lanciato da Darwin per disorientare gli avversari dell‟evoluzionismo. Altri, come il botanico italiano Federico Delpino – anch‟egli incline a una conciliazione fra l‟evoluzionismo darwiniano e una concezione emergente e finalistica della natura – ne trassero lo spunto per nuove, originali ricerche sul campo. Pur dissentendo sul piano teorico e filosofico, Darwin considerò con attenzione e fece circolare a sue spese in traduzione inglese alcuni scritti di Delpino. Allo stesso modo aveva favorito, all‟inizio degli anni ‟60, la diffusione in Inghilterra dell‟interpretazione religiosa della teoria darwiniana proposta da Gray in America. Verso la fine degli anni ‟60, tuttavia, la situazione stava cambiando sensibilmente. Attraverso l‟incomparabile osservatorio offertogli dalla corrispondenza internazionale, dai contatti che intratteneva con i circoli scientifici londinesi, dalle traduzioni dei suoi scritti e dagli attestati di stima che gli giungevano da ogni parte del mondo, Darwin si convinse che la battaglia a favore dell‟evoluzionismo – che in principio aveva anteposto all‟affermazione della sua particolare teoria del cambiamento evolutivo, la teoria della selezione naturale – poteva considerarsi vinta. Nelle nuove condizioni egli ritenne di poter contrastare le obiezioni che intanto erano state mosse alla selezione e, insieme, affermare senza più reticenze una concezione radicalmente naturalistica del mondo vivente e dell‟uomo, capace di ricondurre anche le credenze religiose, i sentimenti morali e quant‟altro era considerato esclusivo dell‟uomo a un graduale processo evolutivo, che non supponeva alcun piano preordinato in natura, né un posto privilegiato per la specie umana. Era questa la concezione che Darwin propose nel 1871 nell‟Origine dell’uomo, in cui riprendeva alcuni temi che aveva affrontato nei suoi quaderni privati fin dagli anni ‟30, ma con una ricchezza di argomentazioni e di documentazione che mettevano in luce ancora una volta le qualità del “laboratorio” privato che aveva saputo realizzare nel suo (apparente) ritiro nella campagna inglese. Coerentemente, a partire dai primi anni ‟70 Darwin incoraggiò tra i suoi seguaci soprattutto quelli che aderivano a un naturalismo evoluzionistico vicino al suo, come Huxley, o addirittura alle filosofie monistiche e materialistiche intanto sviluppate da altri suoi ammiratori, come Ernst Haeckel. Darwin d‟altra parte continuava a evitare di aderire in prima persona a quelle filosofie, così come rifiutava di unirsi alle campagne dei propagandisti del libero pensiero e dell‟ateismo, che erano ansiosi di utilizzare il suo nome. Questa linea di condotta contribuì a tenere l‟autore dell‟Origine fuori dall‟Indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica; ma non impedì a Karl Marx di proclamarsi “suo sincero ammiratore” nella copia del Capitale che resta, non letta, nella biblioteca personale di Darwin. Gli storici che hanno esplorato la diffusione internazionale dell‟evoluzionismo concordano nel collocare intorno al 1870 il picco delle vecchie e nuove adesioni a quel modo di concepire un vasto settore delle scienze biologiche, che veniva così potenzialmente sottratto ad argomentazioni di tipo religioso con le conseguenze che erano ormai sotto gli occhi di tutti, dibattute in libri e pamphlet ad alta tiratura e sulla stampa di molti paesi. Ma quali erano esattamente le caratteristiche dell‟evoluzionismo che intanto si era affermato? Gli storici convengono sul fatto che si trattava di un evoluzionismo assai eterogeneo e, a volte, molto poco darwiniano. Lo confermano le vicende in quegli stessi anni della teoria della selezione naturale, oggi considerata il contributo più importante di Darwin. 3. Vicissitudini della selezione naturale I naturalisti della generazione di Darwin si erano formati in una tradizione di ricerca che dedicava un‟attenzione preminente alla classificazione delle forme viventi, alla loro morfologia e all‟individuazione di leggi della fisiologia che insistevano sulla peculiare organizzazione interna degli organismi. A molti di costoro il meccanismo proposto da Darwin per spiegare la trasformazione delle forme viventi appariva difficile da accettare e in ogni caso insufficiente rispetto ai compiti ambiziosi che gli erano stati assegnati nel grande affresco delineato nell‟Origine delle specie, poi nella Variazione degli animali e delle piante (1868) e infine nell‟Origine dell’uomo. Chi per esempio, come Richard Owen, aveva condotto raffinati studi sull‟anatomia comparata degli organismi, postulando l‟esistenza di alcuni piani fondamentali di organizzazione che l‟anatomia e la fisiologia dovevano svelare, si trovava di fronte a una teoria che postulava una lenta ma inesorabile trasformazione di ogni forma nel tempo, prodotta da forze che sembravano incommensurabili rispetto alle leggi note dell‟anatomia e della fisiologia. Tali sembravano le “variazioni” darwiniane (oggi diremmo mutazioni) che si producono di tanto in tanto nel processo riproduttivo per cause non ancora note, e per Darwin in ogni caso accidentali, dando vita a individui o gruppi con caratteristiche distinte all‟interno della specie. Tale sembrava la “lotta per l‟esistenza”, che Darwin considerava prodotta, senza alcun piano o scopo, dalla tendenziale eccedenza delle popolazioni animali (e umane) rispetto alla disponibilità di cibo. E tale si presentava la “selezione naturale delle variazioni favorevoli nella lotta per l‟esistenza”, secondo Darwin anch‟essa priva di un orientamento o di un fine. Se si aggiunge che Darwin ammetteva che la sua teoria non era in grado di spiegare perché una specie particolare aveva preso il posto di un‟altra nella storia della vita sulla terra, né tanto meno di prevederne il destino futuro, si comprende quali lacerazioni l‟adozione della teoria darwiniana del cambiamento evolutivo poteva comportare nei confronti della biologia del tempo e rispetto ad alcune idee generali circa gli obiettivi delle scienze naturali prevalenti nell‟Ottocento. Le caratteristiche della teoria darwiniana appena ricordate generarono difficoltà ed equivoci, tanto tra i nemici quanto tra i sostenitori dell‟evoluzione. Anche chi non sentiva il bisogno di postulare un piano divino trovava difficile conciliare la teoria della selezione con gli studi tassonomici, anatomici e fisiologici contemporanei. Perfino Huxley, che a un certo punto adottò per sé la definizione di “bulldog di Darwin”, preferiva considerare la selezione naturale un‟ipotesi su cui lavorare, anziché una compiuta teoria dell‟evoluzione. Così, proprio quando la battaglia per l‟evoluzionismo sembrava ormai vinta e Darwin era pronto a rilanciare la sua spiegazione particolare del cambiamento evolutivo, la selezione naturale fu sottoposta a critiche insidiose. William Thomson, futuro Lork Kelvin, annunciò nel 1866 che secondo la termodinamica e le stime correnti sul raffreddamento del sole l‟età della terra come pianeta abitabile doveva essere calcolata in non più di cento milioni di anni o forse meno (oggi la stima è dell‟ordine dei 3,5 miliardi di anni, tenuto conto di fattori come la radioattività allora sconosciuti) e oppose quel dato alla tradizione della geologia britannica, che aveva ipotizzato tempi geologici praticamente illimitati. Darwin, che si riconosceva in quella tradizione geologica e aveva concepito la selezione naturale come un fattore particolarmente lento e graduale di evoluzione, si trovò in difficoltà. Nella prima edizione dell‟Origine aveva stimato in trecento milioni di anni il periodo in cui si era formata una particolare regione del sud dell‟Inghilterra: era questo l‟ordine di grandezza della dimensione temporale entro cui aveva concepito la sua teoria del cambiamento evolutivo. Ora si vedeva costretto ad aprire la porta a fattori diversi dalla selezione naturale, capaci di “accelerare” l‟evoluzione e di renderla compatibile con il dato proposto dai fisici per l‟età della terra. Obiezioni non meno insidiose alla selezione naturale furono mosse nel 1867 da un ingegnere, collega di Thomson a Glasgow: Henry Charles Fleeming Jenkin. Oltre ad adottare la cronologia breve per la storia della terra proposta da Thomson, Jenkin sviluppava alcune argomentazioni originali. Esse svelavano una comprensione – rara tra i contemporanei di Darwin – del carattere statistico delle leggi postulate dalla teoria della selezione per spiegare il cambiamento evolutivo e, insieme, additavano nell‟uso darwiniano di quelle leggi delle incongruenze capaci di vanificare i propositi di Darwin. Dall‟esperienza degli allevatori – che Darwin aveva utilizzato per dimostrare che le piccole variazioni individuali possono essere accumulate (nel caso dell‟allevamento ad opera dell‟allevatore, mosso dai suoi fini particolari; in natura ad opera della selezione naturale, senza alcun fine) – Jenkin traeva una conclusione opposta a quella di Darwin. L‟esperienza mostrava secondo Jenkin che le variazioni individuali si distribuiscono all‟interno di “una sfera di variazione possibile”, al centro della quale sta l‟”animale medio” della specie. Mentre era relativamente facile per l‟allevatore selezionare in tempi brevi gli individui con le caratteristiche a lui più gradite entro quella sfera di variazione, era arbitrario supporre che la stessa variabilità potesse estendersi indefinitamente fino a produrre la trasformazione di una specie in un‟altra, secondo quanto sosteneva l‟argomentazione darwiniana. Ancora più insidiosa era la trattazione cui Jenkin sottoponeva la questione dei gruppi di individui di una certa specie portatori di un insieme di caratteristiche nuove e della loro capacità di soppiantare col tempo, riproducendosi in proporzioni più elevate degli altri, gli individui della medesima specie privi di quelle caratteristiche. Darwin aveva sostenuto che qualunque piccolo vantaggio dei primi nella lotta per l‟esistenza avrebbe fatto pendere la bilancia a loro favore, consentendo ai loro discendenti di diffondersi nella popolazione della specie trasformandola. Jenkin sosteneva che l‟argomentazione era tutt‟altro che sicura se si utilizzavano le argomentazioni probabilistiche che Darwin sembrava disposto a seguire solo fino a un certo punto. Secondo Jenkin il vantaggio di possedere certe caratteristiche nella lotta per l‟esistenza andava posto a confronto con lo svantaggio rappresentato, al primo insorgere di una variazione del genere, dal numero ridottissimo di individui che ne sono portatori. Considerato quest‟ultimo aspetto, era assai più probabile che la nuova variazione restasse sommersa, per così dire, dai numeri, anziché mettesse radici. Una possibile via d‟uscita di fronte a questa obiezione consisteva nel supporre che ogni nuovo gruppo di individui del genere presentasse delle caratteristiche già profondamente distinte dal resto della specie, in modo da annullare l‟effetto dei numeri a suo sfavore. Ma questo, sosteneva Jenkin, equivaleva a supporre tante piccole “creazioni” del tipo che i darwiniani volevano escludere. Per rispondere a critiche come queste, nelle edizioni successive dell‟Origine che si continuavano a stampare (nella sola Inghilterra ne furono vendute 24.000 copie durante la vita dell‟autore: un numero notevole in quegli anni per un trattato ponderoso) Darwin introdusse una lunga serie di revisioni e integrazioni che davano spazio a fattori evolutivi ai quali, inizialmente, non aveva riconosciuto alcun ruolo. Nella sesta edizione, la più popolare, apparsa nel 1872, tra questi spiccavano i fattori lamarckiani dell‟uso e non uso delle parti, l‟azione diretta dell‟ambiente nel favorire il processo evolutivo e l‟ereditarietà dei caratteri acquisiti, che la biologia successiva avrebbe ritenuto incompatibili con una concezione propriamente darwiniana dell‟evoluzione. A quei fattori, per lui nuovi, Darwin intanto aveva aggiunto anche una teoria per spiegare i fenomeni dell‟ereditarietà – la teoria della pangenesi – e la teoria della selezione sessuale, per rendere ragione di quei caratteri degli organismi che, in quanto apparentemente inutili nella lotta per l‟esistenza, non sembravano riconducibili all‟azione della selezione naturale. Non diversamente da quanto accadeva nel dibattito pubblico sull‟evoluzionismo, le controversie tra gli specialisti stavano favorendo l‟affermazione di un evoluzionismo dai tratti profondamente eclettici. La parallela, vistosa adozione da parte di Darwin dell‟espressione “sopravvivenza del più adatto” come sinonimo di selezione naturale – espressione, la prima, coniata da Herbert Spencer per designare la teoria darwiniana inserendola in una ancor più vasta concezione evoluzionistica del cosmo e della società, dalle implicazioni controverse per qualsiasi riflessione sulle nazioni occidentali e sulle loro proiezioni planetarie nell‟età degli imperi coloniali – non giovava neppure essa alla chiarezza circa i tratti distintivi dell‟evoluzionismo darwiniano. Una delle manifestazioni più acute delle tensioni, scientifiche e ideologiche insieme, che percorrevano l‟evoluzionismo all‟inizio degli anni „70 fu un attacco sferrato da St. George Mivart, con le reazioni che provocò in campo darwiniano. Anatomista, fautore di un evoluzionismo compatibile con l‟autorità della Chiesa cattolica e con alle spalle un‟esperienza di avvocato, Mivart pubblicò nel 1871 un trattato di successo sulla Genesi delle specie in cui criticava la selezione naturale facendo leva su concetti come l‟assurdità di “un‟ala sviluppata soltanto a metà” e insistendo sulla frequente incapacità di riprodursi delle varietà, che Darwin presentava invece come specie incipienti. Mivart aveva fatto sapere a Darwin di voler attaccare, più che lui e la sua teoria, i suoi seguaci, responsabili di una propaganda antireligiosa ritenuta pericolosissima. Ma Darwin a quel punto, lo sappiamo, riteneva ormai di potersi schierare con i suoi alleati più naturali: fu lui a replicare personalmente all‟attacco di Mivart e lo fece con una durezza pari o superiore a quella tipica di Huxley. 4. Controversie sulle origini della specie umana. Darwinismo e politica Antichi resti umani, di datazione incerta e dai tratti particolarmente “selvaggi”, erano stati individuati nella valle di Neander, vicino a Düsseldorf, già nel 1857. Commentando il ritrovamento dopo la pubblicazione dell‟Origine, un naturalista inglese aveva sottolineato le caratteristiche scimmiesche di quei resti. Nel 1863 Huxley ne discusse in un‟opera fortunata, Il posto dell’uomo nella natura, e argomentò che, considerata la notevole capacità cranica, quei tratti scimmieschi potevano rientrare comunque nei margini di variabilità di Homo sapiens. L‟anno seguente fu coniata l‟espressione Homo neanderthalensis e si diffuse la convinzione che dovesse trattarsi di uno stadio intermedio nell‟evoluzione che aveva portato dalle scimmie all‟uomo. Nonostante le cautele inziali di Darwin, l‟idea di un‟origine animale dell‟uomo si impose prepotentemente al centro delle controversie sull‟evoluzionismo e produsse, tra le altre cose, una lunga serie di caricature sulla stampa popolare che raffiguravano Darwin in veste di scimmia. Fu così che, durante la cerimonia con cui fu conferita a Darwin la laurea ad honorem dell‟Università di Cambridge nel 1877, gli studenti fecero scendere dall‟alto sul corteo togato il ritratto di una scimmia in abiti accademici, nel trambusto generale. Le incertezze sull‟antichità dei resti di Neander, e il dubbio alimentato da autorità come Rudolf Virchow che si trattasse di un individuo dai tratti patologici, furono sopiti solo nel 1886 dopo dei nuovi ritrovamenti. I fossili capaci di gettare luce sulle origini dell‟uomo restarono comunque una rarità fino all‟ultimo decennio dell‟Ottocento, quando il reperimento in Asia di resti dai tratti ancora più scimmieschi indusse a proporre la denominazione di Pithecanthropus erectus per designare quel probabile, precedente stadio evolutivo della specie umana. Nel frattempo le controversie si concentrarono su due questioni che sembravano poter prescindere dall‟incertezza della documentazione fossile: la definizione del grado e dei modi della parentela tra l‟uomo e i primati attuali, che già Linneo aveva classificato in una stessa grande famiglia, e la necessità o meno di postulare qualche evento speciale per spiegare l‟origine dell‟uomo. Va da sé che la propensione a risolvere in un senso o nell‟altro quest‟ultima alternativa si combinava, tipicamente, con una diversa interpretazione del grado di parentela tra l‟uomo e le scimmie. Le ovvie implicazioni religiose e il carattere congetturale di molte discussioni sull‟origine dell‟uomo erano tali da lasciar trasparire facilmente alcuni dei motivi che stavano alla radice delle aspettative degli evoluzionisti più accesi, da un lato, e della prudenza dei molti che invece, verso la fine degli anni ‟70, si consideravano evoluzionisti ma preferivano dissociarsi dalle conclusioni più radicali. Il confronto tra Ernst Haeckel e Rudolf Virchow in occasione dell‟assemblea dei naturalisti e dei medici tedeschi a Monaco nel 1877 è esemplare al riguardo. Virchow, che si riteneva evoluzionista ma giudicava non provata l‟origine animale dell‟uomo, accusò gli evoluzionisti radicali di voler fare della loro scienza una religione: una religione capace di prendere il posto della religione dei padri nell‟opinione pubblica e nell‟insegnamento delle scuole. L‟accusa coglieva nel segno se si pensa che antropologi e divulgatori dell‟evoluzionismo come Paolo Mantegazza in Italia da anni parlavano della scienza come “religione dell‟avvenire” e presentavano le origini animali dell‟uomo come una prova della capacità della specie di progredire indefinitamente con le sue sole forze, emancipandosi dai vincoli della superstizione. Ma Virchow, da anni impegnato in politica con i moderati, si spingeva oltre e, rivolgendosi a un pubblico ancora spaventato dalla Comune di Parigi e preoccupato per la diffusione del movimento socialista, additava quelle che giudicava le pericolose affinità tra l‟evoluzionismo radicale e il socialismo. Haeckel si affrettò a sottolineare che, semmai, l‟evoluzionismo favoriva una concezione aristocratica della società. Nello strascico che la polemica ebbe anche in Inghilterra Huxley negò a sua volta ogni simpatia socialista. Ma a molti doveva essere ormai chiara una cosa: il dibattito pubblico stava svelando alcune possibili conseguenze del programma evoluzionistico che non tutti avevano preventivato e che, nel clima politico del tempo, non pochi nel pubblico borghese consideravano con timore. 5. Un bilancio a vent‟anni dall‟Origine Intorno al 1880, si è visto, le valutazioni degli esperti e il dibattito pubblico sull‟evoluzionismo continuavano a interagire per mille canali. A vent‟anni dalla prima edizione del classico trattato di Darwin sulle specie alcune conseguenze di quell‟interazione erano ormai evidenti. L‟adozione di un punto di vista evoluzionistico tra gli esperti e l‟opera di proselitismo condotta da molti di loro sulla stampa e nelle conferenze pubbliche aveva indotto la stragrande maggioranza dei commentatori, specialisti o dilettanti che fossero, a pronunciarsi a favore dell‟evoluzionismo. La strategia flessibile adottata da Darwin di fronte alle polemiche dei primi anni, e la risoluta azione successiva svolta di concerto con i suoi alleati che con l‟evoluzionismo perseguivano un ridimensionamento della tradizione religiosa nella scienza e nella vita pubblica, avevano raggiunto l‟obiettivo desiderato. Ma era evidente anche un‟altra conseguenza dell‟interazione tra esperti e dibattito pubblico, una conseguenza che Darwin non aveva preventivato, né tanto meno auspicato: era il declino della selezione naturale, un declino che si manifestava tanto tra i seguaci di Darwin che tra i suoi avversari, che pure ora spesso si dichiaravano evoluzionisti quanto i primi. La situazione risulta con chiarezza dal bilancio che Huxley delineò in occasione della raggiunta “maggiore età” dell‟Origine. Huxley registrava con soddisfazione una serie di risultati scientifici che inducevano a pronunciarsi a favore della teoria della “discendenza con modificazione”. Ricordava per esempio che il ritrovamento dei resti di Archeopterix, nel 1862, aveva mostrato che anche gruppi di organismi ora ben distinti come i rettili e gli uccelli erano stati un tempo collegati, come richiedeva la teoria della discendenza. Lo stesso Huxley aveva individuato i tratti anatomici che dovevano aver consentito il passaggio dai rettili a quattro zampe agli uccelli a due zampe. Calco di resti di Acheopterix (150 milioni di anni fa; questo esemplare è stato trovato in Baviera). Documenta il passaggio evolutivo dai rettili agli uccelli. Se ne conoscono solo sei esemplari. (Da Niles Eldredge, Fossils, 1991). Negli anni „70, nei depositi cretacei dell‟America settentrionale, Othniel C. Marsh aveva scoperto i resti di uccelli dotati di denti. Marsh aveva anche mostrato i possibili passaggi dalle forme più antiche del cavallo e di altri mammiferi superiori a quelle attuali. Se la transizione dagli invertebrati ai vertebrati restava ancora oscura, le ricerche di Aleksandr Kovalevsky sull‟anfiosso e sui tunicati avevano mostrato che la barriera tra i due grandi gruppi di organismi non era impenetrabile. L’anfiosso attuale, considerato nell’Ottocento una possibile forma di transizione tra invertebrati e vertebrati. Lo stesso poteva dirsi per la linea che, nel mondo vegetale, separava le piante dotate di fiori da quelle senza fiori: le ricerche di Wilhelm Hofmeister, secondo Huxley, avevano dimostrato che esistevano delle forme di transizione. La possibilità di quei passaggi nella serie dei viventi, la cui ammissione nel 1859 era considerata il segno di un‟inclinazione per le speculazioni più audaci, nel 1880 era considerata una conclusione ragionevole da parte di qualsiasi onesto ricercatore: “L‟evoluzione – concludeva Huxley – non è più una speculazione, ma l‟enunciazione di un fatto storico”. Nel redigere la cronaca dei successi ventennali dell‟evoluzionismo, d‟altra parte, Huxley passava completamente sotto silenzio la teoria della selezione naturale. Per il “bulldog di Darwin”, che fin dall‟inizio si era mostrato tiepido nei confronti della spiegazione del mutamento evolutivo proposta dall‟amico, era un silenzio eloquente. La reticenza di Huxley non era un‟eccezione tra gli ammiratori di Darwin in quegli anni. Rispondendo alle accuse di Virchow in occasione della polemica già ricordata, Haeckel aveva cercato di mettere ordine nel dibattito sull‟evoluzionismo distinguendo tre cose che, a suo giudizio, venivano solitamente confuse. La prima era “la dottrina generale dello sviluppo”, cosmico e insieme biologico, che egli chiamava monismo e di cui si considerava paladino. La seconda era la “teoria della discendenza con modificazione”, che attribuiva a Lamarck in quanto suo primo enunciatore. Soltanto al terzo posto Haeckel metteva la “teoria della selezione” di Darwin, considerata la più importante, ma non la sola tra le teorie che si contendevano la spiegazione del cambiamento evolutivo. L‟ordine nell‟elenco non lasciava dubbi sulle priorità che Haeckel avrebbe adottato nella sua difesa dell‟evoluzionismo. Tra i numerosi sostenitori di un‟evoluzione conciliabile con la tradizione religiosa, s‟intende, la selezione naturale darwiniana aveva intorno al 1880 ancora meno fortuna che tra gli alleati di Darwin. L‟incarico di sferrare un nuovo attacco alla selezione a nome dei primi se lo assunse nel 1879 Samuel Butler, che non era un naturalista ma uno scrittore di successo, attirato come tanti altri dal clamore del dibattito pubblico sull‟evoluzionismo. Butler, che si dichiarava evoluzionista, mostrava la sua abilità polemica nell‟esaltare i contributi degli evoluzionisti predarwiniani a spese di quelli di Darwin. Riusciva così ad affermare i meriti di quasi tutti gli evoluzionisti – da Buffon a Erasmus Darwin, da Lamarck a Herbert Spencer – denunciando contestualmente le ambiguità e le insufficienze della teoria della selezione. Sul piano delle obiezioni scientifiche l‟analisi di Butler aggiungeva poco alle critiche già sollevate da Mivart. Butler, del resto, consapevole delle sue limitate credenziali, si dedicava piuttosto a una riflessione di carattere storico e filosofico. E‟ su questo fronte che le sue critiche possono aiutarci a capire alcune delle ragioni che continuavano a opporsi all‟accettazione della selezione naturale, nonostante il trionfo dell‟evoluzionismo. Se si considera poi che alcune ragioni della sfortuna della teoria darwiniana messe in evidenza da Butler richiamano concetti che, a partire dagli anni ‟30 del Novecento, hanno favorito invece il recupero della teoria darwiniana nella biologia e in alcune filosofie contemporanee, può essere utile considerarle brevemente. Quel che Butler trovava soprattutto inaccettabile nella teoria di Darwin era il carattere fortuito delle piccole variazioni su cui agiva la selezione naturale, variazioni sulle cui cause Darwin per di più confessava la propria ignoranza. Come potevano delle variazioni accidentali e dalle cause sconosciute, sommandosi, dare luogo alla meravigliosa serie evolutiva degli esseri viventi sulle cui caratteristiche fondamentali, intanto, gli evoluzionisti di ogni convinzione sembravano potersi mettere d‟accordo? In mezzo alle annotazioni polemiche Butler comprendeva bene che, nonostante le concessioni fatte ai meccanismi lamarckiani nelle ultime edizioni dell‟Origine, Darwin non era disposto a rinunciare completamente all‟elemento “accidentale” e “fortuito” del cambiamento evolutivo. Questo era l‟aspetto della teoria della selezione che continuava ad apparire ostico a molti contemporanei di Darwin. Butler per parte sua non aveva dubbi: preferiva supporre che ogni pianta o animale avesse la capacità di orientare in qualche modo le proprie variazioni in risposta alle condizioni ambientali. Per questo rilanciava le idee “antiche” dell‟evoluzione lamarckiana contro la dottrina “nuova” di Darwin. L‟intero processo evolutivo risultava così in qualche modo orientato. Un‟idea che, per ragioni diverse, piaceva anche a quei seguaci di Darwin che propendevano per un‟interpretazione laica e progressiva della “sopravvivenza del più adatto”, spingendoli ad anteporre la teoria della discendenza alla difesa della selezione naturale. Considerare la nascita della teoria neodarwiniana dell‟evoluzione nel Novecento esula dai limiti di queste pagine. Quanto detto a proposito dell‟evoluzionismo intorno al 1880, tuttavia, offrirà dei termini di confronto utili per comprendere le ragioni che invece, nel nuovo secolo, favorirono l‟affermazione in biologia e in diversi settori delle scienze umane di nozioni nuovamente ispirate alla selezione naturale darwiniana, che riconoscevano ampio spazio alla componente “accidentale” raramente accolta dai contemporanei di Darwin. 6. Eredità darwiniane L‟enfasi raggiunta dalle controversie pubbliche sull‟evoluzionismo rendeva difficile, si è visto, separare la valutazione del merito scientifico di questa o quella nuova prova o proposta interpretativa dall‟eco delle controversie che si erano susseguite fin verso la fine del secolo. Sarebbe sbagliato tuttavia dedurne che, dunque, quelle controversie ostacolarono la ricerca biologica. Al contrario, la quantità degli studi condotti e messi in campo dai seguaci e dagli avversari del darwinismo nei vent‟anni qui considerati fu poco meno che prodigiosa. Per rendersene conto basterà ricordare, per i darwiniani, i lavori di Alfred Russel Wallace, Thomas H. Huxley, Asa Gray, Ernst Haeckel o John Lubbock, oltre naturalmente a quelli di Darwin; per gli antidarwiniani, le opere di Louis Agassiz, Richard Owen o St. George Mivart, cui si dovrebbero aggiungere i lavori di coloro che esploravano strade non riconducibili immediatamente agli schieramenti prevalenti. Anche per effetto delle controversie innescate dall‟evoluzionismo, le opere di costoro e di tanti altri ottennero una vasta risonanza internazionale. Se a quegli studi poi si aggiunge la letteratura a circolazione eminentemente nazionale prodotta nei paesi dove l‟evoluzionismo conquistò un alto livello di penetrazione – come la Germania, gli Stati Uniti, l‟Italia, la Francia, i paesi di lingua spagnola e la Russia – si ha un‟idea della vastità dell‟impatto diretto e indiretto prodotto dalle controversie ottocentesche sull‟evoluzione. E‟ importante notare, d‟altra parte, che in quegli stessi decenni le ricerche collegate all‟evoluzionismo si erano spesso affiancate, piuttosto che sostituite, alla letteratura prodotta in settori importanti della biologia e non avevano modificato in profondità quelle che restavano delle radicate, ben distinte tradizioni di ricerca, talvolta impervie alla nuova prospettiva. Anche questo stato di cose andrà utilmente confrontato con la situazione che si produsse invece nel Novecento con l‟affermazione della teoria neodarwiniana dell‟evoluzione. Nonostante le aspettative dei sostenitori e le paure degli avversari proclamate nei pubblici dibattiti, l‟evoluzionismo di quei decenni dell‟Ottocento aveva generato qualcosa che assomigliava più all‟annuncio di un nuovo continente da esplorare che al sovvertimento delle conoscenze consolidate nei settori più importanti delle scienze della vita. Come Darwin aveva ben compreso mentre scriveva l‟Origine, il successo di lunga durata dell‟evoluzionismo sarebbe dipeso dalla sua capacità di convincere della centralità della prospettiva evoluzionistica gli esperti delle discipline tradizionali, come la tassonomia, la paleontologia, l‟embriologia o la fisiologia, su cui poggiavano le competenze tecniche e professionali di chi praticava le scienze biologiche. Intorno al 1880 diversi segnali indicavano che un numero crescente di questi esperti, anche tra coloro che si dichiaravano evoluzionisti, non riteneva opportuno anteporre la questione dell‟evoluzionismo alle ricerche che intanto si stavano moltiplicando per effetto dell‟estensione dei corsi universitari e dei laboratori di scienze biologiche in molti paesi. Per ogni ricercatore come Anton Dohrn – il naturalista tedesco che nel 1872 aveva fondato a Napoli la Stazione zoologica con un programma di ricerche embriologiche sugli invertebrati di ispirazione darwiniana – ce n‟erano molti altri che preferivano affermare una crescente autonomia dalle controversie sull‟evoluzionismo. Ciò valeva soprattutto per la nuova generazione di biologi che intanto si erano formati nei laboratori di fisiologia, specialmente nelle università tedesche, in cui si stava diffondendo uno stile di ricerca basato sull‟uso di strumenti e tecniche sofisticate, rispetto al quale i metodi di lavoro di Darwin e dei suoi seguaci apparivano antiquati, legati a una tradizione della storia naturale che non sembrava al passo con le nuove competenze professionali. Darwin era consapevole della svolta sperimentale che si stava producendo in biologia. Nelle ricerche degli ultimi anni – in studi come quelli sulle piante carnivore (1875), sui movimenti delle piante (1880) o sull‟azione dei lombrichi nella formazione dell‟humus vegetale (1881) – aveva introdotto, grazie anche al figlio Francis che intanto aveva studiato fisiologia con Julius Sachs a Würzburg, un certo numero di tecniche sperimentali, che del resto non aveva mai trascurato nel suo peculiare laboratorio domestico. Ma il contrasto tra i modesti strumenti della storia naturale, nel cui ambito Darwin continuava a muoversi, e quelli della nuova biologia – in cui i microscopi più potenti si affiancavano alle tecniche messe a disposizione dalla chimica e dall‟elettromagnetismo per esplorare e registrare i fenomeni della vita – appariva a molti un contrasto insanabile. Così per esempio Sachs criticò alcune delle ultime ricerche di Darwin e anche Francis Darwin doveva notare a proposito dei metodi di lavoro di suo padre: “Ho sempre trovato curioso che colui che ha cambiato drasticamente la scienza biologica, e in questo senso è il primo dei moderni, abbia scritto e lavorato con uno spirito e dei modi tanto poco moderni nella sostanza”. Non erano in gioco soltanto le aporie della modernità, come pensava Francis. Negli ultimi anni di vita di Darwin lo sviluppo delle tecniche di laboratorio in biologia si combinava con le difficoltà della selezione naturale nel rendere manifesta una circostanza di cui Darwin era in parte consapevole, ma che i dibattiti sull‟evoluzionismo spingevano a sottovalutare e in ogni caso non potevano modificare: le scienze della vita, in effetti, accoglievano al loro interno una varietà di tradizioni di ricerca e di metodi di lavoro profondamente eterogenei tra loro, che non si lasciavano ricondurre facilmente ad un‟unica, per quanto grandiosa prospettiva come quella fornita dalla teoria dell‟evoluzione. Nel vivo delle controversie ottocentesche sull‟evoluzionismo l‟eterogeneità delle tradizioni della ricerca biologica poteva forse essere trascurata, o scambiata facilmente per qualcos‟altro. Ma, ora lo sappiamo, per radicare l‟evoluzionismo nella tradizione e nell‟insegnamento delle scienze della vita sarebbero occorse ancora diverse generazioni di ricercatori, ancor più numerose generazioni di manuali scientifici, nuove controversie sui rapporti tra scienza e religione e, infine, confronti a volte drammatici sui rapporti tra scienza e politica, dentro e fuori la comunità degli esperti. La “nuova sintesi” evoluzionistica elaborata nel corso del Novecento dal neodarwinismo – che ancora ispira la trattazione dell‟evoluzione in molti manuali di scienze – tentò da capo di ricondurre a unità la diversità delle tradizioni di ricerca in biologia. Il nome di Darwin – intanto diventato mitico – fu utilizzato di nuovo per convogliare tra gli specialisti e presso il pubblico il messaggio secondo cui l‟ideale di una scienza del vivente unificata all‟insegna dell‟evoluzionismo era un obiettivo ragionevole e opportuno. Non sorprenderà a questo punto osservare che, come ai tempi di Darwin anche se in forme diverse, quel messaggio ha continuato e continua tuttora a caricarsi di implicazioni contrastanti, non soltanto scientifiche. (Giuliano Pancaldi) Un dibattito rivelatore? Galileo, Darwin, l‟evoluzione e i problemi dell‟istruzione in un dibattito al Parlamento italiano 21 Aprile 1866 Paolo Mantegazza, 1831-1910, deputato della Destra. Il D‟Ondes-Reggio attaccato da Mantegazza nell‟intervento in Parlamento era pure della Destra. Ma gli applausi per Mantegazza venivano soprattutto dalla Sinistra: ________________________