CORSO 2000-2001 Tema: Politica ed emancipazione umana in Karl Marx Testi: K.Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844 K.Löwith, Max Weber e Karl Marx M.Heidegger, Lettera sull’umanismo H.Arendt, Vita activa A.Negri, Marx oltre Marx L. Althusser, Per Marx SEMINARI Sui testi di Karl Löwith, Martin Heidegger e Hannah Arendt sono stati tenuti dei seminari così organizzati: per ciascuno dei testi suddetti si sono costituiti dei gruppi di studenti che hanno discusso in aula avendo precedentemente studiato il rispettivo testo. Sulla base delle sollecitazioni che via via emergevano dal seminario ‘messo in scena’ da quel gruppo, gli altri presenti che eventualmente non avevano letto il testo in questione o che avevano scelto di animare un’altra seduta seminariale, potevano inserirsi con impressioni e richieste di chiarimenti. Qui di seguito si danno i protocolli delle sedute, curati dagli studenti stessi. Ho preferito non intervenire su questi resoconti, poiché lo scopo è qui solo quello di rievocare il lavoro di apprendimento nel suo farsi. Perciò tutto quanto qui riportato è inevitabilmente frutto di una ‘tradizione orale’ di cui sono parte non irrilevante anche suggestioni, impressioni e umori ricavati e autonomamente rielaborati da quanto il docente esprime a sua volta nell’irripetibile immediatezza ‘parlata’ del corso. Protocollo seminariale a cura di Fabrizio Russo, 24 gennaio 2001: Heidegger sapeva bene che, nelle considerazioni su dei testi, come quelle del nostro seminario, da un semplice rigo sarebbero potute scaturire infinite questioni e discussioni. E proprio questo potrebbe accadere con le nostre riflessioni. In questa parte iniziale del saggio Löwith si riconosce come terza persona, come il soggetto che pone il confronto fra Weber e Marx e che individua il termine di questo confronto non nella “intenzione cosciente ed esplicita” degli autori, vale a dire l’analisi del mondo contemporaneo capitalistico – borghese, bensì scava a fondo nel loro pensiero fino ad individuare il “motivo originario” implicito delle loro analisi: il problema dell’uomo all’interno del mondo moderno. Già discutere su queste prime battute, secondo Heidegger, potrebbe comportare un discorso molto ampio. In poche parole, Löwith sceglie di condurre la sua analisi sul “non detto” degli autori, sul fondamento non esplicitamente comunicato dei loro discorsi. Egli, quindi, non pone arbitrariamente il parametro di confronto, ma semplicemente individua nella problematica dell’uomo il denominatore comune sia a Weber che a Marx. Su questo argomento, per altro nascosto, Löwith impianta tutto il suo discorso. Ora sorgono due problemi: 1) riflettere sul modo in cui Löwith si pone come terza persona, ovvero come soggetto confrontante; 2) quale sia l’idea propria di Löwith riguardo all’uomo e perché egli abbia scelto come filo rosso del suo confronto proprio questa tematica. Nell’introdurre le riflessioni sul primo punto, cominciammo a renderci conto che sarebbe stato opportuno, da parte nostra, instaurare un nuovo confronto fra il modo di porsi come terzo di Löwith, e quello del suo maestro. E cominciammo col dire che Löwith si pone in una chiara ottica weberiana, essendo lui il soggetto conoscente e, in quanto tale, presupposto della conoscenza stessa (si pone come interprete). Per chiarire invece la scelta di condurre la sua analisi sul problema dell’uomo, bisogna risalire ad una particolare questione, alla quale l’interesse dell’autore si rivolse costantemente: il rapporto fra uomo e cosmo, e la sua rottura causata dall’avvento del cristianesimo. Löwith ritiene che nel mondo antico abbia regnato una perfetta armonia fra l’uomo e il cosmo, fra l’uomo e la natura. Questa armonia è stata compromessa dall’avvento del cristianesimo, che ha posto una forte distinzione fra l’uomo e il cosmo. Va inoltre ricordato il mutamento della concezione del tempo. Mentre per i greci si trattava di un tempo ciclico, non delimitato né da un inizio, né da una fine, con la religione cristiana prende il sopravvento la concezione di un tempo lineare, che ha avuto inizio, ed avrà una fine. E’ nell’ottica della ricomposizione di questa frattura che Löwith considera la problematica dell’uomo, scegliendo appunto due autori prettamente “acosmici”, che incentrano il loro pensiero esclusivamente sulla tematica dell’uomo e del suo mondo reale. La sua scelta quindi non è casuale, ma è volta a specifiche considerazioni, tipicamente löwithiane, sulla rottura e sulla eventuale ricomposizione del rapporto uomo – cosmo. Protocollo seminariale a cura di Alessio Calabrese, 31.01.2001: Individuati i termini del confronto e riconosciuto il problema dell’uomo della società capitalistico-borghese come “ ciò quanto a cui” le ricerche di Marx e di Weber vanno tenute distinte in via comparativa, ancora una volta, però, ci siamo resi conto di come Löwith si mantenga su una posizione chiaramente ambigua per ciò che riguarda l’impostazione metodologica posta a fondamento del suo discorso. Da una parte, infatti, egli tiene presente la rigorosità scientifica di Weber nel rendere esplicite le prime due condizioni del confronto; dall’altra sembra evidente, invece, come egli abbia in mente Heidegger nel postulare la terza condizione, a proposito della quale ciò che fa problema è il presunto “ non detto” , ciò che non è “ l’intenzione cosciente” ed esplicita di Marx e di Weber, e che Löwith individua nell’idea dell’uomo. Nuovamente, dunque, ci è apparso necessario, anche solo in via generale, tentare di riflettere sulla differenza e sulla continuità metodologica tra l’allievo e il maestro. Si è inoltre accennato che Löwith, a proposito di Marx pensa abbastanza arbitrariamente ad un mero capovolgimento tra sottostruttura e sovrastruttura, come dire che il mondo degli enti sensibili, in Platone, sia il capovolgimento di quello delle idee eterne e immutabili. E ancora: che nient’affatto il problema dell’uomo in Marx appare meramente implicito. In realtà esso è oggetto di profonde riflessioni riscontrabili soprattutto nelle opere giovanili. Certo, per Löwith, sia Marx che Weber, presuppongono un’idea dell’uomo radicalmente secolarizzata per cui, da una parte, il lavoratore è ridotto come soggetto alienato a merce; dall’altra, l’individuo, come funzionario responsabile solo rispetto all’apparato, è defraudato non solo della propria libertà, cioè non è più responsabile verso se stesso, ma imprigionato nella “gabbia d’acciaio” e totalmente disincantato. Si tratterà, d’ora in poi, di mettere in luce come tutto questo avviene, evidenziando le differenze, ma anche le non poche affinità, tra le riflessioni politico- pratiche di Marx e quelle scientifico-oggettive di Weber. Tuttavia quel che sembra meno chiaro e che a Löwith interessa, è il fatto che discutere su Marx e su Weber è discutere di noi stessi, del destino dell’uomo di oggi, dell’uomo che Löwith ha davanti durante gli anni trenta del Novecento. In ultimo c’è da notare come il testo del nostro filosofo sia materialmente difficile da sondare, poiché una volta stabilito l’argomento, il confronto e la caratterizzazione dei due personaggi, essi sono lasciati parlare liberamente dal terzo, il quale solo in conclusione accenna una critica personale alla “Sache”, alla cosa in questione, cioè all’uomo della società capitalistico-borghese come è stato pensato da Marx e da Weber. Questa problematicità intrinseca nel testo löwithiano è forse data dal carattere saggistico, oppure negli ultimi saggi Löwith, più propriamente farà esplicite le sue personali considerazioni sull’esistenza storica. Protocollo seminariale a cura di Raffaele Ruocco: Ancora una volta si pone l’accento sulla differenza di prospettiva con cui Weber e Marx guardano al “fenomeno universale” del capitalismo occidentale, ponendo l’accento sul diverso concetto di libertà che le due ottiche sottendono e al tempo stesso implicano (in particolare si tratta per Weber della “libertà di movimento” del singolo all’interno della gabbia d’acciaio della burocrazia contemporanea). Oltre al concetto di libertà, il raffronto mette in gioco quelli di storia e di necessità; viene così toccata la problematica weberiana del disincanto del mondo, che tra l’altro ci impone il congedo da ogni visione progressiva della storia (visione che, invece, costituirebbe il nocciolo della teoria marxista) e si accenna alla conclusione della conferenza sulla “scienza come professione”, e alla citazione del libro del profeta Isaia. All’attesa biblica del giorno, subentra in Weber la fedeltà al demone che tira i fili della nostra esistenza; fedeltà che si concretizza nel concetto di Beruf, al tempo stesso vocazione e professione (concetto di derivazione calvinista). Ancora sulla tematica del disincanto, nel mondo moderno non sono più possibili valori universalmente validi, ma solo una situazione di “politeismo”; situazione che, però, implica costitutivamente una dimensione di lotta fra valori incompatibili (ogni valorizzazione è allo stesso tempo una svalorizzazione – chiaro riferimento a Nietszche). A questa situazione di politeismo e di lotta è collegata la necessità della “scelta” da parte del singolo; scelta che se può essere evitata nell’ambito della vita privata, è però imprescindibile nella dimensione pubblicopolitica. Si accenna alla concezione weberiana della politica e, nell’ambito del problema del rapporto mezzo - fine, all’incompatibilità fra ethos religioso ed ethos politico e alla distinzione tra funzionario e dirigente (capo politico carismatico). Una svolta nella discussione è data dal ritorno alla considerazione esplicita del testo di Löwith e del suo rapporto con le analisi di Weber e di Marx. Ciò che, secondo Löwith, li accomuna è il loro tematizzare, sebbene da un punto di vista apparentemente specialistico, quella che agli occhi dell’allievo di Heidegger è la situazione del nostro tempo, che coinvolge il nostro essere nella sua totalità. Sia Weber che Marx tengono presente l’inversione del rapporto mezzo - fine che caratterizza la società contemporanea e che, per Marx, ha i caratteri dell’alienazione, mentre per Weber quelli della inarrestabile razionalizzazione e specializzazione; destino che per Weber è inevitabile anche per il socialismo realizzato. Protocollo seminariale a cura di Francesca Crispello, 12 febbraio 2001 Nell’odierno incontro definiremo diversi punti. Löwith considera la problematica dell’uomo nel mondo contemporaneo servendosi di Marx, che trova la soluzione nella prassi, e Weber, che la trova nel comportamento scientifico avalutativo. Se il capitalismo è il risultato di diverse tendenze, per Marx è il frutto dell’accumulazione di ricchezza, mentre per Weber della razionalizzazione come destino; ma proprio questa razionalità è il luogo della libertà. Nella gabbia d’acciaio della burocrazia Weber vuole trovare uno spazio per l’uomo, che deve essere libero anche nella costrizione Marx intende la libertà come liberazione dall’alienazione; Weber, invece, come dimensione determinata storicamente. Per Löwith la libertà è il ritorno al cosmos (sentirsi nel mondo). Il capitalismo, secondo Weber, è il centro della razionalizzazione; fa egli una indagine su come si è determinato? La comprensione dello spirito moderno diverso dal precedente in quanto il capitalista non è un essere ozioso che accumula, ma ha uno spirito animato da un ethos: accumulare per dovere. Dove nasce questo imperativo? La Sociologia della religione spiega la sofferenza dell’uomo religioso che non sa la sua sorte. Il calvinista si considera uno strumento nelle mani di Dio, lavorando e organizzando sistematicamente per l’accumulazione della ricchezza, che non gli appartiene. Accumulazione “ad maiorem dei gloriam” Degenerazione della profezia nella società che ha mantenuto la razionalità dell’accumulo. La gabbia d’acciaio Marx vuole liberare l’uomo dal dominio delle classi Weber vuole spazio per l’uomo all’interno della gabbia d’acciaio; Löwith vuole un ritorno al cosmos. Protocollo seminariale a cura di Giuseppe Trivisonno, 07.03.2001: L’intenzione esplicita delle analisi di Marx e Weber è per entrambi il capitalismo. Löwith pone i termini del confronto su ciò che viene da lui stesso definito come “ l’orizzonte nascosto entro il quale si muovono costantemente le questioni poste da Marx e Weber e cioè la questione del destino umano nel mondo umano contemporaneo”. Il centro del problema posto da Löwith non è quindi il fatto che sia Marx sia Weber abbiano creato una filosofia sociale propria, bensì che entrambi hanno criticato la società borghese partendo dall’analisi dei rapporti di esistenza odierni nella loro totalità”. Entrambi individuano nell’economia il vero destino dell’uomo. Di fronte a questo destino, però, hanno un atteggiamento completamente diverso. Infatti, spiega Löwith, mentre Weber analizza il capitalismo da un punto di vista neutrale valutandolo ambiguamente, Marx parte da un punto di vista negativo, ma ritiene che il sistema attuale possa essere rovesciato. “Marx ha una terapia per l’autoalienazione, Weber soltanto una diagnosi del processo di razionalizzazione universale”. Weber parte dal principio che la ricerca scientifica deve accertare “ciò che è e non ciò che deve essere”; la sua analisi, quindi, ha lo scopo di spiegare cosa l’uomo rappresenta nel mondo odierno. Il tutto, come già detto, viene visto nell’ottica del capitalismo considerato “ la potenza più fatale della vita umana”. Ogni tipo di scienza, sempre secondo Weber, non può essere assoluta in quanto è sempre condizionata da degli “a priori” soggettivi: ad esempio, in una ricerca storica si parte sempre da un punto di vista particolare, che stabilisce l’oggetto e la direzione della indagine storica stessa. Lo scopo che Weber si prefigge è quello di rendere sempre noto, in ogni scienza, il punto di partenza soggettivo, ”l’a- priori”. Non può esserci, quindi, una scienza assoluta, ma tante scienze particolari e specializzate, tra cui la filosofia, che sono continuamente superate e messe in discussione. Il sentiero percorso dal pensiero di Heidegger ci ha condotto in un luogo in cui s'intrecciano confusamente luce e ombra, necessità e libertà, teoria e prassi. Dove, prestando ascolto attento, si alternano silenzio e parola, pericolo e salvezza. E' come stare dinanzi ad un'opera incompleta, ad una strada che si perde nel bosco, "interrotta": si è gettati nell'inquietudine, ci si sente "sospesi". La difficoltà del nostro interrogare non deve però farci abbandonare il cammino: al contrario, ci si deve portare a ridosso di ciò che fa problema, laddove la strada si dipana e, insieme, il pensiero deve vedere dove essa conduce. Infatti, il compito al quale il Denken ci chiama consiste nella disponibilità del "sì e no " della parola, nell'abitare l'ambiguità immanente al destino dell'essere. L'incontro con la Fenomenologia di Husserl resta decisivo. Non solo perchè essa offre, dopo Nietzsche, una radicale messa in discussione del mondo, ma perchè costituisce il terreno su cui il giovane Heidegger inizierà, già nel 1919, a pensare la filosofia come "Urwissenschaft dell'intero", cioè di quella "vita" in cui ogni opposizione resta saldamente unita come insieme di differenze. La comprensione della vita come intero precede quella della relazione soggetto-oggetto: qui ogni cosa si trova in un "contesto", in una dimensione pre-teoretica, dove teoria e prassi sono finalmente unite in un "contrasto amoroso". E' questo tipo di comprensione che sta alla base e, insieme, fonda l'Erlebnis autentico. In Sein und Zeit il Dasein è pensato come intero, ma solo laddove l'essereper-la-morte è gettato nell'angoscia è possibile esperire l'Essere stesso nella sua totalità. Così anche il cristiano: Paolo dice che il cristiano “cammina in angoscia", sospeso tra cielo e terra. Solo in tale esperienza il senso del divino può manifestarsi in tutta evidenza. Anche nel Don Giovanni di Mozart il desiderio "cammina in angoscia": appena Don Giovanni cessa di desiderare, la musica s'interrompe, finisce. Ma se dunque la vita come motilità sta ad indicare l'intero, come possiamo pensarla e dirla? Come possiamo dire il movimento? Criticando Rickert e i neokantiani, Heidegger sostiene che il campo di deduzione delle categorie non può che essere la vita stessa. Dopo la Kehre Heidegger abbandona la parola "senso" per "verità" dell'essere poiché ritiene che in tal modo venga sottolineata di più l'apertura dell'essere stesso, che ora non viene affrontato sulla tematizzazione del Dasein, ma pensato come il "luogo" in cui si manifesta la verità. L'essenza della verità è l'apertura: la metafisica adeguando il pensiero alla cosa dimentica il "luogo". A queste considerazioni si aggiunge il tema dell'essere come anwesen, "venire alla presenza", dove l'an tedesco indica appunto il movimento, l'uscir fuori dal nascondimento e, insieme, dove Schicken e Schicksal indicano l'invio, il darsi come destino che si disvela in ogni epoca del mondo sottraendosi, obliandosi, sempre come totalità. Al culmine della metafisica è la civiltà della tecnica che si dà come luogo storico in cui l'essere si manifesta nascondendosi; Heidegger tenta così di mettere in luce le condizioni per un rapporto libero con essa, sostenendo che possiamo considerarci liberi solo se corrispondiamo alla sua essenza, se siamo capaci di pensarla come modo dell'aletheuein. E' da notare quanto sia distante l'interpretazione che ne dà Severino per il quale l'essenza della tecnica è, a sua volta, qualcosa di "tecnico", cioè fondata su un errore. Heidegger mette in luce come la tecnica si presenti come mezzo-strumento e come qualcosa di antropologico: viene indagata prima la strumentalità poi la causa. In Aristotele l'aition indica "l'essere responsabili verso qualcosa". La tecnica perciò rimanda alla responsabilità che l'uomo ha nel lasciar essere le cose del mondo, nella produzione degli enti dalla physis. I Greci dicevano poiesis, pro-durre, her-aus-vorbringen: il movimento di produzione degli enti era immanente alla physis. Di fronte a tale produzione l'uomo "assecondava" la natura. La tecnica moderna invece " pro-voca", - Heraus-forderung -, tale movimento: la physis viene ridotta a “fondo” la cui disponibilità risiede in continue e nuove provocazioni. In questo orizzonte di dominio gli enti sono risorse a disposizione, momenti di un ingranaggio; l'essenza della tecnica si rivela perciò come Gestell, "impianto", unione di tutti i modi dell'impiegare. Da notare che Gestell vuol dire anche "scaffale", dove il Ge-, traducendo il cum latino, sta per il modo della raccolta. E ancora: il Ge- lo ritroviamo nel Gefahr , nel "pericolo" della tecnica come orizzonte planetario in cui il pensiero calcolante non sa rammemorarsi dell'essere. L’oblio dell’essere e dell’essenza del theorein vengono raggiunti, al termine della metafisica, nel pensiero di Nietzsche e di Marx. Nella Lettera sull’umanismo Heidegger mostra come la prassi marxiana tenda a risolvere tutto l’ente nella produzione. Sia Marx sia Nietzsche non riescono, in sostanza, a capovolgere in senso essenziale, cioè ad “oltrepassare“, la metafisica. Anzi, ci sono rimasti dentro pienamente portandola alle estreme conseguenze. Heidegger può obiettare a Marx che il vero capovolgimento, la vera “svolta” in cui risiede lo stesso rivoltarsi dell’essere (einkehren) sia, in definitiva, un “soggiornare”, un abitare la verità del luogo, cioè dell’essere come Lichtung. L’Undicesima Tesi su Feuerbach non è dunque valida poiché è necessario avere una rappresentazione del mondo per poterlo trasformare: se per cambiare, per trasformare, bisogna rappresentare, la prassi marxiana si presenta, in ultimo, come culmine del theorein inaugurato dalla storia della metafisica. L’interpretazione, l’ermeneutica, come gesto originario del soggiornare, si colloca invece in quella sfera pre-teoretica in cui si pensa, si rappresenta e si trasforma il mondo a partire dall’apertura, dal “sapere del luogo”. Risulterebbe necessario, da quanto si è detto, un confronto tra Heidegger e Hegel: ci limitiamo a rilevare però solo, come dice Deleuze, che dopo Hegel si tratta di pensare la differenza, non il negativo. All’identitàcontraddizione deve essere sostituita la differenza-ripetizione. Heidegger obietta al pensiero hegeliano di non aver risolto l’unicità della logica: il gesto ermeneutico, invece, fondandosi su quel luogo che abbiamo definito pre-teoretico, è capace, grazie all’ascolto della parola di Parmenide, di Eraclito e di Anassimandro, di esperire l’essenza originaria del theorein non dialetticamente. Detto ciò, siamo d’accordo con Lukàcs quando inserisce il Denken heideggeriano in quel progetto di “distruzione della Ragione” dialettica tipico della filosofia a lui contemporanea. Tuttavia sia Heidegger sia Marx pur da punti di vista inconciliabili hanno colto nel segno rintracciando nel carattere “operativo” della scienza la “tendenza fondamentale del nostro tempo”. Sia nei Grundrisse che in Holzwege la scienza s’innalza a forza produttiva capace di espellere dal capitale il lavoro vivo e di potersi così proporre, guidata dalla fare strumentale della tecnica, come fenomeno dominante di portata planetaria. Lo scienziato, il ricercatore universitario vengono ridotti a tecnici e operai: quella “scienza come professione-vocazione”, che ancora era la caratteristica dello specialista weberiana, ci sembra dunque definitivamente tramontata. Protocollo seminariale a cura di Aitilia Tramontano, 21-3-2001 L’umanismo ha origine, secondo Heidegger, nel discorso di Platone sulla verità. E’ a partire da esso che la filosofia diventa lo sforzo di adeguare lo sguardo e di procurarsi una corretta visione. Tutta la metafisica è l’orizzonte diretto alla definizione dell’essere dell’uomo e della sua posizione del mondo. In un luogo del testo, Heidegger traccia la storia dell’umanismo e conclude dicendo che, per quanto le sue forme possano essere differenti nel fine e nel fondamento, esse concordano tutte nel fatto che l’umanità dell’uomo è determinante in riferimento ad un’interpretazione peculiare dell’essere dell’ente. Egli, interpretando acutamente il senso del pensiero di Marx, avvicina marxismo e cristianesimo affermando che entrambi sono due umanismi in quanto determinano, ciascuno a suo modo, l’essenza dell’uomo: Marx pretende che l’ “uomo umano” venga conosciuto e riconosciuto nella società, il cristiano vede l’umanità dell’uomo nel suo rapporto con la divinità. Si tratta, dice Heidegger, di assicurare all’uomo il suo nutrimento, come Platone voleva assicurare la correttezza dello sguardo. L’umanesimo è assicurazione mentre l’esserci è rischio. Dal Vangelo di Matteo si legge :”Chi perde la vita la troverà, chi la trova la perderà”, questo non è altro se non espressione dell’assicurazione della salvezza. Assicurazione che culminerà nella tecnica come calcolabilità di tutte le possibilità. In essa si compie l’oblio e il velamento dell’essere. Heidegger dichiara di voler pensare l’umanesimo nel suo senso più ampio, che coincide con l’inizio, la fine e lo svolgimento della metafisica. Per Heidegger, umanismo non significa mettere al centro l’uomo, ma pensare il suo specifico. La metafisica pensa l’essere dell’ente, ma non domanda della verità dell’essere, non pensa cioè la differenza ontologica tra essere e ente. In realtà, la metafisica è un destino in quanto il pensiero esegue il mandato dell’essere, attesta l’essenza che per destino gli è propria. L’oblio della verità dell’essere è ciò che Heidegger chiama “decadimento”. La spaesatezza è il segno di tale oblio. Essa equivale, in Marx, all’alienazione determinata dal rapporto capitale-lavoro; in Nietzsche, al rovesciamento della metafisica. Heidegger si confronta con Marx e Nietzsche come pensatori della fine della metafisica. Egli sostiene che Marx, in quanto pensatore dell’alienazione, è sulla stessa linea di pensiero di Hegel, dal quale ricava la nozione teoretica di uomo, che è il presupposto della prassi. Per Hegel la vita è processo di estraniazione dell’autocoscienza, per Marx l’essere è processo di produzione, ma Hegel rappresenta un progresso nella storia della metafisica perché ha pensato fino in fondo tale estraniazione. E’ qui che è evidente la sostanziale differenza di pensiero di questi ultimi rispetto ad Heidegger, per il quale la storia dell’essere, della metafisica come darsi dell’essere, non dovrebbe essere processo, dialettica, perché la dialettica è nella stessa logica dell’asserzione. La storia non è processo, non è dialettica, è la storia dell’essere che non va né avanti né indietro, ma si muove nel medesimo. Storia che è tempo, ma un tempo che non è quello misurato. Heidegger invita a distinguere tra via e metodo. Hegel sta dietro il metodo, la fenomenologia è una via. I Greci seguivano la via perché lasciavano andare: questa è una fenomenologia dell’inapparente che lascia apparire. Ciò diventa chiaro se si pensa che nella Grecia non c’erano i concetti, non c’era il comprendere esaustivo, l’assorbire il senso, il prendere possesso. Invece, il termine “apertura” non comprende per mezzo di concetti. Il pensiero che Heidegger propone è un pensiero semplice, un pensiero povero, che pensa senza voler dominare. Pensiero che rammemora l’essere e nient’altro. Poiché pensa l’essere, il pensiero pensa il niente (ni-ente = non ente). L’uomo, in quanto possiede il linguaggio, è pastore dell’essere, è colui che dà rifugio, è il luogotenente del niente. La storia del destino dell’essere è già venuta al linguaggio nel dire dei pensatori essenziali: i poeti, che proprio perché pensano il semplice, il povero, dicono sempre la stessa cosa. “Resta altrettanto essenziale – dice Heidegger – riflettere se si possa dire ciò che è da pensare, fino a che punto lo si possa dire, in quale attimo della storia dell’essere, in quale dialogo con questa storia, e in base a quale pretesa”. Protocollo seminariale a cura di Adriana Attanasio, 4/4/2001 L’essere di Heidegger ha bisogno dell’uomo, dunque non è assoluto, ma finito e limitato: questa è la più grande differenza di Heidegger con Hegel. Per Hegel, infatti, l’essere è il primo termine della logica ed è l’indeterminato immediato, dunque, l’assoluto che deve uscire da sé per determinarsi. Per quanto riguarda il tema della mancanza di patria e dell’alienazione, riportato a pagina 69-70, Heidegger cita Marx. «Come destino che destina la verità, l’essere rimane velato». Ricordiamo che verità in greco è ??????? che significa disvelatezza (da ??????? che vuol dire nascondere o velare) e che in tedesco si traduce con Un-verborgenheit. Di nuovo c’è il termine destino e l’interpretazione del concetto di libertà e necessità. L’essere si destina velandosi. La verità è la verità dell’essere. Anche il punto di vista in comune di Marx e Weber è il destino dell’uomo. Continuando, Heidegger dice: «Ma il destino del mondo si annuncia nella poesia, senza esser già manifesto come storia dell’essere. Il pensiero di Hölderlin, dalla portata storica universale, che nella poesia Andenken si fa parola, è perciò essenzialmente più iniziale e quindi più gravido di avvenire di quanto non lo sia il semplice cosmopolitismo di Goethe». Heidegger sostiene, infatti, che la natura, per disvelarsi, ha bisogno dell’uomo, dell’organico. La ripresa di Hölderlin come poeta essenziale da parte di Heidegger è connessa alla minaccia dell’interpretazione tecnica del linguaggio. Nel suo saggio, Salvezza che cade, Massimo Cacciari si chiede se sia veramente impensato l’Es gibt nella tradizione metafisica occidentale. Egli ritiene, infatti, che il darsi e nascondersi come gioco sia stato già pensato nella storia della metafisica. Bisognerebbe, tuttavia, capire Massimo Cacciari da che punto di vista vuole costruire tutto il suo dispositivo interpretativo. Secondo Heidegger, nel pensiero pre-metafisico viene esperito l’essere in modo più originario, ma non completamente come verrà esperito al compimento della metafisica, col quale ci troveremo nell’estrema povertà, che per Heidegger coincide con l’estrema ricchezza, e in cui è possibile il pensiero povero e il tracciare solchi, che è l’unico per giungere alla radura, luogo aperto in cui può avvenire il gioco della luce e dell’ombra. Alle pagine 69-70, Heidegger chiarisce che non si tratta di pensare in antitesi a, che non è costituito un punto come contrappunto: infatti, il contrasto tra pensatori è un contrasto amorevole intorno alla cosa stessa (con forte richiamo alla fenomenologia). Infatti, per i Greci le cose appaiono, mentre per noi moderni le cose ci appaiono. Heidegger dice che Marx ha esperito la metafisica, anzi, con lui siamo al culmine della metafisica e si pensa all’alienazione: il punto è che essa si pensa a partire dal problema dell’essere e quindi come mancanza di patria. «La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. Questa viene provocata nel destino dell’essere, nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta come spaesatezza…L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro…L’essenza del materialismo si cela nell’essenza della tecnica, su cui si scrive molto, ma si pensa poco. Nella sua essenza la tecnica è un destino, entro la storia dell’essere, della verità dell’essere che riposa nell’oblio. Essa risale infatti alla ????? dei Greci non solo nel nome, ma proviene in un senso storico essenziale dalla ????? intesa come un modo dell’ ?????????, cioè del rendere manifesto l’ente. In quanto forma della verità, la tecnica ha il suo fondamento nella storia della metafisica». Posto che il problema di Marx viene esperito con l’alienazione come mancanza di patria, è però bene sottolineare che Marx non direbbe “mancanza di patria”. Heidegger, quando si occupa del marxismo, dell’industria, della riduzione dell’uomo a niente, parla della catena di montaggio come luogo in cui viene alla luce l’alienazione come mancanza di patria. Tuttavia, oggi c’è stato un passaggio dall’economia fordista all’economia post-fordista e dunque si è verificato un incremento della tecnologizzazione a sfavore dell’ideologia perché, dopo Nietzsche, dice Severino in contrasto con quanto sostiene Heidegger, la metafisica finisce e non comincia, anche alla luce della globalizzazione. Forse, tuttavia, queste obiezioni sembrano più appropriate a Marx che ad Heidegger. Nella prospettiva di Heidegger, infatti, fordismo e post-fordismo, comunismo e liberismo, keynesismo e post-keynesismo non sono epoche della storia dell’essere, cioè epoche in cui l’essere destina la verità, ma sono tutte entro il destino della metafisica come tecnica e come mancanza di patria. Tutte queste figure sociologiche, economiche e storiografiche sono quindi nell’ambito della metafisica in quanto non ci fanno uscire dal destino della metafisica come tecnica a cui appartiene il discorso dell’alienazione. Heidegger non vuole dire qualcosa di nuovo rispetto a tutto quello che ha detto sulla storia della metafisica, ma ritiene che il gioco mistico del darsi e del sottrarsi vada visto entro l’orizzonte dell’essere. Emmanuel Lévinas gli ha però obiettato che l’essere deve fare i conti con l’identità che egli considera un ostaggio. Probabilmente, in ultima analisi, il pensiero di Heidegger è assimilabile alla mistica, poiché c’è corrispondenza tra il gioco del darsi e dell’occultarsi, e il gioco del mistico che, in un primo momento, afferma che Dio supera infinitamente tutto quello che possiamo dire di Lui, ma quest’estremo nascondersi si traduce, in un secondo momento, nell’estremo manifestarsi, senza tuttavia la mediazione dialettica. Karl Löwith sostiene che Heidegger rovescia la posizione di Hegel, per il quale la storia è manifestazione di, mentre per Heidegger è coprimento o velamento e, inoltre, dice che Heidegger, quando pone il problema della finitezza dell’essere con l’esser-ci, ripropone la figura cristiana. Per Heidegger la filosofia è morta, anzi, compiuta: in questo risulta evidente l’analogia con Marx il quale ritiene che «la sola maniera di realizzare la filosofia è quella di distruggerla». Filosofia, infatti, in greco è ??????????, amore per la saggezza: tuttavia, si ama ciò che non si possiede ancora, tanto che il mito platonico dice l’amore figlio di ???? e ?????, perché tende ad acquistare qualcosa che non ha. Con Hegel veramente la filosofia è finita: con lui non c’è più ??????????, ma ?????, saggezza compiuta: con lui si è chiusa tutta la metafisica e la grandezza del secolo XX è non proporre più filosofia, ma nuovi stili: con Marx c’è un richiamo alla prassi e all’eminenza dell’azione sul sapere e con Heidegger c’è un pensare che è un rammemorare, un pensiero che è solo un cammino perché l’essere è un cammino: nella Foresta Nera ci sono dei sentieri dei boscaioli, Holzwege, e solo il boscaiolo ha familiarità con questi sentieri che si perdono e che conducono alla radura dove avviene il gioco della luce e dell’ombra. Heidegger non vuole pensare il contrasto, ma la coappartenenza dei due opposti, e questa è la differenza con tutte le fasi della storia della metafisica. In una conferenza del ‘49 dal titolo Impianto, infatti, Heidegger dice che pericolo (Gefahr) e salvezza sono la stessa cosa: il pericolo è una dimensione essenziale e non è il male da eliminare (Eraclito). Dove cresce il pericolo, infatti, cresce anche ciò che salva, cioè la svolta (Kehre). C’è una salvezza come svolta interna all’essere stesso, in cui l’essere soggiorna in tutto se stesso per darsi ad un altro destino. Questo è il tipico modo con cui Heidegger pensa il termine Über che significa andare oltre, superare, perché questa è la dialettica della storia (necessità - libertà). Per Kant è fondamentale il contrasto tra regno della natura e regno dei fini. Hegel vuole mediare i due opposti: per lui, necessità e libertà si coappartengono. L’assoluto è libero e necessario, perché oltrepassandosi resta in se stesso, ma in forma più alta. Per Marx c’è una liberazione che nasce dalla rivolta del proletariato con la quale finirà la preistoria e inizierà la storia dell’umanità. Per Heidegger, tuttavia, Über non è solo oltre, ma anche intorno, come complemento di argomento: questo significa che per lui si rinnova nello stesso luogo e, al tempo stesso, si va oltre. Heidegger non propone una trasformazione ma una perdurazione dei fenomeni collocandoli ognuno nel proprio luogo, tanto che egli definisce la svolta (Kehre) come un rivoltarsi all’interno dell’essere stesso (Ein-kehre). Heidegger definisce l’essenza della tecnica un pericolo (Gefahr). Tuttavia, il pericolo non è nella tecnica come tale, ma nel dimenticare che la tecnica è solo un modo, cioè uno dei modi, della disvelatezza, credendo che sia il modo in assoluto: la salvezza, quindi, è nel ricordare che la tecnica è solo un’epoca della storia dell’essere in cui l’essere si dà sottraendosi come tutto, benché questa dimenticanza sia propria della tecnica. Alle pagine 71-72, Heidegger dice che, all’interno del destino dell’essere, l’Europa si trova indietro: «Il pericolo verso cui l’Europa è sospinta in modo sempre più chiaro consiste presumibilmente nel fatto che innanzitutto il suo pensiero, che un tempo era la sua grandezza, resti indietro rispetto al corso essenziale del destino mondiale che comincia. Nessuna metafisica, sia essa idealistica, materialistica o cristiana, può per la sua essenza, e tanto meno solo con gli sforzi che mette in atto nel tentativo di svilupparsi, ri-prendere ancora il destino; ciò significa che non può, col suo pensiero, raggiungere e raccogliere ciò che, in un senso pieno dell’essere, ora è». La tecnica è, dunque, un modo della disvelatezza e un destino, tanto che l’Europa si trova minacciata perché «nessuna metafisica può ri-prendere ancora il destino». Il fatto che oggi sia l’America a portare il destino dell’essere (paragone con Tocqueville), non significa che esso non abbia avuto origine in Europa ed in particolare in Grecia. L’Europa è la polis dell’essere, la provenienza del pensare che ha un legame strettissimo con i Greci e che all’origine contiene la possibilità stessa di dimenticare le sue radici. Per Heidegger, tuttavia, il ritorno ai Greci sarebbe solo nostalgia romantica, ma non dobbiamo nemmeno accettare in toto la tecnica dimenticando che è un modo della disvelatezza. Per Heidegger, quindi, c’è questo doppio movimento di dire sì e no. SI’: la tecnica, che funziona sul carattere dell’operatività, è un destino, perché non si può fare a meno di dimenticare che è un modo della disvelatezza. NO: non possiamo permettere che vada perduta tutta la tradizione di origine e provenienza. L’ultimo Heidegger, in effetti, dice questo: non si tratta di ritornare a Parmenide, che sarebbe nostalgia romantica, ma di volgersi verso Parmenide, cioè di sentire l’eco di Parmenide. L’eco non è né voce reale né mera illusione, ma è l’una e l’altra, doppio movimento di ambiguità. Parmenide ha detto: ??????????????, l’essere è infatti, e questo pensiero delle origini, secondo Heidegger, ci offre un’importante traccia per il futuro: per questo dobbiamo volgerci all’indietro, ma a partire dall’ora. Tuttavia, è bene tener presente che Heidegger compie il passo indietro sempre nell’orizzonte della tecnica per ricordare, rammemorare, Andenken, il luogo, la collocazione di quello che siamo. Per Heidegger, quindi, il vero futuro è quel passo indietro che custodisce ed è per questo che egli considera l’uomo il pastore dell’essere. E’ evidente che sia Heidegger che Marx sono rivolti al futuro, ma in modo diverso, in quanto Marx vuole forzare il futuro con la prassi, ma comunque non esce dall’orizzonte della metafisica perché la rivoluzione è, come la reazione, sempre nell’orizzonte della metafisica. Quindi, se a Marx la rivolta del proletariato appare la più grande trasformazione che condurrà l’uomo dalla preistoria alla storia, per Heidegger questa di Marx è solo una determinata interpretazione del mondo come metafisica, sulla base del concetto dell’ente come produzione. Secondo Heidegger non portano oltre né la musica wagneriana, né il marxismo, né il liberismo, né il cristianesimo: con essi, infatti, si resta comunque dentro la metafisica. Qui Heidegger ripercorre un sentiero già tracciato da Nietzsche, il quale dice che, dopo la morte di Dio, ci saranno millenni in cui staremo nel nichilismo. Sia Heidegger che Nietzsche hanno avuto a che fare con il nichilismo, al contrario di Marx che non ammetterebbe il nichilismo e la teoria della creazione dal nulla. Tuttavia neanche Nietzsche vuole essere nichilista perché la Volontà di Potenza è un superamento attivo del nichilismo. Per Heidegger, invece, sia Marx che Nietzsche sono pensatori del nichilismo, ma già Nietzsche è più ambiguo. Il problema di Heidegger non è l’uomo, ma l’umanismo, l’essere che nella fase culminante si dà come nichilismo. E’ però bene sottolineare che, al contrario di come vorrebbero Massimo Cacciari e la sinistra italiana, il nichilismo non sta in Heidegger come in Marx sta il capitalismo. La dimensione politica del superamento del capitalismo e del liberismo, infatti, non si può paragonare al superamento della metafisica poiché le epoche della metafisica non hanno niente a che fare con la dimensione politica. In questi autori c’è uno scivolamento inconscio tra completamento della metafisica e fine del capitalismo, ma sono due orizzonti diversi, altrimenti si avrebbe un semplice capovolgimento idealistico della posizione di Marx. A questo punto, per Heidegger pensare non è fare il passo avanti, ma fare il passo indietro, ascoltare l’eco: qui per Heidegger il pensare è la più alta forma di ?????? (vedi l’Etica Nicomachea di Aristotele, nella quale il ??????? è ??????). Quella di Heidegger rappresenta una possibile risposta all’XI tesi su Feuerbach con cui Marx si distacca dalla filosofia tedesca e pone le basi della sua concezione materialistica della storia. Per Heidegger, il trasformare è un modo dell’interpretare e l’interpretazione è un modo della trasformazione. Heidegger parla di un trasformare che non è trasformare, di una vicinanza che non è vera prossimità. Il ritrarsi di Heidegger al di fuori dell’ambito pubblico non è un preferirgli l’ambito privato, perché anche quest’ultimo appartiene alla sfera del ‘si’, dell’esistenza inautentica, dell’ontico. Dunque, il ritrarsi è al di là dell’opposizione di privato e pubblico. Non si tratta di proporre un sistema politico, né un ordinamento economico, né religioso: il post-fordismo ha messo da parte la politica, l’economia ha perso ogni carattere di direzione e pianificazione che Heidegger pensava fosse già tecnica. Dio è il sacro che si può pensare solo a partire dalla dimensione dell’apertura. Il Dio a venire lo si può cercare solo a partire dal pensiero dell’essere, che è ciò che ci è più vicino, ma anche più lontano. Il colpo più grande a Dio non è giudicarlo inconoscibile, ma ritenerlo sommo valore. Cominciate a liberare la teologia dall’ipoteca della filosofia: Dio, la politica, non sono pensabili in se stessi, ma sempre in rapporto all’essere. Dopo Heidegger, la filosofia si è messa a pensare di nuovo la soggettività. Tutto questo ha sortito una relativizzazione delle figure classiche della metafisica. L’altra alternativa resta la prassi e quindi i listini di borsa, l’economia, i saperi concreti (vedi l’XI tesi su Feuerbach di Marx). Per Heidegger stare dentro la tecnica significa accettare l’economia e i saperi concreti, ma relativizzandoli. Heidegger, come Marx, accetta che l’operatività della scienza si risolva su questo pensiero. In Gelassenheit, abbandono, c’è un duplice movimento di sì e no. Per Heidegger, dire sì e no è un uscire dal nichilismo, che però è un oltrepassare, in una dimensione a-dialettica di polarità che non sono opposte, ma si coappartengono (Eraclito). Il problema del sì è che la tecnica è oltre l’Europa, l’Europa stessa è minacciata dal pericolo, ha perso il pensiero delle sue origini greche ossia di essere un modo della disvelatezza. Il pazzo che annuncia la morte di Dio, nella Gaia Scienza, è fuori dal comune, perché è al di là dell’uomo di prima, eppure non è ‘irrazionale’. I fannulloni pubblici che deridono il pazzo non sono non credenti, ma essi stessi hanno distrutto la possibilità di credere, non sono più in grado di cercare perché non pensano più: con la metafisica del valore il pensiero si è esaurito. L’autoaccecamento presente di fronte al nichilismo autentico cerca così di stornare l’angoscia del proprio pensiero. L’uomo pazzo, invece, è colui che cerca Dio invocandolo ad alta voce. Tuttavia, il grido continuerà a non essere udito fino a quando non si comincerà a pensare, ma per Heidegger la ragione è nemica del pensare perché, se si pone la ragione come centro, si arriva al mercato e al nichilismo: é evidente l’opposizione ad Hegel. Siamo all’opposto del quadro di Goya “Il sonno della ragione genera i mostri”. Bisogna però sottolineare che non si tratta di irrazionalismo perché riconoscere i limiti della ragione significa salvarla. Tutto quello che allontana Heidegger da Hegel lo avvicina a Kant, solo che Kant , che è pur sempre figlio dell’Illuminismo, sostiene che è la ragione che deve giudicare se stessa. L’uomo non è animale razionale, ma è nel pensiero che l’uomo ha familiarità con l’essere (Parmenide). Protocollo seminariale a cura di Ciro Di Giambattista e Cristian Fuschetto “Il contrassegno metafisico del compimento dell'età moderna è storicamente l'ottenimento essenziale della potenza da parte del comunismo a costituzione dell'essere dell'epoca della compiuta mancanza di senso” [Questo passo è tratto dal volume 69 dell'edizione completa con il titolo: Koinòn. Aus der geshichte des Seyns, 1939-40, ovvero Abbozzo per "koinòn" per la storia dell'essere; su “Micromega”, 4/99, esso viene presentato con il titolo: Il comunismo e il destino dell'essere]. Heidegger riconosce l'epoca dell'uomo moderno come l'epoca della mancanza di senso, lì dove senso è inteso come "l'ambito progettuale della proiezione dell'essere sulla verità". La verità nella visione heideggeriana è Alètheia ovvero velamento-disvelamento così come era intesa dalla grecità al suo inizio. Il velarsi della verità si presenta come Rifiuto. La comprensione dell'essere dell'ente che ha cercato di attuare la metafisica occidentale non può giungere alla verità come Alètheia perché la metafisica risolve il problema della verità solo nel senso della verità dell'ente: "La metafisica è la storia di questa verità", cioè della verità solo nella forma derivata della conformità della conoscenza all'ente. Heidegger nella sua originalissima visione della storia come storia dell'essere vede nel "Comunismo" l'era della "Macchinazione" per eccellenza, cioè della presa di possesso dell'essere ridotto a ente da parte dell'uomo inteso come soggetto e non come Esser-ci. In questa era, dell'essere non è più nulla e l'uomo si caratterizza come il padrone dell'ente. L'uomo prende il posto di Dio nel produrre la realtà e con questo riduce l'essere, il Ni-Ente a non problema. Il comunismo svolge il ruolo decisivo in questa prospettiva e nella sua visione obbedisce il potere in quanto tale, che si traduce nel "potere dei pochi"; i pochi non esercitano il potere, portato alla sua massima essenza, per una questione di puro godimento personale, ma perché determinati dal potere stesso e dalla storia dell'essere. Il comunismo ha però come merito quello di avere smascherato la Politica e la sua dipendenza dal Potere. In politica non ci sono differenze, sostiene Heidegger, perché tutte le forme politiche dipendono dal potere che è determinato dal precorso della storia dell'essere, che è nello stesso tempo il suo oblio nell'ente. In tale ambito si installa il comunismo come manifestazione massima del Potere nella Macchinazione e dunque nell'impossessamento dell'ente. Heidegger scrive questo testo all'inizio della II Guerra Mondiale e vede in essa una liberazione, o meglio, vede nella devastazione delle macchinazioni, le une contro le altre, l'unica soluzione per giungere ad un nuovo inizio. E' proprio nella devastazione, nella distruzione di ciò che è stato, che Heidegger vede la possibilità di un nuovo inizio, l'avvento dell'ultimo dio. Protocollo seminariale a cura di Simone Pedrelli Carpi Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana Nell’analizzare l’opera arendtiana Vita activa, cercheremo di confrontare il pensiero della filosofa tedesca con quello del grande storico ed economista Karl Marx e le sue opere: Manoscritti economici-filosofici del 1844 e Il Capitale. Opere, queste ultime, che accompagnano tutto il percorso che l’autrice affronta nel suo saggio del ’58. Un percorso che attraverso una ricca ed affascinante analisi storica, vede Hannah Arendt utilizzare un’antropologia filosofica per realizzare un saggio di teoria politica, o meglio, di filosofia politica. La volontà dell’autrice è cercare di dare una diversa definizione dell’identità umana, che trova nella rivalutazione dell’agire. “Ciò che facciamo” è infatti il tema principale di questo libro. Da una prima lettura si evince che la Arendt sia stata, per alcuni elementi, influenzata da Martin Heidegger e dalla sua opera Essere e tempo e dai rapporti con Jaspers e la fenomenologia. Inoltre per una visione più completa ed un’analisi più feconda del pensiero dell’allieva di Heidegger si consiglia la lettura dei seguenti testi: Le origini del totalitarismo e La vita della mente. Riporterò di seguito, per una corretta interpretazione e una sicura comprensione, alcune delle definizioni scritte da Hannah Arendt nel primo capitolo. Con il termine “vita activa” la Arendt designa tre fondamentali attività umane: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire; esse sono fondamentali perché ognuna corrisponde ad una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all’uomo. 1) L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest’ultima è la vita stessa. 2) L’operare è l’attività che corrisponde alla dimensione non-naturale dell’esistenza umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell’operare è un mondo “artificiale” di cose, nettamente distinto dal mondo naturale. Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato stesso dell’operare sta nel superare e trascendere tali limiti. La condizione umana dell’operare è l’essere-nel-mondo. 3) L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, non l’uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Si badi bene, però, che la condizione umana per la Arendt non coincide con la natura umana, e la somma delle attività e delle capacità dell’uomo che corrispondono alla condizione umana non costituisce nulla di simile alla natura umana. In quest’ultima premessa e nelle tre definizioni menzionate non sarà difficile stilare un quadro delle differenze teorico-concettuali che portano la filosofa tedesca a rilevare criticamente che Marx si trovò nella stretta di contraddizioni nello sviluppo del suo pensiero. Il primo punto che induce la studiosa a dissentire da Marx è che la condizione umana non significa ‘natura’, mentre per l’autore dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 l’autentico umanismo è naturalismo e viceversa. Inoltre per Marx la vita è autoproduzione invece per la Arendt la vita è stata data, è un dono. L’analisi, alla prima definizione fondamentale, mostra un'altra importante distinzione: mentre per Marx il lavoro assume un posto centrale nella costruzione del suo pensiero metafisico, a tal punto che il lavoro per lui è attività vitale e, successivamente, che la vita produttiva è la vita della specie ed è vita che genera vita, per la Arendt, invece, l’attività lavorativa, che in parte rispecchia quella concepita da Marx, è soltanto una componente, una condizione in cui si svolge l’esistenza dell’uomo. Nella seconda definizione fondamentale la Arendt mette in luce come l’operare sia un’attività non–naturale dell’uomo e come Marx non sembri, nei suoi scritti, interessato a crearne una netta distinzione dal lavorare. Tanto che per Marx l’uomo è animal laborans, per la Arendt è homo faber. È opportuno ricordare, a tal proposito, che, riferendosi ad una nota del testo, l’autrice rivela una esplicita contraddizione di Marx, il quale, insoddisfatto della definizione che dà di homo laborans negli scritti giovanili, tende successivamente, perché non distingue più abbastanza nettamente l’uomo dagli animali, ad affermare: “Alla fine di ogni processo lavorativo siamo di fronte ad un risultato che già all’inizio del processo era idealmente presente nell’immaginazione del lavoratore”. A questo punto la Arendt dichiara: “è chiaro che qui Marx non parla più del lavorare ma dell’operare, di cui per altro non si occupa; la migliore prova di questa nostra affermazione è che il fattore immaginazione, che sembra avere un’importanza così universale, non entra mai in gioco nella sua teoria del lavoro”. Inoltre per la Arendt l’uomo non è solo ente generico, come per Marx, perché l’uomo nell’operare non s’identifica nella specie, in quanto l’opera è “non-naturale”. Nella terza e ultima definizione fondamentale, che risulta essere la più completa per individuare il fulcro del pensiero della Arendt, la protagonista è l’azione che, per mezzo della condizione della pluralità, è attività politica per eccellenza, natalità. (Termine quest’ultimo che pone la Arendt in una posizione radicalmente opposta ad Heidegger, in cui l’essere è per la morte). Oltre a ciò l’azione, poiché fonda e conserva gli organismi politici, crea le condizioni per il ricordo, cioè la storia. Ed infine, con riferimento al libro della Genesi, l’autrice dichiara che la moltitudine degli esseri umani è il risultato di una moltiplicazione. Per poter sollecitare una comparazione con Marx, tenendo presente che per lui è la vita della specie che potenzia le vite individuali e che l’unità non contraddice la pluralità, si può compiere una lettura della seconda parte del Terzo Manoscritto del 1844, intitolata Proprietà privata e comunismo, dove vengono trattati i temi di comunità, società e comunismo, temi che pongono ancora una volta in contrasto il pensiero dei due studiosi. Il fattore discriminante che ritorna in gioco è quello di natura, che per Marx è alienazione, mentre per la Arendt il trascendimento dalla natura, inteso