scienza Domenica 13 Giugno 2010 19 | Convegno | Tre giorni di interventi a Torino sulla teoria dell’evoluzionismo, nelle più diverse discipline scientifiche Darwin in cammino Lorenzo Sieve Evoluzione genetica ed evoluzione culturale: mutano i geni così come nascono nuove idee. Ma ci si può spingere ancora più in là: le idee infatti possono arrivare a modificare il nostro Dna. Questa è la tesi di Luigi Luca CavalliSforza, genetista, che ha aperto il convegno «La teoria dell’evoluzione: modelli e sviluppi», tenutosi a Torino dal 27 al 29 maggio. L’incontro aveva come obiettivo approfondire gli ambiti in cui si è affermata la teoria dell’evoluzione, mostrando l’alternativa lamarckiana-darwiniana, per poi esaminare le contaminazione dell’evoluzionismo in altre discipline: a partire dall’ambito filosofico (da Spencer a Bergson) alle scienze dell’uomo (dal darwinismo sociale alle origini dell’antropologia culturale), fino al concetto di evoluzione configuratosi nella linguistica otto-novecentesca. Non sono state comunque dimenticate le cosiddette scienze “dure”, trattate negli ultimi due giorni dei lavori: genetica ed embriologia, ma anche le neonate neuroscienze, con il binomio mente-cervello, sono state messe a confronto con gli insegnamenti di Charles Darwin. Dottrine, quelle darwiniane, che sono state utilizzate da CavalliSforza per far luce sulla storia della nostra specie. I nostri antenati comparvero in Etiopia 100-150 mila anni fa e si diffusero poi nel resto del globo, cambiando regimi alimentari, che modificarono di conseguenza il loro aspetto e il nostro: «Fu l’introduzione del frumento e quindi una scelta culturale a modificare il colore della nostra pelle», ha spiegato il genetista. E se si combinano luce solare, l’ergosterolo (contenuto nei cereali) e la pelle chiara, il nostro corpo produce vitamina D, indispensabile per combattere il rachitismo. Adattamento, quindi, la parola d’ordine che regola l’evoluzione, teoria sviluppata anche da Jean-Baptiste Lamarck, naturalista francese del VXIII secolo. Intorno a Lamarck, però, come ha ricordato lo storico della scienza Pietro Corsi, si sono diffusi molti pregiudizi: «Si parla di idee comuni tra Darwin e Lamarck, ma non è affatto così». Gli errori riguardano soprattutto il concetto di “ereditarierà” delle caratteristiche acquisite: nozione che attirò al naturalista francese le critiche Piatelli Palmarini rza alli Sfo ca Cav Luigi Lu Come i progressi nelle idee possono arrivare a modificare il Dna degli uomini della comunità scientifica a lui posteriore. Lamarck credeva che le specie tramandassero i caratteri acquisiti durante la vita (il collo e le zampe più lunghi nel caso delle giraffe) ai discendenti, ma Corsi ha dichiarato che il naturalista francese non ne parlò mai, fatta eccezione per i giovani organismi che presentano caratteristiche di plasticità. Inoltre, sempre secondo Corsi, «era lo stesso Darwin il più convinto assertore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti e non Lamarck». Comunque sia è a Darwin che si deve l’idea di “selezione naturale”, cioè di sopravvivenza dell’esemplare più adatto all’ambiente. E per dimostrare la sua teoria, ha spiegato il filosofo della scienza Michael Ruse, Darwin mostrò gli esempi reali dove la lotta per la vita è vinta dal più adatto, spiegò i concetti con i dati: allo stesso modo di come venne accetta la teoria della luce a inizio ‘800, sulla base di indizi. La teoria darwiniana, ha continuato Ruse, ha potuto trovare il suo completamento nei lavori sull’ereditarietà di Mendel fino poi a sbocciare negli studi di biologia molecolare con la scoperta del Dna nel 1953. Le teorie di Darwin, oltre al successo ottenuto in ambito scientifico, hanno prodotto una vera e propria rivolu- Pietro Corsi zione culturale, che si è fatta sentire anche negli studi umanistici. «Dagli appunti e dall’autobiografia emerge che Darwin stesso compì studi filosofici», ha rivelato storico della scienza Paolo Casini: «Herschel, Whewell, Malthus e Spencer furono i suoi autori di riferimento». Fu Herbert Spencer a esercitare la maggiore influenza sull’autore de «L’origine delle specie», fino al punto di fargli preferire la sua terminologia. Infatti nel 1869 Darwin mutuò da lui la dicitura «sopravvivenza del più adatto», definendola «più accurata» rispetto alla propria espressione «selezione naturale». I riverberi delle teorie evoluzionistiche si fecero sentire anche in autori come Nietzsche, che definì l’evoluzione una teoria «vera, ma micidiale», e Bergson, che passò in rassegna le teorie dibattute nel suo tempo tra neodarwiniani e neolamarckiani sulle cause della discendenza e dell’ereditarietà per risolvere la contrapposizione tra leggi deterministiche ed eventi casuali. Arthur Lovejoy, storico delle idee, non esitò a chiamare i due filosofi «evoluzionisti romantici». La tre giorni, organizzata dall’Accademia delle Scienze di Torino, dall’Accademia nazionale dei Lincei e dalla Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, ha chiuso ufficialmente le celebrazioni per l’anno darwiniano appena trascorso, in cui ricorrevano il bicentenario della nascita di Darwin e il 150esimo di pubblicazione de «L’origine delle specie». Ma qualcuno lo contraddice L’ evoluzione è un fatto, l’appartenenza a un antenato comune altrettanto». Così Massimo Piattelli Palmarini, professore di Scienza cognitiva ad Harvard che ha firmato, insieme al filosofo Jerry Fodor, il volume «Gli errori di Darwin». Il testo a quattro mani, uscito in Italia ad aprile per Feltrinelli, ha immediatamente infiammato il dibattito scientifico tra i seguaci “ortodossi” dell’autore de «L’origine delle specie» e chi, come Piattelli Palmarini e Fodor, non si riconosce nel credo evoluzionista. O meglio: sull’evoluzione non ci piove; è la selezione naturale che fa storcere il naso ai due, fino al punto di farli affermare che: «Darwin si sbagliava: non è la selezione naturale il meccanismo che governa l’evolversi della specie. Nessuno oggi può dire di sapere con certezza come l’evoluzione operi, anche se non c’è dubbio che ciò avvenga». Ma cos’è che non va giù ai contestatori della selezione naturale? Fondamentalmente il fatto che la selezione contempli esclusivamente l’adattamento ambientale di un organismo come discrimine per la comparsa di nuove specie. Ovvero che le mutazioni genetiche casuali di un membro di un gruppo (es. una giraffa nata casualmente con il collo lungo in un branco di giraffe con il collo corto) incontrano il loro momento di verifica (se determinano, cioè, un miglioramento in termini di sopravvivenza) solo in relazione con l’ambiente che circonda l’esemplare. È proprio questa esclusività alle cause esogene (l’ambiente della giraffa e gli alti alberi da raggiungere) che non piace a Piattelli Palmarini e Fodor. Nella loro opera si fanno portavoce delle «strutture endogene di autorganizzazione» delle mutazioni genetiche, e di una teoria della complessità che, secondo loro, detronizza la selezione naturale come meccanismo di speciazione. Ma i due, in particolare Piattelli Palmarini nella prima parte del libro, parlano di mutazioni artificiali degli organismi che «non hanno alcuna evidente relazione adattativa con gli ambienti». È il caso degli embrioni del moscerino della frutta, studiati dal genetista Conrad Hal Waddington, che, se fatti crescere in mezzo all’etere, sviluppano un altro paio di ali oltre a quelle, per così dire, d’ordinanza. Alette che non servono assolutamente a nulla. Né per volare più veloce né a raggiungere del cibo. Diversamente dalla giraffa darwiniana. Jerry Fodor, nella seconda parte del libro, chiama in causa i maiali: «Perché non ci sono i maiali con le ali?», si chiede il filosofo. E la risposta è presto detta: «Non c’è posto dove metterle». Cosa vuol dire tutto ciò? Semplicemente che le mutazioni non vengono per così dire “scremate” dalla selezione naturale (in questo caso, i maiali alati svantaggiati e dunque fatti estinguere rispetto ai maiali senza ali), ma che «certe combinazioni dei mattoncini fenotipici non sono possibili». Pronta replica al libro di Piattelli Palmarini e Fodor è arrivata dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza. Su «La Repubblica» del 6 aprile ha infatti tuonato contro gli autori del libro con un «Colleghi scienziati non sparate su Darwin». Cavalli-Sforza ha ribattuto sostenendo, tra l’altro, come la selezione operi anche in ambito artistico, migliorando (in questo caso con casuali errori di stampa) la poetica di un testo: «In una poesia di Ronsard, per la morte di una bambina appena nata di nome Roselle, nella stampa è stata sostituita la parola Roselle come segue: “et, rose, elle a vecù come vivent les roses, l’espace d’un matin”». Che si parli di animali o poesie migliorate da decisioni “prese” dalla penna e non dall’artista, la questione è tutta aperta. (l.s.)