Le parole-chiave di una rivoluzione mondiale 1968-DIZIONARIO DELLA MEMORIA Redazione: Manifesto libri – Le Monde (1998) Le pagine stampate che seguono, costituiscono solo una parte dell’ipertesto. Sono cinquanta voci, o lemmi, o parole-chiave dei movimenti del ‘68. Se ne potrebbero aggiungere infinite altre o, viceversa, ritenerne alcune superflue o del tutto errate. Ma il loro senso, in generale, consiste nell’essere state costruite non come concetti univoci e rigorosi, ma come punti di confluenza, crogiuoli concettuali, spesso carichi di rinvii e ambiguità, maglie di una rete che si annoda agli eventi e ai comportamenti. Per questo, il piccolo glossarietto che tenete tra le mani, sebbene abbia una sua propria, autonoma utilità, acquista pienezza di senso solo combinandosi con le migliaia difatti e di notizie che compongono l’intero mosaico di questo lavoro. Che, a sua volta, non pronuncia l’ultima parola, ma prolunga e allarga il campo della ricerca, la scoperta di altri nessi e collegamenti, attraverso Internet e il sito a cui esso è collegato. Se non la rivoluzione, almeno la navigazione si vuole permanente. ANTIAUTORITARISMO L’antiautoritarismo fu una bandiera del movimento studentesco in tutti i paesi, ma fu in Germania che il tema divenne veramente centrale, perché si innestava sulla eredità culturale della Scuola di Francoforte. L’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte sul Meno, infatti, aveva messo fin dagli anni Trenta la questione dell’autoritarismo al centro dei propri interessi. Già nel 1936 era stata realizzata, a cura di Max Horkheimer e dei suoi collaboratori, la monumentale ricerca intitolata Studi sull’autorità e la famiglia; seguì, nel 1950, un’altra grande opera di ricerca sul campo pubblicata negli Stati Uniti, alla quale collaborò Adorno: La personalità autoritaria. La critica della società autoritaria che il movimento studentesco avanza si richiama alle analisi degli studiosi di Francoforte: in esse si mostra come, finita l’epoca della borghesia liberale, la società tenda a trasformarsi in un tutto integrato (quello che Horkheimer chiamerà il ‘mondo amministrato’), che non lascia più spazio né all’autonomia degli individui né a vere opposizioni politiche. Sviluppandosi su questo sfondo culturale, e costituendo al tempo stesso una rivolta anche generazionale, il movimento del ‘68 trova uno dei suoi fili conduttori nella lotta contro l’autoritarismo, e contro le istituzioni che si fondano su un principio d’autorità: dalla famiglia all’esercito, dalla scuola all’impresa. Autoritaria è la famiglia che riproduce i ruoli già definiti e stiginatizza ogni comportamento deviante; autoritaria la scuola che trasmette un modello di disciplina sociale e una educazione alla subalternità. Autoritarie per definizione sono tutte le istituzioni repressive, la polizia, l’esercito, la magistratura, la chiesa. La critica di tutte le autorità costituite, però, come molte delle idee del Sessantotto, è un atteggiamento mentale che contiene aspetti diversi, forse contraddittori: esigenze sacrosante e aporie di difficile soluzione. Da un lato il Sessantotto assesta il colpo di grazia a tutto il vecchiume che non aspettava se non di essere gettato via, in un salutare processo di modernizzazione del costume che era già iniziato prima del Sessantotto (col Rock and roil, con la «gioventù bruciata», col linguaggio ribelle della musica) e che sarebbe continuato dopo (soprattutto col mutamento di ruolo delle donne nella società). 11 Sessantotto manda definitivamente in crisi l’autoritarismo della famiglia patriarcale e le figure sociali in cui esso ancora si esprimeva, il militare, il giudice, il poliziotto, che infatti vengono ampiamente sbeffeggiate e derise (e comunque costrette a ridefinirsi). Ma, al tempo stesso, la rivolta antiautoritaria tende a innescare una dinamica senza fine, una specie di cattivo processo all’infinito. Dove passa il confine tra una sensata autorità (ammesso che ci sia) e un riprovevole autoritarismo? Quanto più la critica antiautoritaria è spinta in avanti e radicalizzata, tanto più diventa difficile individuare un qualche momento di organizzazione sociale che non soggiaccia a questa accusa. Di autoritarismo pecca anche chi voglia dichiarare aperta o chiusa un’assemblea, formare una presidenza, impartire un insegnamento. Autoritaria è la cultura tramandata e, al limite, il libro stesso, come oggetto in cui si condensa un sapere codificato che gli studenti devono introiettare passivamente. L’antiautoritarismo, quindi, è uno dei nodi più emblematici e probiematici del Sessantotto, che presto i movimenti si lasceranno alle spalle evolvendo verso forme più tradizionali di organizzazione. ANTIMPERIALISMO I movimenti del 1968 furono decisamente intemazionalisti e antimpenalisti, ma in un senso che non coincideva interamente con il tradizionale «internazionalismo proletario» del movimento comunista mondiale e non solo perché si rifiutavano di riconoscere all’Unione sovietica la leadership dell’emancipazione planetaria. Non v’è dubbio che l’internazionalismo del 1968 si rivolgesse essenzialmente contro gli Stati Uniti, i loro alleati e gli interessi delle imprese multinazionali, e che volentieri si richiamasse all’opera di Lenin e al suo celebre L’imperialismo, fase suprema del capitalismo; tuttavia le giovani generazioni della fine degli anni ‘60 avevano sviluppato un interesse politico-antropologico per le culture «altre», considerate non solo come masse oppresse da liberare, ma anche come portatrici di valori ed esperienze necessari a scardinare le abitudini e le regole borghesi dell’Occidente sviluppato. Questa diversità assumeva talvolta le sembianze, come nel caso della Cina o di Cuba, di un comunismo «autentico» da contrapporre a quello burocratizzato, cinico e autoritario dell’Urss e dei paesi del patto di Varsavia, tal’altra quelle delle filosofie orientali o di tradizioni comunitarie rimaste ai margini della modernizzazione capitalistica. Comunque culture «altre», cui si chiedeva di indicare qualcosa di diverso, e di migliore, dai miti, dai riti e dalle merci della società opulenta. Da questa impostazione si sarebbe sviluppata in seguito una linea critica verso l’ideologia progressista e i miti dello sviluppo, in parte ereditata dai movimenti verdi dell’ultimo ventennio. Del Vietnam, per esempio, non appassionava solo la difesa senza compromessi del principio di autodeterminazione e la propensione per il socialismo, ma anche quel talento artigianale e contadino della guerra, quelle trappole di liane e aculei, quella creatività povera e ingegnosa e soprattutto quel fitto, solidissimo, tessuto di rapporti e di solidarietà comunitarie che circondavano da ogni parte ed insidiavano non solo gli uomini, ma la cultura stessa dell’occupazione. La resistenza cli questo «altro», culturale e politico, offriva un formidabile principio di legittimazione e una speranza di successo per la resistenza di ogni «altro» perseguitato nelle cittadelle del mondo sviluppato. Anche per questo il Vietnam fu al centro dell’internazionalismo del 1968. Mai come in quel frangente, una guerra guerreggiata e un movimento di solidarietà, che attraversava tutto il mondo, avevano agito all’unisono e con un esito tanto fattuale. I movimenti di contestazione si consideravano, a buon diritto, come un «proseguimento della guerra vietnamita con altri mezzi». E l’intervento americano in Indocina divenne il prototipo di ogni politica di potenza e sopraffazione. Gli orrori della guerra vietnamita, i feroci regimi tenuti in vita in America latina, mettevano in discussione la qualità politica delle democrazie occidentali postbelliche e la loro stessa tradizione civile. Per le giovani generazioni del mondo sviluppato, la violenza dispiegata contro i popoli del terzo mondo era la prova tangibile di quanto limitata e condizionata fosse la libertà che veniva loro promessa, apparente la pluralità delle scelte consentite, ipocrita la buona coscienza del dopoguerra. Nelle sue versioni più estreme, il «terzomondismo» degli anni ‘60 e 70 confidava esdusivamente nelle lotte di liberazione dei popoli del terzo mondo per sconfiggere le ingiustizie insite nel modello di sviluppo capitalistico, ritenendo la classe operaia del mondo sviluppato «integrata» nel «sistema» e, in conseguenza, beneficiaria, seppure di infimo rango, dello sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi. Insensibile, dunque, allo scandalo morale implicito nei mezzi impiegati per salvaguardare gli interessi dell’Occidente nel resto del mondo. Secondo questa linea interpretativa, nei paesi sfruttati del Terzo mondo che non avevano nulla da perdere, dal Vietnam all’America latina, dove si impugnavano le armi, li si situavano i «punti alti» della lotta di dasse. Ai giovani rivoluzionari delle metropoli, spettava il compito di lavorare ai fianchi gli aggressori, di agire dietro alle linee insieme con il «terzo mondo interno», come i neri americani e gli altri esdusi dalla società affluente. Nel 1968 era ancora viva la memoria della stagione delle indi- pendenze e il trauma della guerra d’Algeria. La guerra coloniale era in corso nei possedimenti portoghesi in Africa. I «due, tre, cento Vietnam», predicati da Guevara, sembravano una realtà incontrovertibile. Gli interessi economici e geopolitici dell’Occidente opponevano una resistenza senza esclusione di colpi ai movimenti di emancipazione nel mondo postcoloniale. La triste involuzione che i nazionalismi del terzo mondo avrebbero subito, anche a causa di questa resistenza, restava ancora in ombra. E non minava la speranza che dalla rivolta dei paesi poveri sarebbe potuta scaturire una prospettiva di liberazione generale. La disillusione fu enorme, tale da offuscare perfino le indubitabili ragioni di quella stagione di lotte. ANTIPSICHIATRIA Prima di diventare uno dei poli culturali a cui guarda il movimento del Sessantotto, l’antipsichiatria è una corrente di pensiero che si sviluppa durante gli anni Sessanta attraverso la critica della psicanalisi e della psichiatria ufficiale. Lo sfondo culturale, più o meno remoto, è nella riscoperta di correnti e autori che la psichiatria accademica aveva lasciato cadere nell’oblio: innanzitutto l’analisi esistenziale e fenomenologica di Minkowski e Binswanger, che si era sviluppata a partire da alcune tra le più rilevanti esperienze filosofiche del Novecento: la fenomenologia di Husserl, l’esistenzialismo di Jaspers, l’analitica dell’Esserci delineata da Martin Heideggeer nel suo primo capolavoro ifiosofico, Essere e tempo. Come movimento di idee, l’antipsichiatria si sviluppa fin dall’inizio come un arcipelago diffuso a livello internazionale, e molto differenziato al suo interno. In Gran Bretagna gli esponenti più noti sono Ronald Laing (l’autore de L’Io diviso) e David Cooper (cui si deve un altro libro che ebbe grande successo, La morte della famiglia); negli Stati Uniti Thomas Szasz; mentre in Italia la critica delle istituzioni psichiatriche trova il suo più significativo portavoce in Franco Basaglia, per le cui cure uscì un libro che nel Sessantotto ebbe enorme successo, L’istituzione negata — Rapporto da un ospedale psichiatrico. Le varie tendenze antipsichiatriche contestano innanzitutto le forme correnti di trattamento dei malati di mente, per giungere fino una critica radicale del concetto di malattia mentale. Nonostante quello che tante volte si è scritto, da parte dei numerosi denigratori, l’antipsichiatria non nega l’esistenza della malattia mentale, o meglio non nega che si diano stati di disagio e di sofferenza psicologica individuale, né che si diano comportamenti che, misurati secondo i metri consueti, appaiono completamente irrazionali, incomprensibili e quindi «foffi». Quello che cambia completamente, però, è la posizione in cui l’operatore psichiatrico si colloca nei confronti di questo disagio. Per cominciare l’antipsichiatrica rifiuta le terapie coatte e soprattutto la segregazione manicomiale, che non ha alcun valore terapeutico ma ha soio la funzione di escludere, dalla vista della società, quegli elementi nei quali si catalizza, o viene a deflagrazione, un disagio che ha radici molto più ampie. Ma soprattutto, nella prospettiva dell’antipschiatria, il disagio mentale, anziché venir segregato, dev’essere interpretato: esso è un modo in cui l’individuo risponde a condizionamenti o a pretese contraddittorie che il suo ambito di relazioni sociali, a cominciare ovviamente dalla famiglia, solleva nei suoi confronti. 11 deviante è l’anello debole sul quale si scaricano le tensioni derivanti da situazioni patogene. Malato non è l’individuo sofferente, ma il contesto che genera la sua «malattia». In Italia, a partire da questo filone, ebbe uno straordinario impatto, culturale e politico, l’esperimento avviato da Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico di Gorizia: porte aperte, abbattimento di grate e reti, abbandono della contenzione fisica dei malati, gestione comunitaria dell’istituzione. A partire da questa esperienza si rafforzerà la denuncia dell’inutile sadismo dell’istituzione manicomiale, attraverso una lunga battaglia che porterà infine, in Italia come altrove, alla chiusura dei manicomi e alla difficile costruzione di nuove strutture di aiuto e di cura del disagio mentale. Quella di Basaglia fu anche un’esperienza che intrecciò rubito un rapporto, non privo anche di malintesi e di contraddizioni, con il movimento degli studenti. Contraddizioni che, del resto, lo stesso approccio antipsichiatrico teneva dentro di sé, essendone anche ben consapevole: «La nostra situazione — scrivevano gli autori nella seconda edizione dell’Istituzione negata — non può che essere contraddittoria: l’istituzione è completamente negata e gestita, la malattia è messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato ed agito». ANTISTATALISMO Il 1968 fu un movimento sostanzialmente antistatalista. Non vi si troverà alcuna richiesta di più Stato e meno privato. La statalizzazione dei mezzi di produzione e l’economia pianificata avevano perduto da un pezzo qualsiasi appeal. Semmai la ricerca era rivolta verso altre forme di socializzazione e gestione collettiva. Le proporzioni e gli equilibri tra pubblico e privato, che occupavano il dibattito fra le forze politiche istituzionali, e con cui si cimentava il riformismo degli anni ‘60, ricadevano del tutto al di fuori dall’orizzonte dei movimenti. Poteri pubblici e privati apparivano come elementi complementari e solidali di un unico «sistema», per nulla minato da contraddizioni interne, e dunque superflua ogni astuzia politica volta ad agire su queste contraddizioni. Lo Stato si presentò agli occhi dei movimenti, ad Est come ad Ovest; in Europa come negli Usa, essenzialmente come apparato repressivo, come garante dello stato di cose esistente: polizia e magistratura, poteri accademici e poteri burocratici, censura e controllo. Come portatore di una ideologia vecchia, oppressiva e intrisa di violenza. La scuola che fu investita dalla contestazione era la scuola pubblica, nella sua funzione pubblica di fabbrica del consenso e di omologazione culturale di Stato. Ben pochi vagheggiarono la sostituzione dello stato borghese (il famoso «comitato d’affari della borghesia») con uno stato socialista. In questo, i movimenti di protesta al di qua e aldilà della cortina di ferro, nonostante diffidenze e incompresioni, ebbero un forte elemento comune e si richiamarono al medesimo ius resistentiae contro una gerarchia sclerotizzata e inamovibile. Nell’Est, lo stato si ergeva poi, con tutta la sua screditata retorica, come unico ostacolo all’esercizio di libertà individuali essenziali e diritti collettivi, mascherato dietro un cumulo di menzogne. L’antistatalismo dei movimenti del 1968, fortemente attivo anche sul piano simbolico, insieme al triste spettacolo offerto dal socialismo reale, contribuirà, poi, a scuotere nell’opinione pubblica della sinistra occidentale la fede nella superiore razionalità dello Stato. Allo Stato i movimenti del ‘68 avevano chiesto sostanzialmente di farsi da parte, di ritirarsi dai terreni destinati all’autogestione, di dimettersi nella persona di questo o quel rettore, di questo o quel questore, di questo o quel ministro, di liberare gli arrestati, di abrogare leggi. Praticamente nessuna richiesta in positivo, salvo qualche sporadica pretesa di redistribuzione di risorse. Le libertà premevano più delle garanzie, la «sicurezza» e la «tutela» non rientravano nel novero dei bisogni più sentiti e, semmai, se ne percepivano i rischi di oppressione. Il maggio francese mise poi in scena, per alcuni giorni, una delle più grandiose rappresentazioni dell’<’estinzione» dello Stato che si ricordino. I movimenti del ‘68 ebbero certamente una propria concezione del contropotere, ma questa non scimmiottò mai in formato minore le strutture del potere statale, come avevano invece fatto partiti e sindacati, ma anche movimenti utopistici del passato. ASSEMBLEA Coerentemente con il rifiuto, più o meno radicale secondo i momenti e le circostanze, di forme e strumenti della democrazia delegata, i movimenti studenteschi fecero dell’Assemblea la sede principale di ogni decisione e, nello stesso tempo, il luogo privilegiato per la formazione del consenso. L’Assemblea non fu mai concepita come uno strumento di governo, poiché intendeva appunto cancellare il divario tra governanti e governati, ma come sede cli un pronunciamnento collettivo calato nel flusso tumultuoso delle scadenze di lotta. Maggioranze e minoranze precarie vi si formavano e disfacevano in risposta al succedersi degli eventi e alla reazione, anche emotiva, dei partecipanti. Nondimeno, il movimento rivendica «tutto il potere» all’assemblea, che diviene permanente e può darsi, al massimo, organi di pura direzione del dibattito. In realtà, a governare l’andamento e gli esiti di riunioni assembleari altrimenti ingovernabili, sono spesso accordi definiti in altre sedi tra le diverse correnti del movimento o tra i suoi esponenti di maggior prestigio, privi, peraltro, di ogni rappresentanza istituzionale, sempre esposti al rischio del rifiuto e dell’insuccesso. Pur soggetta a ogni genere di sopraffazioni e proibitiva per le posizioni più timide e incerte, l’Assemblea rappresentò comunque una sfera pubblica autonoma da ogni assetto istituzionale, un momento di larga e intensa partecipazione, uno strumento altamente comunicativo. Rispetto all’esterno, alle controparti del movimento, agli organi istituzionali e alle gerarchie consolidate, l’Assemblea fu un vero e proprio contropotere in atto, una presenza minacciosa che interrompeva lo spazio e il tempo dell’ordine costituito nelle università, nelle scuole, nelle fabbriche e nei quartieri. Non a caso il movimento si oppose furiosamente a ogni sua regolamentazione, non ne accettò mai forme concesse e definite per via normativa. Gli spazi e i tempi conquistati all’Assemblea furono considerati un bottino di guerra non negoziabile. Questo spazio e questo tempo sarà poi anche popolato da teatranti improvvisati, da esibizioni d’ogni genere e gusto, dalla sceneggiata surreale a un’interminabile e compiaciuta Oratoria politica, fino alla parodia della dassica astuzia parlamentare. L’Assemblea sarà, infine, una grande fucina di stereotipi ossessivi, ma anche, spesso, di folgoranti invenzioni linguistiche. AUTOGESTIONE L’Autogestione fu tra i movimenti della fine degli anni ‘60 e per tutto il decennio successivo una delle parole d’ordine più popolari e, al tempo stesso, una pratica diffusa nell’organizzazione delle situazioni di lotta, una richiesta pressante e generalizzata di partecipazione «dal basso». Ogni momento collettivo: corsi e seminari di studio, realtà di lavoro militante, luoghi di produzione artistica e culturale, asffi d’infanzia, in breve qualsiasi genere di spazio o di attività sociale, si volevano «autogestiti», ossia al riparo da ogni eteronomia e dipendenza. Dovevano essere i membri stessi del collettivo a stabilire, per via assembleare, le sue regole e i suoi modi di funzionamento. Questo implicava una decisa contrapposizione alle norme imposte dall’organizzazione politica e produttiva dominante, con le sue gerarchie consolidate, ma anche un rifiuto, altrettanto netto, di ogni forma di dirigismo e di delega ad altri poteri centralizzati, che si trattasse di un partito, di un gruppo dirigente stabile espresso dal movimento o di un coordinamento eccessivamente vincolante. Le Università e le scuole furono il primo luogo in cui fu sperimentata la pratica dell’autogestione, che si sarebbe poi estesa a realtà operaie in lotta (fabbriche occupate) quartieri popolari e occupazioni di case (i comitati di quartiere), a numerose realtà nel settore dei servizi (sanità, assistenza sociale, ecc), in svariate forme e con intensità variabile, nei diversi paesi europei. Ma l’Autogestione rappresentava anche un modello macrosociale nettamente delimitato tanto verso il potere impersonale dell’economia di mercato, la costrizione «pseudoggettiva» delle leggi capitalistiche, quanto verso l’autoritarismo statalista della pianfficazione. In questo si ricollegava, oltre che alla tradizione della democrazia consiliare, a una corrente di «socialismo autogestionario» che puntava al controllo diretto dei lavoratori sulle proprie specifiche attività produttive, alla socializzazione non statalizzata dei mezzi produttivi, a una produzione orientata dall’utilità sociale e non dal profitto Questa corrente ha generato diverse varianti, dalle più radicali, alle più moderate, dal rifiuto più totale dell’ordine capitalistico al compromesso con le sue compatibilità, dalle comuni egualitarie alla politica socialdemocratica della cogestione. A metà strada tra questi estremi si collocava l’esperimento iugoslavo, come variante eretica nel campo socialista, sebbene l’autonomia decisionale e organizzativa delle realtà sociali e produttive, propugnata nella teoria, si scontrasse nella realtà con potenti limiti, diseguaglianze sociali, problemi occupazionali e strutture autoritarie. Tant’è che il modello iugoslavo, ritenuto moderato e compromissorio, non fu affatto amato dai movimenti radicali in Occidente, molto più suggestionati dai caratteri estremi delle comuni cinesi. All’est, l’idea dell’Autogestione, interpretata soprattutto come autonomia delle realtà produttive dall’inefficiente arbitrio della pianificazione centralizzata, ebbe invece un certo corso nella lotta contro lo strapotere dello stato burocratico entro la cornice di un sistema che si voleva ancora socialista. L’idea e la pratica dell’Autogestione, soprattutto come forma di organizzazione delle realtà di lotta, come tentativo di far sopravvivere, rilevandole e autogestendole, attività produttive destinate dal padronato alla liquidazione (basti ricordare il caso della fabbrica francese di orologi Lip nei primi anni ‘70), o come forma associativa di cittadini impegnati nella difesa di un territorio o di uno spazio sociale, sopravviverà poi con alterne fortune fino al giorno d’oggi. Si pensi all’esperienza delle Buergerinitiativen in Germania, o a quella dei Centri sociali in Italia. LA COMUNE E LE COMUNI Il modello della Comune è tra i più diffusi motivi di ispirazione dei movimenti alla fine degli anni ‘60. Con diversità di accenti e impostazioni attraversa quasi tutti i paesi investiti dall’ondata del 1968. Esso si affaccia sulla scena in una duplice veste. Da una parte come modello di autogoverno combattente e di democrazia diretta che si contrappone tanto alla tradizione liberale del parlamentarismo, quanto al potere della burocrazia di stato e di partito propria del «socialismo reale», rifacendosi all’esempio storico, più o meno idealizzato, della Comune di Parigi del 1871. E in questa veste che la parola d’ordine della Comune risuona dalla Shanghai della Rivoluzione culturale alla Parigi del joli mai, e ispira, in generale, il movimento delle comuni cinesi come risposta, decentrata e governata dal basso, almeno in teoria, al modello centralistico e autoritario dello sviluppo sovietico. Mao stesso parlerà di «Comune di Parigi degli anni ‘60». Anche la corrente di tradizione anarchica, che percorre diffusamente i movimenti del 1968, contribuisce alla fortuna dell’idea di Comune come forma ideale complessiva dell’organizzazione sociale. Dall’altra parte, soprattutto per i giovani occidentali su entrambe le sponde dell’Atlantico, le comuni assumono il senso di una forma di socializzazione e organizzazione della vita quotidiana collettiva, contrapposta alla famiglia borghese e alla disciplina produttiva del capitalismo, con tutta la competitività che la contraddistingue. Nelle migliaia di comuni che si diffondono in diversi paesi dalla seconda metà degli anni ‘60 ai primi anni ‘70 confluiscono tanto l’esperienza delle comunità hippie americane e di altre aggregazioni, anche a carattere religioso, di circoli alternativi legati da interessi artistici e culturali quanto quella dei collettivi politici, scaturiti dalle più diverse situazioni di lotta. Negli Stati Uniti, soprattutto in California e nel New England, e nell’Europa del nord, soprattutto in Germania e Olanda, si occupano case sfitte, a volte interi quartieri, terre abbandonate vengono colonizzate da variopinte comunità. Migliaia di giovani scelgono di vivere in collettività, più o meno strutturate, più o meno ideologizzate, la loro vita personale. La comune diventa così lo spazio, per eccellenza, entro cui possono svilupparsi rapporti sociali più egualitari e un progetto di vita personale più ricco di senso e di relazioni, sottratto alle norme, alle convenzioni, alle gerarchie e agli antagonisrni della socìetà borghese. Contrariamente alla famiglia, che di queste norme è considerata potente «cinghia di trasmissione», la comune offrirebbe la possibilità di relazioni e affetti «autentici» e trasparenti, perché liberamente scelti e revocabili in ogni momento, saldandosi, inoltre, con lo slancio utopistico che vuole dimostrare, ora e qui, la possibffità concreta di instaurare rapporti liberi e solidali. in questo senso la comune si presenta come esempio ed embrione della nuova società. Ma non è solo una stagione di ingenui entusiasmi. Spesso i «comunardi» saranno ben coscienti dei caratteri azzardati e sperimentali del loro tentativo, che sarà anche sottoposto a un aspro vaglio critico e oggetto di infinite discussioni, che condurranno, intorno alla metà degli anni ‘70, all’esaurirsi del fenomeno, almeno come insorgenza ampiamente diffusa e collegata a un progetto politico. CONTRO LA NEUTRALITÀ DELLA SCIENZA L’oggettività è la categoria messa radicalmente in causa dai movimenti, attraverso una fortissima e originale estensione della critica marxiana dell’ideologia. Nulla è neutro dice il ‘68, nel senso che tutto è segnato dal marchio di classe che porta con sé. Non c’è l’umanità neutra dunque, ma gli sfruttati e gli sfruttatori, i governanti e i governati, chi ha potere e chi non ce l’ha. Non è neutro il linguaggio né il sapere scientifico. Anzi, chi parla di neutralità, svolge, secondo i movimenti del ‘68, la più pericolosa opera di mistificazione perché suggerisce che esistano zone libere dai conflitti, dove servo e padrone non si scontrano perché hanno valori comuni, idee che vanno bene per tutti, saperi condivisi. Questa pretesa comunanza, dice il ‘68, è la forma attraverso la quale la sfera dominante proclama universali i propri interessi, dichiarandoli validi per tutti e appunto esenti dal conflitto di classe. Così il ‘68 diventa inaccettabile per l’ordine costituito non quando critica l’inefficienza o alcuni aspetti autoritari dell’istituzione scolastica, ma quando appunto mette in discussione la natura «universale» del sapere e, così facendo, lo delegittima tutto, la cultura di destra come quella storica della sinistra. Il movimento delle università cercherà di abbattere la neutralità apparente della cultura, soprattutto nei controcorsi, gestiti direttamente dagli studenti nelle facoltà occupate. Il tema della controcultura diventa scottante perché il rifiuto della tradizione codificata, anche di quella marxista, obbliga a rifondazioni totali, non soltanto nel metodo dell’insegnamento, ma anche nelle basi della cultura. In questo senso un terreno particolarmente impegnativo è quello delle discipline scientifiche che anche dal pensiero di sinistra sono state sempre considerate oggettive perché fondate, scientfficamente appunto, su di un principio di realtà e su leggi oggettive. Qui sì delineano schematicamente due filoni di pensiero. Per una parte il sapere è neutro, ma non lo è il suo uso. Anzi, si sostiene, è proprio il capitalismo che mortifica e piega a usi disumani (militari e di sfruttamento) la buona scienza. In particolare nel caso della Guerra del Vietnam, che utilizzava un ampio spiegamento di scienza e di tecnologia, risultava evidente a tutti che la cosiddetta «internazionale degli scienziati» non aveva alcuna funzione progressiva, come era stato sostenuto invece dalla sinistra per tanti anni, ma al contrario svolgeva un ruolo di sostegno all’aggressione americana. Un altro filone di pensiero, più fecondo, cominciò invece a interrogarsi sui fondamenti stessi della conoscenza e della macchina sociale che produce scienza. Si ricollegava in questo anche a una revisione dell’ortodossia marxista che aveva cominciato a farsi strada fin dai primi anni ‘60 con la rilettura del Marx dei Manoscritti del ‘44 e dei Grundrisse. La non neutralità della scienza viene riconosciuta non solo nelle soluzioni che offre a problemi determinati, ma nel processo che sta a monte, quello della formulazione dei problemi da risolvere. Proprio qui entrano in gioco fattori estranei alla scienza stessa, che derivano invece dai poteri e dalle gerarchie della società nel suo complesso e che sono dunque segnati dal conflitto di classe. L’elemento di passaggio dai bisogni del capitale ai contenuti della scienza viene individuato nella struttura del sistema della ricerca (finanziamenti, possibilità di carriera, circolazione delle idee e delle pubblicazioni). Si prende atto in quegli anni che la scienza è sempre più forza produttiva, non solo perché viene sovente piegata a fini produttivi diretti, ma anche perché su di essa si esercita una pressione sociale: nella scelta dei settori da sviluppare e degli investimenti da effettuare, nella formazione delle scale di valori delle ricerche, nel diverso prestigio attribuito all’una o all’altra branca della scienza Nei casi migliori le facoltà scientifiche occupate, dove spesso gli stessi docenti e ricercatori partecipavano al movimento, si produssero signfficative elaborazioni sia relativamente alla sociologia delle scienza, sia di tipo epistemologico, che hanno lasciato un segno permanente nel pensiero contemporaneo. In particolare proprio da quelle riflessioni a caldo riprese dignità e sviluppo un settore tradizionalmente considerato minore, come quello della storia della scienza, che è insieme storia interna alle discipline, e storia esterna, che riguarda alla società e ai suoi processi di trasformazione. CRITICA DEL LAVORO La critica del lavoro raggiunse con le lotte studentesche e operaie della fine degli anni ‘60 una vastissima articolazione. Come critica della divisione sociale del lavoro e delle gerarchie che ne conseguivano, come critica dell’alienazione e come critica radicale del lavoro salariato tout court, della sua forma di merce. Nei movimenti studenteschi fu accolta con entusiasmo e, subito estesa allo studio e ai ruoli professionali qualificati, l’idea marxiana di alienazione, nel senso generico di un agire che si separa dai bisogni e dalla volontà dei soggetti, per svilupparsi secondo leggi proprie ed estranee, quelle della merce e dell’accumulazione del profitto. Entrare nella macchina produttiva significava agire contro se stessi, i propri bisogni e quelli dei propri simili. Altrettanta fortuna ebbe la critica della divisione sociale del lavoro (che proprio in quegli anni raggiungeva il massimo di rigidità e parcellizzazione) che riduceva e schiacciava l’insieme delle facoltà e della potenzialità del soggetto all’esecuzione ripetitiva e devastante di una singola funzione produttiva. fl rifiuto di questa «uniclimensionalità», di questa cancellazione della persona e della segmentazione sociale gerarchizzata che ne conseguiva fu una delle principali correnti che attraversarono i movimenti, in cerca di una ricomposizione dei soggetti che rimescolasse egualitariamente i compiti necessari alla riproduzione sociale, magari ispirandosi alla Cina delle guardie rosse. 11 superamento della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale fu, di conseguenza, una delle parole d’ordine più diffuse nei movimenti studenteschi. Non mancarono poi frange operaie e tecniche politicizzate che presero di mira l’organizzazione del lavoro, pretendendo di imporre il proprio controllo sul ciclo produttivo e di riappropriarsi, sulla base del proprio sapere collettivo, dei modi e delle finalità della produzione, sottraendoli all’arbitrio padronale. Un’attitudine che, più tardi, sarà messa a profitto, sfigurandola e sottomettendola alle regole della competitività, dal toyotismo. Ma la posizione più radicale fu quella del «rifiuto del lavoro» che puntava a una negazione immediata e immanente del lavoro salariato. Respingendo l’idea di una capacità di emancipazione msita nel lavoro stesso e di un suo qualsiasi valore etico (la vecchia etica del lavoro interiorizzata dal movimento operaio), mirava a sot trargli con ogni mezzo, tempo ed energie, a mettere in questione il sistema stesso del lavoro salariato e le sue unità di misura con l’idea di un reddito non più correlato alla produttività. Di qui il carattere non circoscritto e «rivoluzionario» che fu attribuito alla rivendicazione salariale. La richiesta di «più soldi» sganciati da «più produttività» avrebbe messo in questione il carattere di merce della capacità lavorativa umana. Nell’unico modo possibile: inflazionandone il costo, creando una continua «dismisura». Ma il «rifiuto del lavoro» non fu solo una posizione teorica, articolata attraverso il privilegiamento di determinati obiettivi di lotta, bensì anche un movimento spontaneo che si era espresso nei comportamenti e nelle subculture giovanili, con il loro disperato tentativo di sottrarsi a una grigia predestinazione operaia, e in altre forme di esodo individuale e collettivo, più o meno ideologizzate, dalla società produttiva. La stessa pervasività della politica nel 1968, il suo invadere prepotentemente ogni ambito e ogni campo, la sua pretesa di primato, si contrapponeva in qualche modo al lavoro. 11 «fare politica», che «occupava» decine di migliaia di giovani era appunto quel «fare» che non era riconducibile alla natura di merce del lavoro e alle sue unità di misura. E, per questo, discostandosi da ogni idea «professionale» della politica, si proponeva immediatamente come modello di liberazione. CRITICA DEL SOCIALISMO REALE Il 1968 è l’anno del «Nuovo corso» e l’anno dell’invasione di Praga. I carri armati del Patto di Varsavia mettono fine a un tentativo di riforma economica e di liberalizzazione politica, pacifico, voluto e condotto da un partito comunista che sceglie non solo di mantenersi interamente nella cornice del sistema socialista, ma nemmeno intende mettere in questione la coesione del blocco orientale. Questa circostanza pone, all’Est come all’Ovest, una domanda cruciale: il «socialismo reale» è riformabile? La destalinizzazione del ‘56 ha effettivamente aperto delle possibilità di trasformazione o i caratteri stagnanti e autoritari del sistema sono connaturati a qualcosa di più basilare della deformazione staliniana e delle sue sopravvivenze? Nei dodici anni che intecorrono tra il ventesimo congresso, i tumulti e le lacerazioni che ne seguirono (prima tra tutte quella della sanguinosa insurrezione ungherese), nei paesi dell’Est si sviluppano correnti critiche e spinte innovative, a cominciare dall’inquieta Polonia, in forma di opposizione intellettuale, spesso ancora di matrice marxista, o di ricerca riformista di un nuovo modello di sviluppo economico, comunque altemativo a quello del capitalismo (si pensi al gruppo di Lange, Bobrowski, Kalecki). La rottura con il modello stalinista e la riflessione sulla sua parabola storica, confluiscono in posizioni critiche che investono non solo il passato, ma il presente stesso del socialismo reale, entrando in rotta di collisione con i suoi gruppi dirigenti. Un’ampia dissidenza intellettuale di sinistra si sviluppa nella Repubblica democratica tedesca, dai filosofi Ernst Bloch e Wolfgang Harich (che organizzano nel ‘56 un celebre convegno intitolato «il problema della libertà alla luce del socialismo scientifico»), al fisico Robert Havemann, al cantautore (che sarà anche il cantore della rivolta studentesca in Germania occidentale) Wolf Biermann e molti altri. Tutti prendono di mira, in forma più o meno radicale, l’arbitrio degli apparati burocratici e il soffocamento della dialettica sociale, ricorrendo allo strumentario critico del marxismo. In Cecoslovacchia, paese tagliato fuori dai tumulti del 1956 e a lentissima destalinizzazione, tutto precipita nei febbrili mesi della «Primavera», le cui ambizioni di pacifica democratizzazione, autonomia delle imprese e progressiva introduzione di elementi di mercato, sembrano, per un momento, indicare a tutto il blocco orientale una via moderata e dunque percorribile. Nel campo del marxismo ocddentale, la critica del socialismo reale si addensà sostanzialmente lungo due direttrici. La prima, riconducibile alla ipotesi formulata da Deutscher nel 1956, assunta da intellettuali cornejean Paul Sartre e da partiti comunisti, come quello italiano, giustificava la natura autoritaria del regime sovietico con le condizioni di arretratezza e di accerchiamento internazionale della rivoluzione sovietica. Tuttavia l’avvenuta abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione avrebbe prodotto una sana «struttura socialista» che, prima o poi, avrebbe condotto a un mutamento in senso democratico della sovrastruttura politica. La seconda, che faceva capo a Charles Bettelheim e Bernard Chavance, riteneva che l’abolizione della proprietà privata dei capitali avesse generato un monopolio capitalistico di stato del tutto coerente con il regime autoritario a partito unico. Questa interpretazione comportava che nel processo rivoluzionario descritto da Marx l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse un elemento necessario ma non sufficiente, il fine essendo la riappropriazione del lavoro e l’estinzione dello stato. Si auspicava dunque una ripresa della lotta di dasse nei paesi socialisti, capace di riunire le nuove figure di espropriati. E la Rivoluzione culturale cinese sembrava muovere in questa direzione. Fu questa seconda linea interpretativa (del tutto marginale tra gli oppositori dell’Est) ad incontrare maggiore fortuna nella nuova sinistra scaturita dal movimento del 1968. Quest’ultimo non aveva nutrito alcuna simpatia per il modello sovietico, accusato di «tradimento», «revisionismo», «autoritarismo», e lo aveva anche avversato radicalmente, soprattutto nelle sue forti componenti anarchiche e non comuniste (in Francia, l’Internazionale situazionista condusse una critica spietata contro il socialismo sovietico e la sua restaurazione culturale), ma, in generale, nonostante i sussulti di Praga e Varsavia i movimenti del 1968 non considerarono il «campo socialista» come un terreno fertile per Io sviluppo delle lotte. Non era da quella parte che ci si attendevano spinte signfficative di trasformazione sociale. E, sebbene l’onda della protesta avesse investito entrambi i campi, la cesura rimase. CRITICA DELLA FAMIGLIA Reprime, forma personalità adattabili a ordini autoritari, educa all’ipocrisia, trasmette la paura: la famiglia borghese è messa sotto accusa dalla critica corrosiva degli studenti. La loro analisi, nata dalle discussioni dei comitati che si formano nelle università, è alimentata per un verso dalle analisi sociologiche della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, la grande opera collettiva del 1936 che si intitolava Stridi szill’autorita’ e la famiglia); e per altro verso dalla elaborazioni degli antipsichiatri Cooper, Laing, Esterson, che dall’inizio degli anni Sessanta lavorano sulla schizofrenia e scavano nei rapporti patologici che legano tra loro i membri della famiglia (a rendere popolare e fruibile da tutti questa straordinaria esperienza culturale e liberatoria sarà il bellissimo film Family Life, di Ken Loach). Nelle analisi di David Cooper (che nel 1971 pubblicherà su questo tema un libro di grande successo, La morte della famiglia), la famiglia è innanzitutto, in tutte le società basate sullo sfruttamento, uno strumento di condizionamento ideologico; più in profondità, la famiglia è una sorta di paradigma le cui figure-chiave, il «padre» e «la madre», amate o detestate, tornano a strutturare le relazioni nei più diversi tipi di istituzioni sociali: la Chiesa, l’impresa, la scuola, il partito, e così via. Quella della famiglia è dunque una situazione che pre-struttura tutta la nostra esperienza sociale, incapsulandola al tempo stesso in una serie di tabù e di false sicurezze che amputano, dell’individuo, proprio le parti più profondamente e intensamente vitali: « la morte del dubbio e la morte del corpo — scrive Cooper — hanno la loro origine nei bisogui gregari sviluppati all’interno della famiglia». La famiglia è dunque, in questa prospettiva, il luogo originario dell’alienazione: «sottomissione passiva all’invasione degli altri», che a sua volta genera nei soggetti reazioni «paranoiche», nelle quali si esprime una forma di risposta a questa devastante invasione. L’educazione familiare, in sostanza, avvia l’individuo, attraverso i suoi rituali e le sue sicurezze apparenti, verso un esito di sottomissione sociale al quale egli sacrifica le sue esperienze creative spontanee, il suo potenziale di sviluppo libero, di invenzione, di immaginazione e di sogno. Anche sulla base di riflessioni come queste nascono, attorno ai movimenti del Sessantotto, le esperienze di educazione antiautoritaria: dai Kinderlaeden di Berlino ovest agli asffi antiautoritari di Milano si ricercano forme di socializzazione che non sacrifichino il potenziale creativo del bambino, che non siano finalizzate alla creazione di sudditi bravi e disciplinati. Una ricerca che non è a sua volta priva di contraddizioni: ideologia, psicanalisi, spunti libertari si mescolano nelle teste degli educatori sessantottini, alle prese con un compito troppo gravoso per una generazione che è ancora impegnata nella sfida difficile di definire la propria identità. CRITICA DELLE PROFESSIONI «Sono stato impiegato come bastonatore e dunque bastono». Questa battuta, pronunciata da uno dei fantasmagorici funzionari del Processo di Franz Kafka, fu ripresa in un memorabile saggio degli anni ‘30 di Guenther Anders per indicare l’assurdità delle professioni, anzi l’assurdità stessa eletta a professione, messa in scena da tanti straordinari personaggi kafkiani. I movimenti del ‘68 aggredirono con altrettanta radicalità i ruoli professionali. Contestarono la presunta neutralità degli specialismi, ne denunciarono l’asservimento agli interessi dominanti, la cieca esecuzione di prescrizioni imposte dall’alto. A partire dal luogo, le scuole e le università, in cui le regole disciplinari del lavoro qualificato venivano definite e trasmesse. Nelle professioni non fu visto un sapere volto a soddisfare i bisogni della società, ma un sistema di funzioni deputate a riprodurne acriticarnente la struttura dassista e discriminatoria. A partire da queste premesse gli studenti intrapresero una critica sistematica dall’interno dei singoli ambiti disciplinari. I futuri ingegneri cominciarono a interrogarsi su quale ruolo sarebbe stato loro destinato nella struttura sociale e produttiva esistente. Altrettanto cominciarono a chiedersi i futuri chimici, architetti, fisici, avvocati, insegnanti, medici. Queste domande si tradussero in una vasta elaborazione, teorica e sociologica, che avrebbe passato al vaglio la natura e le regole dei più diversi ruoli professionali, prendendo di mira interessi corporativi, meccanismi competitivi, piramidi gerarchiche e rapporti semifeudali radicati nel mondo delle professioni. Rapidamente il movimento critico si spostò dalle università a circoli di professionisti già attivi, decisi a rompere l’unità della categoria, tra quanti intendevano riprodurne le regole consolidare e quanti intendevano, invece, porre i propri strumenti conoscitivi al servizio di una trasformazione sociale e rifiutare il ruolo che veniva loro assegnato. Oltre alla propria classe di provenienza, a molti parve opportuno «tradire» anche la propria professione. Si formarono così gruppi di, medici, psichiatri, tecnici, giuristi, urbanisti, perfino magistrati, «democratici», impegnati nel contestare il proprio ruolo funzionale, nello smascherarne la falsa neutralità e nel cercare una nuova collocazione all’interno della lotta generale per la trasformazione dei rapporti sociali. Ma nelle figure professionali la critica individuò anche quella «unidimensionalità», quella radicale mutilazione della personalità che ne restringeva l’orizzonte a una funzione parcellizzata, seppure ad alto contenuto di sapere, ottusa e irresponsabile nei confronti della problematica sociale. La lingua tedesca possiede un termine estremamente preciso per designare questa colpevole unilateralità: Fachidiot. Qualcosa come «idiota specializzato», intendendo con questo il detentore di un sapere approfondito e circoscritto, del tutto disinteressato al contesto in cui si colloca il suo segmento di sapere, per non parlare del più generale ambito della società. Di personaggi di questo genere aveva potuto servirsi il nazismo e poteva servirsi qualsiasi altro potere di sopraffazione violenta, presente e futuro. il sistema dell’istruzione fu appunto accusato di essere una catena di montaggio per la fabbricazione di siffatti individui, funzionali all’organizzazione fordista del lavoro che, proprio in quegli anni, aveva spinto al limite estremo la divisione sociale del lavoro e la parcellizzazione delle mansioni e dei saperi. sociali e realtà collettive, contrassegnato da una politicizzazione integrale di tutti gli ambiti dell’esistenza. Un processo di questa natura non poteva che svilupparsi sulla base di una generale partecipazione diretta alle scadenze e alle iniziative del movimento, ai suoi momenti di discussione ed elaborazione. Ogni idea di delega e di rappresentanza ne fu, conseguentemente, travolta. I delegati e i rappresentanti, che si trattasse dei deputati dei parlamenti nazionali, dei parlamentini studenteschi, o degli organismi sindacali, furono considerati, più o meno aspramente, controparti ostili, corpo separato, agenti di un generale meccanismo di espropriazione dei soggetti. La dassica critica marxista della democrazia formale fu generalmente accolta come strumento teorico di base per «smascherare» gli inganni della rappresentanza. Alla democrazia delegata, dalle scuole, alle università, all’idea generale di una nuova organizzazione politica della società, si contrapponeva l’idea di una «democrazia diretta», che, inoltre, aveva il compito di distanziarsi radicalmente dal modello statalista e burocratico dei regimi dell’Est. Ogni delega è consegna della propria volontà politica in mani altrui e infide. Ogni mandato non revocabile è sacrificio all’autoritarismo e negazione del potere sovrano popolare. Se si aggiunge, poi, che questa delega è manipolata, al momento del suffragio, dalla forza dei media e dai poteri forti che li controllano, ne consegue che sia lo stato, sia i partiti o i sindacati che si modellano su uno stato moderno, negano di fatto la sovranità di base da cui pretendono di trarre legittimità. Contro tutto questo il movimento cerca di rifarsi alle forme di organizzazione che i movimenti rivoluzionari si danno nella fase nascente, o nei momenti più tumultuosi e partecipati del conflitto: i soviet del 1917, i consigli operai della rivoluzione tedesca del 1919, le organizzazioni combattenti delle guardie rosse, le formazioni anarchiche nella guerra di Spagna. Si cercano lumi teorici nelle opere di Rosa Luxemburg, Karl Korsch o Pannekoek. Ma l’idea di democrazia diretta resta comunque molto più saldamente legata all’esperienza pratica delle lotte, nelle università prima e nelle fabbriche poi, e dei sistemi di relazione e comunicazione che le attraversano, che non a un modello teorico-politico, compiutamente formelato. La stabilizzazione di forme politiche definite non rientra nell’orizzonte del movimento, almeno per buona parte del 1968. DEMOCRAZIA DIRETTA DIALETTICHE DELLA LBERAZIONE La caratteristica più saliente e generalizzata del 1968 fu il passaggio della dimensione politica dalle sue sedi istituzionali e storicamente consolidate a una pluralità, in continua crescita, di soggetti Dialectics of Liberation (Dialettiche della liberazione) è il titolo di uno straordinario e affollatissirno meeting che si tenne a Londra dal 15 al 30 luglio del 1967. La sua singolarità sta nel fatto che esso riusci a costituire una sorta di punto d’incontro tra le molte culture critiche, differenziate e decisamente plurali, che però si ponevano tutte, in questo particolarissimo tornante degli anni Sessanta, le questioni, appunto, della liberazione. Al convegno parteciparono Herbert Marcuse, con la sua critica della società unidimensionale e della tolleranza repressiva, Paul Sweezy il teorico del capitale monopolistico, il leader del Black Power Stokely Carmichael, i maestri londinesi dell’antipsichiatria, Ronald Laing e David Cooper, che avevano mostrato il carattere patogeno dei rapporti sociali e familiari vigenti. E ancora il poeta Allen Ginsberg, lo scienziato e antropologo Gregory Bateson, il filosofo dialettico Lucien Goldmann. Si sviluppava così un singolarissimo e ambizioso tentativo di mettere insieme tante culture contestative che, pur parlando lingue diverse, convergevano almeno nel denunciare il capitalismo ‘liberale’ come un sistema (nella sua vera e nascosta realtà) oppressivo e totalitario; e si incontravano altresì nella critica del non meno autoritario sistema sovietico. «Tutti gli uomini sono in catene» — scriveva il manifesto programmatico del convegno. Anche se diverse sono le forme di schiavitù da cui essi sono irretiti: tali non sono solamente l’oppressione esplicita, la povertà e la fame; schiavitù è anche quella in cui vivono gli abitanti del ricco Occidente, alienati nella corsa al possesso, alle inutili merci, al prestigio sociale e al potere. La pluralità delle forme di oppressione, che però si sostengono l’una con l’altra e formano un «sistema», può essere contrastata soltanto dalla convergenza potente di una altrettanto articolata pluralità di ‘dialettiche della liberazione’. Quel che caratterizza infatti le culture che alimentano il Sessantotto è proprio una nuova consapevolezza di questo punto: non ci sarà nessuna liberazione politica, nessuna liberazione collettiva, se anche gli individui non saranno capaci di liberarsi da tutte le forme di soggezione, di non-libertà, tanto più insidiose quanto più introiettate dagli individui stessi. EGUALITARISMO Il tema dell’uguaglianza esplose nel movimento degli studenti, da un capo all’altro del pianeta, in una forma originale che va molto al di là di un semplice traguardo egualitario quantitativo. Esso aveva investito un dato essenziale del mondo contemporaneo, la gerarchia dei ruoli. Questa gerarchia, con la conseguente rigida divisione del lavoro, era stata contestata nella scuola, nella famiglia e in ogni rapporto sociale. La gerarchia fu messa in discussione esplicitamente sulla base dei diritti uguali della persona umana, al di sopra di tutti i condizionamenti dei rapporti di forza tra le persone e tra le dassi. Fu considerata di per sé la sostanza stessa della diseguaglianza, ma anche il punto di arrivo di un processo che la determina: processo che riproduce nel lavoro, nella scuola, nella vita civile, differenze e subordinazioni. I movimenti aggredirono dunque la diseguaglianza non solo negli effetti finali, ma anche nelle sue radici determinate. L’egualitarismo che si presentava come riconoscimento di bisogni sociali comuni, conteneva già in sé quelle caratteristiche che travalicario qualunque fine direttamente negoziabile. Era una spinta ideale in grado di promuovere la formazione di un soggetto collettivo e dunque attinente alla costituzione della sua identità. In questa sua dimensione antigerarchica, che non risparmiò i ruoli sociali e politici definiti dal sistema della delega e della rappresentanza nella tradizione democratico-parlamentare dell’ Occidente, la spinta egualitaria ebbe carattere dirompente anche in quelle società che si pretendevano organizzate secondo principi egualitari. In Cina, e più marginalmente in qualche paese dell’Europa dell’est, il movimento egualitario si rivolse, anche violentemente, contro quei poteri (di Stato, di partito) che negavano, nell’affermare le proprie prerogative e nel garantirne la riproduzione, quell’eguaglianza alla quale si richiamavano e dalla quale facevano discendere la propria legittimità. In questa scia si situava il «bombardare il quartier generale» della Rivoluzione culturale cinese e il radicalismo della Comune di Shanghai. Quanto questi movimenti fossero poi condizionati dalla lotta politica tra gruppi dirigenti non cambia molto alla sostanza della spinta che li animava: l’interesse comune di soggetti impegnati in un conflitto contro l’autorità di poteri sovrastanti che si erano resi autonomi dalla concreta realtà del contesto sociale, costituendosi in corpi separati. Non si spiegherebbe altrimenti la fascinazione esercitata dalle guardie rosse, prodotto di una storia e di un costume tanto diversi, sui giovani contestatori occidentali. Per questi ultimi, salvo alcune componenti più o meno estese e più o meno durevoli, l’istanza egualitaria radicale, rappresentò, infatti, più uno strumento di lotta contro le gerarchie che non un principio di buongoverno e disciplinamento delle diversità. Strettamente legato a una condizione di lotta e a un’idea di conflittualità permanente fu anche il movimento egualitario nelle fabbriche (popolato di nuovi soggetti estranei alle tradizioni storiche del movimento operaio), soprattutto in Italia, dove esso investì tanto il rapporto tra capitale e lavoro, quanto i rapporti tra i lavoratori e il terreno della democrazia sindacale. Furono rifiutate le divisioni funzionali all’organizzazione produttiva, affermata una soggettività autonoma contro le compatibilità aziendali (il salario e la salute come «variabili indipendenti»), aggredite le sperequazioni salariali e le gerarchie di fabbrica, preteso il massimo grado di democrazia diretta nella rappresentanza degli interessi operai. L’egualitarismo passò in quegli anni dall’essere assetto ideale di una società futura a pratica di lotta incarnata nei conflitti del presente. FIGURA SOCIALE DELLO STUDENTE «Perché studio? come mai io posso studiare e la maggior parte degli uomini no? a cosa serve questo tipo di studio? e a chi serve?». Formulate in varie maniere e linguaggi sono queste le domande che, negli Stati Uniti come in Francia, in Italia come in Germania, correvano profonde nelle assemblee e nelle teste dei singoli studenti e nel movimento. E sono anche le radici di quelle stesse lotte. Le risposte che vennero date furono assai diverse, e tutte cercavano di ridefinire il ruolo e la figura sociale dello studente. In alcune formulazioni esso venne inteso come figura rivoluzionaria in senso stretto, magari destinata a sostituire, in questa fase storica, gli operai e in genere i proletari. A maggior ragione, in quanto il movimento operaio tradizionale avrebbe introiettato i valori e le compatibilità del sistema. Dunque gli studenti non solo erano «classe rivoluzionaria», ma la sola possibile. Questa discussione si intrecciava con quella sui nuovi processi di proletarizzazione, in particolare dei nuovi strati tecnici e intellettuali. Ma anche si biforcava: nelle posizioni che si rifacevano alle analisi marxiste più ortodosse, si trattava di un vero e proprio passaggio nelle file e a fianco del proletariato già esistente, quello di fabbrica. Semplicemente, il capitalismo andava trasformando in suoi strumenti anche altri strati sociali, come quelli intellettuali, che in precedenza avevano goduto di una parziale, anche se forse apparente, immunità. Gli stessi nuovi processi produttivi attivati nell’industria culturale, riprendevano tutte la caratteristiche di subordinazione e espropriazione che prima erano state tipiche del lavoro operaio: catene di comando, gerarchie, alienazione, divisione e compartimentazione del lavoro, estrazione di plusvalore. Non tutti però la pensavano così, o quantomeno non tutti proponevano una identificazione stretta tra studenti e nuovi proletari. Per altri, gli studenti costituivano semmai una sorta di «categoria sociale» trasversale alle classi e non una classe in sé. La loro si configurava sì come una «lotta anticapitalistica», ma non venne mai candidata a sostituire la lotta operaia. Né a essere l’innesco della rivoluzione. Questa analisi si intrecciava, un p0’ ovunque, con quella del ruolo della scuola e dell’istruzione superiore: «luogo di produzione della forza lavoro qualificata», si disse. Dunque, se non proletario in senso stretto, certo lo studente ne usciva come una figura sociale subordinata, e questo da un duplice punto di vista: sia per la collocazione che lo attendeva nel mondo del lavoro (tecnico subalterno oppure agente e propagandista del consenso sociale), sia per il suo essere già ora «in miseria», dati i meccanismi in base ai quali l’università è costituita. Questi sono basati sulla divisione capitalistica del lavoro intellettuale, sulla parcellizzazione delle conoscenze e sulla loro sterilizzazione in compartimenti separati; sono poi trasmessi solo dall’alto, attraverso formale essenzialmente autoritarie. Presenti, ma del tutto minoritarie, furono invece le posizioni che, volendosj marxiste ortodosse, continuavano a classificare gli studenti come borghesia, anzi «piccola borghesia», il cui eventuale ruolo antagonista poteva darsi soltanto attraverso un salto di coscienza e un parallelo «tradimento» della propria classe di appartenenza per «schierarsi a fianco» dell’unico soggetto rivoluzionario possibile, il proletariato industriale. In questo caso gli studenti erano visti soltanto come aspiranti borghesi frustrati, vittime di un sistema che non era in grado di mantenere le sue promesse di promozione sociale e di status. FORME DELLA COMUNICAZIONE Ciclostile, dazebao, graffiti, manifesti. Questi i principali strumenti cui i movimenti del ‘68 affidavano la propria possibilità di crescere e, soprattutto, di influire sul terreno sociale e politico circostante, specialmente rivolgendosi agli altri soggetti antagonisti, «proletari» e «proletarizzati». Il cidostile, oggi scomparso quasi ovunque, era un attrezzo povero ma assai efficace: serviva una matrice su cui battere il testo con la macchina da scrivere (e sulla quale, eventualmente incidere con uno stilo elementari disegni a tratto). Fissata al rullo inchiostratore, la matrice poteva produrre migliaia di copie su carta, in formato standard, pronte alla diffusione a braccio. Quanto alla impaginazione e alla grafica erano quasi sempre spartane o ingenue: era scontato, in questi casi, che il contenuto fosse più importante della forma e il linguaggio usato sovente carico di retorica, punti esclamativi e enfasi. Erano lunghe notti passati a alimentare la macchina che, con il suo rumore ritmato prende il foglio, lo fa passare, lo scarica dall’altra parte, diventa una musica. I volantini, freschi di stampa, partivano immediatamente per i loro luoghi di destinazione: materiali per un consumo istantaneo, per una mobilitazione d’urgenza, per una contro-informazione diffusa, che contrastasse quella dei mezzi di comunicazione «di regime». Diversa era la funzione del dazebao che riprendeva ,anche nel nome, l’esperienza cinese di un’opera collettiva: manifesto murale o molteplicità di testi appesi allo stesso muro (di una strada, di una scuola). Il dazebao è diverso dal classico manifesto nel senso che assai spesso nasce dal basso e contiene elementi di critica verso il vertice o di denuncia di situazioni specifiche. Poteva essere la contestazione di una base silenziosa nei confronti delle autorità, ma anche delle dirigenze del movimento. Era il modo di prendere la parola in pubblico di coloro ai quali di solito non era consentito. Per definizione e prassi, il dazebao è opera in divenire e interattiva. Sovente suscita repliche, sullo stesso muro o sugli stessi spazi di carta, è il prolungamento dell’assemblea con altri mezzi, il coagularsi in scritte della discussione spontanea. Il suo carattere occasionale, fa sì, purtroppo, che dei dazebao del 68 restino testimonianze minime, meno ancora dei volantini. I graffiti avevano invece un ruolo di comunicazione e di espressione rivolto soprattutto all’esterno, al grande pubblico. Sono scritte e disegni spontanei che i movimenti e i gruppi più o meno organizzati depositano sulle superfici esposte di edifici pubblici. Il fenomeno si manifestò in tutta la sua imponenza, anche visiva, soprattutto durante le giornate del maggio a Parigi dove, a opera degli studenti, e specialmente di queffi della Ecole des Beaux Arts, venne prodotto un numero enorme di scritte murali che invase praticamente tutto il Quartiere Latino e alcune migliaia di mani festi con testi e immagini, eseguiti con la tecnica della serigrafia. Per i movimenti politici alternativi era essenziale la possibilità di occupare uno spazio pubblico esposto: un monumento, le mura interne e esterne di una università o di una fabbrica, i palazzi stessi del potere. Lo scopo è duplice: da un lato si tratta di far pervenire all’opinione pubblica il proprio punto di vista e le proprie notizie (controinformazione), dall’altro si vuole anche segnalare visivamente la propria presenza fisica nel territorio. Negli anni a seguire, tra tutte le tecniche possibili, se ne imporrà una per facilità e rapidità, quella della bomboletta spray. È una forma di comunicazione dal basso che è stata fatta propria dai giovani e dai gruppi alternativi di tutto il mondo e che ha dato luogo a novità grafiche che sono divenute patrimonio comune di tutti, persino della pubblicità. Nello stesso tempo ha generato una lunga e infinita guerriglia tecnologica tra i possessori delle superfici, che le desiderano libere e «pulite» e gli autori anonimi e spontanei dei graffiti urbani. GIOVANI Per tutto il corso degli anni ‘50, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma il resto dei paesi sviluppati seguiranno a breve distanza, si viene costruendo un nuovo campo problematico, l’adolescenza, con al centro un nuovo Oggettosoggetto inquietante e conffittuale, i teen ager. Le tracce di questa emersione sono chiaramente registrate nei temi e nei linguaggi della cultura di massa. Per in prima vàlta i giovani diventarono di per sé veicolo per l’autori- flessione di una intera società su se stessa, poio privilegiato in grado di condensare tutte le inquietudini rimosse, la sensazione d’instabilità mascherata dall’ottimismo conformista del decennio. Fino ad allora, infatti, la problematica giovanile, ben presente fin dalla metà del secolo scorso, era stata per lo più inquadrata nella cornice complessiva della «questione sociale». L’interpretazione più corrente del nuovo fenomeno fu, alla fine degli anni ‘50, l’aumento del benessere economico e del tempo libero, la dilazione dell’ingresso nel mondo del lavoro, la scoperta di un nuovo formidabile bacino di consumo da parte dell’industria culturale. In Europa, soprattutto nella Repubblica federale tedesca, si deve aggiungere una frattura profonda tra la generazione della guerra e quella successiva, accompagnata, nelle sue frange più coscienti, da un rifiuto radicale. Dopo la metà degli anni ‘60, a cominciare dagli Usa, la rivolta giovanile si sarebbe spostata dalle guerre di posizione in famiglia, dai ritrovi di quartiere, dai segni identiflcanti dello stile e del corpo, alle aule universitarie, alle marce, ai sit-in, alle battaglie per i diritti civili, ma con tonalità diverse dal vecchio impegno radical, allargandosi fino ad includere l’intera area della cultura: la creatività, i comportamenti, le modalità di aggregazione. In Europa, l’emergenza di un universo giovanile inquieto e in rivolta, si mostrò prima tra i ragazzi della working class inglese con la sottocultura dei mods, giovani in fuga dall’angusto grigiore della predestinazione operaia, attraverso la musica soul, le anfetamine, gli abiti, le acconciature. Ma mentre il movimento hippie, politico e controculturale, si dimostrò capace di proporre un antagonismo radicale e utopico complessivo, dispiegato sull’intera area dei rapporti sociali e culturali, le sottoculture urbane, più segnate dalla loro provenienza di classe, rimasero un tentativo di resistenza diretta e immediata contro un’oppressione vissuta nella quotidianità, pur estendendo la loro influenza a gusti, stili e modi di vita del decennio. Una forte eco di tutto questo raggiunse l’Europa continentale ben prima del 1968, dove però il costituirsi di un soggetto giovanile antagonista, visibile e di massa, coincise più da vicino con l’ora della politica e del movimento di protesta. Quest’ultimo, conservò, nei suoi esordi, una forte soggettività giovanile, in Germania dove i padri erano universalmente sospetti, ma anche in Francia e in Italia, che andrà però progressivamente attenuandosi man mano che si afferma l’interpretazione del conffitto in termini di «lotta di classe», escludendo con questo ogni autorappresentazione del movimento in termini di conflitto strettamente generazionale. Anche se, nelle forme di aggregazione e di comunicazione, il segno della rivolta giovanile non sarà mai interamente cancellato. GUERRIGLIA Le insorgenze guerrigliere nel terzo mondo, a ridosso della stagione delle indipendenze, furono per l’opinione pubblica più radicale una sorta di moderna incarnazione del bellum iustum. E la ribellione violenta del più debole contro il più forte, ma non più come semplice disperazione e protesta, bensì come identità e progetto, capaci di incrinare poteri incommensurabilmente maggiori. Non sbaraglia il nemico militarmente, in campo aperto, nello scontro tra eserciti, ma insidia l’avversario per ogni dove, ne mina le certezze, ne logora il prestigio e l’immagine, fa esplodere tensioni parziali e imprevedibili colpendolo sui terreno dell’identità e delle compatibilità politiche. La prima teorizzazione di questa violenza è il foco guerrigliero dei cubani, che intende appunto agire sullo squilibrio tra potenza militare e debolezza politica. Nell’esperienza guerrigliera, la violenza armata e la politica, il proselitismo e l’azione combattente, appaiono indissolubilmente intrecciate nella soggettività stessa del guerrigliero. Questi appare, con una buona dose di idealizzazione, una persona più completa e cosciente del militare che esegue ordini e svolge, per così dire, una funzione specializzata. Nell’immagine del guerrigliero la dedizione alla causa si accompagna a un senso tutto personale di giustizia e alla partecipazione soggettiva a un generale processo di trasformazione della società. Tutto questo contribuisce a costruire quell’aura romantica che circonda la figura del guerrigliero e che suggestionò potentemente le giovani generazioni alla fine degli anni ‘60. Molto forte era ancora il richiamo ai partigiani della resistenza antifascista nella seconda guerra mondiale, anche se, diversamente da questi, le guerriglie del dopoguerra sembravano dover fare tutto da sole, contare sulle proprie forze, camminare sulle proprie gambe (sebbene nel mondo bipolare ereditato da Yalta non fosse proprio così). Nei movimenti di guerriglia del terzo mondo i condizionamenti e il gioco geopolitico delle superpotenze pesarono non poco e si resero ben visibili negli assetti politici e statuali e nelle tragedie sociali che scaturirono da molte di quelle esperienze di lotta. La guerriglia appariva dunque una forma violenta di lotta alla portata di tutti, gestibile dal basso, egualitaria, non separata dal tessuto sociale di riferimento, capace di colpire ripetutamente poteri repressivi immensamente più forti e, per questo, i movimenti di protesta nei paesi occidentali ne adottarono o credettero di adottarne il modello. Guerriglia di strada, guerriglia urbana, così venivano correntemente definiti gli scontri di piazza tra manifestanti e forze di polizia. Ma non si trattava solo di una questione di forme di lotta. Segmenti di movimento (alcuni dei quali daranno vita ai gruppi armati degli anni ‘70, essenzialmente la Raf in Germania federale) vollero considerarsi, in una società che ritenevano interamente e inesorabilmente integrata nel sistema capitalistico, come pattuglie guerrigliere della lotta di liberazione del terzo mondo, destinate ad agire nelle metropoli, dietro le linee nemiche. IMMAGINAZIONE AL POTERE L’immaginazione al potere fu lo slogan forse più celebre del maggio francese. E, negli anni che seguirono, forse anche il più deriso. Una sciocchezza degna della altrettanto celebre definizione data da De Gaulle del joli mai, la chienlit, una carnevalata. Ma quell’«immaginazione al potere» non fu solo uno slogan provocatorio, fu la formula che più precisamente restituiva il vissuto di quei giorni, lo stato d’animo dei molti che parteciparono all’«insurrezione». Nel momento culminante del maggio il potere era praticamente sparito, sembrava essersi dissolto, anche se, in realtà, era stato solo provvisoriamente sloggiato dalle sue sedi abituali. Qualche cosa aveva riempito questo vuoto, qualcosa aveva sostituito il potere e occupato interamente lo spazio fisico e simbolico di Parigi. Questo qualcosa, che difficilmente poteva essere assimilato a un nuovo potere, per i suoi caratteri fluidi, spontanei, imprevedibili, poteva anche definirsi «immaginazione». Si trattava dell’occupazione di uno spazio pubblico in cui tutto poteva e doveva essere sperimentato. Una dissacrazione totale aveva investito istituzioni, cultura, abitudini. E dunque tutto poteva essere «immaginato» di nuovo. L’immaginazione al potere indicava quel tempo che si colloca tra un «non più» e un «non ancora», senza sospettare che presto sarebbe stato chiuso in una parentesi. Una dimensione del «possibile» che aveva però materialmente invaso e occupato la scena del reale e che alimentò una straordinaria creatività di massa, nei linguaggi, nelle forme di comunicazione, in una quotidianità anomala, inventata e vissuta giorno per giorno. Dall’Atelier populaire installato nell’Ecole des Beaux arts, straordinario laboratorio in cui lavorarono per più di un mese un migliaio di persone, alla libera tribuna dell’Odeon occupato. L’«immaginazione al potere», non designò dunque un delirante programma di governo, ma una parola d’ordine che prendeva radicalmente di mira le forme stesse della politica, anche quella di opposizione, che furono poi uno dei principali bersagli del movimenti del 1968. Tn questo senso non fu solo una bandiera del joli mai, ma una corrente critica e un bisogno di innovazione creativa che attraversò, con risultati più o meno apprezzabili, i movimenti di protesta in diversi paesi. INDUSTRIA CULTURALE “Nell’analisi critica della società che viene sviluppata dai movimenti studenteschi, un concetto che occupa un ruolo-chiave è quello di «industria culturale». Nelle società del tardocapitalismo, infatti, il conflitto e l’antagonismo sociale sono assopiti, e resi inoffensivi, dalla presenza di un pervasivo apparato di manipolazione delle coscienze, che si giova di tutti i moderni mezzi di comunicazione di massa. La battaglia politica contro la manipolazione dell’informazione da parte dei media asserviti al potere è un aspetto che accomuna i movimenti studenteschi dei vari paesi. Il conflitto tra il movimento e i media tocca il suo apice nella mobiitazione degli studenti tedeschi contro i giornali dell’editore Springer, ma anche in Italia si registrano episodi significativi su questo fronte, come ad esempio la protesta degli studenti milanesi che si spinge fino al tentativo di impedire l’uscita del Corriere della sera. Il concetto di industria culturale, di cui si fece largo uso nel Sessantotto, era stato elaborato già parecchi anni prima. La critica sociale dell’industria culturale, infatti, si trova sviluppata per la prima volta in modo sistematico in un libro pubblicato nel 1947, la Dialettica dell’illuminismo, che forse si può considerare il capolavoro dei due maestri della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Dedicando un capitolo della loro opera filosofica all’industria culturale, gli autori insistono sulla necessità di utilizzare proprio questo concetto, respingendo quello più comune e diffuso di «cultura di massa». A differenza che nel concetto di cultura di massa, infatti, in quello di industria culturale appare chiaro che ciò di cui si parla non è in alcun modo un fenomeno spontaneo. È vero piuttosto il contrario: quella che nelle società tardo-capitalistiche appare come cultura di massa è in realtà il prodotto pianificato di un apparato industriale imponente che, con tutti gli strumenti di cui dispone (radio, televisione, giornali popolari e d’informazione, cinema di consumo, musica, forme varie di spettacolo e di intrattenimento) sostiene e diffonde in modo tanto più efficace quanto più implicito i modelli cli vita e di consumo che meglio si armonizzano con l’assetto vigente dei poteri. In tutte le sue forme, dunque, l’industria culturale è ideologia o, più precisamente, apologia dello stato di cose esistente; ma, a differenza delle ideologie tradizionali, è ideologia in forma di merce. In una società caratterizzata dall’accrescimento quantitativo del tempo libero, i soggetti riempiono questo tempo vuoto acquistando le merci scintillanti che l’industria culturale propone loro. Più che veicolare contenuti ideologici specifici, i prodotti dell’industria culturale tra. smettono comunque un messaggio che, anche quando sia implicito, è molto preciso: viviamo nel migliore dei mondi possibffi, e la cosa più razionale che possiamo fare è non porci troppe domande, e cercare di adattarci ad esso. INTEGRAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA Mentre nella visione del marxismo classico la classe operaia era il soggetto sociale collocato in posizione «naturalmente» antagonista rispetto al capitale, e l’unico che poteva abbattere il regime capitalistico per far nascere una società diversa, questa certezza non può più essere condivisa, a livello generale, dai movimenti studenteschi e giovanili del Sessantotto. In un modo che è assai condizionato dalle diverse situazioni nazionali, quindi, i movimenti si pongono il problema di quale sia la funzione che la classe operaia può svolgere in rapporto alla loro critica radicale della società esistente: essa è ancora il principale soggetto rivoluzionario, rispetto al quale gli studenti possono svolgere una funzione di stimolo o di avanguardia intellettuale, oppure è ormai irrimediabilmente integrata nel sistema? La tesi della integrazione della classe operaia, che avrebbe definitivamente perso il suo potenziale critico e rivoluzionario, viene sostenuta autorevolmente da Herbert Marcuse, il filosofo della Scuola di Francoforte rimasto ad insegnare negli Stati Uniti. Nella situazione presente del capitalismo, sostiene Marcuse, per esempio, nelle conferenze che pronuncia nel luglio 1967 presso la Libera università di Berlino Ovest, non è più possibile individuare una classe che, per al sua posizione, sia in qualche modo predestinata a svolgere il ruolo di forza trainante del processo rivoluzionario. Se Marx individuà nel proletariato la classe rivoluzionaria, sostiene Marcuse, ciò era motivato anche dal fatto che egli vedeva in esso la classe totalmente spossessata e, proprio per questo, libera anche dalle false rappresentazioni ideologiche che adornano il mondo borghese. Nel frattempo, però, questa alterità è completamente venuta meno, la classe proletaria è stata inclusa e integrata; oggi l’individuo operaio non esprime bisogni diversi da quelli che si riscontrano negli altri strati della società. Non si rovescia l’ordine esistente, sostiene però Marcuse, se non si parte innanzitutto dalla affermazione di nuovi bisogni, radicalmente diversi da quelli che la società capitalistica produce e incoraggia, e grazie ai quali si riconferma di continuo il consenso che i governati assicurano ai rapporti sociali dominanti. I portatori di nuovi bisogni radicali, incompatibili con il «principio di prestazione» che domina nella società borghese, non sono dunque gli operai, ma piuttosto coloro come i giovani ribeffi, gli hippies, i beatniks, nei quali si esprime il rifiuto di partecipare ai benefici della società opulenta, la critica dei modelli di consumo e di vita che essa propone. Ma la tesi della integrazione della classe operaia non appartiene solo al filone marcusiano, e anzi si ritrova, sebbene in termini del tutto diversi, nelle tendenze «terzomondiste», che guardano ai «dannati della terra» dei paesi poveri e colonizzati come all’unica forza in grado si sfidare sul serio l’ordine capitalista mondiale. Riprendendo un tema che già Lenin aveva posto nel suo libro sull’imperialismo, si sostiene che la classe operaia delle metropoli capitaliste gode anch’essa in una certa misura dei benefici che derivano dal dominio imperiale, e quindi non ha alcun reale interesse a schierarsi contro di esso. La vera lotta di classe è quindi, in questa prospettiva, quella che oppone le metropoli ricche alle periferie sfruttate del mondo, è la lotta della «campagna» contro la «città». Le teorie dell’integrazione della classe operaia si affermarono nei contesti nei quali questa sembrava una verità evidente, come per esempio negli Usa o in Germania federale, mentre non furono mai davvero accolte in paesi europei come la Francia o l’Italia, dove anzi il boom economico degli anni Sessanta si era accompagnato a una ripresa forte e radicale di antagonismo operaio. LOTTE DI LIBERAZIONE NAZIONALE Alla fine degli anni ‘60 erano ormai venuti pienamente in luce i limiti delle decolonizzazioni che avevano inaugurato il decennio: fallimenti economici, dipendenza fortissima dalle ex metropoli, dai paesi sviluppati o dalla sfera di influenza delle superpotenze. Il movimento dei non-allineati era entrato in una fase di latenza dalla metà del decennio, Cuba e la Cina non nutrivano più grandi illusioni sulle potenzialità rivoluzionarie del continente nero. Il classico schema determinista che prevedeva l’indipendenza, la formazione di una borghesia nazionale, lo sviluppo delle forze produttive che avrebbe poi generato quelle contraddizioni destinate a sfociare nella rivoluzione proletaria, non poteva convincere più nessuno. Per le guerre coloniali ancora in corso, essenzialmente quelle nelle colonie portoghesi in Africa, si riteneva ormai che l’indipendenza, per essere effettiva, avrebbe dovuto coincidere immediatamente con una rivoluzione: la socializzazione dei mezzi di produzione e un rapporto radicalmente riequilibrato tra città e campagna, secondo l’insegnamento cinese. Insomma l’indipendenza si sarebbe attuata insieme all’edificazione di una nuova società e una nuova cultura. L’esponente più significativo di questa corrente di pensiero fu Amilcar Cabral, leader del movimento di liberazione della Guinea Bissau, tra i più vicini allo spirito dei movimenti del 1968. Ma l’idea di liberazione nazionale andava ben oltre la sfera delle guerre coloniali. Il dominio e il potere di ricatto economico, culturale, politico-militare delle potenze occidentali e, in particolare, dell’imperialismo nordamericano si intendeva esteso ai paesi indipendenti e perfino ai più deboli alleati sviluppati degli Stati Uniti i quali, ovunque nel mondo, avrebbero posto un freno alle forze popolati e democratiche e garantito, con ogni mezzo, le gerarchie sociali del capitalismo. Dunque ogni lotta di liberazione nazionale, per essere effettiva, sarebbe stata antiniperialista, in particolare antiamericana, e ogni lotta antimperialista sarebbe stata implicitamente una lotta di liberazione nazionale, secondo l’esempio vietnamita. Questa impostazione, che pur metteva in luce rapporti di forza reali e maccettabffi sudditanze, sottrasse ai movimenti ogni capacità critica nei confronti del cinico gioco di potenza condotto dall’Unione sovietica, del disastroso fallimento dei modelli imposti nella sua area di influenza, dei regimi autoritari e repressivi appoggiati dal Cremlino. Inoltre, affiancata dalla scoperta del relativismo culturale e del valore delle «culture altre», finì col legittimare a sinistra borghesie nazionali corrotte e feroci, regimi fanatici e dittatoriali, in nome del loro antiamericanismo. L’entusiasmo di una parte della sinistra radicale per la rivoluzione iraniana del 1979 fa ancora parte di questa storia. MAOISMO Nei cortei, nelle assemblee e nelle manifestazioni studentesche del Sessantotto, il nome di Mao fu di queffi che più frequentemente risuonavano, anche nella trinità un p0’ surreale «Marx-MaoMarcuse», che per una breve fase effettivamente campeggiò sui cartelli e nelle scritte murali. Ma cosa ci trovavano gli studenti, e anche gli intellettuali europei (da La Cina è vicina di Bellocchio a La Chinoise di Godard) nella Cina del presidente Mao? Molte cose, e certamente anche molto contraddittorie. Per i partitini marxistileninisti, che si formarono soprattutto in Italia, in Germania e in Francia, il maoismo funzionò come una sorta di mito molto populista e molto integralista, come il paradigma e il «santino» di un mondo alternativo a quello borghese, portatore di una sorta di purezza originaria, che i rivoluzionari dell’Occidente dovevano riconquistare, anche attraverso un lavoro di quasi religiosa autocritica (parola chiave dei gruppi maoisti) e renovatio di se stessi. Questo maoismo dagli aspetti molto caricaturali fu quello nel cui «sogno» vissero gruppi come l’italiana «Unione dei marxisti leninisti», che sulle sue bandiere esponeva il motto «servire il popolo». Altri erano però gli aspetti dell’esperienza maoista che attraevano le punte intellettualmente più avanzate del movimento. In Mao si vedeva, innanzitutto, il capo rivoluziobario che aveva tentato, in un paese contadino, una via di sviluppo notevolmente diversa da quella seguita, con enormi costi, dai sovietici: no al primato dell’industria pesante, no alla collettivizzazione forzata in agricoltura. Ma, soprattutto, il Mao amato dal movimento fu quello della Rivoluzione culturale: il Mao dello slogan «bombardate il quartier generale!», della contestazione dal basso di tutti i poteri gerarchici nel partito e nella società, dell’attacco senza quartiere alle incrostazioni burocratiche, e quindi anche ai privilegi o ai poteri basati su (presunti o reali) specialismi. Uno degli aspetti del maoismo che piacque di più al movimento fu proprio la critica alla neutralità del sapere e dello specialismo, che si incontrava con riflessioni analoghe maturate sul terreno più avanzato dell’Occidente. La critica antiistituzionale e antipartito, che è uno dei punti- chiave della Rivoluzione culturale, aveva ovviamente anche un aspetto meno piacevole, che però il movimento tendeva in sostanza a non vedere: il rapporto diretto, senza mediazioni, tra le masse e il capo, con tutta la santificazione che inevitabilmente ne derivava. Proliferavano i ritratti oleografici di Mao, si sventolava il «libretto rosso», raccolta di citazioni dalle opere del Presidente che fungeva al tempo stesso da bandiera e da summa di saggezza, ricalcata sul modello dei più antichi maestri di sapienza orientali.Nel Sessantotto, nentre i giovani d’Europa guardavano con passione e partecipazione a Mao e alla sua inedita rivoluzione, in Cina la rivoluzione delle guardie rosse si stava esaurendo. In seguito essa fu criticata e poi infine addirittura demonizzata, fino alla immagine terribile che ne ha dato agli spettatori di tutto il mondo il più recente cinema cinese (una delle cose migliori, peraltro, che dalla cultura cinese siano venute in questi ultimi anni). Epoca di una grande spinta libertaria o invece tempo buio, caratterizzato da un vero e proprio oscuramento delle ragione? Col problema se la vedranno gli storici; il movimento del Sessantotto, a caldo, non poté averne neppure il sentore. HERBERT MARCUSE L’importanza di Herbert Marcuse per la cultura del movimento del ‘68, almeno in Europa occidentale e negli Stati Uniti d’America, fu grandissima. Molto letto e discusso suo paese d’origine e in quello d’elezione (la Germania e gli Stati Uniti), Marcuse fu anche in Italia e in Francia voracemente e tempestivamente tradotto. I suoi libri più importanti, da Eros e civiltà a L’uomo a una dimensione a Critica della tolleranza, funzionarono per un certe periodo come una bandiera, che ogni studente del movimento aveva l’orgoglio di esibire e di portare con sé. Ma quale fu l’uso che gli studenti fecero di questo filosofo dalla biografia singolare, che prima aveva studiato con Heidegger, poi aveva collaborato con Horkheimer e Adorno, e infine, quando i capiscuola francofortesi erano tornati in Germania, aveva continuato a lavorare in America, insegnando all’università di California? Per capirlo si può cominciare col ricordare un episodio di assoluto rilievo, l’incontro-dibattito tra Marcuse e gli studenti che si tenne nel luglio ‘67 a Berlino Ovest, organizzato dal comitato di lotta della Libera Università. L’idea da cui Marcuse in quella occasione prende le mosse è quella di «fine dell’utopia». Ma attenzione a non fraintenderla: fine dell’utopia non vuoi dire che si debbano abbandonare le utopie per convertirsi al realismo, ma proprio l’opposto: ciò che fino a ieri poteva apparire utopico, sogno e speranza eccessiva anche per il socialismo di ispirazione marxista, è ormai, dice Marcuse, una possibilità del tutto tangibile e realizzabile, realistica almeno nel senso che non è ostacolata da nessun insormontabile elemento oggettivo. Nella società dell’opulenza e dell’automazione, sostiene Marcuse, è ormai a portata di mano non solo la cancellazione della povertà e della miseria, ma anche l’abolizione del lavoro estraniato, e con esso di tutte le forme evitabili di repressione sociale e istintuale. Se le difficoltà ci sono, e anche grandi, come Marcuse non si stanca di ricordare agli studenti impazienti, non è su questo terreno che vanno cercate, ma su quello, che infatti diventa centrale, della soggettività: la seconda tesi di Marcuse, quella che più sarà discussa, è infatti che alla presenza delle più ampie possibilità oggettive di liberazione fa riscontro l’assenza di forze soggettive capaci di cogliere queste possibilità e di tradurle in pratica. La classe operaia, che nell’ottica marxista avrebbe dovuto essere la forza portante della trasformazione sociale, è ormai, almeno nei paesi di capitalismo avanzato, saldamente integrata nel sistema: grazie soprattutto alla diffusione dei beni di consumo e alla potenza manipolativa dei mezzi di comunicazione di massa. Questi costituiscono ormai un apparato ideologico inattaccabile, che assicura il sostegno più efficace alla democrazia autoritaria del tardo capitalismo. Certo, Marcuse non si stanca di insistere sul fatto che sarebbe un grave errore confondere questa col fascismo: la «tolleranza repressiva» del tardo capitalismo ha modi assai più «soft», e consente una vita molto più comoda, anche se riesce altrettanto bene a impedire la formazione di un’opinione pubblica autonoma e cli organizzazioni politiche di autentica opposizione. Anche dietro le forme democraticoliberali, perciò, si cela, secondo Marcuse, una struttura di potere come sempre inattaccabile, sostenuta non solo dai tradizionali apparati di dominio repressivo-polizieschi, ma anche e soprattutto dai nuovi strumenti di manipolazione. Alle nuove forme di dominio, perciò, può contrapporsi — sostiene Marcuse — solo un’opposizione di tipo completamente nuovo: essa ha il suo punto di forza da un lato nelle masse sfruttate del Terzo Mondo (che costituiscono oggi il vero proletariato) e dall’altro nei nascenti (ma minoritari) potenziali di rifiuto e di antagonismo che cominciano a svilupparsi anche nelle metropoli. L’opposizione, qui, non nascerà di certo dalla classe operaia o dai ceti medi che occupano la parte centrale della piramide sociale; essa si svilupperà piuttosto alle sue estremità, e cioè tra le élites studentesche e intellettuali oppure, all’estremo opposto, tra i gruppi più poveri ed emarginati del sottoproletariato urbano. Ma il ruolo dei giovani e degli studenti è essenziale, perché essi sono portatori di nuovi bisogni radicali, fortemente connotati in senso istintuale, erotico ed estetico, che risultano incompatibili con una società dominata dal «principio di prestazione». E proprio grazie all’emergere di questi bisogni radicali che si può cominciare a prospettare una politica della liberazione di tipo nuovo, proiettata verso un’utopia realista, che s’ispira più a Fourier e al suo «mondo amoroso» che non al vecchio Marx. Il grande interesse dei movimenti studenteschi per Marcuse, però, andò scemando piuttosto rapidamente. Quando il filosofo tornò a Berlino nell’aprile del ‘68 fu ancora accolto, nell’aula magna gremita, da studenti che cantavano l’internazionale, ma la speranza rivoluzionaria si nutriva ora di apporti diversi (leninismo, maoismo, tutte le varietà del marxismo eterodosso) e quindi finì per non aver più bisogno del vecchio francofortese. In Francia e in Italia, poi, il movimento coinvolse in pieno anche la classe operaia cosicché il Marcuse teorico dell’integrazione apparve clamorosamente smentito dai fatti e la ricerca di punti di riferimento teorici si volse altrove. MITI DEL ‘68 Il movimento del 1968 fu forse l’ultimo fenomeno collettivo del nostro secolo a imporre nelle piazze di tutto il mondo i propri exempla virtutis, in quell’antico senso etico e civico, che non avrebbero più posseduto altri miti generazionali degli anni successivi. Tanto è vero che fino ai giorni nostri sopravvive, un po’ misteriosamente, il più potente di quegli exempla, quello di Che Guevara. Ma non fu il solo. Nelle strade di mezzo mondo furono scanditi i nomi e issate le immagini di Ho Chi Minh, di Mao Tse Tung, di Fidel Castro, Camilo Torres, Amilcar Cabral, Malcolm X. Come tutti i momenti di rottura, il 1968 ebbe fretta di costruirsi una tradizione e un punto di riferimento nei grandi sommovimenti della storia contemporanea, un campo che, al di là delle differenze che lo attraversavano, delimitasse l’orizzonte della Rivoluzione. Da una parte troneggiava il modello di chi aveva guidato, o stava guidando, grandi masse oppresse nella lotta contro maggiori potenze mondiali, come nel caso di Mao e di Ho Chi Minh, dall’altro, l’esempio di coraggio, sacrificio personale e rifiuto del compromesso, come nel caso di Guevara, Malcolm X, Cabral, Torres. Ma in entrambi i casi si trattava di figure combattenti (il Mao che appassionò fu quello della Rivoluzione culturale), mai di governi stabili, pur generati da rivoluzioni vittoriose (la Cuba di Castro era considerata una trincea di prima linea in guerra contro l’imperialismo americano), il 1968 coltivò molto più un’ idea di rivoluzione permanente, che quella di un socialismo realizzato, anche diverso e migliore di quello miserevole offerto dall’Europa dell’Est. Nulla gli fu più estraneo dell’idea di una «fine della storia». E le figure simboliche che si scelse si attagliavano tutte a questa dimensione conflittuale permanente. Con lo stesso fervore, il movimento elesse a suoi contemporanei e ispiratori pensatori e politici del passato, in gran parte riappropriandosi della tradizione del movimento operaio, ma in parte discostandosene e riscoprendo figure eretiche o dimenticate o minoritarie. Tornarono oggetti di culto, ma anche di studio approfondito e di analisi critica, i capi bolscevichi da Lenin a Trotsky a Zinoviev, i dirigenti sconfitti della rivoluzione tedesca Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, gli uomini della Comune di Parigi, gli anarchici catalani, i movimenti consiliari, i teorici classi c del marxismo, ma anche i marxisti più eterodossi. Si disputava a colpi di citazioni, non sempre pertinenti, cariche dell’autorità di quella tradizione, si istituivano cortocircuiti e improbabili paragoni tra situazioni storiche passate e presenti, ma si alimentò anche un fermento di riflessione critica che avrebbe dato presto i suoi frutti originali, e non solo nell’ambito specffico del pensiero politico. NEOMARXISMI Avido com’era di teoria che gli consentisse di pensare una rivoluzione possibile, il movimento del Sessantotto si gettò voracemente su tutta la gamma di pensiero marxista o neomarxista allora disponibile, e fu altresì all’origine della riscoperta di aspetti eterodossi o dimenticati del marxismo «storico». Intorno al Sessantotto, subito prima o poco dopo, tornarono in circolazione in Germania (talvolta con edizioni pirata) e furono tradotti in Francia e in Italia i grandi dassici del marxismo teorico del Novecento: Storia e coscienza di classe di Lukcs e Marxismo e filosofia di Karl Korsch. Furono letti con avidità i testi classici della Scuola di Francoforte (la Dialettica dell’illuminismo, gli scritti di Horkheimer negli anni Trenta), che gli autori, come raccontò una volta Habermas, avevano lasciato coprirsi di polvere in qualche scantinato dell’Istituto per la ricerca sociale, e non avevano nessuna voglia di veder ristampati. Si ripresero, anche se con meno intensità, le tradizioni antiortodosse e consffiari, dalla Luxemburg a personaggi assai meno noti come Anton Pannekoek. Ma accanto a questa vasta opera di ripescaggio a tutto campo, il movimento si confrontò con quegli intellettuali che, nel dopoguerra, avevano sviluppato il confronto col marxismo e ne avevano dato nuove interpretazioni. Primo fra tutti Louis Althusser: Pour Marx, il testo che lo fece conoscere in tutto il mondo, era uscito in Francia nel ‘6 nel ‘68 usciva l’opera collettiva Lire Le Capital (Leggere il Capitale), alla quale partecipavano Etienne Balibar, Jacques Rancière e altri studiosi della scuola althusseriana. Nei libri di Althusser gli studenti incontravano un approccio al marxismo assolutamente originale: un Marx letto come protagonista di una grande rivoluzione epistemologica, alla luce della suggestiva filosofia della scienza di Gaston Bachelard. Un Marx che rompeva con due grandi ideologie degli anni Cinquanta e Sessanta, lo storicismo e l’umanesimo. E che veniva ricostruito come il teorico di un «processo senza soggetto», come il pensatore non dello storicismo ma, al contrario, della «struttura». Con Althusser il marxismo tornava al centro della scena e apriva un dialogo con tutta una generazione di teorici eterodossi che allora affollavano la scena francese: dal LéviStrauss studioso delle «strutture» della parentela fino a Foucault e Lacan. In Germania, accanto all’eredità della Scuola di Francoforte, tuttora ben viva e vitale (e ripresa, dall’interno del movimento, da un intellettuale precoce e geniale come Hans-Jùrgen Krahl) a occupare la scena vi è anche il pensiero dell’anziano Ernst Bloch, l’autore dello Spirito dell’utopia che nel 1961 aveva lasciato la Ddr per trasferirsi all’Università di Tùbingen, e che nel ‘68 intreccia un dialogo con Rudi Dutschke. Sul fronte dell’analisi sociale ed economica una delle più rilevanti novità viene dagli Stati Uniti: proprio nel Sessantotto Paul Baran e Paul Sweezy (gli animatori della Monthly Review, una delle riviste più lette di quegli anni) pubblicano Il capitale monopolistico, forse il libro di economia più importante di quel periodo. Guardando alla struttura economica e sociale degli Stati Uniti, Baran e Sweezy aggiornano radicalmente gli strumenti dell’economia marxista (esponendosi anche agli strali degli ortodossi), introducono il concetto di «surplus», e fanno i conti con le grandi imprese, lo Stato, il consumismo, il militarismo. OPERAI E STUDENTI L’uscita dalle università e dalle scuole verso il sociale e verso la fabbrica avvenne in maniera pressoché spontanea e quasi obbligata, anche se a produrla furono molti fattori, non tutti coerenti tra di loro. Da un lato i leader degli studenti si resero ben presto conto che il movimento rischiava di rtare soffocato nella dialettica occupazionesgombero-nuova occupazione. Sapevano bene di dover mantenere il proprio specifico e la propria «base di massa», ma anche che quella esperienza poteva finire per semplice esaurimento. Dunque la scelta di proiettarsi all’esterno corrispondeva anche a un bisogno di sostegno e di alleanze sociali. La fabbrica e i quartieri erano il terreno naturale dove cercarle. Dall’altro, alcune elaborazioni erano andate oltre la questione scolastica e della riforma dell’università. Le analisi teoriche tendevano a vedere lo studente come parte della produzione, sia nella versione della «proletarizzazione», che in quella della forza lavoro in via di qualificazione. Perciò gli stessi problemi dell’università non potevano avere soluzione solo dentro le sue mura Non si trattava semplicemente di attivare una politica delle alleanze tra gruppi sociali diversi, ma piuttosto di operare per una più avanzata «ricomposizione di classe». Infatti, se studenti, operai e tecnici erano tutti forze produttive soggette alle dinamiche di controllo e di esproprio del capitale, se tendenzialmente erano la stessa cosa, allora era ragionevole concretizzare questa condizione di uguaglianza in una teoria e in una pratica che riunificasse quello che fino ad allora era rimasto artificialmente diviso. Infine da parte di chi considerava, teoricamente o di fatto, gli studenti come una forza rivoluzionaria, era inevitabile la tendenza a esercitare questo ruolo nella società nel suo complesso. In questa versione gli studenti apparivano come le avanguardie più consapevoli e radicali e il loro compito storico doveva essere quello di propagare l’incendio sociale anche in altri settori. A maggior ragione se si riteneva che le organizzazioni storiche del movimento operaio, partiti e sindacati, avessero in qualche modo «tradito» o comunque ingabbiato l’antagonismo operaio in una pratica e in una teoria riformiste, che non mettevano più in discussione gli equilibri di potere della società. In questa versione si trattava soprattutto di «smascherare» il ruolo di collaborazione di classe delle organizzazioni storiche del movimento operaio e di indicare la linea giusta, anche entrando direttamente nel merito delle piattaforme rivendicative. Quali che fossero le motivazioni, insomma, per le avanguardie studentesche l’andata verso i cancelli delle fabbriche fu dunque un passo naturale, che si concretizzò in diversi modi: dalla costituzione di collettivi misti studenti operai con scopi prevalenti di analisi e di confronto della propria condizione subalterna, diversa ma simile, al volantinaggio un po’ ingenuo davanti agli ingressi per chiedere solidarietà, per convocare manifestazioni comuni o su temi di portata politica generale. I frutti di questo lavoro comune si sarebbero visti, soprattutto in Italia, a partire dall’autunno e poi per tutto il 1969. Ma va detto che, al di là delle manifestazioni comuni, il rapporto organico con la classe operaia riguardò essenzialmente fasce ristrette degli uni e degli altri. Pesò ugualmente e in maniera significativa nelle vicende del sindacalismo italiano; produsse analisi importanti anche sul piano teorico, ma fu inevitabilmente confinato ai protagonisti più politici di quei movimenti. E proprio il mancato «incontro di massa» produsse come unica possibile scelta, la nascita dei «gruppi politici», in forma se non di partito, certo di avanguardie a tutto campo, con una propria elaborazione separata e proprie strutture organizzative diverse da quelle del movimento e delle assemblee. OPERAIO MASSA Con il termine di «operaio-massa» fu designato l’operaio «senza qualità» della fabbrica fordista e, al tempo stesso, il soggetto principale di un nuovo ciclo di lotte, con caratteristiche sue proprie, proprie forme di organizzazione e di insubordinazione. E l’emergere, all’interno della classe, dell’operaio di linea, non qualificato, calato nella più totale parcellizzazione del processo produttivo, posto, nel modo più crudo possibile, di fronte alla sua natura di merce, privo di significative tradizioni ideologiche e organizzative. Questo nuovo soggetto, alimentato dall’immigrazione, dall’espansione economica degli anni ‘60 e dall’organizzazione taylorisrica del lavoro, si contrapporrà alla classica fIgura dell’operaio professionale europeo. cuore della tradizione socialista e sindacale, anticapitalista, ma orgoglioso della sua capacità di produttore e attento alle ragioni dell’«interesse generale». L’«operaio massa», risultato di una gigantesca mutazione della composizione di classe, indotta dalla razionalizzazione taylorista della produzione nella grande industria, che riduce sempre più il lavoro ai suoi caratteri astratti e impersonali, è, al tempo stesso, il protagonista del tumultuoso ciclo di lotte di fabbrica che si colloca a cavallo degli anni ‘60 e ‘70. Queste lotte, alimentate da una diffusa spontaneità, punteranno a inceppare il ciclo produttivo, sfruttandone la natura e le debolezze, con il minimo di rischio e di esposizione per i singoli operai: scioperi selvaggi, interruzioni improvvise, atti di sabotaggio, scontro diretto, e spesso violento, con le gerarchie di fabbrica. Dall’operaio dequaliflcato proverrà poi anche una prepotente spinta egualitaria, insofferente delle divisioni legate alla vecchia scala professionale, e una volontà di partecipazione diretta in costante tensione conflittuale con le organizzazioni sindacali, oltre a una forte accentuazione delle rivendicazioni salariali, le quali rifiutano ormai di subordinarsi alle «compatibffità» dell’azienda. In Italia, dove il nuovo ciclo di lotte operaie raggiunge, a partire dal 1969, l’intensità e la persistenza maggiori, nasce la parola d’ordine del «salario come variabiie indipendente». Sarà proprio questa componente della classe operaia a entrare più facilmente in contatto con i gruppi politici più radicali di origine studentesca e a percorrere spesso nuove vie di politicizzazione proiettate fuori dalla fabbrica e fondate sul rifiuto stesso della condizione operaia. Ma se l’Italia resterà per diversi anni il principale laboratorio dell’operaio massa» e delle sue forme di espressione conflittuale, gli operai di linea non qualificati e la rottura con la tradizione della disciplina sindacale, occuparono un posto importante anche durante il maggio francese, con il rifiuto degli accordi sindacali, pur discretamente favorevoli, di Grenelle e in Germania, durante il ciclo di scioperi selvaggi dell’autunno 1969. OPERAISMO Tra le molte correnti intellettuali, marxiste o neomarxiste, che prepararono il terreno per il movimento del Sessantotto, una delle più ricche intellettualmente e soprattutto una delle più originali fu quella che si raccolse, proprio all’inizio degli anni Sessanta, attorno alla rivista Quaderni rossi. I Quaderni furono la prima e anche la più importante tra le riviste del cosiddetto operaismo italiano, e l’intellettuale che più diede ad essa la sua impronta fu Raniero Panzieri, che veniva dalla militanza socialista e che sarebbe stato poi, fino al licenziamento per motivi politici, redattore della casa editrice Einaudi. Contro i teorici del neocapitalismo come portatore di benessere e di pace sociale, la scommessa dei Quaderni rossi, come scrisse un altro degli intellettuali del gruppo, Mario Tronti, era che l’impetuoso sviluppo del capitalismo (siamo nella fase del cosiddetto boom economico) avrebbe prodotto non solo liveffi più alti di lotta operaia ma, al tempo stesso, una nuova qualità dello scontro di classe: rifiuto della delega in bianco alle organizzazioni sindacali, centralità dell’assemblea operaia, rivendicazione non solo di più salario ma, diceva già allora Panzieri, di potere operaio. I Quaderni rossi furono «operaisti», quindi, innanzitutto nel rivendicare il carattere sommamente politico delle lotte di fabbrica. Non ha senso, diceva Panzieri, pensare di salire al decimo piano, quello politico-statuale, quello delle istituzioni, se prima non si sono pazientemente scalati gli altri nove, se non si sono intaccati i rapporti di potere sociale dalle loro fondamenta, nella fabbrica. In questo conflitto un’arma fondamentale è quello che Panzieri chiama «l’uso capitalistico delle macchine»: l’innovazione tecnologica dei processi produttivi non è neutrale, ma è uno strumento di cui il potere capitalistico si serve per rafforzarsi e ristrutturarsi di continuo, e quindi per scomporre e indebolire la resistenza operaia. L’altro tema non ortodosso sul quale Panzieri insiste è quello del capitale come pianificazione (rovesciando il discorso tradizionale sulla anarchia del mercato): col passaggio al capitalismo di monopolio e allo stato del benessere, il capitale governa e pianifica per la prima volta la società nel suo insieme — un processo che, in qualche modo, cancella la differenza tra la fabbrica e la società intera. Alcune delle ipotesi teoriche dei Quaderni rossi trovano conferma nei mutamenti che si producono nei primi anni Sessanta: la ripresa delle lotte operaie, gli scontri di Piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962. Nel 1964 dai Quaderni rossi si stacca un gruppo (ne fanno parte Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri) che dà vita al giornale Classe operaia. Qui la teoria operaista si radicalizza, si pone in modo più diretto il problema di costruire una organizzazione, riscopre il leninisrno (Lenin in Inghilterra, si intitola un celebre articolo di Tronti nel ‘64, mentre il suo libro più famoso è Operai e capitale). Tipica di questa fase è l’enfasi sulla autonomia della classe operaia: sono i movimenti della classe che generano lo sviluppo e le trasformazioni del capitale, e non viceversa. Dal filone operaista nascono poi, tra il Sessantasei e il Sessantotto, una serie di gruppi di intervento operaio organizzati localmente, come il Potere operaio veneto-emiliano e il Potere operaio di Pisa, e a Roma il gruppo che si raccoglie intorno alla rivista Classe e stato. Nel frattempo però all’interno della vasta galassia operaista si sono ormai sedimentate delle divisioni profonde: mentre il gruppo di Asor Rosa, Tronti e Cacciari si orienta per operare all’interno del Partito Comunista, Negri e altri lavorano per dar vita a organizzazioni politiche autonome. L’ultimo tentativo di una elaborazione teorica comune, e cli altro proffio, è la rivista Coniropiano, che viene progettata nel ‘67 ed esce nel ‘68. Ma il lavoro comune dura poco, perché già dal secondo numero Negri lascia la direzione del periodico. Dalla matrice operaista derivano quindi esperienze politiche molto diverse e anche tra loro conflittuali. PERSONALE È POLITICO «Il personale è politico» è uno slogan del ‘68 che è sopravvissuto a lungo anche nella cultura postsessantottina. Signffica che non ci sono spazi, personali o privati, che siano neutrali o indipendenti dai conflitti e dai poteri che si confrontano nella società. Nella visione sessantottina, tutto è determinato dal sistema, che non è tanto il sistema di produzione, quanto il sistema delle gerarchie, dallo Stato alle istituzioni parziali come la famiglia e la scuola, fino alle istituzioni totali come l’ospedale e il carcere. Ma proprio perché la logica del sistema è onnipervasiva, altrettanto è il suo rovesciamento: ogni affermazione della persona che contesta la propria manipolazione o il proprio utilizzo ai fini della trasmissione e della difesa dei ruoli stabffiti è anch’essa politica, ha già un valore di opposizione e di antagonismo. L’io è politicità irriducibile, compressa e repressa. Politico quindi è, per prima cosa, il conflitto genitori-figli all’interno della famiglia: la posta in gioco nello scontro con le figure parentali è l’introiezione dei ruoli sociali che i genitori pretendono di inculcare ai figli, nell’abito, nelle maniere, nella sessualità, nel linguaggio e più che mai nelle scelte che riguardano l’avvenire. Politica, quindi, non è solo la sfera che tradizionalmente questo concetto aveva delimitato: politico è anche lo spazio dei rapporti interpersonali che gli individui tentano di impostare in modo diverso da quello che il sistema vorrebbe imporre loro. Anzi, la vera novità del Sessantotto forse sta proprio qui: nella consapevolezza del fatto che non c’è liberazione collettiva, cioè politica, se non insieme con un processo di autoemancipazione dell’individuo, che comincia dai luoghi e dai rapporti che tradizionalmente sono stati considerati come privati e personali «Il personale è politico», quindi, è una parola d’ordine che viene scagliata contro quei modi di relazione interpersonale nei quali la generazione ribelle del Sessantotto non si riconosce più. Ma al tempo stesso segna anche il rischio di una sorta di politicizzazione totale, integrale, infine un po’ ossessiva, di ogni ambito dell’esperienza: caduta la separatezza della politica, la si ritrova in ogni dettaglio, in ogni aspetto anche nascosto della vita dell’individuo. Quando arriverà il riflusso, questa politicizzazione totale sarà la prima cosa a essere volta in caricatura: anche per fare l’amore, c’è un modo di destra e uno di sinistra. Negli anni a seguire, sarà invece il femminismo a rilanciare la carica di ribellione contenuta in questa parola d’ordine sessantottina, ma in un contesto sociale e teorico completamente diverso. Quello della differenza sessuale che metteva in questione l’universalità sessualmente indifferenziata del politico. POTERE-SISTEMA I movimenti studenteschi del 1968 e le correnti di pensiero critico che li influenzarono e ne furono influenzate si attribuirono un compito essenziale di «smascheramento»: si trattava di indagare, svelare e trasmettere all’opinione pubblica, l’asprezza dei rapporti reali che si celavano dietro le apparenze sociali, la sostanza di oppressione che sottendeva le civili forme della democrazia. E non si stancarono mai, fino a raggiungere vere e proprie forme di ossessione, di denunciare la complicità tra i comportamenti sociali «normali», le abitudini apparentemente più innocenti, e gli orrori che, in difesa dei rapporti di potere dominanti, venivano perpetrati in paesi lontani o ai danni dei ceri sociali più deboli in casa propria. Le complicità dei saperi scientifici e tecnologici con l’industria bellica e i meccanismi dello sfruttamento (un tema centrale del movement statunitense), l’interiorizzazione di valori egoistici, la discriminazione dei diversi, l’obbedienza e la disciplina (spesso confrontate, soprattutto in Germania, con il significato che avevano assunto durante il nazismo), il rifiuto della partecipazione e l’esaltazione dell’impoliticità, le doppie morali e la separazione drastica tra pubblico e privato, i miti della sicurezza e dell’ordine, tutto questo fu analizzato nei suoi risvolti più crudi e imputato di tenere insieme un «sistema» unitario nei suoi orrori e nei dividendi di benessere che distribuiva. Il 1968 non si rivoltò contro questi o quei governi, ma contro il «sistema», una realtà totalizzante e pervasiva che dominava tanto sullo sfruttamento delle risorse planetarie, naturali e sociali, quanto sui modi di vita dei singoli e sulle loro forme di pensiero (i movimenti del ‘68 saranno successivamente definiti da alcuni studiosi, per esempio Immanuel Wallerstein, «antisistemici»). In questa designazione, poi caduta in disuso, indebitamente derisa e disprezzata, confluivano in realtà, fondendosi spesso in modo semplicistico, alcuni tra i più rilevanti risultati teorici della critica sociale: il concetto marxiano di «modo di produzione» e l’analisi del «feticismo delle merci» con il suo rovesciamento dei rapporti tra persone in rapporti tra cose, la critica della razionalità occidentale e il concetto di dominio, elaborato dalla scuola di Francoforte, i risultati critici della psicoanalisi e dell’antropologia. Si trattava insomma di un approccio critico alla totalità sociale, tutt’altro che privo di fondamenti. «Sistema» funzionava anche senza aggettivi, come «capitalistico» o «totalitario», nell’indicare un insieme di nessi obbligati e di condizionamenti reciproci, che costituivano la «normalità» e facevano di ogni mancato schieramento e di ogni delega irriflessa, una oggettiva complicità con la violenza del potere dominante. E il processo esattamente inverso rispetto alla «teoria sistemica», stabilizzatrice e «esonerante», di Nklas Luhmann, che probabilmente deve una parte della sua fortuna a una reazione all’eccesso di partecipazione e impegno, preteso negli anni dei movimenti. In effetti, la presenza del «Sistema» e dei suoi «tentacoli» nell’immaginario quotidiano del ‘68 assunse talvolta i tratti paranoici, offuscò distinzioni importanti e finì con l’alimentre diffusi stereotipi. POTERE STUDENTESCO Potere studentesco è la prima (e una delle più condivise sullo scenario internazionale) tra le parole d’ordine del movimento degli universitari. Ma è anche un motto che segna una fase e che indica un problema: potere studentesco è la parola d’ordine della prima fase del movimento, quella che si concentra sulla lotta all’interno dell’istituzione universitaria, ed è quindi lo slogan che verrà superato e messo in discussione quando, troppo piccole per la carica rivoluzionaria generale del movimento, le università e le scuole diventeranno nei fatti la base dalla quale il movimento partirà per portare il suo attacco generale al sistema. La rivendicazione del potere studentesco che, per fare solo due esempi, risuona tanto nelle aule di Palazzo Campana a Torino, quanto nell’edificio londinese della London School of Economics, è quasi il rovescio di quella critica dell’autoritarismo accademico che è, un po’ dappertutto, il fattore d’innesco della rivolta degli atenei. Gli studenti rifiutano di essere i soggetti passivi di una formazione sulla quale non hanno alcuna voce in capitolo, e il cui scopo fondamentale è quello di riprodurre subordinazione, obbedienza, e rinuncia alle capacità critiche. Criticano l’università come meccanismo d’integrazione sociale che ha la funzione di riprodurre lealtà di massa nei confronti dei poteri e dei sistemi di idee dominanti. Potere studentesco è quindi, in primo luogo, la rivendicazione di controllare o autogestire il proprio percorso universitario, i contenuti dello studio, i metodi di apprendimento, le modalità cli funzionamento della istituzione universitaria nel suo complesso, gli organi che la governano. Anche in questo primo senso, però, potere studentesco non è una rivendicazione cogestionale o riformistica, ma mira piuttosto alla costruzione di una università altra: occupazioni, controcorsi, università critica, università autogestita. Pratiche in cui la conoscenza diventa il risultato di un processo di autoeducazione collettiva finalizzato alla costruzione di un sapere critico che interrompe la funzione integrativa dell’università e ne fa anzi la base propulsiva di un generale attacco al sistema. Quindi potere studentesco è anche, svolgendo le implicazioni del primo e più ristretto signfficato, affermazione di un potere degli studenti non solo dentro le università, ma più in generale nella società. Gli studenti, come scriveva David Aldestein, uno dei leaders della protesta alla Londori School of Economics, devono porsi come un potere nella società capace di condizionare le scelte di governo e di influenzare l’opinione pubblica. Potere studentesco, quindi, è una parola d’ordine a partire dalla quale si genera una dinamica instabile: poiché l’università è l’anello integrato di un più complessivo sistema sociale, trasformarla nel senso del contropotere studentesco non è, in fin dei conti, né possibile né utile: gli studenti finiscono per autocomprendersi come l’avanguardia di un processo rivoluzionario più generale, la parola d’ordine non è più potere studentesco ma potere alla classe operaia. PROLETARIZZAZIONE Con proletarizzazione s’intese designare la progressiva assimilazione di tecnici, impiegati, ricercatori alla condizione operaia. La teoria della proletarizzazione gettava così un ponte oggettivo fra le lotte studentesche, soprattutto quelle delle facoltà scientifiche, e le lotte di fabbrica. In questione non era più un «tradimento» da consumare nei confronti della propria dasse d’origine, ma il riconoscimento d’un dato di fatto materiale e irreversibile, provocato dallo stesso sviluppo capitalistico. Se anche si fosse trattato soio d’una tendenza sarebbero state proprio le lotte nelle università ad accelerame i tempi, anticipando nei comportamenti conflittuali un’identità oggettiva ancora implicita o parziale. La discussione sulla proletarizzazione fu, ad un tempo, carica di effetti pratici, dipendendo da essa i modi di stabilire rapporti con le fabbriche, e gremita di questioni dottrinarie. Molte furono le categorie marxiane chiamate in causa, più o meno creativamente. Anzitutto, quella di lavoro produttivo. Premesso che per Marx è produttiva solo l’attività da cui il capitalista ricava un plusvalore, può considerarsi tale quella d’un chimico o d’un geometra? Gli «antiautoritari» ritenevano che i ruoli intermedi cui si accede provenendo dall’università fossero solo anela subalterni della gerarchia, moli da controllori controllati, certamente alienati, ma pur sempre improduttivi. I fautori della «proletarizzazione», invece, sostenevano che il lavoro tecnicointellettuale, lungi dal comandare o sorvegliare o progettare, era del tutto inserito nella fabbrica. zione diretta del prodotto, contribuendo pertanto alla formazione del profitto. Né si trattava solo di determinazioni economiche, ma anche della stretta analogia fra mansioni operaie e mansioni tecniche. Oltre al rapporto salariale e al pluslavoro, le stesse concrete modalità esecutive segnalano l’unificazione oggettiva dell’intero lavoro dipendente: nell’ufficio e nel laboratorio, proprio come in officina, v’è parcellizzazione, anonimia, intercambiabilità, ripetitività. Ancora in termini marxiani, il lavoro «potenziato» o «complesso» dell’intellettuale può senz’altro venir considerato un mero multiplo del lavoro «semplice» alla linea di montaggio: multiplo sempre computabile in base alla universale unità di misura, il tempo di lavoro astratto. La teoria della proletarizzazione comportava il privilegiamento, nelle facoltà e nelle scuole, di tutti quegli obiettivi in grado di meglio sottolineare la sintonia esplicita con le lotte operaie. I costi dello studio (tasse, libri, alloggi per i fuorisede, presalari ecc.) dove. vano costituire il pendant delle rivendicazioni salariali in fabbrica. Allo stesso modo, veniva istituita una similitudine fra organi.zzazione del lavoro e organizzazione dello studio, allargando a quest’ultima l’istanza d’un «controllo» e d’un capillare contropotere. Inoltre, la riflessione sulla scienza, o meglio sulla sua non neutralità, anziché concludere genericamente con l’interfunzionalità fra saperi e poteri, riceveva una drastica specificazione: la scienza è un’immediata forza produttiva, si rapprende nel capitale fisso, nel sistema di macchine, nelle tecnologie miranti a intensificare lo sfruttamento, è li la sua verità ed è da ll che deve muovere la critica. ll concetto di proletarizzazione è imparentato con un altro termine, che allora si diffuse largamente: ricomposizione di classe. A «ricomporsi» può essere solo ciò che è già, almeno virtualmente, omogeneo. La polemica con la politica «delle alleanze» è aspra e insistita: agli operai non sta, come vorrebbe il progressismo democraticoriformista, trovare un terreno di confluenza con «ceti medi» e strati «popolari» vari, ma per l’appunto ricomporsi come classe politica, invertendo quella frammentazione connaturata all’essere la forza lavoro una merce, seppur speciale. REPRESSIONE Contrariamente a quanto capita spesso di sentir affermare, il movimento del ‘68 non fu accolto con nessuna delicatezza. Al contrario, gli episodi di contestazione determinarono sovente risposte spropositate. Fu solo il carattere di massa dei movimenti e il fatto che vi partecipassero per la prima volta ceti sociali diversi ed eterogenei rispetto a quelli, operai e contadini, che avevano animato i durissimi scontri di piazza del dopoguerra, a porre, in un primo momento, qualche argine all’impiego di mezzi repressivi. Gli anni della contestazione videro dovunque un inasprimento della legislazione relativa all’ordine pubblico e, se qualche ammorbidimento vi fu, questo fu rivolto solo alle normative riguardanti il costume, oltre che determinare un modesto ampliamento dei diritti politici. Cinasprimento della legislazione sull’ordine pubblico è una tendenza che, cresciuta a dismisura negli anni ‘70, soprattutto in Italia e Germania, non ha mai subito una decisa inversione, neppure dopo il declino delle insorgenze sociali violente. Ma i movimenti del 1968 investirono anche paesi governati da regimi dittatoriali, come la Spagna e la Grecia, da regimi autoritari come il Messico, il Brasile, la Polonia. Qui la repressione fu durissima e sanguinosa: stragi, arresti di massa, pesanti pene detenrive, torture, persecuzioni che si protrassero per anni, restrizione dei diritti politici e civili, militarizzazione della vita pubblica. Ma anche nei paesi a governo democratico le politiche di repressione non arretrarono di fronte a nulla. Negli Stati Uniti fu condotta una vera e propria guerra guerreggiata di annientamento contro i ghetti neri in rivolta e il Black Panther Pan, ma anche la repressione contro gli studenti e il movimento giovanile fu feroce: dai selvaggi pestaggi di Chicago fino all’uso delle armi da fuoco (i morti di Kent all’inizio degli anni ‘70). In tutta Europa la reazione contro le manifestazioni studentesche e le occupazioni delle università fu durissima: arresti, processi, pesanti condanne, pestaggi, intimidazioni, migliaia di feriti, un numero non trascurabile di morti. Vi fu un massiccio ricorso all’infiltrazione e alla provocazione, per convogliare verso i movimenti il riflesso d’ordine e l’odio del corpo sociale (la «strategia della tensione» in Italia), si fece uso o si favorirono indirettamente formazioni fasciste e neofasciste (in Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna) per intimidire i movimenti studenteschi o trascinarli in una spirale di guerra per bande. I media, salvo eccezioni più o meno convinte, attaccarono e denigrarono in ogni modo i movimenti e in alcuni casi, come in Germania federale, si adoperarono per creare un vero e proprio clima di linciaggio intorno alla contestazione studentesca. Dovunque l’ascolto delle istituzioni fu minimo e il riconoscimento dell’interlocutore negato. Dovunque i contestatoti si trovarono di fronte nuovi corpi antisommossa, legislazioni d’emergenza (nel ‘68 in Germania vengono varati i famigerati Notstandsgesetze) magistrature inflessibili. La repressione, tuttavia, lungi dallo scoraggiare il movimento contribuì grandemente ad alimentarlo, istituendo una spirale in crescendo di repressione e protesta. Quasi quotidiane divennero le manifestazioni «contro la repressione» a loro volta represse. Inoltre, la reazione dello stato e il comportamento della polizia e della magistratura, sembravano confermare la diagnosi dei contestatori sulla natura sostanzialmente violenta del «sistema», e aiutavano a diffonderla nell’opinione pubblica. Solo dove la repressione raggiunse la massima intensità, come nella strage di piazza delle tre culture in Messico, con i carri armati per le strade, a Praga o a Rio de Janeiro, o con il pogrom antistudentesco e antisemita di Varsavia, essa riuscì a spazzare via il movimento o a spezzarne, per lungo tempo, la continuità. REVISIONISMO L’accusa di «revisionismo» rivolta ad avversari politici e «concorrentix., provenienti dalla stessa tradizione ideologica ebbe largo corso nel movimento del 1968 e riprendeva uno dei termini classici dello scontro politico e ideologico all’interno del movimento operaio, socialista e comunista. Revisionjsmo designava, nella tradizione, un allontanamento dall’impianto politico-teorico del marxismo, nel senso della rinuncia al suo programma rivoluzionario a favore di un accomodamento riformjsta con i rapporti di produzione capitalistici, oppure nel senso di una interpretazione evoluzionistica e priva di rotture del processo di trasformazione del modello sociale secondo uno schema «progressista». La letteratura socialista a cavallo del secolo, la divisione del movimento operaio con la prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre, la lotta politica tra bolscevichi e menscevichi prima, e tra i bolscevichi stessi poi, offrivano uno sterminato repertorio per l’impiego «combattente» del termine revisionismo, dal quale i diversi gruppi politici nati intorno al 1968, soprattutto queffi marxisti-leninisti, attinsero a piene mani. Per questi, in Occidente, revisioniste erano le organizzazioni storiche del movimento operaio, non solo o non tanto perché avevano accettato, più o meno strategicamente, il sistema democratico- parlamentare borghese come quadro e orizzonte del proprio agire politico, quanto perché ostacolavano la radicalità delle lotte, invitavano al compromesso e soffocavano le «potenzialità rivoluzionarie delle masse». Dalla tradizione del trotzkismo fu massicciamente ripresa l’idea del «tradimento» dei gruppi dirigenti comunisti, che avevano sacrificato la «permanenza» della rivoluzione alla creazione di un potere burocratico, ferocemente attaccato alla sua autoconservazione e autoriproduzione. In generale, la politica delle organizzazioni storiche del movimento operaio fu considerata un elemento di resistenza contro l’urgenza e la radicalità della domanda di trasformazione sociale che si riteneva espressa da ampi settori sociali o comunque radicata nella superiore razionalità dell’analisi marxista. In America latina fu duro scontro tra i fautori del foca guerrigliero e i partiti comunisti inseriti integralmente nel prudente gioco geopolitico condotto da Mosca. Ma anche all’interno del mondo comunista l’accusa di «revisionismo» continuava ad essere operante, nello scontro su1 modello di sviluppo tra Cina e Unione sovietica, nella propaganda stalinista albanese (revisionismo assumeva qui anche il senso di condanna dell’allontanamento dall’ortodossia staliniana dopo il ventesimo congresso del Pcus nel 1956), nella repressione sovietica del Nuovo corso, accusato però di una colpa ancora più grave, quella di volere imboccare bui court la via del capitalismo. L’Urss stessa fu a sua volta considerata revisionista non solo da cinesi e albanesi, ma anche da larga parte dei movimenti radicali in Occidente che ritenevano non vi fosse stata edificata alcuna società socialista ma un capitalismo di stato i cui interessi di superpotenza ostacolavano o strumentalizzavano lo sviluppo delle lotte nel mondo. Nel suo insieme il movimento del 1968 fu decisamente antisovietico, sebbene in buona parte ostile all’idea di pluralismo e spesso poco sensibile alla richiesta di libertà democratiche nei paesi del socialismo reale. RIVOLUZIONE SESSUALE La novità del movimento studentesco nell’Occidente sviluppato non fu quella di proporre e praticare una liberazione sessuale. La liberazione sessuale è stata in Occidente un processo di lunga durata che ha percorso almeno tutto il nostro secolo, collegato ad altre tendenze primarie: l’industrializzazione, il lavoro femminile, l’urbanizzazione, il venir meno della famiglia allargata. Tutti fenomeni che subirono una forte accelerazione nel dopoguerra. A queste grandi tendenze strutturali di fondo, si sovrappose un nuovo costume che precede di gran lunga il 1968: un atteggiamento più libero verso la sessualità è teorizzato e praticato dall’esistenzialismo francese, cui si ricongiungerà l’antipsichiatria britannica (il libro di Latng e Cooper Ragione e violenza è dedicato a Sartre), per non parlare della diffusione di massa di nuovi modelli, dalla Londra trasgressiva dei primi anni sessanta agli Stati Uniti: non a caso Elvis Presley fu chiamato «Elvis the Pelvis» per il suo modo di cantare. La liberazione sessuale fu quindi un processo più vasto e più lungo del movimento del ‘68. Quello che caratterizzà i movimenti del 1968 fu il fatto di considerare la liberazione sessuale un «gesto politico». La base teorica era duplice. Da un lato le analisi e gli studi dello psicana]ista austriaco Wilhelrn Reich negli anni ‘20 e ‘30 e il suo tentativo di immettere una politica sessuale per i giovani (Sexpol) nel movimento comunista tedesco. Dall’altro il filone antiautoritario della Scuola di Francoforte, culminato nell’Eros e civiltà di Herbert Marcuse, che ricollegava la repressione sessuale alla formazione di quella personalità autoritaria, gregaria e acritica, ad un tempo, che costituisce la base di massa dei fascismi e di ogni forma violenta di dominio. Per i movimenti del 1968 in Occidente, la sessualità fu un versante decisivo della nuova libertà politica da conquistare e costruire. Altrimenti sarebbe incomprensibile un termine come «lotta per la liberazione sessuale». Anche per questo il pieno e libero possesso di questa dimensione doveva essere esteso a tutti i soggetti tenuti sotto tutela dalle istituzioni, come i bambini (l’esperienza degli asili antiautoritari, soprattutto in Germania) o i malati di mente (la lotta contro l’istituzione manicomiale e le sue regole). La sessualità libera diventava così una componente decisiva del soggetto «non alienato», dell’«uomo nuovo», non prevista dalla tradizione maggioritaria del movimento operaio o abbandonata lungo la strada. Fu un elemento cruciale della nuova ideologia del movimento, un terreno «pubblico» su cui rompere e contrapporsi ai tabù e alle norme dominanti. Bisognava svelare il significato «politico» dei rapporti umani più intensi e privati, fame il centro, esibito e mostrato anche con intenti provocatori e trasgressivi, della propria irriducibile alterità alla società e al «sistema» - «Naturalità,>, contrapposta alle ipocrisie sociali e agli artifici disumanizzanti della società produttiva, mezzo «pieno» di comunicazione tra le persone, strumento di identità collettive: questa fu la coscienza sessuale, del tutto pubblica, dei movimenti del 1968. Di tutto questo, i mass media dell’epoca colsero solo l’aspetto di colore e rovesciarono completamente il senso del fenomeno, desumendo dalla centralità della liberazione sessuale il carattere pretestuoso della volontà politica che si andava affermando tra i giovani. Era il contrario esatto di quanto stava accadendo. SCUOLA DI FRANCOFORTE Tra i vari filoni di pensiero critico che alimentarono il movimento degli studenti del Sessantotto, quello dal quale il movimento attinse alcune delle idee più caratterizzanti fu senza dubbio la cosiddetta Scuola di Francoforte. Nel Sessantotto, i maestri del pensiero francofortese (Max Horkheimer, Theodor Adorno e Herbert Marcuse) erano ancora viventi e attivi; Adorno sarebbe morto l’anno dopo, nell’agosto del 1969. Sebbene nel Sessantotto i grandi vecchi assumessero posizioni molto diverse (a un estremo il conservatorismo cauto di Horkheimer, all’altro il rivoluzionarismo quasi giovanilistico di Marcuse) la strada che avevano percorso insieme era stata lunga e significativa. L’Istituto per la Ricerca sociale, infatti, aveva ormai nel Sessantotto una lunga storia alle spalle. Inaugurato a Francoforte nel 1924, l’Istituto era nato (grazie al mecenate finanziatore Felix Weil) come centro di ricerche sul marxismo e sul movimento operaio, e aveva sviluppato in particolare le sue analisi di teoria sociale a partire dal 1930, quando Horkheimer ne aveva assunto la direzione. Tre anni dopo 1-litler prendeva il potere in Germania. E per l’Istituto iniziava il lungo periodo dell’esilio, che avrebbe portato Horkheimer e, suoi collaboratori prima a Parigi e successivamente negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni Trenta l’Istituto trovò ospitalità presso la Columbia University di New YorkProprio l’esperienza del totalitarismo fu la problematica decisiva attorno alla quale si concentrarono, tra gli anni Trenta e i Cinquanta, le ricerche filosofico.sociologiChe elaborate dalla Scuola di Francoforte. Le radici profonde dell’autoritarismo e della acquiescenza al dominio totalitario vennero indagate in una grande opera collettiva pubblicata nel 1936, gli Studi sull’autorità e la famiglia, cui collaborarono tra gli altri Marcuse, lo psicanalista Erich Fromm (che in seguito avrebbe rotto con gli altri per il suo «revisionismo» freudiano), lo studioso del dispotismo orientale Karl August Wittfogel. Nel 1942 un altro studioso legato all’Istituto, Franz Neumann, pubblicò una delle più profonde analisi della Germania nazista, che intitolà Behernoth, dal nome di un mostro mitico citato nella Bibbia e ripreso da Hobbes come simbolo del disordine e del caos. Nel 1950, a New York, usci la monumentale ricerca sulla Personalità autoritaria, frutto della collaborazione tra un filosofo come Adorno e studiosi statunitensi di formazione molto più empirica, nella quale si indagavano, con strumenti soprattutto freudiani, le radici psicologiche del tipo di personalità incline al pregiudizio, all’autoritarismo e all’antisemitismo. il nocciolo filosofico di tutto questo lavoro di ricerca lo si trova espresso, in tutta la sua radicalità, nel volume scritto da Adorno e Horkheimer nell’esffio americano che s’intitola Dialettica dell’illuminismo, e che studia appunto il processo per cui la razionalità illuminata dell’occidente ha potuto generare dal suo seno la mostruosa barbarie del nazismo. Nel dopoguerra, mentre Marcuse restò negli Stati Uniti, divenendo poi un interlocutore pri- vilegiato del movimento giovanile, Horkheimer e Adorno tornarono nel vecchio continente. Negli anni Sessanta il primo si ritirerà nella quiete di Montagnola, in Svizzera, mentre Adorno, nell’Istituto di Francoforte, si scontrerà con la contestazione studentesca, in un conflitto che avrà anche episodi spiacevoli. Marcuse, invece, polemizzerà con i suoi antichi sodali, in nome dei vecchi ideali comuni. Tra i paradossi del Sessantotto c’è anche quello per cui gli studenti del movimento, che soprattutto in Germania si erano formati sui testi di Adorno e Horkheimer, si troveranno a scontrarsi proprio con i maestri dai quali più avevano imparato. SELEZIONE E MERITOCRAZIA Tutti i movimenti studenteschi, senza eccezione, si scontrarono in primo luogo con i meccanismi di selezione e giudizio propri dell’istituzione scolastica. Le università e gli istituti superiori, cresciuti enormemente con la scolarizzazione di massa degli anni ‘60, mostravano ormai in pieno la contraddizione patente tra la vecchia funzione eli. tana di selezionare e formare una classe dirigente e il bisogno di una acculturazione più diffusa, collegato alle esigenze dello sviluppo economico. Ma la contestazione studentesca non si adagiò affatto sull’onda di questa modernizzazione, peraltro minata da contraddizioni e ritardi, scegliendo, al contrario, di schierarsi contro la corrente. Non fu preso di mira solo il vecchio classismo, che precludeva ai ceri popolari l’accesso all’istruzione o glielo rendeva impresa ardua, riservata a individui d’eccezione, ma anche la pretesa di selezionare quadri sulla base delle necessità funzionali allo sviluppo economico. In questo gli studenti vedevano un elemento inaccettabile di eterodirezione e di cancellazione della propria soggettività. Il movimento rifiutò radicalmente una scala dei meriti e delle prestazioni fondata sulla divisione sociale del lavoro e sui ruoli funzionali stabiliti dall’organizzazione del lavoro e dalle leggi dell’accumulazione capitalistica, del tutto indipendentemente dai bisogni e dalle aspirazioni dei soggetti concreti. Il merito preteso dall’istituzione scolastica apparve misurato sul grado di adesione a un sistema di valori che veniva radicalmente rifiutato. Per questo la scuola fu tacciata di duplice classismo: da un lato perché penalizzava, dietro la falsa apparenza delle pari opportunità, i soggetti più deboli per provenienza famffiare di classe, dall’altro perché trasmetteva un sistema di valori proprio della società divisa in classi. Il rifiuto della scala dei meriti comportò una lotta senza quartiere contro tutti i meccanismi di selezione che ne conseguivano. La selezione e la «meritocrazia», con i loro fondamenti pseudoggettivi, furono considerate responsabili di un enorme spreco di risorse sociali e individuali, di «scartare» arbitrariamente un grande numero di individui e di mutilare gravemente le potenzialità degli altri, piegandoli alle sole funzionalità produttive. Alla competizione per la conquista di un posto nella scala gerarchica socialmente riconosciuta fu contrapposto un processo di crescita collettiva su contenuti e strumenti propri del movimento, strettamente connessi con una idea di «smascheramento» delle apparenze e delle ipocrisie sociali. Le università furono in realtà, in quegli anni, nonostante semplificazioni ideologiche e approssimazioni d’ogni genere, teatro di una febbrile attività intellettuale, di elaborazione, di apprendimento e di comunicazione, anticipatrice di talenti e facoltà che solo molto più tardi avrebbero rivelato appieno le proprie potenzialità, anche produttive. SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO Il «socialismo dal volto umano» fu il fortunato slogan nel quale si espressero, di fronte all’opinione pubblica di tutto il mondo, le speranze e i sogni della primavera di Praga e del suo popolare leader Alexander Dubcek. Lo slogan certamente non poteva piacere ai sovietici perché sottintendeva, senza alcun dubbio, un giudizio di condanna senza appello degli errori ed orrori del socialismo fino ad allora esistente, che veniva in sostanza tacciato di disumanità. Alle spalle del socialismo dal volto umano vi era quindi la sentenza sullo stalinismo e sui suoi crimini che già era stata pronunciata da Krusciov nel suo rapporto al ventesimo congresso del Partito sovietico, nel 1956, ma che non si era tradotta in un vero processo di riforma e di democratizzazione dei paesi a economia socialista. Il socialismo dal volto umano, quindi, aveva l’ambizione di riprendere il discorso interrotto sul rinnovamento del socialismo, l’unica chiave che poteva consentire, secondo Dubcek, di riaprire anche in Europa occidentale un fronte di lotta più avanzato: un socialismo rinnovato avrebbe contribuito a indebolire, a Ovest, il pregiudizio anticomunista, e quindi ad aprire nuove possibilità per i partiti comunisti occidentali che fossero stati capaci di coglierle. Il punto decisivo per una riforma del socialismo veniva individuato, dai teorici del nuovo corso, nella questione della democrazia; ma con essa non si esauriva di certo lo spettro delle necessarie riforme. Si voleva innanzitutto l’abolizione della censura, la possibilità di dibattere liberamente le idee, il diritto per tutti i cittadini di dire la loro sul processo di rinnovamento in corso. Si voleva farla finita con i metodi autoritari e stalinisti che avevano segnato così profondamente la storia del «socialismo reale». Non era in discussione la base economica, ma anche su questo terreno appariva necessaria una trasformazione, che ridefinisse i rapporti tra piano e mercato, tenendo conto anche di un modello dte allora appariva a molti interessante, quello della autogestione jugoslava. Vi era inoltre una nuova attenzione verso la necessità di incrementare la ricerca scientifica, e di potenziare il ruolo della intellighenzia tecnicoscientifica, che si sentiva mortificata e frustrata nel contributo che riteneva di poter dare allo sviluppo socialista. La ricerca di un socialismo dal volto umano fu interrotta dai cingoli dei carri armati del Patto di Varsavia; si trattò comunque del più significativo tra i tentativi di autoriforma del socialismo esteuropeo. Non sappiamo quali frutti avrebbe potuto dare, se non fosse stato estirpato prima ancora di mettere radici. SOCIETÀ DEI CONSUMI La critica della società dei consumi è uno degli elementi che segnano la novità e la specfficità del movimento del Sessantotto rispetto ad altri movimenti di massa che lo precedettero o lo seguirono: gli studenti non chiedono di accedere al mondo del consumo di massa, del quale come giovani e come appartenenti alla media e piccola borghesia sono in qualche misura già partecipi. Muovono piuttosto un attacco frontale alle forme dominanti del consumismo, che sfocia in episodi paradigrnatici come per esempio le contestazioni e le azioni di disturbo contro il rito profano dello shopping natalizio. La critica della società dei consumi ha certamente anche un lato populistico o pauperistico: attacca, in nome di chi non partecipa alla festa, le forme di consumo vistoso riservate agli strati superiori della borghesia, la cui funzione primaria è quella di esibire e confermare uno status (si pensi, per esempio, ai pomodori lanciati contro i buoni borghesi che affollano le prime della Scala, a Milano). Ma al tempo stesso nella critica della società dei consumi si riflette anche lo sfondo culturale di cui il movimento del Sessantotto si nutre, e in particolare l’influenza della Scuola di Francoforte, cui si deve la prima e la più influente critica «da sinistra» della società opulenta caratterizzata dal consumo di massa. Il guaio non è — avevano scritto Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo — che i beni di consumo liquidino ottusamente la vecchia metafisica; il guaio è che diventano essi stessi una moderna e impenetrabile metafisica. O, in altri termini, una fitta cortina ideologica che, rendendo tutti gli individui eguali in quanto consumatori, nasconde e fa sparire i reali rapporti di classe e di poter& nella società. Ma il rifiuto della società dei consumi diventa, nel movimento degli studenti, anche la molla a partire dalla quale si cercano stili di vita alternativi, modi di consumo diversi da queffi egemoni. La difficoltà di sottrarsi alla logica onnipervasiva della società dei consumi e dello spettacolo si rivela paradossalmente proprio nel fatto che la rivolta anticonsumista genera senza volerlo anch’essa le proprie mode e i propri oggetti di culto (il giaccone tipo Eskimo, le scarpe Clark, la Renault 4, l’abbigliamento in stile militare). Oggetti di consumo ahemativo che diventano espressioni simboliche della propria identità, e che, con le loro ammaccature e i loro strappi, vengono feticizzati quasi come i buoni borghesi feticizzano i capi d’abbigliamento firmati da prestigiosi stilisti. Quasi a confermare ironicamente le analisi catastrofiche sul sistema che tutto omologa, anche le bandiere anticonsumiste diventano così per contrappasso oggetti un p0’ feticistici di consumo e di culto. SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO La fortunata e, nel tempo, anche abusata dizione «società dello spettacolo» è, originariamente, il titolo di un libro che il più importante tra gli intellettuali situazionisti, Guy Debord, pubblica nel novembre del 1967, proprio alla vigilia dell’esplosione del movimento del Sessantotto. Debord aveva fondato nel 1957 l’Internazionale Situazionista e, dal 1958 al 1969, pubblicò la rivista «Internationale Situationiste». L’organizzazione si sciolse nel 1972, dopo aver subito diverse scissioni. La società dello spettacolo è un libro straordinariamente anticipatore: infatti, nel tempo in cui esso veniva pubblicato, la trasformazione della politica e della intera vita sociale e culturale in un fantasmagoria spettacolare non aveva ancora raggiunto le dimensioni che avrebbe conosciuto negli anni Ottanta e Novanta. Parafrasando Marx, che descriveva la società moderna come una immane raccolta di merci, Debord scriveva nel suo saggio: «fl capitalismo nella sua forma ultima si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli, in cui tutto ciò che era direttamente vissutosi è allontanato in una rappresentazione». Ma in che senso lo spettacolo diventa, nell’analisi di Debord, il fenomeno centrale che caratterizza le società del tardo-capitalismo? «Lo spettacolo — scrive Debord — non può essere inteso come un abuso del mondo visivo, prodotto dalle tecniche di diffusione massiva delle immagini E...]. Lo spettacolo compreso nella sua totalità è, nello stesso tempo, il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. E il cuore dell’irrealismo della società reale». Lo spettacolo, insomma, lungi dall’essere un fenomeno specifico, si colloca invece al centro del modo di produzione capitalistico. Non si tratta infatti solo di un prodotto particolare, di quel tipo singolare di merce che viene prodotto dall’industria culturale. Lo spettacolo, nel tardo-capitalismo, coinvolge l’intera produzione sociale in quanto essa è sempre più intessuta di processi comunicativi: competenze linguistiche, immaginazione, sapere, cultura. Lo spettacolo ha dunque una doppia natura: è per un verso un prodotto specifico che si affianca a tutti gli altri, ma al tempo stesso rappresenta (nel senso più letterale del tem-iine) la quintessenza del modo di produzione nel suo complesso. Lo spettacolo, come dice Debord, è «l’esposizione generale della razionalità del sistema». Nella merce spettacolo, il cui valore d’uso è linguistico-culturale, sembra rispecchiarsi la qualità comunicativa della produzione tardo-capitalistica nel suo complesso. Vent’anni dopo La società dello spettacolo, nei Commentari pubblicati nel maggio del 1988, Debord proseguiva la sua riflessione mettendo a fuoco quella che secondo lui era la natura della fase ulteriore, che egli definiva come la fase dello «spettacolo integrato». «Il senso ultimo dello spettacolo integrato — scriveva — è che esso si è integrato nella realtà a misura che ne parlava: e che la ricostruisce così come ne parla, in modo che essa non gli sta più di fronte come qualcosa di estraneo. Quando lo spettacolare era concentrato, la maggior parte della società periferica gli sfuggiva: quando era diffuso, gliene sfuggiva una piccola parte; oggi più nulla. Lo spettacolo si è mescolato a ogni realtà, permeandola. Com’era prevedibile in teoria, l’esperienza pratica del compimento sfrenato della ragione mercantile mostra, rapidamente e senza eccezioni, che il diventar-mondo della falsificazione era anche undiventar-falsificazione del mondo». Nel frattempo, morto Debord, la critica della società dello spettacolo, così come della culturaspettacolo e della politica-spettacolo, la si può ritrovare sulle bocche di tutti, resa inoffensiva e spogliata della sua forza sovversiva. Per altro verso, il pensiero postmoderno ha in qualche modo rovesciato la diagnosi pessimistica dell’intellettuale situazionista, tessendo l’elogio disincantato di un mondo derealizzato, ridotto senza residui a simulacro e fantasmagoria. SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO Fino alla metà degli anni ‘60, per l’economia tradizionale, il «Terzo mondo» non esisteva. C’era al massimo il problema dell’«arretratezza» nei processi di sviluppo economico. La concezione prevalente restava quella consolante di un modello di crescita lineare, lungo il quale vi sono paesi più arretrati e paesi più avanzati, teorizzata dall’economista americano Walt Whitman Rostow, che fu anche consigliere sul Vietnam per la Casa bianca. Tuttavia, nel corso del decennio, di fronte agli evidenti squilibri del sistema economico internazionale e al mancato decollo di molti paesi dell’Asia, Africa e America latina si era sviluppata una corrente di pensiero critico, sul versante marxista e non, che costringeva a fare seriamente i conti con le illusioni evoluzioniste. Vi furono gli importanti studi di Gunnar Myrdal, del geografo Yves Lacoste, di René Dumont e Bernard Rosier, dei marxisti americani Baran, Sweezy e Magdoff del gruppo newyorkese della Monthiy review, del marxista ortodosso Hosea Jaffe. Quale è la natura del Terzo mondo? E capitalistico, precapitalistico o una sovrapposizione di entrambi? E quali sono i suoi rapporti con l’economia mondiale? Perché le sue condizioni economiche non danno segno di migliorare e la modernizzazione appare spesso foriera di nuove miserie? Questi gli interrogativi teorici posti dai critici dell’economia mondiale e generalmente assunti dai movimenti della seconda metà degli anni ‘60 come questioni cruciali, tali da disvelare la sostanza innominabile dell’economia di mercato e la violenza insita nei rapporti di forze internazionali. Uno dei primi tentativi teorici di spiegare nelle sue radici strutturali il sottosviluppo nel sistema capitalistico è dovuto all’economista André Gunder Frank che, a partire dalle sue ricerche suil’America latina degli anni ‘60, sviluppò l’idea di una dipendenza dei paesi della «periferia» dal «centro» capitalistico, in cui il sottosviluppo dei primi e lo sviluppo dei secondi non sono che due aspetti dello stesso processo capitalistico. Tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘70, si moltiplicarono grandemente, lungo questa linea interpretativa, gli studi critici sugli squilibri e le contraddizioni dell’economia mondiale, sul sistema dei prezzi e degli scambi internazionali, sui flussi di merci e di capitali (Samir Amin), sul sistema delle imprese multinazionali (Stephen Hvmer), sugli inganni degli aiuti economici (Teresa Hayter), sui rapporti tra centro e periferia (Giovanni Arrighi). La consapevolezza di un legame strutturale tra l’opulenza dei paesi a capitalismo avanzato e la miseria della «periferia» fornì una base più solida e motivata alla solidarietà internazionale con i movimenti di liberazione e i popoli del Terzo mondo. Dall’analisi secondo cui il meccanismo dello sviluppo capitalistico, e non la sua assenza, starebbe all’origine del sottosviluppo, scaturirà poi l’idea di una crescita «autocentrata» e meno integrata nel mercato mondiale dei paesi più poveri (Samir Arnin). Ipotesi cui i rapporti di forza internazionali non hanno praticamente concesso alcuno spazio di applicazione TOLLERANZA REPRESSIVA Nel 1965 il filosofo Robert Paul Wolff, il sociologo Barrington Moore jr. e il più noto Herbert Marcuse, membri tutti e tre della comunità accademica di Cambridge, Massachusetts, pubblicarono un volumetto che, riecheggiando in modo un po’ irriverente la Critica della ragion pura di Kant, intitolarono Critica della tolleranza pura (A Critique of Pure Tolerance). Il libretto divenne una bandiera per gli studenti del Sessantotto, che in esso trovarono una delle più acute critiche della democrazia liberale occidentale, da un punto di vista che, però, non nutriva alcuna tenerezza verso il «socialismo realizzato» orientale. il volumetto prendeva di mira l’apologia della libertà occidentale mettendo sotto tiro proprio il concetto apparentemente più ineccepibile, indiscutibile e positivo: quello della tolleranza, il tema delle grandi battaglie di Voltaire, l’idea più nobile nell’arsenale dei concetti illuministici. Mettendo a fuoco la questione della tolleranza oggi, Marcuse proponeva un rovesciamento secco dei luoghi comuni dominanti, coi quali aspramente polemizzava: la tolleranza «pura», astratta e indiscriminata delle società tardo-capitalistiche — diceva — è in realtà intollerante, perché chiude ogni spazio alla seria discussione di ogni pensiero che sia eterodosso o sovversivo. E, per converso, la vera tolleranza, intesa come strumento che promuove la razionalità e la libertà umana, può vivere oggi solo trasformandosi in decisa intolleranza: intolleranza verso i movimenti e anche verso le idee che si schierano a favore della repressione, del razzismo, di tutte le forme, piùo meno brutali, di asservimento degli uomini e di diseguaglianza. «Se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna — scrive Marcuse —, l’umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale». E d’altra parte, «quando la tolleranza serve principalmente a proteggere e a conservare una società repressiva, quando serve a neutralizzare l’opposizione e a rendere gli uomini immuni contro forme di vita diverse e migliori, allora la tolleranza è stata corrotta». Nella società presente la tolleranza è corrotta, innanzitutto, perché vengono a mancare i presupposti in base ai quali essa costituisce un valore: la discussione libera ed eguale di tutte le opinioni serve a scoprire quelle migliori se è una discussione razionale, condotta con autonomia di pensiero, libera dalla manipolazione, dall’ indottrinamento e dal pregiudizio. Ma proprio queste sono le condizioni che non si danno nella società del tardo-capitalismo. Qui domina piuttosto la neutralizzazione di tutte le opinioni su un mercato delle idee apparentemente aperto, ma in realtà chiuso ermeticamente a qualsiasi pensiero che non è assimilabile all’ordine di cose vigente. L’unica risposta sensata a questa situazione, dice Marcuse, è un «ritiro sistematico della tolleranza»: primo passo per dare uno scossone alla «falsa coscienza» onnipervasiva, che in realtà è il più solido sostegno di un sistema pseudoliberale e pseudotollerante. UTOPIA «Siate realisti, chiedete l’impossibile». Pochi slogan possono esprimere meglio di questo, coniato durante il maggio francese, quella che fu la carica utopica del movimento del Sessantotto. Utopico è il Sessantotto nel senso che, diversamente dai movimenti che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, si muove nella prospettiva di una trasformazione assolutamente radicale, della quale forse percepisce anche l’impossibilità (come nello slogan prima ricordato) sentendola però come sfida, come scommessa, come dato che l’entusiasmo e la passione possono e debbono mutare. il Sessantotto non conosce né il riformismo che si accontenta di piccoli, ma realistici passi, né la disperazione in cui la protesta si trasforma quando si accorge di avere di fronte un muro. Come momento generativo, come inizio che vede un orizzonte aperto davanti a sé, il movimento non respinge la critica di utopismo, facendone anzi motivo di orgoglio. In qualche modo esprime questa visione anche Herbert Marcuse che, nel suo La fine dell’utopia, proprio da questa problematica prende le mosse. In genere sono diffamati come utopici, scrive Marcuse, i progetti di una nuova società che sono ritenuti irrealizzabili, in quanto i fattori soggettivi e oggettivi porrebbero un limite invalicabile alla loro attuazione. Utopici erano per esempio, i progetti comunisti durante la rivoluzione francese. E lo stesso sviluppo del capitalismo, del progresso tecnico-scientffico, della società opulenta e dell’automazione, però, che rende oggi obsoleta l’accusa di utopismo: «Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali per realizzare una società libera», sostiene Marcuse, e il fatto che non vengano utilizzate non significa altro se non che è la società stessa, in qualche modo accecata, che oppone una sorda resistenza alla stessa possibffità della propria liberazione. Il movimento del Sessantotto, però, non si accontenta di sognare l’utopia, o di battersi per essa, ma prova anche a metterla in pratica. Dalla consapevolezza che non si cambia la società se non cambiando anche se stessi nascono tentativi di costruire forme di vita che siano già, qui ed ora, modi di praticare rapporti sociali alternativi: è l’esperienza degli asili antiautoritari, oppure quella delle comuni, praticata dagli studenti berlinesi così come dagli hippies americani. fl movimento del Sessantotto è utopico perché non vuole solo fare la rivoluzione, ma addirittura cambiare la vita. E invero la cambierà, anche nel profondo, perché innescherà tanti mutamenti, tanti frammenti di liberazione, diversissimi però da quelli aspettati e voluti. VIOLENZA E NON VIOLENZA Violenza e repressione segnarono ricorrentemente i conflitti sociali e politici del dopoguerra in Europa e non soio nei paesi sottoposti alla dittatura. Ma fu alla fine degli anni ‘60, e in particolare nel 1968, che la violenza politica e sociale fu scoperta, discussa e vissuta a livello di massa, anche in segmenti di società che ne erano rimasti fino ad allora al riparo e tra i giovani che non avevano vissuto l’esperienza della guerra. Fu scoperta e denunciata dai movimenti la violenza e la costrizione che sottendevario non uno stato di guerra, ma una condizione di pace: discriminazioni, persecuzioni, ingiustizie, sfruttamento, repressione di ogni protesta appena vagamente minacciosa. Questa violenza fu generalmente riconosciuta come «violenza di classe», esercitata non solo e non tanto dagli organi repressivi degli stati, quanto dagli stessi rapporti sociali dominanti, dalle diseguaglianze e dalla difesa senza scrupoli del privilegio. A questa si aggiungeva la violenza aperta, dispiegata in paesi lontani, per difendere gli interessi dell’Occidente. Di fronte a questa violenza, interna e internazionale, del «sistema», i movimenti rivendicarono una sorta di diritto naturale, di moderno ius resistentiae. Non si poteva stare alle regole del gioco senza sottomettersi, senza accettare implicitamente ingiustizie e sopraffazioni. Per i movimenti di protesta la «legalità» non garantiva civilmente lo spazio del conflitto, ma era spudoratamente di parte, al servizio di un ordine sociale inaccettabile che non contemplava alternative o varianti. Di conseguenza i movimenti rivendicarono per sé la pratica dell’«illegalità», cioè l’infrazione sistematica di norme previste dall’ordinamento e lo scontro con i suoi difensori. L’dllegalitì» di massa non fu considerata semplicemente una scelta tattica volta al perseguimento di questo o quell’obiettivo, ma una condizjorie di esistenza del movimento stesso, della sua visibilità e della sua voce. La legge è la sistemazione giuridica del potere, l’illegalità è l’emergere di bisogni negati che si riconoscono e parlano. Le occupazioni nelle università e nelle fabbriche violavano l’ordine costituito in forma di sostituzione, facevano sparire il potere dai luoghi in cui era fisicamente insediato, ma non lo estingue- vano e nemmeno arrivarono a logorano. La repressione non si fece attendere e la violenza cessò di essere implicita e latente. I movimenti reagirono, conseguendo anche effimere vittorie sul campo, a Parigi, Lerlino, Roma, Chicago. Per gli studenti, in Europa come negli Stati Uniti, la resistenza passiva non bastava più. Quali fossero i confini ragionevoli dell’<illegalità» e lo spazio legittimo per l’esercizio della violenza fu una questione lungamente dibattuta, tanto sul piano etico, quanto sul piano tattico dd «livello di scontro» sostenibile, ma in generale il movimento del 1968 non escluse in linea di principio il ricorso alla violenza, e finì con l’assumerlo nel suo senso comune. Piuttosto si cercò un difficile equilibrio tra pratica dell’illegalità e confronto con le istituzioni. Sopravviveva certo, soprattutto nell’area anglosassone, il retaggio dei movimenti pacifisti del dopoguerra, e la lotta non violenta di massa fu sostenuta e praticata, per esempio tra i neri americani, da importanti organizzazioni, come quella di Martin Luther King. Ma con l’inasprimento dello scontro nel 1968 queste componenti furono in parte sopraffatte dai movimenti più radicali che teorizzavano e praticavano l’autodifesa armata e lo scontro violento con i poteri dello stato, come il Black Panther Party. Infine, diversi settori di movimento, sì considerarono direttamente implicati in una guerra guerreggiata di carattere planetario che aveva in Vietnam il suo epicentro. E si attribuirono il compito di colpire dietro le linee del nemico, l’imperialismo americano, con attentati e atti di sabotaggio. Qui la scelta della violenza, riportata in una ottica di guerra totale, non sottostava più ad alcuna limitazione e poteva astrarsi da ogni contesto. E il percorso che condurrà alla formazione e alla breve parabola della Rote Armee Fraktion in Germania.