Note integrative per il corso di Matematica A

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Università degli Studi di Padova
Anno Accademico 2007-2008 (786o )
Note integrative per il corso di
Matematica A
(Corso di Laurea in Ingegneria, Area Informazione)
Antonio Ponno
E-mail address: [email protected]
Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata
Indice
Capitolo 1. NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
1. Naturali, interi e razionali
2. Rappresentazione decimale
3. Allineamenti decimali illimitati
4. Reali: razionali ed irrazionali
5. Densità e numerabilità dei razionali
5
5
6
7
9
12
Capitolo 2. NUMERI COMPLESSI
1. Lo spazio vettoriale R2
2. Una moltiplicazione commutativa in R2
3. Funzioni fondamentali
4. L’identità di Eulero
5. Formule di De Moivre e radici
13
13
14
14
15
17
Capitolo 3. EQUAZIONI ALGEBRICHE
1. Polinomi ed equazioni algebriche
2. L’equazione di terzo grado
19
19
22
Capitolo 4. LIMITI
1. Infinitesimi e infiniti
2. ”o piccolo” e ”O grande”
3. Ordini di infinitesimi e infiniti
25
25
26
28
Capitolo 5. LA CADUTA DEI GRAVI E LA DERIVATA
1. Legge oraria per la caduta dei gravi
2. Velocità istantanea
29
29
30
3
CAPITOLO 1
NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
In questo capitolo vengono introdotti e caratterizzati i numeri reali visti come allineamenti decimali propri.
Questo approccio non assiomatico ai reali presenta due vantaggi. Il primo è che esso permette di dare una
definizione semplice, chiara e autonoma di numero reale non razionale (o irrazionale). Il secondo vantaggio è
che ci si scontra immediatamente con il problema della convergenza di somme infinite (o serie) e si è quindi
forzati ad introdurre il concetto che sta a fondamento di tutta l’analisi: il limite.
1. Naturali, interi e razionali
Ricordiamo che con N e Z si indicano rispettivamente gli insiemi dei numeri naturali e dei numeri
interi:
N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, . . . } ,
Z = {0, ±1, ±2, ±3, ±4, ±5, . . . } .
Ricordiamo che su N sono definite le due operazioni di addizione e moltiplicazione, a + b e a · b
rispettivamente, per ogni a, b ∈ N (somma e prodotto indicano invece il risultato delle due operazioni).
Addizione e moltiplicazione sono commutative, associative e la moltiplicazione è distributiva rispetto
all’addizione. I numeri 0 e 1 giocano rispettivamente il ruolo di elemento neutro rispetto all’addizione
ed alla moltiplicazione: a + 0 = a e a · 1 = a per ogni a ∈ N. Osserviamo che nessun naturale diverso
da 1 ammette inverso (o reciproco), ovvero l’equazione x · a = 1 (nell’incognita x) ammette soluzione
in N solo per a = 1, nel qual caso x = 1. Inoltre nessun naturale diverso da 0 ammette opposto,
ovvero l’equazione x + a = 0 ammette soluzione in N solo per a = 0, nel qual caso x = 0.
L’equazione x + a = 0 ammette invece sempre la soluzione x = −a per ogni a ∈ Z (l’esistenza
dell’opposto di ogni numero dota gli interi di quella che si chiama struttura di gruppo additivo).
Tuttavia anche in Z l’equazione x · a = 1, in generale, non ammette soluzione: sono possibili soltanto
i due casi x = a = ±1. L’equazione x · a = 1 ammette soluzione per ogni a 6= 0 (e quindi ogni numero
diverso da zero ammette inverso) nell’insieme dei numeri razionali Q definito come segue
n
o
m
Q= r=
: m ∈ Z , n ∈ Z \ {0} .
n
Ricordiamo che le frazioni m/n e p/q rappresentano lo stesso numero razionale se m · q = n · p (ad
esempio 1/2 = 2/4 = 6/12 = . . . ). Osserviamo che l’equazione algebrica di primo grado (in x)
a·x+b=0
a coefficienti razionali a 6= 0 e b ammette sempre la soluzione razionale x = −b/a (se a = 0 l’equazione
degenera nella condizione b = 0). L’insieme dei numeri razionali Q dotato di struttura di gruppo
additivo e di moltiplicazione con inverso per ogni elemento non nullo è un campo.
Il passaggio da equazioni algebriche di primo grado ad equazioni algebriche di secondo grado
pone immediatamente il problema di estendere il campo dei razionali per definire numeri che non
siano necessariamente esprimibili come rapporti tra interi. Il classico problema è quello di risolvere
l’equazione x2 − 2 = 0 (ovvero: trovare la lunghezza del lato del quadrato di area 2). Si dimostra che
5
6
1. NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
la soluzione x non può essere razionale1. La soluzione dell’equazione può essere però approssimata
bene quanto si vuole con un razionale. Ad esempio, iterando l’algoritmo (di Newton)
x2n + 2
,
2xn
si ha: x1 = 3/2, x2 = 17/12, x3 = 577/408, e cosı́ via. Ad ogni iterata si ottiene un’approssimazione
via via migliore della soluzione vera dell’equazione x2 − 2 = 0. Si ha:
x0 = 2 ; xn+1 =
x20 − 2 = 2 ; x21 − 2 = 1/4 ; x22 − 2 = 1/144 ; x23 − 2 = 1/166464 ,
e cosı́ via. Si intuisce quindi che al crescere del numero n di passi dell’algoritmo, la differenza x2n − 2
diviene sempre piú piccola, cosa che chiarisce quello che si intende per soluzione approssimata. Se eseguiamo la divisione ed esprimiamo x3 nella usuale notazione decimale, troviamo x3 = 1.41421568627,
con x23 − 2 che vale circa 6 · 10−6 (sei milionesimi). Si può dimostrare (vedi capitolo su successioni per
ricorrenza) che iterando infinite volte l’algoritmo dato sopra si costruisce effettivamente la soluzione
positiva dell’equazione x2 − 2 = 0, cioè
√
2 = 1.41421356237 . . . ,
dove, notare bene, i puntini stanno ad indicare infinite cifre decimali omesse. Giusto per evitare
equivoci, sottolineiamo che anche i numeri razionali, quando venga effettuata la divisione, possono
presentare un numero infinito di cifre dopo il punto (o la virgola):
1
= 0.333333 . . . (infiniti 3) = 0.3 (3 periodico) .
3
A questo punto è necessario approfondire il significato di scritture di questo genere.
2. Rappresentazione decimale
Esprimiamo usualmente i numeri usando un alfabeto di dieci simboli, o cifre, i numeri da 0 a 9, e
una base, il numero 10, le potenze della quale esprimono multipli e sottomultipli dell’unità (si pensi
all’analogia con le misure di lunghezza effettuate con il sistema metrico-decimale). Ad esempio
313 =
=
0.437 =
=
300 + 10 + 3 = 3 · 102 + 1 · 101 + 3 · 100 =
tre centinaia + una decina + tre unità ;
0.4 + 0.03 + 0.007 = 4 · 10−1 + 3 · 10−2 + 7 · 10−3 =
quattro decimi + 3 centesimi + sette millesimi .
Formalizziamo la scrittura di un generico numero in base dieci come segue. Sia
(1)
A ≡ {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9}
l’insieme delle cifre (alfabeto).
Definizione 1.1. Si chiama allineamento decimale, o numero decimale, o rappresentazione
decimale di un numero, ogni scrittura del tipo
(2)
σαN αN −1 . . . α0 .α−1 α−2 . . . ,
dove αj ∈ A per ogni j ≤ N (notare il punto tra α0 e α−1 ), mentre σ = ±1 indica il segno (+ se il
numero è positivo, - se è negativo).
1Si suppone che x = p/q ∈ Q, con frazione ridotta ai minimi termini, ovvero con p e q primi tra loro, sia soluzione
di x2 − 2 = 0. Ne segue che p2 = 2q 2 , cioè che p2 è pari e di conseguenza p è pari (infatti il quadrato di un pari è pari
mentre quello di un dispari è dispari: (2k)2 = 4k 2 = 2(2k 2 ), (2k + 1)2 = 4k 2 + 4k + 1 = 2(2k 2 + 2k) + 1). Ora, essendo
p = 2s, si ha 4s2 = 2q 2 ovvero q 2 = 2s2 , cioè anche q è pari. In definitiva p e q hanno 2 come divisore comune, contro
l’ipotesi.
3. ALLINEAMENTI DECIMALI ILLIMITATI
7
La scrittura (2) (si guardino gli esempi fatti sopra) indica in forma contratta una somma:
αN αN −1 . . . α0 .α−1 α−2 · · · =
= αN 10N + · · · + α0 100 + α−1 10−1 + α−2 10−2 + · · · =
N
X
=
αj 10j .
(3)
j=−∞
Ovviamente, se esiste un M > 0 tale che αj = 0 per ogni j ≤ −M − 1, si indicano solo le cifre dopo
il punto fino alla M -esima. Ad esempio scriviamo 1/4 = 0.25 e non scriviamo (ma sarebbe corretto)
1/4 = 0.2500000 · · · = 0.250. In altre parole, tutte le cifre definitivamente (da una certa posizione in
poi) uguali a 0 vengono omesse.
Definizione 1.2. Un allineamento decimale D si dice limitato se le sue cifre sono definitivamente
(da un certo posto in poi, verso destra) uguali a 0, ovvero se esiste un naturale M > 0 tale che
D = σαN . . . α0 .α−1 α−2 . . . α−M 0 ;
in questo caso scriviamo D = σαN . . . α0 .α−1 . . . α−M .
3. Allineamenti decimali illimitati
A questo punto bisogna chiedersi quale significato si possa attribuire ad un qualsiasi allineamento
decimale non limitato, o illimitato, cioè ad un allineamento
che abbia infinite cifre non definitivamente
√
nulle. Abbiamo già dato due esempi sopra, ovvero 2 e 1/3, senza commentare questo fatto. Eppure,
sappiamo che in questo caso la somma (3) contiene infiniti addendi diversi da zero. È chiaro che
possiamo limitare la discussione al caso σ = +1 ed N = −1, cioè agli allineamenti della forma
0.α−1 α−2 . . . . Vogliamo quindi capire se l’allineamento illimitato
D = 0.α−1 α−2 · · · =
(4)
−1
X
j
αj 10 =
+∞
X
α−n
n=1
j=−∞
10n
rappresenta realmente un numero. Verrebbe spontaneo (ed è corretto) affermare che D è un qualche
numero compreso tra 0 e 1 (perché è della forma zero punto qualche cosa). Che sia D > 0 è ovvio:
ogni termine non nullo della somma lo è. Che sia D ≤ 1 non è affatto ovvio e bisogna dimostrarlo.
Proposizione 1.3.
D = 0.α−1 α−2 · · · ≤ 1 .
Dim. ♣ Cominciamo col definire un decimale limitato DN che abbia N cifre coincidenti con le
prime N dell’allineamento D e tutte le altre nulle, ovvero
(5)
DN = 0.α−1 α−2 . . . α−N =
N
X
α−n
n=1
10n
.
Dato che ogni cifra α−n è al piú pari a 9, l’n-esimo addendo α−n /10n della somma finita (5) è minore
o uguale a 9/10n , per ogni n = 1, . . . , N . Dunque
n
N
N X
X
9
1
.
(6)
DN ≤
=9
10n
10
n=1
n=1
Abbiamo cosı́ ottenuto quella che si chiama una stima dall’alto (o limite superiore) per DN che
richiede di calcolare una somma della forma
N
X
(7)
SN (x) =
xn = x + x2 + · · · + xN .
n=1
8
1. NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
Osserviamo che la stima (6) si scrive, usando la (7), DN ≤ 9SN (1/10). Per calcolare la somma SN (x),
notiamo che SN (1) = N , mentre per x 6= 1, moltiplicando e dividendo SN per 1 − x, si ha
1−x
SN (x) = (x + x2 + · · · + xN )
1−x
2
N
2
x + x · · · + x − x − · · · − xN − xN +1
=
=
1−x
x − xN +1
x
xN +1
=
=
−
.
1−x
1−x 1−x
Questo è il valore di SN (x) per ogni x 6= 1. Il caso che ci interessa è x = 1/10 e si ha
1
1
SN (1/10) = −
.
9 9 · 10N
Tornando alla stima (6) otteniamo allora
1
DN ≤ 9SN (1/10) = 1 − N
10
L’ultima espressione sul lato destro è un numero strettamente minore di uno per ogni N fissato
arbitrariamente grande. Dunque ogni troncamento DN arbitrariamente lungo del decimale illimitato
D è superiormente limitato da un numero minore di uno. Non possiamo tuttavia concludere che
D < 1. Infatti al crescere di N il limite superiore 1 − 1/10N si avvicina sempre di piú ad uno. Piú
precisamente, se ε è un margine di errore prestabilito e piccolo quanto vogliamo, allora
1
1
0<1− 1− N = N <ε
10
10
per N > log10 (1/ε), cioè: pur di prendere N abbastanza grande riusciamo a rendere la differenza tra
1 e 1 − 1/10N piccola quanto vogliamo. Diciamo allora che 1 − 1/10N tende a 1 quando N tende
a +∞. Ma N è il numero di cifre del troncamento DN , e quando N cresce illimitatamente DN
ricostruisce D. Ne segue che D ≤ 1. ♣
Proposizione 1.4.
0.999999 · · · = 0.9 = 1 .
Dim. ♣ Basta osservare che
1
0. 99
.
.
.
9
=
9S
(1/10)
=
1
−
,
N
| {z }
10N
N volte 9
e quindi la differenza
1
1 − 0. 99
. . . 9} = N
| {z
10
N volte 9
può essere resa arbitrariamente piccola pur di prendere N sufficientemente grande. ♣
È del tutto ovvio a questo punto che 1.9 = 2, 137.9 = 138 e cosı́ via. In generale si ha
Proposizione 1.5.
0.α−1 α−2 . . . α−M 9 = 0.α−1 α−2 . . . (α−M + 1) .
Dim. ♣ Ovviamente, senza perdita di generalità, α−M < 9. Si ha
0.α−1 α−2 . . . α−M 9 =
M
X
α−n
n=1
10n
+
+∞
X
9
.
n
10
n=M +1
4. REALI: RAZIONALI ED IRRAZIONALI
9
Consideriamo, in luogo della seconda somma sul lato destro, ovvero del decimale 0.0 . . . 09, un suo
troncamento (o somma parziale) a M + N cifre. Si ha 2:
0. 00
. . . 0}
| {z
(8)
9| .{z
. . 9}
=
MX
+1+N
n=M +1
M volte 0 N volte 9
9
=
10n
(1/10)M +1 − (1/10)M +1+N
=
1 − 1/10
1
1
=
− M +N .
M
10
10
= 9
Ma allora
0.α−1 α−2 . . . α−M
=
9| .{z
. . 9}
N volte 9
=
M
X
α−n
n=1
M
X
α−n
n=1
=
10n
M
−1
X
n=1
10n
+
MX
+1+N
n=M +1
+
9
=
10n
1
1
− M +N =
M
10
10
1
α−n α−M + 1
+
−
=
10n
10M
10M +N
= 0.α−1 α−2 . . . (α−M + 1) −
1
10M +N
.
Dunque la differenza
0.α−1 α−2 . . . (α−M + 1) − 0.α−1 α−2 . . . α−M
1
9| .{z
. . 9} = M +N
10
N volte 9
può essere resa arbitrariamente piccola pur di prendere N sufficientemente grande e, poiché quando
N cresce illimitatamente il troncamento (8) ricostruisce il decimale illimitato 0.α−1 . . . α−M 9, questo
completa la dimostrazione. ♣
Le proposizioni appena dimostrate suggeriscono di escludere dall’insieme degli allineamenti decimali considerati tutti quelli le cui cifre siano definitivamente uguali a 9, in modo da non avere
doppioni: 1 e 0.9 sono lo stesso numero, ci teniamo solo il primo.
Definizione 1.6. Si chiama allineamento decimale proprio un qualunque allineamento
σαN . . . α0 .α−1 α−2 . . .
le cui cifre non siano definitivamente uguali a 9.
4. Reali: razionali ed irrazionali
Ci eravamo posti il problema di ampliare il campo dei numeri razionali in modo da includere numeri
quali la radice quadrata di 2, e in generale numeri decimali illimitati non periodici. Sappiamo
che alcuni numeri razionali sono illimitati ma periodici, come 1/3 = 0.3. Il gruppo di cifre che si
ripetono periodicamente può ovviamente presentarsi a partire da un certo posto in poi. Ad esempio
2Come
sopra, per calcolare la somma xM +1 + · · · + xM +1+N , la si moltiplica e la si divide per 1 − x (x 6= 1). Al
numeratore si elidono tutti i termini a due a due tranne il primo, xM +1 , e l’ultimo, −xM +1+N ; al denominatore resta
1 − x.
10
1. NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
19/75 = 76/300 = 1/4 + 1/300 = 0.25 + 0.003 = 0.253. È utile per il seguito rivedere l’algoritmo
della divisione. Per quest’ultimo esempio
1 190
1
40
19
=
=
2+
=
75
10 75
10
75
1
1 400
1
1
25
=
2+
=
2+
5+
=
10
10 75
10
10
75
1
1
1
2
5
1 10
=
2+
5+
=
+ 2+ 3
=
10
10
3
10 10
10 3
= 0.25333 · · · = 0.253 .
Definizione 1.7. Un allineamento decimale D si dice definitivamente periodico se esiste un
numero finito di cifre che si ripetono a partire da un certo posto in poi, ovvero se esistono due
naturali M, P > 0 tali che
D = σαN . . . α0 .α−1 . . . α−M β−M −1 . . . β−M −P ,
αN , . . . , α−M , β−M −1 , . . . , β−M −P ∈ A (σ = ±1).
Definizione 1.8. Definiamo il campo R dei numeri reali come l’insieme degli allineamenti
decimali propri, ovvero
(
)
N
X
j
αj 10 | σ = ±1 , N ∈ Z , αj ∈ A , @M ∈ N : ∀j ≤ −M αj = 9 .
R≡ σ
j=−∞
L’ultimo passo da fare è quello di distinguere in R i numeri razionali da quelli non razionali, cioè
gli irrazionali. Vale il seguente
Teorema 1.9. Un numero D ∈ R è razionale (cioè esprimibile come rapporto tra interi) se e
soltanto se D è limitato o definitivamente periodico.
Dim. ♣ Ci restringiamo al caso di numeri positivi, poiché per i numeri negativi vale tutto quello
che diremo a meno del segno a fronte.
i) Supponiamo D razionale e dimostriamo che è necessariamente limitato o periodico. Siccome
D = n/d, con n, d ∈ N e d 6= 0, effettuiamo la divisione tra m ed n per portare D in forma decimale.
Al primo passo dell’algoritmo otteniamo
n
r1
= q1 +
d
d
dove 0 ≤ q1 ∈ N è il quoziente della divisione, mentre r1 /d è il resto, con r1 ∈ N e 0 ≤ r1 < d; si noti
il fatto che r1 è strettamente minore del denominatore della frazione di partenza3. Se r1 = 0 abbiamo
finito perché n/d = q1 è naturale e certamente limitato. Se invece r1 6= 0 proseguiamo eseguendo la
divisione tra r1 e d (essendo r1 /d < 1 questa divisione fornisce le cifre dopo il punto). Se s è il piú
piccolo naturale tale che 10s r1 > d, si ha
r1
1 10s · r1
1 r2 = s
= s q2 +
,
d
10
d
10
d
essendo anche qui 0 ≤ r2 < d. Se r2 = 0 ci fermiamo e concludiamo che D è limitato, altrimenti
andiamo avanti (eseguendo la divisione tra r2 e d). Essendo ad ogni passo j rj < d, sono possibili
solo due casi: o ad un certo passo k si ha rk = 0 ed allora D è limitato, oppure esiste un primo
3Il
fatto che r1 < d è la chiave di tutto, e deve essere chiaro. Se fosse r1 ≥ d, ad esempio r1 = d + k, con 0 < k < d,
si avrebbe r1 /d = 1 + k/d e quindi n/d = q1 + 1 + k/d. Ma questo equivale a quanto detto sopra, con q1 + 1 in luogo
di q1 .
4. REALI: RAZIONALI ED IRRAZIONALI
11
passo p in cui rp riassume uno dei valori assunti ad uno dei passi precedenti, ad esempio rp = rt , con
1 ≤ t < p. Se è cosı́ al passo p + 1 si ha rp+1 = rt+1 , al passo t + 2 si ha rp+2 = rt+2 e cosı́ via fino al
passo p + p − t = 2p − t, in cui di nuovo r2p−t = rt . Dunque i resti si ripetono nella stessa sequenza
ogni p − t passi, a partire dal t-esimo in poi. Di conseguenza si ripetono con la stessa periodicità le
cifre decimali in D. Dunque D in questo caso è periodico illimitato con un gruppo di P = p − t cifre
che si ripetono.
ii) Supponiamo D limitato oppure illimitato periodico, e dimostriamo che è necessariamente
razionale. Se D è limitato, allora è della forma
αN . . . α0 .α−1 . . . α−M =
N
X
αj 10j
j=−M
e quindi è razionale in quanto somma di un numero finito di razionali. Per trovare una frazione che
lo rappresenti basta moltiplicare e dividere D per 10M , spostando cosı́ tutte le cifre che decimali a
sinistra del punto:
10M
αN . . . α0 α−1 . . . α−M
D= M D=
10
10M
(notare l’assenza del punto tra α0 e α−1 ). Se D è periodico allora è della forma
D = αN . . . α0 .α−1 . . . α−M β−M −1 . . . β−M −P =
= αN . . . α0 .α−1 . . . α−M + 0. 0| .{z
. . 0} β−M −1 . . . β−M −P .
M volte 0
Ci basta dimostrare che l’ultimo numero scritto è razionale, perch’e αN . . . α0 .α−1 . . . α−M lo è in
quanto limitato, e la somma di due razionali è razionale. Si ha
0. 0| .{z
. . 0} β−M −1 . . . β−M −P =
M volte 0
= 0. 0| .{z
. . 0} β−M −1 . . . β−M −P β−M −1 . . . β−M −P · · · =
|
{z
}|
{z
}
M volte 0
P cifre
P cifre
β−M −1 β−M −2
β−M −P
1
1
=
+ M +2 + · · · + M +P
1 + P + 2P + . . . =
10M +1
10
10
10
10
X
+∞
β−M −1 β−M −2
β−M −P
1
=
+ M +2 + · · · + M +P
.
M
+1
10
10
10
10nP
n=0
L’ultima somma infinita scritta sopra dà un numero razionale, precisamente 10P /(10P − 1). Considerando infatti come al solito la somma dei primi N termini, abbiamo 4
n
N N
X
X
1
(1/10)N +1
1
1
=
=
−
,
10nP
10P
1 − 1/10P
1 − 1/10P
n=0
n=0
e quindi la differenza
N
X 1
10P
1
1
10P
−
=
=
10P − 1 n=0 10nP
10N +1 − 10N −P +1
10N +1 10P − 1
4Si
usa il solito trucco:
1 + x + · · · + xN = (1 + x + · · · + xN )
valide per x 6= 1, che è il caso che ci interessa.
1−x
1 − xN +1
=
1−x
1−x
12
1. NUMERI REALI: ALLINEAMENTI DECIMALI
può essere resa arbitrariamente piccola pur di prendere N abbastanza grande. In conclusione
10P
β−M −1 β−M −2
β−M −P
,
0. |0 .{z
. . 0} β−M −1 . . . β−M −P =
+
+
·
·
·
+
10M +1
10M +2
10M +P 10P − 1
M volte 0
come prodotto di due razionali, è razionale, il che conclude la dimostrazione del teorema. ♣
Osservazione 1.10. Conseguenza immediata di questo teorema è che i numeri irrazionali, cioè i
numeri reali che non sono esprimibili sotto forma di rapporto tra interi, sono gli allineamenti decimali
illimitati non periodici.
5. Densità e numerabilità dei razionali
Consideriamo l’intervallo reale I = [0, 1] ⊂ R, ovvero
I = {x ∈ R : 0 ≤ x ≤ 1} .
Proposizione 1.11. L’insieme Q ∩ I è numerabile, ovvero i razionali in I possono essere messi
in corrispondenza biunivoca con N.
In alte parole: i razionali in I si possono contare.
Dim. ♣ Dobbiamo considerare le frazioni p/q, con 0 ≤ p ≤ q, p e q naturali, q 6= 0. Fissato un
denominatore q ≥ 1, p può assumere i valori 1, . . . , q. Partendo da sinistra con q = 1 abbiamo allora:
1 1 2
1 2 3
1 2
1 3 4
,
, =1,
,
, =1,
, = ,
, = 1...
1 2 2
3 3 3
4 4
2 4 4
Evidentemente ci sono delle ripetizioni, ad esempio per p = q si ha p/q = 1, mentre per q pari e
p = q/2 si ha p/q = 1/2. Cancellando le ripetizioni di un numero che si è già presentato e procedendo
da sinistra verso destra otteniamo la sequenza
1 1 2 1 3 1 2 3 4
1,
,
,
,
,
,
,
,
, ...
2 3 3 4 4 5 5 5 5
che ordina i razionali in I (procedendo da sinistra verso destra) per denominatore q crescente e, a q
fissato, per numeratore crescente, saltando le ripetizioni di numeri già elencati. ♣
Proposizione 1.12. L’insieme Q ∩ I è denso in I, ovvero comunque preso un numero D ∈ I
esiste un razionale r ∈ Q ∩ I arbitrariamente vicino a D.
Dim. ♣ Se D è razionale ovviamente r = D e r − D = 0. Sia D irrazionale, ovvero decimale proprio, illimitato e non periodico. Allora per ogni ε > 0 piccolo quanto vogliamo esiste un troncamento
decimale DN di D alle prime N cifre tale che D − DN < ε. Infatti
+∞
X
α−n
1
D − DN = 0. 0| .{z
. . 0} α−N −1 α−N −2 · · · =
≤ N ,
n
10
10
n=N +1
N volte 0
che risulta minore di ε se N > log10 (1/ε). Quindi r = DN . ♣
Osservazione 1.13. Si può dimostrare che invece I non è numerabile, ovvero gli irrazionali non
sono numerabili. Inoltre, anche gli irrazionali risultano essere densi in I. Infine, nonostante siano
densi in I, i razionali sono pochi, anzi pochissimi: se estraiamo un numero a caso in I questo
è irrazionale con probabilità pari ad 1, ovvero razionale con probabilità pari a 0. In altre parole,
i razionali hanno misura nulla in I, mentre gli irrazionali hanno misura piena, cioè 1, pari alla
lunghezza di I.
Osservazione 1.14. Tutte i ragionamenti fatti sull’intervallo I = [0, 1] restano validi per qualsiasi
intervallo reale J = [a, b], e le conclusioni sono le stesse: Q ∩ J è numerabile, denso in J e di misura
nulla; C(Q) ∩ J è non numerabile, denso in J e di misura pari a b − a, la lunghezza di J.
CAPITOLO 2
NUMERI COMPLESSI
Si introducono tra gli elementi di R2 = R × R, che sono le coppie ordinate (x, y) di numeri reali, tre
operazioni: un’addizione tra coppie e una moltiplicazione di una coppia per un numero che dotano R2 di
struttura di spazio vettoriale, ed una moltiplicazione commutativa tra coppie. L’insieme cosı́ ottenuto, che
contiene propriamente R, è il campo C dei numeri complessi.
1. Lo spazio vettoriale R2
Definiamo in R2 sia una operazione di addizione che associa a due coppie ordinate qualsiasi una terza
coppia ordinata, sia una operazione di moltiplicazione di una coppia ordinata per un numero reale,
come segue.
Definizione 2.1. Presi comunque (x1 , y1 ), (x2 , y2 ), (x, y) ∈ R2 e λ ∈ R, si pone
i) (x1 , y1 ) + (x2 , y2 ) = (x1 + x2 , y1 + y2 )
ii) λ(x, y) = (λx, λy)
L’insieme R2 con queste due operazioni risulta chiuso per combinazioni lineari, cioè: comunque
presi (x1 , y1 ), (x2 , y2 ) ∈ R2 e c1 , c2 ∈ R si ha
c1 (x1 , y1 ) + c2 (x2 , y2 ) = (c1 x1 + c2 x2 , c1 y1 + c2 y2 ) ∈ R2 .
Un altro modo di dire è che R2 è cosı́ dotato di struttura di spazio vettoriale. Osserviamo che presa
comunque una coppia ordinata (x, y) vale, per la definizione 2.1,
(x, y) = x(1, 0) + y(0, 1) .
Risulta allora conveniente dare un nome alle due coppie ordinate fondamentali (1, 0) e (0, 1), precisamente:
(9)
1 = (1, 0) , i = (0, 1) .
Allora ogni coppia ordinata (x, y) si può scrivere in modo unico come combinazione lineare delle
coppie 1 e i:
(10)
(x, y) = x1 + yi .
Le operazioni definite in 2.1 si possono quindi riscrivere usando questa notazione, cioè
(x1 1 + yi) + (x2 1 + y2 i) = (x1 + x2 )1 + (y1 + y2 )i ,
λ(x1 + yi) = λx1 + λyi .
L’elemento neutro per l’addizione cosı́ definita è la coppia (0, 0):
(x, y) + (0, 0) = (x, y) ⇔ (x1 + yi) + (01 + 0i) = x1 + yi
per ogni (x, y) ∈ R2 .
13
14
2. NUMERI COMPLESSI
2. Una moltiplicazione commutativa in R2
Definiamo in R2 una moltiplicazione tra coppie ordinate, come segue.
Definizione 2.2. Prese comunque due coppie ordinate (x1 , y1 ), (x2 , y2 ) ∈ R2 si pone
(x1 , y1 )(x2 , y2 ) = (x1 x2 − y1 y2 , x1 y2 + x2 y1 ) .
Si verifica a vista che tale operazione di moltiplicazione tra elementi di R2 è commutativa. Le
due coppie fondamentali 1 = (1, 0) e i = (0, 1) soddisfano le relazioni seguenti
(11)
11 = 1 , 1i = i1 = i , ii = i2 = −1 ,
l’ultima delle quali gioca un ruolo fondamentale. Si deduce da questa tabella di moltiplicazione
tra le coppie fondamentali che la regola di prodotto espressa nella definizione 2.2 si può riottenere
esprimendo le coppie nella forma (10) e moltiplicando formalmente i binomi sfruttando le regole (11):
(x1 1 + y1 i)(x2 1 + y2 i) = (x1 x2 − y1 y2 )1 + (x1 y2 + x2 y1 )i .
La coppia 1 gioca il ruolo di elemento neutro per la moltiplicazione introdotta, ovvero
(1, 0)(x, y) = (x, y) ⇔ 1(x1 + yi) = (x1 + yi)
per ogni (x, y) ∈ R2 . Si verificano poi tutte le proprietà delle operazioni di addizione e moltiplicazione
tra numeri reali: associatività e commutatività di addizione e moltiplicazione e distributività della
moltiplicazione rispetto all’addizione.
L’insieme R2 su cui sono definite le operazioni 2.1 e2.2 è un campo numerico, dove per numero
si intende ora una coppia ordinata (x, y) = x1 + yi. Tale campo numerico è chiamato campo dei
numeri complessi e si indica con C.
Facciamo notare che se ci si restringe alle coppie della forma (x, 0) = x1, le operazioni introdotte
si riducono a quelle note in R:
x1 1 + x2 1 = (x1 + x2 )1 , (x1 1)(x2 1) = x1 x2 1 .
È in tal senso che R ⊂ C, ovvero
R = {(x, y) ∈ C : y = 0} .
Date le proprietà della coppia 1 viste sopra, si vede che la si può omettere dalla scrittura (10) delle
coppie e passare alla nota rappresentazione algebrica dei numeri complessi (coppie di R2 ):
(12)
C 3 z = x + iy .
Notare che scrivere iy o yi è assolutamente equivalente. Concludiamo questa sezione dando la formula
per il reciproco di un numero complesso z = x + iy:
1
−y
x
z −1 = = 2
+i 2
.
2
z
x +y
x + y2
È immediato verificare che moltiplicando per z = x + iy il numero appena scritto si ottiene 1.
3. Funzioni fondamentali
Sono di importanza fondamentale, in ambito complesso, le funzioni seguenti.
Definizione 2.3. La funzione C → C che ad ogni numero complesso z = x+iy associa il numero
complesso z = x − iy è detta operazione di complessa coniugazione.
4. L’IDENTITÀ DI EULERO
15
Definizione 2.4. Dato un numero complesso z = x+iy si dicono parte reale e parte immaginaria
di z le due funzioni C → R definite rispettivamente da
Re(z) = x ,
Im(z) = y .
Definizione 2.5. Dato un numero complesso z = x + iy si dice modulo di z la funzione C → R+
0
definita da
p
|z| = x2 + y 2 .
Le proprietà fondamentali di tali funzioni, tutte verificabili direttamente, sono le seguenti.
(1) L’operazione di complessa coniugazione è distributiva rispetto all’addizione ed alla moltiplicazione: z1 + z2 = z1 + z2 ; z1 z2 = z1 z2 .
(2) La complessa coniugazione è involutiva: z = z.
(3) 2Re(z)
=√
z − z.
p= z2 + z; 2iIm(z)
2
(4) |z| = Re (z) + Im (z) = zz.
(5) Re(z) ≤ |z|; Im(z) ≤ |z|.
(6) Il modulo √
di un numero reale x è il valore assoluto di (o modulo in senso reale) di x:
|x + i0| = x2
(7) |z1 + z2 | ≤ |z1 | + |z2 | (disuguaglianza triangolare).
(8) z −1 = 1/z = z/|z|2 .
Osservazione 2.6. Dati due numeri complessi z1 = x1 + iy1 e z2 = x2 + iy2 il modulo della loro
differenza
p
|z1 − z2 | = (x1 − x2 )2 + (y1 − y2 )2
è pari alla distanza euclidea dei due punti di coordinate (x1 , y1 ) e (x2 , y2 ) nel piano R2 (teorema di
Pitagora).
4. L’identità di Eulero
Un punto del piano R2 è individuato sia dalle sue due coordinate cartesiane (x, y) sia dalle sue due
coordinate polari (ρ, θ) legate alle prime dalla relazione
x = ρ cos θ
(13)
.
y = ρ sin θ
L’origine del piano, cioè il punto (0, 0) è individuato da tutte le coppie del tipo (0, θ). Per quanto
riguarda la scelta di θ facciamo osservare che ogni coppia del tipo (ρ, θ + 2kπ), k ∈ Z, individua lo
stesso punto nel piano R2 . In tale modo ogni numero complesso z = x + iy si può scrivere nella cosı́
detta forma trigonometrica
(14)
z = ρ(cos θ + i sin θ) .
p
Chiaramente si ha ρ =
x2 + y 2 e tan θ = y/x. L’angolo θ si chiama argomento del numero
complesso z. Da quanto detto segue immediatamente un lemma apparentemente banale ma essenziale
per capire l’estrazione di radice in ambito complesso.
Lemma 2.7. Due numeri complessi z1 = ρ1 (cos θ1 + i sin θ1 ) e z2 = ρ2 (cos θ2 + i sin θ2 ) sono
uguali se e solo se i due moduli sono uguali e i due argomenti differiscono per un multiplo intero di
2π, ovvero
z1 = z2 ⇔ ρ1 = ρ2 e ∃k ∈ Z : θ1 = θ2 + 2kπ .
16
2. NUMERI COMPLESSI
Adesso vogliamo capire come si moltiplicano tra loro numeri complessi espressi in forma trigonometrica. A tale scopo è sufficiente studiare le proprietà dei numeri di modulo unitario (ρ = 1), cioè
della funzione R → C
(15)
def
E(θ) = cos θ + i sin θ .
Si verifica facilmente che
(1) E(θ) = E(−θ) ;
(2) |E(θ)|2 = E(θ)E(−θ) = 1 ;
(3) E(θ1 )E(θ2 ) = E(θ1 + θ2 ) .
La terza proprietà elencata si dimostra cosı́:
E(θ1 )E(θ2 ) = (cos θ1 + i sin θ1 )(cos θ2 + i sin θ2 ) =
= (cos θ1 cos θ2 − sin θ1 sin θ2 ) + i(sin θ1 cos θ2 + cos θ1 sin θ2 ) =
= cos(θ1 + θ2 ) + i sin(θ1 + θ2 ) = E(θ1 + θ2 ) .
Tale proprietà suggerisce l’esistenza di un legame tra la funzione E definita in (15) e la funzione
esponenziale. Proviamo allora a porre
E(θ) = eαθ ,
con α ∈ C da determinare. Non definiamo a questo livello il significato della funzione esponenziale
di argomento complesso αθ, ma ci limitiamo a manipolarla nelle operazioni seguendo le stesse regole
che valgono per l’esponenziale reale. Si vede allora che, poiché eαθ1 eαθ2 = eα(θ1 +θ2 ) la funzione eαθ
soddisfa la proprietà (3) di E di cui sopra. Per quanto riguarda le proprietà (1) e (2), osserviamo
che
eαθ = eαθ = eαθ ,
dove nel penultimo passaggio si è portato il segno di complessa coniugazione sull’esponente. Questa
possibilità assolutamente non banale è riconducibile alla distributività della complessa coniugazione
rispetto all’addizione ed alla moltiplicazione, e la sua giustificazione rigorosa passa per la serie di
Taylor della funzione esponenziale 1. Si deduce allora che
eαθ = e−αθ ⇔ eαθ = e−αθ ⇔ e(α+α)θ = 1 .
L’ultimo esponenziale scritto ha argomento reale e vale uno solo se il suo esponente è nullo. Quindi
Re(α) = 0, ovvero α = iβ, con β ∈ R. Siamo dunque giunti ad identificare la funzione E(θ) con
l’esponenziale di un numero immaginario puro, ovvero
eiβθ = cos θ + i sin θ .
Osserviamo prima di tutto che l’ultima uguaglianza scritta contiene β solo nel membro sinistro. Un
semplice argomento basato sul calcolo differenziale mostra poi che l’unico valore possibile per β è
β = 1 2. Vale dunque la notevole identità
(16)
1La
eiθ = cos θ + i sin θ ,
funzione esponenziale ez è definita dalla somma infinita (serie di Taylor):
ez =
+∞ k
X
z
k=0
k!
,
per ogni z ∈ C. La distributività della complessa coniugazione rispetto ad addizione e moltiplicazione implica
immediatamente ez = ez .
2Se eiβθ = cos θ + i sin θ si ha
d eiβθ
iβeiθ =
= − sin θ + i cos θ = i(cos θ + i sin θ) = ieiθ ,
dθ
che implica β = 1.
5. FORMULE DI DE MOIVRE E RADICI
17
nota come identità di Eulero, che connette le funzioni trigonometriche alla funzione esponenziale. Si noti che a partire dall’identità di Eulero (16) è possibile esprimere il coseno e il seno come
combinazioni di esponenziali:
eiθ + e−iθ
iθ
cos θ = Re e =
,
2
eiθ − e−iθ
.
sin θ = Im eiθ =
2i
5. Formule di De Moivre e radici
Tramite l’identità di Eulero (16), la forma trigonometrica (14) di un numero complesso z = x + iy
diviene
(17)
z = ρ eiθ ,
dove, lo ricordiamo, ρ = |z| è la distanza del punto z dall’origine delle coordinate mentre θ è l’angolo
che il segmento che congiunge z all’origine forma con l’asse delle x, orientato in senso anti-orario.
Il prodotto di numeri complessi z1 = ρ1 eiθ1 e z2 = ρ2 eiθ2 è
z1 z2 = ρ1 eiθ1 ρ2 eiθ2 = ρ1 ρ2 ei(θ1 +θ2 ) ,
ovvero: il modulo del prodotto è il prodotto dei moduli mentre l’argomento del prodotto è la somma
degli argomenti. La formula del prodotto di due numeri si può generalizzare considerando il prodotto
di N numeri complessi zs = ρs eiθs , s = 1, . . . , N , e si ha
(18)
z1 z2 . . . zN = ρ1 ρ2 . . . ρN ei(θ1 +θ2 +···+θN ) .
Inoltre, adoperando le stesse regole formali delle potenze reali, si può scrivere immediatamente la
potenza di un numero complesso z = ρeiθ con esponente n qualsiasi (addirittura complesso):
(19)
z n = ρn ei(nθ) .
Il caso n ∈ Z è quello che ci interessa per la definizione di radice che daremo tra poco, e facciamo
notare che in questo caso la formula (19) è conseguenza ovvia della formula (18). Le formule (18)
e(19) sono note come formule di De Moivre. A questo punto diamo la seguente
Definizione 2.8. Dato un numero complesso z = ρeiθ e un naturale n ≥ 2 si definisce radice
n-esima di z ogni numero w = reiϕ tale che wn = z.
Dalla relazione wn = z riscritta in forma trigonometrica esponenziale, ovvero
rn ei(nϕ) = ρ eiθ ,
e dal lemma 2.7 segue immediatamente che le radici n-esime di z sono tutti e soli quei numeri w il
cui modulo è pari alla radice n-esima (in senso reale) di ρ e il cui argomento soddisfa la relazione
ϕ = θ/n + 2kπ/n per ogni k ∈ Z. Ci si convince poi facilmente che le radici n-esime distinte sono
esattamente n, corrispondenti ai valori di k = 0, 1, . . . , n − 1. Vale quindi la seguente
Proposizione
2.9. Dato un naturale n ≥ 2, l’insieme delle radici n-esime di z = ρeiθ , che si
√
n
indica con z, è dato da
√
θ 2πk
√
iϕk
n
n
z = wk = ρ e , ϕk = +
, k = 0, 1, . . . , n − 1 .
n
n
Le radici wk si trovano ai vertici di un poligono regolare di n lati inscritto nella circonferenza di
√
centro l’origine e raggio n ρ del piano R2 .
La dimostrazione della seconda affermazione è immediata: ϕk+1 − ϕk = 2π/n.
18
2. NUMERI COMPLESSI
Osservazione 2.10. Facciamo notare che nel caso delle radici quadrate, dato che n = 2 e k = 0, 1,
si ha ϕ0 = θ/2 e ϕ1 = θ/2 + π. Poiché eiπ = −1 si ha che le due radici quadrate di z = ρeiθ sono
date da
√
√
2
z = ± ρ eiθ/2 .
Concludiamo questa sezione osservando che per le equazioni algebriche di secondo grado complesse, ovvero per le equazioni della forma
(20)
az 2 + bz + c = 0 ,
nell’incognita z ∈ C con coefficienti a, b, c ∈ C, vale la stessa formula risolutiva nota in campo reale,
fatta eccezione per l’omissione del segno ± di fronte alla radice:
√
−b + b2 − 4ac
(21)
z=
.
2a
Dimostriamo questo fatto. Partendo dall’equazione (20), si moltiplica per 4a 6= 0, si porta 4ac a destra
dell’uguale, si completa il quadrato a sinistra e si compensa a destra per ristabilire l’uguaglianza:
4a2 z 2 + 4abz + b2 = −4ac + b2 .
Questa equazione è ovviamente equivalente all’equazione di partenza, però adesso a sinistra dell’uguale si ha il quadrato di un binomio:
(2az + b)2 = b2 − 4ac .
A questo punto si estrae la radice a destra, ma in senso complesso, operazione che fornisce di per sé
due numeri, e si ottiene:
√
√
−b + 2 b2 − 4ac
2 2
2az + b = b − 4ac ⇒ z =
,
2a
cioè la formula risolutiva che avevamo anticipato.
Osservazione 2.11. In campo reale si definisce
radice n-esima di un numero x ≥ 0 il numero non
√
+
n
n
negativo y tale che y = x. Quindi x 7→ x è una funzione da R+
In campo complesso al
0 in R0 . √
numero z si associano esattamente n radici n-esime, per cui la legge z 7→ n z NON definisce una
funzione di C in C.
CAPITOLO 3
EQUAZIONI ALGEBRICHE
In questo capitolo, dopo una premessa generale sui polinomi e le equazioni algebriche, si espone il procedimento per ricavare le cosı́ dette formule di Cardano che esprimono le soluzioni della generica equazione
algebrica di terzo grado. Si pone l’accento sul fatto che, in generale, le formule di Cardano richiedono di
saper estrarre la radice quadrata di numeri negativi, anche quando l’equazione di partenza ha tutte e tre le
radici reali (una radice reale c’e’ sempre).
1. Polinomi ed equazioni algebriche
Ricordiamo che un polinomio reale di grado n in una variabile x è una particolare funzione (reale di
variabile reale) Pn : x 7→ Pn (x) definita da
n
X
Pn (x) = an xn + an−1 xn−1 + · · · + a1 x + a0 =
aj x j ;
j=0
i numeri reali aj (j = 0, 1, . . . n) sono detti coefficienti del polinomio, e lo determinano univocamente
(due polinomi dello stesso grado sono uguali se e solo se hanno gli stessi coefficienti).
Ad ogni assegnato polinomio Pn (x) = an xn + an−1 xn−1 + · · · + a1 x + a0 resta associata l’equazione
algebrica, di grado n, Pn (x) = 0, ovvero
an xn + an−1 xn−1 + · · · + a1 x + a0 = 0 .
(22)
Le soluzioni reali di tale equazione, che si chiamano radici (o zeri) reali del polinomio Pn , sono quei
numeri ξ ∈ R tali che Pn (ξ) = 0 (cioè: sostituendo una delle ξ in luogo della x nel membro di sinistra
dell’equazione (22) si ottiene l’identità 0 = 0). Vale il seguente
P
Teorema 3.1 (Ruffini). Sia ξ una radice reale del polinomio di grado n, Pn (x) = nj=0 aj xj ;
Pn−1
bk xk , tale che
allora esiste ed è unico un polinomio di grado n − 1, Pn−1 (x) = k=0
Pn (x) = (x − ξ)Pn−1 (x) .
Dim. ♣ Vogliamo dimostrare che esistono e sono unici n numeri reali b0 , . . . , bn−1 tali che
n
X
(23)
j
aj x = (x − ξ)
j=0
sotto l’ipotesi che Pn (ξ) =
Pn
n
X
j=0
aj x
bk x k ,
k=0
aj ξ j = 0. Svolgendo il prodotto a destra in (23) si ha
j
=
j=0
=
n−1
X
bk x
k+1
−
n−1
X
k=0
k=0
n
X
n−1
X
bj−1 xj −
j=1
(24)
n−1
X
= −ξb0 +
ξbk xk =
ξbj xj =
j=0
n−1
X
(bj−1 − ξbj )xj + bn−1 xn .
j=1
19
20
3. EQUAZIONI ALGEBRICHE
Uguagliando i coefficienti corrispondenti ricaviamo il sistema di n − 1 equazioni

 a0 = −ξb0 ,
aj = bj−1 − ξbj , j = 1, . . . , n − 1 ,
(25)
 a =b
n
n−1 ,
da cui, noti i coefficienti a0 , . . . , an , vogliamo ricavare i coefficienti b0 , . . . , bn−1 . Cominciando dall’ultima equazione del sistema (25), andando a ritroso e utilizzandole tutte una dopo l’altra, tranne la
prima, otteniamo

bn−1 = an ,




 bn−2 = an−1 + bn−1 ξ ,
bn−3 = an−2 + bn−2 ξ ,
(26)

..



 .
b 0 = a1 + b 1 ξ .
Quest’ultimo sistema si risolve banalmente a cominciare dalla prima equazione, sostituendo bn−1 = an
nella seconda, ricavando bn−2 = an−1 + an ξ e andando avanti fino ad esprimere esplicitamente b0 in
funzione degli aj . Fatto questo, i coefficienti b0 , . . . , bn−1 restano univocamente determinati. La
dimostrazione non è tuttavia conclusa perché, lo ricordiamo, abbiamo tralasciato la prima delle
equazioni del sistema (25), cioè a0 = −b0 ξ (facciamo notare anche che fino ad ora non è stata mai
utilizzata l’ipotesi che ξ sia radice del polinomio Pn ). Per chiudere la dimostrazione dobbiamo quindi
far vedere che il coefficiente b0 determinato risolvendo il sistema (26) soddisfa l’equazione b0 ξ = −a0 .
Per mostrare ciò, moltiplichiamo la prima equazione del sistema (26) per ξ n , la seconda per ξ n−1 , la
terza per ξ n−3 e cosı́ via fino a moltiplicare l’ultima per ξ, ottenendo

bn−1 ξ n = an ξ n ,


n−1


= an−1 ξ n−1 + bn−1 ξ n ,
 bn−2 ξ
bn−3 ξ n−2 = an−2 ξ n−2 + bn−2 ξ n−1 ,
(27)

..



 .
b 0 ξ = a1 ξ + b 1 ξ 2 .
Sommando membro a membro le n equazioni del sistema otteniamo allora l’equazione
b0 ξ + b1 ξ 2 + · · · + bn−1 ξ n = (a1 ξ + · · · + an ξ n ) + (b1 ξ 2 + · · · + bn−1 ξ n )
ovvero, semplificando,
b0 ξ = a1 ξ + · · · + an ξ = Pn (ξ) − a0 .
Ora, per ipotesi ξ è radice di Pn , ovvero Pn (ξ) = 0, e quindi b0 ξ = −a0 . ♣
Osservazione 3.2. Facciamo notare che il sistema di equazioni (26), da risolvere ricorsivamente
a partire dalla prima, non è altro che la ben nota regola di Ruffini per effettuare la divisione tra il
polinomio Pn (x), di cui è nota una radice ξ, ed il suo binomio divisore (x − ξ).
Osservazione 3.3. Nel caso in cui si volesse dividere il polinomio Pn per un binomio del tipo
(x − η), con η che non è radice di Pn , una estensione del teorema precedente dice che esistono e
sono unici un polinomio di grado n − 1 ed un numero ρ tali che Pn (x) = (x − η)Pn−1 (x) + ρ. La
dimostrazione è immediata, basta sostituire a0 , ovunque compaia nella dimostrazione precedente, con
a0 − ρ e ξ con η. Si trova quindi ρ = a0 + b0 η.
Abbiamo visto che se ξ1 è radice di Pn , allora esiste (unico) Pn−1 tale che Pn (x) = (x−ξ1 )Pn−1 (x).
Se ora Pn−1 (x) ha una radice reale ξ2 , di nuovo per il teorema di Ruffini esiste un polinomio Pn−2
tale che Pn−1 (x) = (x − ξ2 )Pn−2 (x) e quindi
Pn (x) = (x − ξ1 )(x − ξ2 )Pn−2 (x) ,
1. POLINOMI ED EQUAZIONI ALGEBRICHE
21
cioè anche ξ2 (oltre a ξ1 ) è radice di Pn . Al contrario, se oltre a ξ1 il polinomio Pn ammette la radice
ξ2 e ξ2 6= ξ1 , allora, essendo Pn (x) = (x − ξ1 )Pn−1 (x) si ha
Pn (ξ2 ) = (ξ2 − ξ1 )Pn−1 (ξ2 ) = 0 ⇒ Pn−1 (ξ2 ) = 0 ,
ovvero ξ2 è radice di Pn−1 ; si può quindi scrivere Pn (x) = (x − ξ1 )(x − ξ2 )Pn−2 (x). Vale il seguente
teorema generale
Teorema 3.4. Se il polinomio Pn ammette m di radici reali ξ1 , . . . , ξm , con m ≤ n, allora esiste
ed è unico un polinomio Pn−m (di grado n − m) tale che
Pn (x) = (x − ξ1 ) · · · (x − ξm )Pn−m (x) .
La dimostrazione consiste sostanzialmente nel ragionamento fatto sopra, ma facciamo notare che
nell’enunciato del teorema non si fa l’ipotesi che le radici ξ1 , . . . , ξm siano a due a due diverse. Ad
esempio, una sola radice si può ripetere m volte o, come si dice, può avere molteplicità algebrica m.
In questo caso si ha ξ1 = · · · = ξm e Pn (x) = (x − ξ1 )m Pn−m (x). Notare che nel teorema 3.4 m ≤ n,
ovvero un polinomio di grado n ha al piú n radici reali, e questo segue dal fatto che se m = n
Pn (x) = an (x − ξ1 ) · · · (x − ξn ) ;
dunque se Pn ammettesse una ulteriore radice η diversa da ξ1 , . . . , ξn , si avrebbe
Pn (η) = an (η − ξ1 ) · · · (η − ξn ) = 0
che è impossibile per ipotesi.
Chiudiamo questa sezione enunciando due teoremi importantissimi: il teorema fondamentale
dell’algebra e il teorema di Abel sulla non risolvibilità delle equazioni algebriche generiche di grado
superiore al quinto.
Teorema 3.5 (Gauss). Un polinomio di grado n Pn (z) = cn z n + cn−1 z n−1 · · · + c0 a coefficienti
complessi cj (j = 0, . . . n) ammette esattamente n radici complesse z1 , . . . , zn ed è quindi sempre
completamente fattorizzabile:
Pn (z) = cn (z − z1 ) · · · (z − zn ) .
Corollario 3.6. Se i coefficienti del polinomio Pn sono tutti reali (cj ∈ R per ogni j = 0, . . . , n)
allora
Pn (w) = 0 ⇒ Pn (w) = 0 ,
cioè: se w ∈ C è radice anche w è radice.
La dimostrazione del corollario è immediata: la complessa coniugazione è distributiva rispetto
all’addizione ed alla moltiplicazione.
Dunque se si passa da R a C le equazioni algebriche di qualsiasi grado n ammettono esattamente
n soluzioni, e con questo intendiamo che le soluzioni esistono. Si pone allora il problema di riuscire
a calcolarle analiticamente, ad esprimerle cioè tramite formule.
Teorema 3.7 (Abel). Per n ≥ 5 non esistono formule risolutive che esprimano le radici del
generico polinomio Pn tramite combinazioni di funzioni razionali e di radici di funzioni razionali dei
coefficienti del polinomio stesso.
In conclusione: la generica equazione di grado n ≥ 5 non si può risolvere tramite formule esplicite.
Si possono e si sanno invece risolvere le equazioni di secondo, terzo e quarto grado.
22
3. EQUAZIONI ALGEBRICHE
2. L’equazione di terzo grado
In questa sezione ci limitiamo a considerare il caso di equazioni (o polinomi) a coefficienti reali.
Ricordiamo che per l’equazione di secondo grado
x2 + px + q = 0 ,
(28)
se p2 − 4q ≥ 0 si hanno due soluzioni reali date da
p
−p ± p2 − 4q
x=
,
2
mentre se p2 − 4q < 0 si hanno le due soluzioni complesse e coniugate tra loro
p
−p ± i 4q − p2
x=
.
2
Dunque, limitandosi ad equazioni di secondo grado, non sembra strettamente necessario introdurre
i numeri complessi: potremmo limitarci a dire che se il discriminante p2 − 4q è negativo l’equazione
(28) non ammette soluzioni. Come vedremo, passando alle equazioni di terzo grado, ci si scontra con
il fatto sorprendente di dover passare attraverso i numeri complessi per risolvere una equazione che
ha tre soluzioni reali su tre.
Passiamo a considerare la generica equazione di terzo grado (a coefficienti reali):
x3 + ax2 + bx + c = 0 .
Anche qui, come prima, ci siamo ricondotti senza perdita di generalità al caso di coefficiente conduttore (quello del termine di grado massimo) uguale a 1. Possiamo semplificare ulteriormente l’equazione
passando alla variabile y definita da
a
x=y− ,
3
con lo scopo di eliminare il termine quadratico. Sostituendo otteniamo
a 3
a 2
a
y−
+c=0
+a y−
+b y−
3
3
3
e sviluppando si ha
3
2a
a2
ab
3
y + b−
y+
−
+c =0 .
3
27
3
| {z }
|
{z
}
3p
2q
Vediamo quindi che ci si può sempre limitare, senza perdita di generalità, ad analizzare l’equazione
di terzo grado
(29)
y 3 + 3py + 2q = 0 .
Osservazione 3.8. Si può dimostrare che se q 2 + p3 > 0 l’equazione (29) ha una sola soluzione
reale (e quindi altre due soluzioni complesse e coniugate tra loro); se invece q 2 + p3 < 0 si hanno tre
soluzioni reali e distinte tra loro; infine per q 2 + p3 = 0 si hanno tre radici reali di cui due coincidenti.
Per risolvere l’equazione (29) l’idea fondamentale è quella di introdurre due incognite, ponendo
y =u+v .
Sostituendo in (29) e sviluppando si ottiene
(30)
u3 + v 3 + 3(uv + p)(u + v) + 2q = 0 .
Ora, il problema di partenza contiene una sola incognita, y, mentre l’ultima equazione scritta ne
contiene due, u e v. Fissata y, ci sono infinite coppie di valori di u e v tali che u + v = y. Possiamo
2. L’EQUAZIONE DI TERZO GRADO
23
quindi di introdurre un ulteriore legame tra tra le due incognite u e v. Precisamente, richiediamo
che
uv = −p ,
(31)
con l’effetto di eliminare dalla (30) sia i termini misti di terzo grado (cioè i monomi u2 v e uv 2 ), sia
quelli di primo grado. L’equazione (30), con la condizione (31), diventa
u3 + v 3 + 2q = 0 .
(32)
Elevando al cubo la (31) otteniamo u3 v 3 = −p3 , che vale assieme alla (32); dobbiamo cioè risolvere
il sistema
3
u + v 3 = −2q
(33)
.
u3 v 3 = −p3
Si capisce facilmente che u3 e v 3 sono le due soluzioni dell’equazione di secondo grado
z 2 + 2q − p3 = 0 ,
(34)
ovvero
p
p
q 2 + p3 , v 3 = −q + q 2 + p3 .
p
Osserviamo subito che se q 2 + p3 > 0 la radice q 2 + p3 esiste in campo reale e, estraendo le radici
cubiche in (35), troviamo l’unica soluzione reale dell’equazione (29), ovvero
q
q
p
p
3
3
2
3
y = u + v = −q − q + p + −q + q 2 + p3 .
(35)
u3 = −q −
Invece, già nel caso q 2 + p3 = 0, sempre volendo dare significato alle radici in campo reale, le (35)
forniscono una sola soluzione (ce ne sono due distinte) dell’equazione di terzo grado (29), precisamente
p
y = u + v = 2 3 (−q) .
Infine, nel caso q 2 + p3 < 0, caso in cui sappiamo che le tre radici reali dell’equazione (29) sono
reali e distinte, le formule (35) perdono di senso a meno che non si dia significato alle radici di
numeri negativi. Questa situazione è del tutto nuova ed in un certo senso sorprendente. Mentre
nell’equazione di secondo grado quando il radicando che compare nella formula risolutiva è negativo
si conclude (giustamente) che l’equazione non ammette soluzioni reali, nel caso dell’equazione di
terzo grado una conclusione simile sarebbe del tutto sbagliata.
Diamo ora la soluzione generale dell’equazione (29).
Teorema 3.9 (Dal Ferro, Tartaglia, Cardano). Le tre soluzioni dell’equazione di terzo grado (29)
sono date da
(36)
yn = ω n u0 + ω −n v0 , n = 0, 1, 2 ,
dove ω è una qualsiasi delle tre radici cubiche dell’unità (ad esempio ω = e2πi/3 ), mentre per u0 e v0
si hanno i tre casi seguenti.
i) q 2 + p3 > 0, con
q
q
p
p
3
3
2
3
u0 = −q − q + p , v0 = −q + q 2 + p3 ,
in cui sia la radice quadrata che la radice cubica sono intese in senso reale. Una radice è
reale e due complesse e coniugate tra loro.
ii) q 2 + p3 = 0, con
√
u0 = v0 = 3 −q
in senso reale. Si hanno tre radici reali, due coincidenti.
24
3. EQUAZIONI ALGEBRICHE
iii) q 2 + p3 < 0, con
q
p
3
u0 = v0 = −q − i −q 2 − p3 ,
p
in cui la radice −q 2 − p3 è intesa in senso reale, mentre per la radice cubica, ovviamente
complessa in questo caso, si può scegliere una qualsiasi delle tre determinazioni. In questo
caso si hanno tre radici reali e distinte.
Dim. ♣ Si procede per semplice verifica diretta, inserendo l’espressione (36) nell’equazione (29).
Si nota preliminarmente che u30 + v03 = −2q, che u0 v0 = −p e che ω 3 = 1. Si ha
3
yn3 + 3pyn + 2q = ω n u0 + ω −n v0 + 3p ω n u0 + ω −n v0 + 2q =
= u30 ω 3n + v03 ω −3n + 3(u0 v0 + p) ω n u0 + ω −n v0 + 2q =
(37)
= u30 + v03 + 2q = 0
Nel caso i) sopra descritto u0 e v0 sono numeri reali e distinti; in tale caso y0 = u0 + v0 ∈ R
mentre y1 , y2 ∈
/ R. Inoltre, dato che ω 2 = ω −1 = ω, si ha y2 = ω 2 u0 + ωv0 = ωu0 + ωv0 = y1 .
Nel caso ii), u0 = v0 ∈ R, si ha y0 = 2u0 , y2 = u0 (ω 2 + ω) = u0 (ω + ω) = y1 .
Nel caso iii), u0 = v0 , si ha yn = ω −n v0 + ω n u0 = yn e quindi le tre radici (n = 0, 1, 2) sono reali.
Ci si convince poi facilmente che sono distinte. ♣
Non riportiamo la trattazione di Ferrari dell’equazione di quarto grado. Per essa (e per una
introduzione storico-critica alla matematica in generale) rimandiamo al saggio: Le matematiche, di
A.D. Aleksandrov, A.N. Kolmogorov e M.A. Lavrent’ev, Bollati Boringhieri, 1974.
CAPITOLO 4
LIMITI
Vengono introdotti alcuni concetti di base utili nel trattare i limiti, quali ”o piccolo” e ”O grande”. Tali
concetti risultano utili soprattutto nel trattare quantità infinitesime ed infinite, permettendo di definire un
ordinamento tra di esse.
1. Infinitesimi e infiniti
Definizione 4.1. f : D → R si dice infinitesima (o un infinitesimo) in x0 , punto di accumulazione per D, se
lim f (x) = 0 .
x→x0
√
Quindi ad esempio sin x, sinh x e tan x sono inifinitesime in x0 = 0 mentre 1 − x2 è infinitesima
in x0 = ±1. Per gli infinitesimi valgono le seguenti proprietà di dimostrazione immediata.
(1) Se f e g sono infinitesime in x0 la loro somma f + g è infinitesima in x0 .
(2) Se f e g sono infinitesime in x0 il loro prodotto f g è infinitesimo in x0 .
(3) Se f è infinitesima in x0 e g è limitata in un intorno di x0 il prodotto f g è infinitesimo in
x0 .
Ad esempio, se f (x) = x e g(x) = sin(1/x), f (x) è infinitesima in x0 = 0, mentre g(x) è certamente
limitata in qualsiasi intorno di x0 = 0, anche se non esiste limx→0 sin(1/x); pertanto f (x)g(x) =
x sin(1/x) è infinitesima in x0 = 0.
Definizione 4.2. f : D → R si dice infinita (o un infinito) in x0 , punto di accumulazione per
D, se
lim f (x) = ∞ .
x→x0
√
√
Ad esempio 1/x è infinita in x0 = 0, 1/ 1 − x2 è infinita in x0 = ±1∓ , mentre x4 + x2 + 2 è
infinita in x0 = ±∞. Valgono le seguenti proprietà.
(1) Se f e g sono infinite in x0 il loro prodotto f g è infinito in x0 .
(2) Se f è infinita in x0 e g è limitata in un intorno di x0 la somma f + g è infinito in x0 .
(3) Se f è infinita in x0 e g è limitata in un intorno di x0 e staccata da zero1 il prodotto f g è
infinito in x0 .
Ad esempio, il limite per x → +∞ di x2 sin x non esiste (e quindi non è infinito), anche se x2 è
infinita in x0 = +∞ e sin x è limitata in R, e il motivo è che sin x oscilla intorno a zero. È invece
infinito il limite di x2 (2 + sin x) per x → +∞.
1g(x)
è limitata e staccata da zero in un intorno I(x0 ) di x0 se esistono due costanti positive c1 e c2 tali che
c1 < |g(x)| < c2 per ogni x ∈ I(x0 ).
25
26
4. LIMITI
2. ”o piccolo” e ”O grande”
Definizione 4.3. f : D → R si dice un ”o piccolo” di g : D → R in x0 , punto di accumulazione
per D, se
f (x)
lim
=0,
x→x0 g(x)
e si scrive f = o(g) in x0 .
Ovviamente se f = o(g) (in x0 ) allora g 6= o(f ). Ad esempio x2 = o(sin x) in x0 = 0, ma
chiaramente sin x 6= o(x2 ) in 0, dato che limx→0 sin x/x2 = ∞.
Definizione 4.4. f : D → R si dice un ”O grande” di g : D → R in x0 , punto di accumulazione
per D, se
f (x)
lim
= ` 6= 0, ∞
x→x0 g(x)
e si scrive f = O(g) in x0 .
In questo caso invece vale f = O(g) ⇔ g = O(f ). Ad esempio sin x = O(x) e 1 − cos x = O(x2 )
in x0 = 0.
Nel caso in cui il limite ` di cui sopra vale 1 si ha la seguente
Definizione 4.5. f : D → R si dice ”asintotica” a g : D → R in x0 , punto di accumulazione
per D, se
f (x)
lim
=1
x→x0 g(x)
e si scrive f ∼ g in x0 .
Quindi sin x ∼ x, 1 − cos x ∼ x2 /2 e tan x − sin x ∼ x3 /2 in x0 = 0. La relazione di asintoticità
soddisfa le tre proprietà
(1) f ∼ f ,
(2) f ∼ g ⇔ g ∼ f ,
(3) f ∼ g e g ∼ h ⇒ f ∼ h,
cioè ∼ è una relazione di equivalenza. Vale la seguente proposizione di fondamentale importanza.
Proposizione 4.6. Le seguenti tre affermazioni sono tra loro equivalenti:
(1) f = O(g) in x0 ;
(2) esiste un numero reale ` 6= 0, ∞ tale che f ∼ `g in x0 ;
(3) esistono un numero reale ` 6= 0, ∞ e una funzione σ(x) infinitesima in x0 tali che
f (x) = `g(x) + g(x)σ(x)
in un qualche intorno di x0
Dim. ♣ L’equivalenza (1) ⇔ (2) è ovvia. Dimostriamo (2) ⇔ (3). Supponiamo f ∼ `g in x0 , con
` 6= 0, ∞, ovvero
f (x)
lim
−`=0 .
x→x0 g(x)
Ma allora la funzione
f (x)
σ(x) =
−`
g(x)
è infinitesima in x0 e quindi f (x) = `g(x) + g(x)σ(x).
2. ”O PICCOLO” E ”O GRANDE”
27
D’altra parte, se in qualche intorno di x0 vale f (x) = `g(x) + g(x)σ(x), con ` 6= 0, ∞ e σ(x)
infinitesima in x0 , allora
f (x)
− ` = σ(x) → 0 per x → x0 ,
g(x)
cioè f ∼ `g in x0 . ♣
Definizione 4.7. Se f ∼ `g in x0 , la quantità `g(x) è detta parte principale di f rispetto a g,
mentre la quantità g(x)σ(x) è detta resto. La scrittura
f (x) = `g(x) + g(x)σ(x)
è detta decomposizione di f in parte principale piú resto.
Osservazione 4.8. Osserviamo che se σ(x) è infinitesima in x0 allora gσ = o(g) in x0 (gσ/g =
σ → 0 per x → x0 ). Quindi la decomposizione di f ∼ `g in parte principale piú resto si può anche
scrivere
f (x) = `g(x) + o(g(x)) .
Vediamo inoltre che tale decomposizione rimane valida anche per ` = 0, nel qual caso si ha f = o(g)
in x0 .
Quindi ad esempio si hanno le seguenti decomposizioni in x0 = 0:
ex − 1 = x + o(x) ,
tan x − sin x =
x3
+ o(x3 ) ,
2
loga (1 + x) = (loga e)x + o(x) ,
cosh x − 1 =
x2
+ o(x2 ) ,
2
√
x
3
1 + x − 1 = + o(x) .
3
La seguente proposizione è di importanza pratica nel calcolo dei limiti.
Proposizione 4.9. Siano f1 , f2 , g1 , g2 tali che f2 = o(f1 ) e g2 = o(g1 ) in x0 (punto di accumulazione del dominio comune delle quattro funzioni); allora
lim
x→x0
f1 (x)
f1 (x) + f2 (x)
= lim
.
g1 (x) + g2 (x) x→x0 g1 (x)
Dim. ♣ Si ha
lim
x→x0
f1 + f2
f1 + o(f1 )
f1 1 + o(f1 )/f1
f1
= lim
= lim
= lim
.♣
g1 + g2 x→x0 g1 + o(g1 ) x→x0 g1 1 + o(g1 )/g1 x→x0 g1
L’essenza della proposizione appena dimostrata è che gli ”o piccoli” non contribuiscono al risultato
del limite.
28
4. LIMITI
3. Ordini di infinitesimi e infiniti
Definizione 4.10. Siano f e g infinitesime in x0 .
(1) Si dice che f ha ordine di infinitesimo α > 0 rispetto a g in x0 se |f | = O(|g|α ) in x0 (ovvero
se |f | ∼ `|g|α in x0 per qualche ` 6= 0, ∞).
(2) Si dice che f e g sono infinitesimi dello stesso ordine in x0 se |f | = O(|g|) in x0 .
(3) Si dice che f è un infinitesimo di ordine superiore a g in x0 (o che f ha ordine di infinitesimo
superiore a quello di g in x0 ) se f = o(g) in x0 .
Quindi ad esempio sin x e x sono infinitesimi dello stesso ordine in x0 = 0, ovvero sin x ha ordine
α = 1 rispetto a x in 0. Analogamente 1 − cos x è un infinitesimo di ordine superiore a x in 0, perché
1 − cos x ha ordine 2 rispetto a x in 0. Si ha una definizione di ordine analoga per gli infiniti.
Definizione 4.11. Siano f e g infinite in x0 .
(1) Si dice che f ha ordine di infinito α > 0 rispetto a g in x0 se |f | = O(|g|α ) in x0 (ovvero se
|f | ∼ `|g|α in x0 per qualche ` 6= 0, ∞).
(2) Si dice che f e g sono infiniti dello stesso ordine in x0 se |f | = O(|g|) in x0 .
(3) Si dice che f è un infinito di ordine inferiore a g in x0 (o che f ha ordine di infinito inferiore
a quello di g in x0 ) se f = o(g) in x0 .
√
Ad
esempio
x4 + x2 + 1 ha ordine α = 2 rispetto a x in x0 = +∞, cosı́ che quando x → +∞
√
β
4
2
x + x + 1 − x tende a +∞ se β < 2, tende a −∞ se β > 2 e tende a 1 se β = 2.
CAPITOLO 5
LA CADUTA DEI GRAVI E LA DERIVATA
Dal punto di vista storico, i due problemi che hanno stimolato lo sviluppo del calcolo differenziale sono: il
problema di tracciare la retta tangente al grafico di una assegnata funzione in un dato punto e il problema
di trovare la velocità istantanea con cui un corpo pesante cade (verticalmente o lungo un piano inclinato) a
partire dalla legge oraria che descrive il moto di caduta. In questo capitolo analizziamo il secondo problema
e mostriamo che la sua soluzione conduce alla definizione rigorosa di derivata come limite del rapporto
incrementale.
1. Legge oraria per la caduta dei gravi
Un corpo che venga lasciato cadere da fermo (con velocità nulla) all’istante di tempo t = 0, da una
data altezza h0 , si muove verticalmente sotto l’azione della forza di gravità secondo la legge oraria
(38)
h(t) = h0 −
gt2
,
2
che dà l’altezza h(t) a cui si trova il corpo al tempo t. In questa legge g è l’accelerazione di gravità
e vale circa 9.8 m/s2 (metri al secondo quadro). Osserviamo che all’istante
p
(39)
tc = 2h0 /g
si ha h(tc ) = 0, cosı́ che la formula (39) esprime il tempo di caduta del corpo in funzione dell’altezza
iniziale. La legge di caduta dei gravi (38) vale indipendentemente dalla massa e dalla forma del corpo
se si trascurano gli effetti dell’attrito dell’aria; vale inoltre se si trascura l’effetto delle forze apparenti
dovute al moto di rotazione terrestre 1. Osserviamo che se si conoscono h0 e tc , allora la formula
(39) determina g = 2h0 /t2c , mentre se si conoscono g e tc la stessa formula determina h0 = gt2c /2
(è il modo rapido - ed approssimato - con cui ad esempio gli speleologi determinano la profondità
di pozzi verticali e strapiombi, lasciando cadere un sasso e misurando con un orologio il tempo che
passa prima di sentire il rumore del sasso che arriva sul fondo)
La legge oraria (38) fu scoperta sperimentalmente da Galileo Galilei, che si pose immediatamente
il problema di determinare, da questa, la legge che dà la velocità istantanea (al tempo t) del corpo
in caduta. Ovviamente, mentre la legge oraria è determinabile sperimentalmente in modo piuttosto
semplice (si varia h0 e per ogni valore di questa si misura tc ), la velocità istantanea del corpo non
è misurabile sperimentalmente se non con strumenti estremamente sofisticati, che certo non erano
disponibili all’epoca di Galilei. Per determinarla, si deve quindi ragionare a partire dall’idea intuitiva
che si ha di velocità: il rapporto tra la distanza percorsa in un dato intervallo di tempo e la lunghezza
dell’intervallo stesso.
1La legge oraria (38) vale anche nel caso in cui si lasci scivolare un corpo inizialmente fermo lungo un piano
inclinato molto liscio a partire da una certa altezza h0 misurata lungo il piano. In questo caso però la costante g
deve essere sostituita dalla costante g sin α, essendo α l’angolo di inclinazione del piano rispetto a terra (notare che
se α = π/2 si riottiene la (38)). Se il piano non è liscio ma ruvido e il corpo rotola senza strisciare lungo il piano, la
costante g nella (38) va sostituita con rg sin α, dove r è un numero che dipende dalla geometria del corpo. Per una
sfera si ha r = 5/7.
29
30
5. LA CADUTA DEI GRAVI E LA DERIVATA
2. Velocità istantanea
La legge galileiana di caduta dei gravi (38) definisce la funzione
gt2
.
2
Definizione 5.1. Preso un qualsiasi istante di tempo t ∈]0, tc [ ed un intervallo di tempo ∆t 6= 0
tale che t + |∆t| ∈]0, tc [, si definisce velocità media tra t e t + ∆t la quantità
h : [0, tc ] → [0, h0 ] : t 7→ h0 −
h(t + ∆t) − h(t)
,
∆t
ovvero il rapporto tra spazio percorso nell’intervallo di tempo ∆t e la lunghezza ∆t di tale intervallo.
def
v(t; ∆t) =
Osservazione 5.2. Notare che abbiamo supposto ∆t 6= 0, senza discuterne il segno. Sia nel caso
in cui ∆t > 0 (per cui h(t + ∆t) < h(t)) che nel caso in cui ∆t < 0 (per cui h(t + ∆t) > h(t)) si
ha v(t; ∆t) < 0: la velocità di caduta deve avere segno negativo perché il corpo parte da fermo e si
muove verso il basso.
La definizione 5.1 di velocità media si applica a qualsiasi legge oraria definita in un intervallo di
tempo assegnato. Nel caso particolare della legge galileiana (38) si ha
h0 − g(t + ∆t)2 /2 − h0 + gt2 /2
=
∆t
g[(t + ∆t)2 − t2 ]
g[2t∆t + ∆t2 ]
= −
=−
=
2∆t
2∆t
g∆t
= −gt +
.
2
Vediamo quindi che se si sceglie ∆t cosı́ piccolo che il secondo termine nell’ultima espressione sopra
si possa trascurare rispetto al primo, si ottiene per la velocità media nell’intervallo ∆t un valore
prossimo a −gt. Rendiamo rigorosa questa affermazione nel modo seguente. Si ha
g|∆t|
2ε
|v(t; ∆t) + gt| =
< ε ⇔ |∆t| < δ(ε) =
,
2
g
e quindi per ogni ε > 0 esiste un δ(ε) > 0 tale che se 0 < |∆t| < δ(ε) allora |v(t; ∆t) + gt| < ε.
Questo dimostra che esiste il limite
h(t + ∆t) − h(t)
def
(40)
v(t) = lim v(t; ∆t) = lim
= −gt ,
∆t→0
∆t→0
∆t
a cui si dà il nome di velocità istantanea (di caduta dei gravi, in questo caso particolare). Come
osservazione di carattere storico è interessante osservare che Galilei in un primo momento provò a
partire dall’ipotesi che la velocità fosse direttamente proporzionale alle spazio percorso e non al tempo
trascorso, arrivando poi a dimostrare che ciò non era possibile 2. Piú tardi, grazie allo sviluppo del
calcolo differenziale da parte di Newton e Leibniz, il concetto di velocità istantanea venne definito
in un modo molto simile a quanto appena visto (il linguaggio dei limiti cosı́ come lo conosciamo oggi
dovette invece aspettare l’opera di rifondazione dell’analisi dovuta a Cauchy).
La formula (40) definisce la velocità istantanea del moto di un corpo che cade sotto l’azione della
forza di gravità come la derivata rispetto al tempo della legge oraria (38).
v(t; ∆t) =
2Nel
linguaggio moderno delle equazioni differenziali l’ipotesi galileiana si scriverebbe dh/dt = c(h − h0 ), dove
c > 0 è una qualche costante da determinare. L’equazione differenziale posta ha soluzione generale h(t) = h0 + Acet ,
con A costante di integrazione. Se al tempo t = 0 h(0) = h0 deve essere A = 0 e quindi h(t) = h0 , cioè il corpo non si
muove.
2. VELOCITÀ ISTANTANEA
31
Osservazione 5.3. Facciamo notare che in questo esempio semplice si capisce perché in generale,
data una funzione definita su un intervallo chiuso, la derivata si riesce a definire solo sul corrispondente intervallo aperto. Nel caso in esame, per t = tc si ha h(tc ) = 0; per la velocità istantanea (40)
si ha limt→t−c v(t) = gtc mentre il limite di v(t) per t → t+
c dipende dal moto del grave dopo l’impatto
a terra: se si ha rimbalzo limt→t+c v(t) > 0 mentre se si ha arresto completo limt→t+c v(t) = 0, e in
ogni caso non esiste il limite in tc di v(t).
Osservazione 5.4. Per capire la definizione di v(t) (40), si pensi che se si vuole una differenza tra
velocità media v(t; ∆t) e istantanea −gt minore di ε = 1cm/s = 0.01m/s, l’intervallo di tempo ∆t su
cui si osserva la variazione di altezza deve essere, in modulo, piú piccolo di δ(ε) = 2ε/g = 1/490 s,
pari a circa 2 millisecondi. In altre parole, se si misura la velocità di caduta usando la formula per
la velocità media, definizione 5.1, e si vuole avere un errore minore di un centimetro al secondo sulla
velocità vera, si deve campionare il moto di caduta misurando con precisione l’altezza istantanea del
grave ogni due millisecondi.
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