Maria Vittoria Ballestrero DIRITTO SINDACALE Quarta edizione aggiornata Aggiornamento G. Giappichelli Editore – Torino 2 Nelle pagine che seguono, l’Autore ha proceduto alla revisione delle parti del testo nelle quali era necessario introdurre le modificazioni rese necessarie dal sopravvenire di alcune importanti novità, sostituendo alcune pagine del testo precedente con pagine nuove. Trattandosi di un mero aggiornamento, e non di una nuova edizione del manuale, i riferimenti giurisprudenziali e bibliografici in nota sono rimasti immutati. 3 1) Parte II, Capitolo III – pp. 94-97, §§ 4, 5, 6 – sostituire con le pagine seguenti SOMMARIO: 1. Dalle prime esperienze di concertazione sociale al Protocollo del 1993. – 2. Crisi della concertazione sociale e contrattazione “separata”. – 3. Dagli accordi separati al caso Fiat: i nodi vengono al pettine. – 4. La ricomposizione del sistema: l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011. – 5. Un inatteso intervento del legislatore (art. 8, legge n. 148/2011). – 6. Ulteriori sviluppi della contrattazione interconfederale: i nuovi accordi. – 7. Quali prospettive per il diritto sindacale? [Omissis] 4. La ricomposizione del sistema: l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011 Le grandi questioni di principio coinvolte nel caso FIAT hanno favorito la riapertura del dialogo tra le maggiori Confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL), dialogo che le ha portate a concludere, al termine di un negoziato con Confindustria conclusosi in tempi assai più rapidi del prevedibile, un nuovo Accordo interconfederale (AI). Le questioni di principio non erano disgiunte certo da considerazioni squisitamente politiche: si pensi alla necessità per Confindustria di porre un argine alle tentazioni di fuga dalla organizzazione degli imprenditori sollecitata proprio dal caso FIAT, e al convergente interesse delle Confederazioni sindacali a porre un argine alla fuga dalla contrattazione nazionale, ricreando un sistema contrattuale basato su di un minimo di regole condivise. L’AI unitario del 28 giugno 2011 ha riscritto le parti più controverse degli Accordi separati del gennaio 2009, ricomponendo il quadro di un ordinamento sindacale, che pareva avere metabolizzato la disunità sindacale e la «con1 correnza strutturale e disorganizzata delle fonti» , e restaurando un normale circuito di regole interconfederali. Alla luce del nuovo patto unitario tra le grandi Confederazioni, gli accordi FIAT, che certamente hanno portato allo scoperto la crisi del sistema di relazioni industriali basata sul Protocollo del 1993, non sono stati, come da più parti si era pensato o auspicato, il motore di un nuovo ordinamento basato sulla marginalizzazione del contratto nazionale e sulla divisione sindacale (con emarginazione della CGIL): sono stati invece, e 1 B. Caruso 2011, p. 284. 4 restano, una contrattazione al di fuori del sistema, come tale anomala. Dei contenuti dell’AI 28 giugno 2011, come di quelli successivi, che hanno dato ulteriore sviluppo alle regole già dettate in questo accordo, avremo agio di parlare oltre, affrontando i temi della rappresentatività sindacale, delle rappresentanze sindacali dei lavoratori nei luoghi di lavoro, della contrattazione collettiva nazionale di categoria e della contrattazione aziendale. Per ora è sufficiente ricordare che questo accordo ha introdotto una serie di nuove regole, che superano la logica “separatista” degli accordi del 2009; l’Accordo non ha disciplinato però tutte le materie regolate dagli accordi del 2009: alcune delle regole ivi previste possono essere considerate tuttora vigenti, perché implicitamente confermate. Nell’AI del 2011 le parti hanno anzitutto ribadito il ruolo centrale del contratto collettivo nazionale di lavoro; nello stesso tempo hanno affermato di condividere l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale o territoriale), ma nell’ambito delle «materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge». Così facendo le parti hanno sostanzialmente ribadito scelte già compiute nel 1993; una differenza c’è tuttavia, e non è certo di poco conto, perché si pone in linea di relativa continuità con gli Accordi separati del 2009. L’AI 28 giugno 2011 apre infatti un ampio spazio alla contrattazione aziendale, consentendo che in quella sede si introducano specifiche intese modificative, cioè deroghe al contratto nazionale, che possono riguardare le prestazioni di lavoro, l’orario, l’organizzazione del lavoro e devono essere giustificate da finalità ampie ma non generiche (situazioni di crisi o investimenti significativi per lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa). L’apertura di questo spazio è però condizionata al rispetto di una serie di regole, tra le quali assumono grande rilievo quelle relative alla rappresentatività sindacale e alla verifica del consenso dei lavoratori collegate alla efficacia del contratto: ne parleremo oltre, nelle parti dedicate a quei temi. L’AI fissa anche importanti criteri in materia di rappresentatività sindacale (soglie minime di rappresentatività per l’accesso al tavolo delle trattative del contratto collettivo nazionale di categoria); tali regole sono meglio definite nel Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e nell’Accordo interconfederale (denominato “Testo unico sulla rappresentanza”) del 10 gennaio 2014. Anche di questo parleremo oltre. 5. Un inatteso intervento del legislatore (art. 8, legge n. 148/2011) A distanza di meno di due mesi dalla stipulazione dell’AI 28 giugno 2011, il Governo allora in carica ha infilato a sorpresa nel decreto legge n. 138/2011 (la 5 manovra finanziaria di Ferragosto) una disposizione che nulla ha a che fare con quella manovra, ma molto invece ha a che fare con le vicende del caso FIAT. Le reazioni delle opposizioni e delle parti sociali (inclusa Confindustria) sono state fortemente negative: a fronte dell’attacco dei mercati (l’indice è il mitico “spread” fra i nostri BTP decennali e i Bund tedeschi, cresciuto a livelli tali da portare il paese sulla soglia del default), l’urgenza di varare la manovra, imposta anche dal Capo dello Stato, non ha consentito al Parlamento di intervenire. Il decreto è stato convertito in legge nel giro di pochi giorni: così è passato l’art. 8, legge n. 148/2011 (conversione con modifiche del d.l. n. 138/2011). Un ordine del giorno presentato dall’opposizione alla Camera dei deputati, approvato a larghissima maggioranza nella stessa seduta in cui la maggioranza ha votato la fiducia al Governo che ha consentito l’approvazione della manovra finanziaria, impegna la maggioranza ad abrogare l’art. 8. Ma si tratta solo di un ordine del giorno: e di lì a poco lo scenario è cambiato, con la caduta del Governo Berlusconi a seguito delle dimissioni del premier, e la fiducia al Governo guidato da Mario Monti, chiamato a salvare l’Italia dal baratro in cui rischiava di precipitare. Con le elezioni politiche del febbraio 2013 si è aperta una nuova legislatura, e lo scenario è cambiato ancora. Ma questa è cronaca del presente. Senza entrare nei dettagli (avremo modo di farlo oltre), possiamo ricapitolare per sommi capi i contenuti dell’art. 8, legge n. 138/2011, dividendoli in due fondamentali capitoli. Il primo capitolo è quello dedicato alla contrattazione collettiva definita di prossimità (aziendale o territoriale); in questo capitolo il legislatore detta regole che, secondo un’interpretazione diffusa (benché non unanime), vanno in una direzione divergente, se non opposta, a quella tracciata dalle parti sociali 2 nell’AI 28 giugno 2011 . Ne omettiamo qui la descrizione, perché dovremo riparlarne quando ci occuperemo appunto della contrattazione collettiva (infra, Parte IV, Cap. II). Nel secondo capitolo, quello che certamente ha provocato maggiore sconcerto, il legislatore ha attribuito alla contrattazione aziendale o territoriale la competenza a derogare, con effetti erga omnes, anche alle leggi in materia di lavoro in una pluralità di materie (che vanno dal controllo a distanza dei lavoratori sino alle conseguenze del licenziamento illegittimo), con l’unico limite del rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. La derogabilità della legge ad opera del contratto collettivo non rappresenta una novità (la legislazione degli ultimi decenni è ricca di esempi). Rappresentano una novità inve- 2 Vi è anche chi interpreta l’art. 8 come se in sostanza recepisse, mediante rinvio, la disciplina concordata tra le parti sociali: R. Del Punta 2012. 6 ce, nel senso della destrutturazione del diritto del lavoro generale astratto e inderogabile, l’attribuzione alla contrattazione collettiva locale o aziendale della competenza a derogare alla legge, e l’ambito di tale competenza, individuato con una tale ampiezza da rendere assai incerta la definizione dei limiti. Approfondiremo oltre l’analisi dell’art. 8, soffermandoci sulle molte questioni di costituzionalità che pone (infra, Parte IV, Cap. II, Sez. III). 6. Ulteriori sviluppi della contrattazione interconfederale: i nuovi accordi L’intervento del legislatore non ha fermato la contrattazione interconfederale, che ha proseguito sulla strada difficile (e talora accidentata) della definizione di autonome regole per la disciplina del sistema di relazioni industriali: ben tre accordi interconfederali hanno fatto seguito all’Accordo 28 giugno 2011. L’Accordo del 21 novembre 2012, intitolato “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, è un documento programmatico, sottoscritto da una parte significativa delle organizzazioni dei datori di lavoro e delle Confederazioni sindacali, ma non dalla CGIL (in forte dissenso sulle parti del documento relative alla rappresentatività sindacale, al ruolo del contratto nazionale, alla contrattazione aziendale derogatoria). Si tratta dunque, ancora una volta, di un accordo separato. Diversamente dall’Accordo del 2011, l’Accordo sulla produttività del 2012, che si compone di un “premessa” e di 7 punti, il più importante dei quali riguarda “relazioni industriali e contrattazione collettiva”, deprime il ruolo del 3 contratto collettivo nazionale , a vantaggio del maggior spazio, e della mag4 giore autonomia lasciati alla contrattazione aziendale, anche derogatoria . 3 Il contratto nazionale deve «prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro» (praticamente tutto). Non solo: «i contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello, così da beneficiare anche di congrue e strutturali misure di detassazione e decontribuzione per il salario di produttività definito dallo stesso livello di contrattazione». 4 Nel punto dedicato alle c.d. clausole di uscita, le parti convengono sulla necessità «di agevolare la definizione di intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle esigenze degli specifici contesti produttivi». Queste soluzioni contrattuali di secondo livello, peraltro, possono anche rappresentare un’alternativa a processi di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti anche dall’estero, concorrere alla gestione di situazioni di crisi per la salvaguardia dell’occupazione, favorire lo sviluppo delle attività esistenti, lo start up di 7 Trattandosi di un accordo di carattere programmatico, per di più intervenuto verso la fine della legislatura, la divisione registratasi tra le Confederazioni sindacali non ha avuto grande impatto pratico e neppure conseguenze irrimediabili: tanto che nei due Accordi successivi, firmati entrambi anche dalla CGIL, le parti sono tornate a riprendere il filo dell’Accordo del 2011, che sembrava essersi spezzato con l’Accordo separato del 2012. Dopo le elezioni politiche e l’avvio della nuova legislatura, Confindustria, CGIL CISL e UIL hanno infetti aperto la negoziazione di un nuovo Accordo interconfederale, con l’obiettivo di mettere a punto una serie di regole del sistema contrattuale strettamente collegate a quelle già definite con l’AI 28 giugno 2011. La negoziazione ha portato alla stipulazione dell’AI 31 maggio 2013 (denominato “ Protocollo”) dedicato essenzialmente alla contrattazione nazionale (parte appena abbozzata nell’AI del 2011); l’Accordo detta importanti regole in materia di rappresentatività sindacale (determinazione della soglia minima per l’accesso alle trattative contrattuali) e in materia di efficacia del contratto collettivo nazionale di categoria, del quali le parti ribadiscono il ruolo centrale nel sistema contrattuale, affidandogli il compito di garantire trattamenti comuni per tutti lavoratori del settore. Il 10 gennaio 2014 tra le stesse parti è stato stipulato un nuovo Accordo in5 terconfederale (intitolato Testo unico sulla rappresentanza) , nel quale si dà attuazione a quanto previsto nel Protocollo del maggio 2013 (ma anche nell’AI del 2011) in materia di misurazione della rappresentatività sindacale; si dettano nuove regole per la costituzione nei luoghi di lavoro delle rappresentanze sindacali unitarie dei lavoratori su base totalmente elettiva (RSU) (le regole sostituiscono quelle del Protocollo del 1993, rimaste sin qui in vigore); si dettano ulteriori regole in materia di contrattazione aziendale (efficacia e accordi derogatori); si prevede una procedura di conciliazione e arbitrato a livello innuove imprese, il mantenimento della competitività, contribuendo così anche alla crescita territoriale e alla coesione sociale». Insomma, uscendo dalla fumosa formulazione: deroghe al contratto nazionale, evidentemente al “ribasso”. Il punto 7 dell’accordo sulla produttività, inoltre prevede: «Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro». Le parti richiamano così, senza citarlo, il controverso art. 8, legge n. 148/2011, di cui larghi settori della CGIL avevano richiesto l’abrogazione. Infine le parti dichiarano di voler rivedere la disciplina delle rappresentanze sindacali dei lavoratori nei luoghi di lavoro, prevista dal protocollo del 1993, esprimendosi a favore strutture totalmente elettive. 5 Il titolo, alquanto sorprendente se riferito ad un contratto (l’accordo interconfederale è un contratto collettivo), segnala la intenzione delle parti di fare di tale testo una disciplina generale del sistema di relazioni industriali (da applicarsi, ovviamente, nell’ambito dell’ordinamento sindacale, vale a dire nell’ambito delle relazioni reciproche fra i soggetti di tale ordinamento. 8 terconfederale per la risoluzione delle controversie relative all’eventuale inadempimento, da parte delle organizzazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie, degli obblighi derivanti dai contratti collettivi. Approfondiremo l’analisi del contenuto degli Accordi nelle parti dedicate ai singoli argomenti. 7. Quali prospettive per il diritto sindacale? Negli ultimi anni il nostro sistema di relazioni industriali e il nostro stesso diritto sindacale hanno conosciuto una quantità di mutamenti di tale portata da scuoterne davvero le fondamenta, costruite a partire dalla mancata attuazione dell’art. 39, commi 2 e ss. Le vicende di cui abbiamo dato brevemente conto nei paragrafi precedenti portano alla luce una crisi profonda: il sistema sindacale di fatto non riesce ad impedire che gruppi industriali dell’importanza della FIAT escano dal sistema confindustriale, svincolandosi dalla contrattazione nazionale di categoria e dalle regole concordate a livello interconfederale sulla rappresentanza dei lavoratori all’interno delle aziende. La ricomposizione dell’unità di azione tra le grandi Confederazioni sindacali aveva consentito di riscrivere un quadro minimo di regole del sistema (AI 28 giugno 2011), ma la nuova disciplina pattizia è stata scavalcata a brevissima distanza di tempo da un intervento del legislatore, il cui obiettivo pare quello di scompaginare di nuovo il sistema, incentivando l’apertura di una nuova stagione di disunità sindacale. Il disegno è in parte fallito, ma l’unità fra le grandi Confe6 derazioni sindacali resta sempre in bilico ; tuttavia il notevole sforzo compiuto da Confindustria, da una parte, e CGIL, CISL e UIL dall’altra, per mettere ordine nel sistema di relazioni industriali può produrre risultati di rilievo. Restano tuttavia aperti molti problemi: il principale dei quali è rappresentato dalla efficacia limitata degli accordi, applicabili solo alle parti che li hanno stipulati e a quelle che successivamente vi aderiranno. L’esigenza di regole certe 7 e generalmente applicabili si fa sempre più sentita : che una legge sia necessaria lo pensano attualmente in molti, ma le opinioni si dividono subito, quando si tratta di definire il contenuto di questa legge. 6 Come qualcuno ha notato (A. Zoppoli 2013), l’insieme delle regole definite negli Accordi 2011, 2013 e 2014 segna il passaggio dall’unità di azione sindacale all’unità meramente procedurale, vale a dire alla definizione di regole procedurali che consentano la stipulazione e l’applicazione dei contratti collettivi. 7 Giustamente si è detto che se il sistema di relazioni industriali «non è più in grado di garantire meccanismi di produzione consensuale delle regole che lo reggono, allora delle esigenze di consenso deve farsi carico direttamente l’ordinamento statuale»: M.G. Garofalo 2010, p. 47. 9 2) Parte III, Capitolo II – pp. 133-135, §§ 3.1.3 – sostituire con le pagine seguenti 3.1.3. (Segue): nuove discipline della rappresentatività sindacale Se la legge continua a tacere, le parti sociali (Confindustria, CGIL CISL e UIL) hanno tentato di riempire il vuoto provvedendo con proprie discipline contrattuali; la prima in ordine di tempo è quella contenuta nell’Accordo Interconfederale (AI) del 28 giugno 2011, riveduto il 14 luglio 2011, e sottoscritto anche da UGL e CONFSAL. A questo Accordo hanno fatto seguito il Protocollo, stipulato tra le stesse parti, del 31 maggio 2013, alla cui attuazione ha provveduto un nuovo Accordo interconfederale (intitolato “Testo unico sulla rappresentanza”: titolo che bene esprime l’ambizione di fare di questo testo la nuova architrave del diritto sindacale di fonte contrattuale), stipulato il 10 gennaio 2014. Trattandosi di discipline contrattuali, gli AI non sono in grado di risolvere problemi che solo la legge, dotata di forza vincolante erga omnes, può risolvere. Tuttavia si tratta di una discipline fortemente innovative, che dettano un insieme di regole certamente importanti e rappresentano un notevole passo in avanti nella costruzione di un sistema di relazioni industriali ordinato ed efficiente, espressione di una recuperata unità (almeno sotto il profilo della condivisione delle regole), dopo le travagliate vicende della contrattazione “separata” (retro, Parte II, Cap. III). Esamineremo qui l’insieme delle regole dettate in materia di rappresentatività sindacale, per come risulta dall’insieme dei tre Accordi citati sopra. L’Accordo del 28 giugno 2011, dettava già una disciplina, che restava però in gran parte da scrivere nella successiva contrattazione nazionale di categoria e nelle intese intersindacali alle quali faceva ampio rinvio: di tale disciplina, strettamente collegata nell’AI al problema della efficacia dei contratti collettivi, sia nazionali di categoria, sia aziendali, parleremo oltre (Parte IV). Fin d’ora possiamo invece segnalare che le regole in materia di rappresentatività sindacale, che nell’AI del 2011 erano appena abbozzate, hanno trovato una migliore e più ampia definizione nel successivo Protocollo del maggio del 2013, e nell’Accordo (Testo unico sulla rappresentanza) del 10 gennaio 2014, stipulato per dare attuazione al Protocollo (ma non di mera attuazione si tratta, per8 ché in realtà il Testo unico contiene una serie di regole nuove) . 8 Proprio la presenza di regole nuove, alcune delle quali paiono dirette a comprimere gli spazi per le manifestazioni di dissenso, ha acceso le polemiche in casa CGIL tra la Segreteria generale e la FIOM. 10 Per quanto attiene al modo di calcolare (o pesare) la rappresentatività, le parti hanno adottato per il settore privato un modello che in parte ricalca quello in vigore nel settore pubblico, adeguandolo alle diverse caratteristiche del settore privato. La rappresentatività sindacale, e cioè il livello di consenso di cui il sindacato gode nell’ambito della categoria cui si applica il contratto collettivo, è calcolata mediante la ponderazione tra i dati associativi (numero di iscritti) e dati elettorali (numero di voti raccolti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie: infra, Cap. III, Sez. I). Per quanto riguarda la stipulazione del contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL), le parti hanno fissato una soglia minima di rappresentatività sin9 dacale nel settore o comparto non inferiore al 5%; il raggiungimento della soglia è necessario per sedere al tavolo della contrattazione collettiva nazionale. Si tratta, in sostanza, di una regola convenzionale di accreditamento reciproco: ciò significa che Confindustria si impegna a non negoziare i contratti nazionali con 10 sindacati che non raggiungano questa soglia di rappresentatività . Connessa alla regola relativa alla soglia minima di rappresentatività è la regola che attiene al modo di calcolare (o pesare) la rappresentatività. Come abbiamo già detto, le parti si sono ispirate al modello in vigore nel settore pubblico: la rappresentatività sindacale, e cioè il livello di consenso di cui il sindacato gode nell’ambito della categoria cui si applica il contratto collettivo, è calcolata mediante la ponderazione tra i dati associativi (numero di iscritti) e dati elettorali (numero di voti raccolti nelle elezioni delle rappresentanze sin11 dacali unitarie) . 9 Il testo del 2011 parlava di “settore” o “comparto” anziché di “categoria” «mostrando così di risentire dell’influsso esercitato dal modello costituito dal pubblico privatizzato (“comparto”) ed, al tempo stesso, facendo sospettare l’intento di permettere una certa libertà di manovra alle Federazioni di categoria nella scelta di bargaining unit più ristrette (“settore”), se pur questo pare stridere con l’intenzione corrente di concentrarle ed allargarle» (F. Carinci 2011b). Il riferimento al settore è rimasto nel Protocollo del 2013 e anche nell’AI del 2014 (T.U. sulla rappresentanza). 10 Si è giustamente osservato (F. Carinci 2011b) che «bisogna avere dalla propria qualcosa in più rispetto alla percentuale ponderata del 5%, per accedere alle trattative nazionali, cosicché i sindacati confederali potranno far pesare una percentuale ben maggiore di quella, mentre quelli autonomi o di base faranno una fatica del diavolo per solo sfiorarla in una realtà ancora oggi organizzata su amplissime categorie». C’è da chiedersi se questa rappresentatività «sia assumibile come referente allorché richiamata dalla legge come “maggiore” o “comparativamente maggiore”; di per sé no certo, ma tramite l’interpretazione giurisprudenziale è non solo possibile, ma anche consigliabile». 11 Il testo è il seguente: «Ai fini della certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori. Il numero delle deleghe viene certificato dall’INPS tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali (Uniemens) che verrà predisposta a seguito di convenzione fra INPS e le parti stipu- 11 Come già previsto al punto 1 dell’AI 28 giugno 2011, la certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, ai fini della contrattazione collettiva di categoria, assume i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite da lavoratrici e lavoratori e i consensi ottenuti (voti 12 espressi) dalle organizzazioni sindacali in occasione delle elezioni delle RSU . I dati relativi ai voti espressi, come risultanti dai verbali di elezione delle RSU, saranno raccolti, se possibile, tramite i Comitati Provinciali dei Garanti di cui all’AI 20 dicembre 1993, o analogo organismo, e trasmessi al CNEL. Il CNEL raccoglierà i dati relativi ai voti per ambito contrattuale e per organizzazione e, unitamente ai dati relativi agli iscritti ricevuti dall’INPS, ne effettuerà la ponderazione al fine di determinare la rappresentanza per ogni singola organizzazione sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa e per ogni contratto collettivo nazionale di lavoro. «La certificazione della rappresentatività di ogni singola organizzazione sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa, utile per essere ammessa alla contrattazione collettiva nazionale, così come definita nell’intesa del 28 giugno 2011 (ossia il 5%), sarà determinata come media semplice fra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle RSU (sul totale dei votanti), quindi, con un peso pari al 50% per ognuno dei due dati». Il numero delle deleghe viene acquisito e certificato dall’INPS, tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali (Uniemens), predisposta a seguito di convenzione fra INPS e le parti stipulanti il presente accordo. L’INPS, una volta elaborato il dato di rappresentatività relativo ad ogni organizzazione sindacale per ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro di competenza, lo trasmetterà al CNEL. I dati elettorali (relativi alle elezioni di RSU), raccolti dal Comitato Provinciale dei Garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) desumendoli dai singoli verbali elettorali pervenuti al Comitato medesimo, saranno raggruppati per ciascuna organizzazione sindacale di categoria, e trasmessi al CNEL entro il lanti il presente accordo interconfederale. I dati così raccolti e certificati, trasmessi complessivamente al CNEL, saranno da ponderare con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni, e trasmessi dalle Confederazioni sindacali al CNEL». Sulla certificazione v. le osservazioni di F. Scarpelli 2011. 12 Secondo quanto previsto dal Protocollo del maggio 2013, ai fini della misurazione del voto espresso da lavoratrici e lavoratori nella elezione della RSU varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni organizzazione sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie del Protocollo. Lo stesso criterio si applicherà alle RSU in carica, elette cioè nei 36 mesi precedenti la data in cui verrà effettuata la misurazione. Laddove siano presenti RSA, ovvero non vi sia alcuna forma di rappresentanza, sarà rilevato il solo dato degli iscritti (deleghe certificate) per ogni singola organizzazione sindacale. 12 mese di gennaio dell'anno successivo a quello di rilevazione. (Per i dettagli procedurali si rinvia al Testo unico della rappresentanza allegato a questa appendice di aggiornamento). In conclusione di questa breve analisi delle nuove regole convenzionali in materia di rappresentatività sindacale, possiamo dire che già con l’Accordo del 28 giugno 2011, e specialmente con i due accordi successivi, le parti sociali hanno concordato un metodo che consente di “pesare” la rappresentatività dei sindacati, fissando anche una soglia minima al di sotto della quale i sindacati non sono ammessi al tavolo della contrattazione nazionale (altre regole riguardano la contrattazione aziendale, e ne parleremo oltre: Parte IV, Cap. II, Sez. II). Se questo è avvenuto sul piano della contrattazione tra le parti sociali, il legislatore fino ad ora non sembra averne tenuto conto. Resta infatti vigente l’art. 8, legge n. 148/2011, di cui abbiamo già parlato (retro, Parte II, Cap. III), nel quale il legislatore aveva del tutto ignorato l’importante risultato raggiunto dalle parti sociali nel 2011. L’art. 8 fa infatti generico riferimento ad «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale»; la genericità del criterio segna un deciso passo indietro rispetto a quanto previsto dall’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, e appare oggi difficile da combinare con le regole autonomamente definite dalle parti sociali negli accordi successivi. Occorre segnalare che l’art. 8 non si occupa della stipulazione dei contratti nazionali, perché l’obiettivo del legislatore è quello di garantire efficacia generale ad accordi aziendali che derogano (anche in pejus) ai contratti collettivi nazionali (ma anche alla legge). Non siamo dunque di fronte a quell’intervento legislativo meditato e organico, che una opinione diffusa ritiene indispensabile per garantire un sistema di relazioni industriali democratico ed efficiente: un sistema che precluda l’accesso alla contrattazione collettiva di categoria a sindacati che non abbiano raggiunto una certa soglia, effettivamente misurabile, di rappresentatività, e che colleghi l’efficacia generale del contratto collettivo alla stipulazione del contratto da parte dei sindacati che rappresentano effettivamente la maggioranza dei lavoratori interessati. 13 3) PT. III, Cap. III, Sez. I – pp. 151-166, §§ da 3 a 5 – sostituire con le pagine seguenti Sezione I LE RAPPRESENTANZE SINDACALI DEI LAVORATORI SOMMARIO: 1. La rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. a) Le commissioni interne. b) Le Sezioni sindacali aziendali. c) Delegati e Consigli di fabbrica – 2. Le rappresentanze sindacali aziendali (RSA). Gli artt. 14 e 19 St. lav.: due livelli di garanzia dei diritti sindacali. – 2.1. Le lettere (a) e (b) dell’art. 19. Criteri selettivi e problemi di legittimità costituzionale. – 2.2. La struttura delle RSA. – 3. La riforma delle rappresentanze sindacali per via contrattuale. – 3.1. La disciplina interconfederale delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU). – 3.1.1. Costituzione della RSU e clausola di salvaguardia. – 3.2. Struttura e prerogative della RSU. – 3.2.1. La RSU come organismo collegiale. – 3.3. La coesistenza tra RSU e RSA. – 4. La riforma delle rappresentanze sindacali mediante referendum. Il nuovo art. 19. – 4.1. L’art. 19 e il diritto dei lavoratori alla rappresentanza sindacale (a margine del caso FIAT). – 4.2. La sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale. – 5. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. [Omissis] 3. La riforma delle rappresentanze sindacali per via contrattuale A poca distanza di tempo dall’intervento della Corte Costituzionale (sentenza 13 n. 30/1990: retro), e mentre già, per dirla con Ghezzi e Romagnoli , anche i sordi avvertivano «i brontolii dell’imminente tuono referendario che solcavano i cieli sindacali» (il referendum avrà luogo nel 1995: infra, § 4), furono le maggiori Confederazioni sindacali a prendere l’iniziativa di dettare nuove regole in materia di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, raccogliendo parte delle indicazioni date dalla Corte, che aveva denunciato con forza l’inadeguatezza del criterio di rappresentatività presunta su cui si basava allora l’art. 19, lett. a) e la necessità di sostituirlo con un criterio di rappresentatività effettiva, basato sulla verifica del reale consenso. La riforma delle rappresentanze sindacali aziendali è stata così realizzata per via contrattuale: disegnata nel Protocollo del luglio del 1993, la riforma è 13 G. Ghezzi, U. Romagnoli 1997, p. 90. 14 stata in un primo tempo completata con il successivo Accordo interconfederale (AI) del dicembre 1993. La collocazione della riforma delle rappresentanze dei lavoratori in questo ambito non era casuale, essendo strettamente collegata alla riforma del sistema contrattuale, e alla ridefinizione del ruolo e delle competenze della contrattazione aziendale. La disciplina è rimasta invariata per molti anni. Solo molto recentemente (con il Protocollo 31 maggio 2013 e l’Accordo interconfederale 10 gennaio 2014 (T.U. sulla rappresentanza) le parti sociali hanno messo mano ad una riforma, che modifica in modo significativo la struttura della rappresentanza sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. 3.1. La disciplina interconfederale delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) All’inizio degli anni novanta, quando i parametri di Maastricht (vale a dire i vincoli per l’ingresso nell’area della moneta unica dell’UE fissati nel Trattato sull’Unione europea) avevano reso ineludibile la necessità di risanare il bilancio dello Stato e ridurre drasticamente l’inflazione, e quando egualmente ineludibili si erano fatte le esigenze delle imprese di tenere sotto controllo il costo del lavoro, i sindacati, che avevano conservato «considerevoli posizioni di forza», costituivano per il Governo e per gli imprenditori «una risorsa chiave per 14 la realizzazione di politiche consensuali di moderazione salariale» . Una serie di Accordi interconfederali precedette l’avvio di quella politica dei redditi che sarà successivamente realizzata attraverso la negoziazione tra Governo e parti 15 sociali di due Protocolli, il primo del luglio del 1992 , il secondo del luglio 16 del 1993 . Il Protocollo del luglio del 1992 aveva posto le premesse per il successivo Protocollo del 1993, dettando (tra l’altro) le linee-guida per la riforma del sistema contrattuale, che aveva trovato poi nel Protocollo del 1993 la sua definizione. Questa parte del Protocollo del 1993 (perfezionato, per il settore pri17 vato, con l’AI del dicembre del 1993) , nella quale erano previste le nuove 14 L. Bellardi 1999, p. 58. Cfr. anche il contributo di M. Martone 2007, p. 58 ss., i cui giudizi critici sulla concertazione non sono tuttavia condivisi da chi scrive. 15 Con il Protocollo del 1992, la cui negoziazione fu condotta dal Presidente del Consiglio Amato, venne soppresso il sistema di indicizzazione automatica dei salari all’inflazione (scala mobile e indennità di contingenza) e introdotta la moratoria della contrattazione integrativa; il Protocollo rinviava ad una ulteriore fase della trattativa la revisione della struttura contrattuale e della retribuzione: L. Bellardi 1999, p. 64. 16 Quello del luglio del 1993 è noto anche come Protocollo “Giugni”, perché Gino Giugni era Ministro del lavoro nel Governo presieduto da Ciampi, e fu dunque protagonista di quella importante esperienza di concertazione sociale. Cfr. G. Giugni 2003, spec. p. 57 ss. 17 Il successivo Protocollo d’intesa 20 aprile 1994 ha esteso al settore pubblico la disciplina delle RSU: infra, Parte V. 15 strutture sindacali aziendali, trovava infatti la sua indispensabile base nelle 18 nuove regole che governavano la contrattazione collettiva . Come vedremo oltre (Parte IV, Cap. II, Sez. I), la successiva disciplina del sistema contrattuale, contenuta negli accordi separati del 2009 (Accordo quadro del 22 gennaio 2009 e AI che ad esso hanno fatto seguito), prefigurava anche una nuova disciplina della materia, rinviando ad un apposito accordo interconfederale. Questo accordo non è stato stipulato; è stato invece stipulato un altro accordo, l’AI unitario del 28 giugno 2011, nel quale le parti si erano però limitate a ribadire la vigenza della disciplina del 1993, facendo espresso 19 riferimento alla RSU come ivi regolata . Come accennato sopra, la nuova disciplina è stata invece introdotta dal Protocollo del 2013; l’attuazione del Protocollo è avvenuta con la stipulazione di un successivo Accordo interconfederale (T.U. sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014). La trattazione che segue si riferisce alla disciplina prevista dai nuovi Accordi, segnalando le differenze rispetto alla disciplina del 1993. L’AI del 1993 (preceduto dall’intesa del 1991 tra CGIL, CISL e UIL) prevedeva una struttura sindacale aziendale unitaria (la rappresentanza sindacale unitaria: RSU) a composizione mista, in parte elettiva e in parte associativa. I due terzi dei componenti della RSU erano infatti eletti a suffragio universale dai lavoratori dell’unità produttiva (con più di 15 dipendenti), iscritti e non iscritti ai sindacati in possesso dei requisiti previsti per presentare le liste; il restante terzo era invece eletto o designato dalle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale applicato nell’unità produttiva. Con una innovazione densa di significato e di implicazioni, il Protocollo del 2013, come attuato dal T.U. sulla rappresentanza, ha soppresso la riserva 18 Nel disegno del Protocollo del 1993, e in particolare nella regolamentazione dei due livelli contrattuali coordinati tra loro, la disciplina delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) non era un’opzione casuale, ma una necessità: «senza un intervento in materia, la trama complessiva dell’accordo sarebbe risultata sicuramente monca»: così M. Napoli 1996, p. 359. 19 L’Accordo del 2011 rilanciava certamente le RSU, ma lasciava ambiguamente aperto uno spazio all’applicazione dell’art. 19 St. lav. e alle RSA ivi previste. Rileva giustamente A. Lassandari 2012 che questa clausola sembra smentire la clausola 8, prima parte, dell’AI 20 dicembre 1993, c.d. “clausola di salvaguardia”, secondo cui «le organizzazioni sindacali, dotate dei requisiti di cui all’art. 19, legge 20 maggio 1970, n. 300, che siano firmatarie del presente accordo o, comunque, aderiscano alla disciplina in esso contenuta, partecipando alle procedura di elezione della Rsu, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire Rsa ai sensi della norma sopra menzionata». L’AI 2011 aggiungeva: «Ai fini di garantire analoga funzionalità alle forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, come previsto per le rappresentanze sindacali unitarie anche le rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, quando presenti, durano in carica tre anni». La legittimità di quest’ultima previsione, ribadita anche negli AI più recenti, è dubbia, perché le RSA sono regolate dalla legge, che non stabilisce una durata massima del mandato. 16 del terzo, sancendo la composizione totalmente elettiva della RSU. La principale implicazione è senza dubbio il venir meno del vincolo della RSU con le organizzazioni sindacali di livello nazionale firmatarie del contratto collettivo di categoria, alle quali era riservata la designazione di un terzo dei componenti. Il rapporto con le organizzazioni sindacali che operano sull’esterno dei luoghi di lavoro tuttavia sussiste, perché l’elezione dei rappresentanti (cioè dei componenti della RSU) avviene sulla base di liste presentate appunto dalle organizzazioni sindacali a ciò autorizzate. Nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, RSU possono essere costituite ad iniziativa delle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’AI 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014. Le liste elettorali possono essere presentate, oltre che dalle organizzazioni sindacali anzidette, anche dalle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo na20 zionale di categoria applicato nell’unità produttiva , nonché dalle associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo a condizione: a) che accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti dell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del T.U. sulla rappresentanza; b) che la lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 21 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti (nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti la lista dovrà essere corredata da almeno tre firme di lavoratori). L’iniziativa per la costituzione della RSU è assunta direttamente dalle associazioni autorizzate a presentare le liste, ovvero dalla stessa RSU tre mesi pri22 ma della scadenza del mandato. I componenti della RSU durano in carica tre anni, alla scadenza dei quali decadono automaticamente: la previsione è intesa ad evitare che possa ripetersi il fenomeno della proroga per mancato rinnovo 20 Per associazioni firmatarie si possono intendere in questo caso anche le associazioni che abbiano semplicemente aderito al contratto collettivo: l’intento è infatti quello di estendere la disciplina delle RSU al maggior numero possibile di sindacati. Così E. Manganiello 1997, p. 443. 21 L’accettazione deve essere formale e non è sufficiente l’autocertificazione: così Cass. 8 marzo 2004, n. 4652, in RIDL, 2005, II, p. 60; inoltre, secondo Trib. Ravenna (ord.) 26 luglio 2004, in LG, 2005, p. 366, l’atto di accettazione deve provenire dal competente organo della struttura sindacale nazionale o da altro soggetto a ciò espressamente delegato. 22 Il numero dei componenti le RSU sarà pari almeno a: a) 3 componenti per la RSU costituita nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti; b) 3 componenti ogni 300 o frazione di 300 dipendenti nelle unità produttive che occupano fino a 3000 dipendenti; c) 3 componenti ogni 500 o frazione di 500 dipendenti nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero di cui alla precedente lett. b). 17 che aveva caratterizzato l’esperienza dei Consigli di fabbrica (CdF) nella fase del loro declino. 3.1.1. Costituzione della RSU e clausola di salvaguardia Nell’ambito del sistema regolato dal Protocollo del 2013 e dal T.U. sulla rappresentanza, le parti contraenti (Confindustria, CGIL, CISL, UIL) hanno concordato che in ogni singola unità produttiva con più di quindici dipendenti dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza: la scelta delle parti a favore delle RSU è dunque netta. Secondo quanto previsto dal T.U sulla rappresentanza (nella cosiddetta 23 clausola di salvaguardia) , le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del T.U., o che, comunque, aderiscano alla disciplina in essi contenuta partecipando alla procedura di elezione della RSU, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi dell'art. 19, St. lav. In particolare, le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del T.U., o che comunque ad essi aderiscano, si impegnano a non costituire RSA nelle realtà in cui siano state o vengano costituite RSU. Questa regola concordata dovrebbe evitare che, in futuro, possano ripetersi vicende come quelle verificatesi alla FIAT (infra, § 4.1). Diverso il caso delle unità produttive con più di quindici dipendenti ove non siano mai state costituite forme di rappresentanza sindacale; in tale caso le parti prevedono che «qualora non si proceda alla costituzione di rappresentanze sindacali unitarie ma si opti per il diverso modello della rappresentanza sindacale aziendale» (si tratta delle RSA regolate dall’art. 19 St. lav.), «l’eventuale passaggio alle RSU potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni sindacali che rappresentino, a livello nazionale, la maggioranza del 50%+1» (come determinata nella parte prima dell’accordo). Nelle unità produttive in cui, invece, fossero già presenti le RSA, il passaggio dalle RSA alle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo 31 maggio 2013. Anche questa regola pare ispirata dall’intento di evitare le lacerazioni e i conflitti tra le organizzazioni sindacali, re23 Secondo Trib. Ravenna 27 luglio 2005, in ADL, 2006, p. 928, commento di A. Zilli, ove venga costituita una RSU non può esistere per definizione una RSA con riguardo agli stessi soggetti sindacali componenti la RSU (e costituisce condotta antisindacale il riconoscimento da parte del datore di lavoro di questa RSA). Il fatto che la fonte istitutiva delle RSU sia un contratto di diritto comune rende opinabile la soluzione data dal giudice, che attribuisce al contratto una priorità sulla legge (art. 19 St. lav.); ciò nonostante, la violazione dell’obbligo assunto dal datore di lavoro vincolato all’applicazione del contratto collettivo istitutivo delle RSU costituisce condotta antisindacale (infra, Cap. IV). 18 gistratisi in particolare nella vicenda FIAT (infra, § 4.1), in ordine alle forme di rappresentanza. 3.2. Struttura e prerogative della RSU A) Struttura La RSU costituisce un canale unico di rappresentanza dei lavoratori, poiché nello stesso organismo confluiscono sia le funzioni di rappresentanza dei lavoratori che lo eleggono, sia le funzioni squisitamente sindacali (la contrattazione 24 aziendale, in primis) . Non più definibile né come struttura di base unitaria di CGIL, CISL e UIL (come erano i CdF), né come somma di diverse RSA, la RSU assume la veste di organismo rappresentativo della generalità dei lavoratori. Proprio perché si tratta di un organismo che rappresenta tutti i lavoratori dell’unità produttiva, aveva sollevato molte e giuste critiche la composizione mista della RSU, derivante dalla clausola del terzo, cioè dalla riserva di un terzo dei seggi della RSU alle associazioni firmatarie del contratto collettivo nazionale (la composizione mista è ora superata dai nuovi accordi del 2013 e 2014, che hanno previsto la composizione totalmente elettiva della RSU). La riserva (pensata certamente per fare fronte ad eventuali insuccessi elettorali) altera infatti il criterio democratico di formazione della RSU (metodo elettivo e sistema elettorale proporzionale), portando nei fatti al risultato di favorire in misura percentualmente maggiore le meno rappresentative tra le associazioni 25 firmatarie dei contratti collettivi . Vero è tuttavia che nella RSU a composizione mista le due componenti, quella elettiva predominante e quella associativa minoritaria, si ricomponevano in un unico collegio, all’interno del quale, secondo l’opinione prevalente, 26 valeva, per l’assunzione delle decisioni, la regola di maggioranza (ora espres- 24 Per doppio canale si intende la ripartizione tra funzioni di rappresentanza dei lavoratori da parte di un organismo elettivo (come erano le Commissioni interne) e funzioni sindacali (di agente contrattuale, essenzialmente) affidate a rappresentanti dei sindacati (come erano le Sezioni sindacali aziendali). Per quanto l’art. 19 St. lav. nulla espressamente dica in proposito, le RSA sono state considerate dagli interpreti come “canale unico” di rappresentanza. 25 L. Mariucci 1996, p. 15 ss. 26 Ciò consentiva di convenire con chi affermava che la RSU, organo comune delle associazioni sindacali che ne hanno promosso la costituzione, trovava nel mandato elettorale (e dunque nel vincolo di rispettare la volontà della maggioranza che è implicito nell’accettazione del metodo elettivo) la fonte di legittimazione del proprio potere di rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Cfr. M.P. Monaco 2003, p. 132. Ora la regola di maggioranza è espressamente sancita dal T.U. sulla rappresentanza: «Le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo che recepisce i contenuti dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011». 19 samente sancita dagli AI). Il metodo universalistico della votazione, già in passato quando la composizione era mista, e a maggior ragione oggi, che la RSU sarà totalmente elettiva, non fa tuttavia venir meno, pure nell’unità del collegio, la dimensione associativa (vale a dire il collegamento tra i singoli componenti e 27 la organizzazione sindacale nelle cui liste sono stati candidati) . La coesistenza del vincolo associativo e del mandato elettorale è fonte di problemi interpretativi di non facile soluzione. In passato ci si era chiesti, ad esempio, se decadesse dalla funzione di componente della RSU l’eletto nella lista di un’organizzazione sindacale che aderisse successivamente ad un sindacato diverso da quello originario. La risposta della giurisprudenza era stata in 28 genere negativa : in primo luogo – argomentavano i giudici – perché la RSU non è una rappresentanza sindacale di investitura puramente associativa (come la RSA); in secondo luogo perché l’Accordo del 1993, allora vigente, prevedeva la decadenza (e la sostituzione con il primo dei non eletti nella stessa lista del componente eletto) solo in caso di dimissioni. Questo orientamento dovrebbe essere superato, perché il vincolo associativo (tra l’eletto e la lista sindacale in cui è stato candidato) risulta rafforzato dalla clausola contenuta nel Protocollo del 2013 (e ribadito nel T.U. sulla rappresentanza) secondo cui: «il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito». B) Prerogative Il T.U. sulla rappresentanza (ma già gli Accordi precedenti) prevede che i componenti delle RSU subentrino ai dirigenti delle RSA nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al Titolo III St. lav. (sono fatte salve le condizioni di miglior favore eventualmente già previste nei confronti delle associazioni sindacali dai contratti collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della RSA, diritti, 29 permessi e libertà sindacali) . 27 S. Scarponi 2005, p. 372. Cass. 7 marzo 2012, n. 3545; Trib. Milano 5 aprile 2007, in RCDL, 2007, p. 397; Trib. Milano 27 aprile 2006, in ADL, 2007, p. 482, secondo cui, in base alla disciplina interconfederale (Accordo interconfederale del dicembre 1993), «nella RSU l’eletto non si presenta inscindibilmente collegato, attraverso la lista, all’organizzazione sindacale, essendo previsto un sistema elettorale fortemente collegato alla base dei lavoratori». Di questo avviso C. Cester 2006. Quando però si trattava di un componente designato dal sindacato in base alla clausola del terzo non si poteva ragionare negli stessi termini, perché l’investitura in questo caso era senz’altro associativa. 29 Restano invariati (rispetto alla disciplina precedente) i seguenti diritti in favore delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di categoria applicato nell’unità produttiva: diritto ad indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei 28 20 Secondo quanto già era previsto dall’AI del 1993, spettava alla RSU la competenza a stipulare il contratto collettivo aziendale (nei limiti e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale): ma, in quell’Accordo, la competenza contrattuale era attribuita alla RSU congiuntamente con le strutture territoriali delle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo. L’AI del 2009 aveva confermato la competenza concorrente delle organizzazioni sindacali territoriali. In materia, l’innovazione è stata introdotta dall’AI 28 giugno 2011: al punto 4, l’AI prevede infatti che i contratti collettivi aziendali abbiano efficacia per tutto il personale in forza nell’azienda «se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti». Così dicendo, l’Accordo attribuisce implicitamente alla RSU la competenza negoziale esclusiva; la regola è ora ribadita dal T.U. sulla rappresentanza. Pur nel silenzio degli Accordi, si può ritenere che i sindacati territoriali, secondo la ormai consolidata prassi, possano continuare a sedere al tavolo negoziale; ma l’eventuale dissenso di uno o più di essi non sarà più rilevante a fini di efficacia del contratto aziendale. A fini di efficacia generale del contratto collettivo aziendale, infatti, dovrebbe rilevare solo il consenso della RSU (o meglio: il consenso della maggioranza della RSU, considerata come un collegio la cui volontà è appunto la volontà della maggioranza dei suoi componenti). 3.2.1. La RSU come organismo collegiale Strettamente collegata al problema della coesistenza nella RSU tra mandato elettorale e vincolo associativo è la questione pratica, ma non priva di implicazioni teoriche, del rilievo da attribuire al vincolo associativo dei componenti con la propria organizzazione di appartenenza. La questione si è posta all’attenzione dei giudici perché alcuni sindacati (nella specie SLAI-Cobas, protagonista di una serie di ricorsi in giudizio, e altri sindacati autonomi), che avevano partecipato all’elezione della RSU (della quale risultavano componenti alcuni eletti nelle loro liste), chiedevano di esercitare autonomamente (come autonoma componente della RSU) uno dei poteri che il Titolo III St. lav. attribuisce alle RSA (in particolare il potere di indire l’assemblea: infra, Sez. II): poteri che già l’AI del 1993 e anche gli AI successilavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite, spettanti a ciascun lavoratore ex art. 20, St. lav.; diritto ai permessi non retribuiti di cui all’art. 24, St. lav.; diritto di affissione di cui all’art. 25 St. lav. (infra, Sez. II). Alcune ambiguità nella formulazione degli Accordi interconfederali citati hanno aperto questioni interpretative complesse in ordine alla titolarità della sola RSU nel suo complesso, o delle sue componenti separate per sigla sindacale di appartenenza, di poteri e funzioni che la legge assegna alle RSA. 21 vi citati attribuiscono alla RSU, che subentra alle RSA e ai suoi dirigenti nella 30 titolarità dei poteri e delle funzioni a questi attribuiti dalla legge . Il problema è stato affrontato più volte dalla giurisprudenza che ha fornito soluzioni contrastanti. 31 La Cassazione ha talora affermato la natura di organo collegiale della RSU «chiamata a deliberare a maggioranza, e in piena autonomia, sulle scelte di politica sindacale e di esercizio dei relativi diritti nell’ambito dell’unità produttiva», negando che la singola componente della RSU possa esercitare autonomamente il potere di indire l’assemblea (che l’art. 20 St. lav. attribuisce alle RSA congiuntamente o disgiuntamente: infra, Sez. II). Altre volte, la stessa Cas32 sazione ha affermato invece il contrario : secondo la S.C., anzitutto l’AI del 1993 non ha esplicitamente escluso che anche il diritto di assemblea (come altri diritti sindacali che sono esplicitamente menzionati) sia attribuito alle singole componenti; in secondo luogo, essendo il potere di indire assemblee attribuito alla singola RSA, che può autonomamente esercitarlo, questo diritto non può essere negato alla singola componente della RSU. 33 Quest’ultimo orientamento lascia tuttavia perplessi : non solo, come vedremo, il potere di indire assemblee è attribuito dalla legge alle singole RSA perché la legge prevede non un organismo rappresentativo unitario (come la RSU), ma una pluralità di organismi rappresentativi (le RSA); ma anche perché la S.C. sembra trascurare che l’attribuzione del potere solo alla RSU unitariamente intesa ha, nella logica dell’AI del 1993 (ma anche nella logica degli AI successivi), il non trascurabile fine di evitare forme di concorrenza tra 34 componenti eletti nelle diverse liste . È invece scontato che i diritti che lo Statuto attribuisce ai dirigenti delle RSA (in materia di trasferimenti e licenziamenti) restano prerogative proprie 30 L’art. 5 dell’Accordo interconfederale del dicembre 1993 (che ha istituito le RSU) prevede che 3 delle 10 ore di assemblea retribuite siano riservate alle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale applicato nell’unità produttiva, e dunque alla componente (1/3) non elettiva, ma associativa, della RSU. Il significato della previsione è chiaro, e tuttavia proprio l’attenzione posta dall’Accordo alla salvaguardia di uno spazio riservato alla componente associativa accentua le ambiguità del disegno complessivo della RSU. Riflessioni in tal senso in G. Fontana 2004, p. 100 ss. 31 Cass. 16 febbraio 2005, n. 3072, secondo cui deve escludersi il diritto dei singoli componenti della RSU di indire autonomamente assemblee; Cass. 20 aprile 2002, n. 5765, in RIDL, 2003, II, 426, nota di G. Boni e ivi ampi riferimenti; Trib. Piacenza 13 dicembre 2006, in ADL, 2007, p. 795, nota di L. Ratti. 32 Cass. 1° febbraio 2005, n. 1892, in RIDL, 2005, II, p. 549. 33 Cfr. le riflessioni in argomento di C. Cester e S. Scarponi 2006. 34 Così Cass. 16 febbraio 2005, n. 3072, cit., secondo cui anche per questa ragione deve escludersi il diritto dei singoli componenti della RSU di indire autonomamente assemblee. 22 della persona del sindacalista, e non della RSU nel suo complesso. 3.3. La coesistenza tra RSU e RSA Come si è detto sopra, pur avendo espresso una netta opzione a favore della costituzione delle RSU, le parti sociali non possono escludere che nelle unità produttive con più di 15 dipendenti possano essere costituite altre forme di rappresentanza sindacale (le RSA regolate dall’art. 19 St. lav.). Del resto, la via contrattuale alla disciplina delle rappresentanze sindacali dei lavoratori nei luoghi di lavoro, non è autosufficiente. Anzitutto occorre considerare che la disciplina interconfederale e la contrattazione collettiva nazionale di categoria che ha dato in passato, e darà in futuro, attuazione agli AI, non hanno efficacia generale: vi sono importanti settori nei quali i contratti collettivi non prevedono la costituzione delle RSU, optando quindi per le RSA ai sensi dell’art. 19 St. lav. (così il settore del credito). In secondo luogo, resta aperto il problema delle organizzazioni sindacali che non partecipano alla elezione della RSU, che porta con sé la possibile coesistenza tra la RSU e una o più separate RSA. In terzo luogo, a seguito delle modifiche subite dall’art. 19 St. lav. con il referendum del 1995, di cui parleremo nei prossimi paragrafi, resta aperto il problema delle imprese nelle quali il datore di lavoro non applichi alcun contratto collettivo, e manchino di conseguenza i presupposti necessari (come vedremo oltre) per la costituzione delle RSA ai sensi dell’art. 19 St. lav. In tale caso, non di coesistenza tra RSU e RSA si tratta, ma di totale mancanza di rappresentanza sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. A tutti questi problemi potrebbe dare soluzione solo una legge sulla rappresentanza sindacale: dato, e non concesso, che l’attuale Parlamento sia davvero in grado di approvare una legge, sui cui contenuti le opinioni delle forze politiche e delle stesse Confederazioni sindacali maggioritarie divergono profondamente. 4. La riforma delle rappresentanze sindacali mediante referendum. Il nuovo art. 19 St. lav. Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come, a partire dal Protocollo e dell’AI del 1993, e per iniziativa delle parti sociali, sia mutata la disciplina delle rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro. La disciplina è di natura contrattuale: non ha dunque né la forza, né l’applicabilità generale della legge. Ricordiamo inoltre che la Corte Costituzionale nella sentenza n. 30/1990 (retro), aveva sollecitato il Parlamento ad emanare nuove regole, che tenessero conto da un lato dell’emergere nella realtà di nuovi modelli di aggregazione 23 sindacale, e dall’altro che sostituissero la rappresentatività presunta delle Confederazioni sindacali (peraltro inflazionata dalla lettura del requisito data dalla giurisprudenza, che aveva progressivamente sostituito la mera rappresentatività alla “maggiore rappresentatività”) con criteri di rappresentatività effettiva, democraticamente verificabile. Nelle molte discussioni che avevano fatto seguito a quella sentenza, si era largamente diffusa un’opinione favorevole ad un intervento legislativo che prevedesse criteri idonei a misurare l’effettiva rappresentatività dei sindacati a livello dell’unità produttiva. Alcuni erano favorevoli all’idea che la legge prevedesse una struttura unitaria di rappresentanza sindacale, costituita su base elettiva; altri continuavano a caldeggiare l’adozione di indici di rappresentatività misti tra consistenza associativa (numero di iscritti) ed effettiva partecipazione alla contrattazione. Pur valutando positivamente i risultati raggiunti dall’autonomia collettiva con l’AI del 1993, ma constatandone la non autosuffi35 cienza, l’intervento legislativo era ritenuto da molti necessario . Progetti di legge sono stati presentati in Parlamento a partire dagli anni ’90 36 del secolo scorso ; una disciplina legislativa è stata emanata per il settore pubblico (infra, Parte V), ma alla disciplina generale e unitaria della rappresentanza e rappresentatività sindacale non si è ancora arrivati. Come abbiamo avuto modo di dire nelle pagine dedicate alla rappresentatività sindacale (retro, Parte III, Cap. II, §§ 3 ss.), solo di recente le parti sociali hanno fissato alcune regole in materia; perdura invece il silenzio del legislatore, anche se una legge sulla rappresentanza sindacale finalmente compare nei programmi del nuovo Governo. Mentre in Parlamento si discuteva, ma senza esito, nel 1994 erano stati promossi alcuni referendum abrogativi; sull’art. 19 St. lav. ne furono ammessi due: il primo mirava a cancellare, insieme al privilegio accordato dalla legge alle Confederazioni maggiormente rappresentative, anche ogni altro criterio di selezione (abrogazione delle lett. a e b); il secondo mirava anch’esso a cancellare il privilegio accordato alle Confederazioni (abrogazione della lett. a), ma proponeva (attraverso la parziale abrogazione della lett. b) di affidare la selezione dei sindacati, nel cui ambito è legittima la costituzione delle RSA, a criteri diversi da quello della rappresentatività “presunta” delle Confederazioni maggioritarie e dei sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali o provinciali. Solo il secondo di questi referendum ha avuto esito positivo. Nel settembre del 1995 è entrato in vigore il nuovo art. 19 St. lav., nel testo modificato dal 35 Cfr. L. Mariucci 1996 e ivi riferimenti; S. Bellomo 1996. Più in generale sulla questione P. Campanella 2000 e S. Scarponi 2005. 36 Cfr. gli interventi di R. Innocenti e C. Smuraglia nella tavola rotonda Lavoro e diritto nella XIII legislatura, in RGL, 2001, I, p. 429 ss. 24 referendum del giugno del 1995, il cui esito positivo aveva portato all’abrogazione dell’intera lett. a) e alla soppressione, nella lett. b), della qualificazione come nazionale o provinciale del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. Nel nuovo testo, dunque, «rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite, ad iniziativa dei lavoratori, nell’ambito delle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva». Il privilegio delle Confederazioni è stato eliminato; la selezione no: la stipulazione del contratto collettivo continua a svolgere la funzione di criterio di selezione, ma il livello contrattuale non è più qualificato; dunque la sottoscrizione di un contratto collettivo anche solo aziendale abilita il sindacato ad essere ambito di riferimento per la costituzione di una RSA. Sulla formulazione post-referendum dell’art. 19 St. lav. è intervenuta di recente la Corte Costituzionale (infra, § 4.2). A suo tempo, la stessa Corte Costituzionale (sentenza 12 luglio 1996, n. 244) aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 nuovo testo, sollevata da alcuni giudici di merito in relazione agli artt. 3 e 39 Cost. Secondo questi giudici, il nuovo art. 19, consentendo la costituzione di RSA nell’ambito di qualunque associazione sindacale anche meramente aziendale, purché firmataria di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, avrebbe permesso in sostanza al datore di lavoro di interferire nella costituzione delle RSA, “accreditando” (mediante la stipulazione del contratto collettivo) i sindacati a lui più graditi: ciò che in sostanza avrebbe integrato la violazione del divieto di sindacati di comodo di cui all’art. 17 St. lav. La Corte aveva intanto ribadito, richiamando quanto aveva affermato nella sentenza n. 30/1990 (retro), che l’accreditamento si verifica nel caso in cui il datore di lavoro conceda, mediante accordo, agevolazioni ad una associazione sindacale priva dei requisiti per averne diritto; ha escluso invece che di accreditamento possa parlarsi quando si tratti della stipulazione del contratto collettivo. In tal caso, aveva affermato la Corte, «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva». È dunque il legislatore – secondo la Corte – che accredita le organizzazioni sindacali capaci di imporsi, per forza propria, alla controparte contrattuale. Ciò detto, la Corte aveva ritenuto di dover precisare: in primo luogo che per essere firmatarie le associazioni sindacali devono aver preso attivamente parte alla trattativa contrattuale (e non semplicemente avere aderito al contrat37 to negoziato da altre associazioni) ; in secondo luogo, che il contratto colletti- 37 La Cassazione (sentenza 2 dicembre 2005, n. 26239) ha ribadito questa affermazione della Cor- 25 vo di cui si tratta non può essere un contratto qualsiasi, ma deve essere un vero contratto collettivo: vale a dire un contratto che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, «almeno per un settore o istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva». Insomma, aveva concluso la Corte Costituzionale, la volontà popolare ha cancellato il criterio di rappresentatività presunta (le Confederazioni maggior38 mente rappresentative) e ha salvato il criterio di rappresentatività effettiva desumibile dalla stipulazione del contratto collettivo, estendendolo anche al contratto aziendale. Il risultato non viola né il principio di eguaglianza, né il principio di libertà sindacale, perché la legge continua legittimamente a selezionare i beneficiari delle norme di cui al Titolo III St. lav. sulla base di ragionevoli criteri, che non sono più quello della “maggiore rappresentatività” propria delle Confederazioni (che all’epoca era invece il criterio utilizzato in altre disposizioni di legge: retro, Cap. II), ma quello della rappresentatività accertata mediante la stipulazione del contratto collettivo (e cioè la capacità del sin39 dacato di imporsi come controparte contrattuale) . Le precisazioni della Corte Costituzionale erano certamente servite a risolvere alcuni problemi interpretativi posti dalla nuova formulazione dell’art. 19, ma certamente non tutti e neppure i più importanti. Un primo problema, sul quale si sono registrati in giurisprudenza due diversi orientamenti, attiene alla definizione della natura del contratto collettivo 40 cui fa riferimento l’art. 19 St. lav. Secondo un primo orientamento , certa- te Costituzionale, affermando che la mera sottoscrizione di un contratto negoziato da altri non solo «non indica una capacità di imporsi alla controparte, ma costituisce sicuro indizio del contrario». 38 Ricorda A. Maresca 1996, p. 25, che alcune organizzazioni sindacali, che si caratterizzavano per un’attività di tutela di interessi particolari ed erano perciò ben lontane dal modello di tutela di interessi generali proprio del sindacalismo confederale, si erano date da fare per dar corpo a formali aggregazioni di tipo confederale per acquisire i requisiti di accesso ai diritti sindacali previsti dal vecchio testo dell’art. 19. Ciò era reso possibile dalla tendenza, affermatasi nella giurisprudenza, a dare una lettura ben poco rigorosa del requisito della “maggiore rappresentatività” (retro, Cap. II). 39 A questo proposito la Corte, in una successiva decisione (ordinanza n. 345/1996), nella quale ha ribadito la legittimità costituzionale del nuovo art. 19 St. lav., ha affermato che un sindacato «disposto a sottoscrivere un cattivo contratto per i suoi rappresentati pur di ritagliarsi una porzione di potere in azienda, non lede alcun diritto inviolabile dei suoi iscritti, ma semplicemente non tutela come dovrebbe i loro interessi, configurandosi o come sindacato sfuggito al controllo degli associati, cioè non più rispettoso del precetto costituzionale di democraticità interna o, al limite, come un sindacato di comodo vietato dall’art. 17 dello Statuto dei lavoratori». In argomento cfr. Cass. 27 agosto 2002, n. 12584, in RIDL, 2003, II, p. 482, nota di M. Vincieri, e ivi ampi riferimenti. 40 Cass. 11 luglio 2008, n. 19275, in NGL, 2008, p. 417 e in LG, 2009, p. 45, nota di L. Ratti; 26 mente più fedele alla sentenza n. 244/1996 della Corte Costituzionale, il contratto collettivo di cui all’art. 19 deve avere carattere normativo (vale a dire deve regolare un rilevante numero di istituti relativi ai contratti individuali di lavoro). Secondo un altro orientamento, il contratto collettivo di cui all’art. 19 può anche avere carattere meramente gestionale (contratti di gestione di crisi aziendali, contratti riguardanti la mobilità dei lavoratori, contratti volti a delimitare il potere del datore di lavoro nei licenziamenti collettivi), in quanto 41 esprime la capacità negoziale dell’organizzazione sindacale . Alla base di questo orientamento, favorevole ad una interpretazione estensiva del requisito di cui all’art. 19, sta la considerazione che, essendo la firma apposta sul contratto collettivo un requisito legale di accesso del sindacato all’esercizio delle prerogative di cui al Titolo III St. lav., una interpretazione formalistica e restrittiva può portare al risultato (non compatibile con i principi di cui agli artt. 3 e 39 Cost.) di attribuire nella sostanza al datore di lavoro il potere di decidere in ordine alle prerogative e ai diritti della propria controparte sindacale. Ma non è priva di fondamento l’obiezione che questa apertura delle maglie (già larghe) dell’art. 19 favorisce una frammentazione sindacale alla quale la Corte Costituzionale aveva tentato di porre un freno. 42 Un ulteriore problema, affrontato dalla Cassazione , è se per contratto collettivo applicato nell’unità produttiva possa intendersi anche quel contratto di cui il datore di lavoro applichi per adesione soltanto alcune clausole. La risposta della S.C. è negativa: secondo i giudici, infatti, se il sindacato non ha la forza di far applicare il contratto collettivo (per intero), vuol dire che non ha 43 la rappresentatività richiesta dall’attuale testo dell’art. 19 St. lav. . La soluzione data alla questione dalla Cassazione può lasciare perplessi; certo è che mette in evidenza un nodo lasciato irrisolto dalla nuova formulazione dell’art. 19 ad avviso della S.C., la capacità dell’organizzazione sindacale di accreditarsi come interlocutore dell’imprenditore è testimoniata dalla stipulazione di un contratto collettivo di qualsiasi livello, ma con caratteristiche tali da attestare l’effettività dell’azione sindacale, rappresentando un arco di interessi più vasto di quello dei soli iscritti, e incidendo su diversi istituti che regolino i rapporti di lavoro e non su meri episodi contingenti della vita aziendale (come il contratto gestionale stipulato per “gestire” una crisi aziendale). 41 Così Cass. 11 gennaio 2008, n. 520, in MGL, 2008, p. 530, nota di R. Del Punta; Cass. 9 gennaio 2008, n. 212, in RIDL, 2008, II, p. 528, nota di M.D. Ferrara; Cass. n. 19271/2004, in RGL, 2005, II, p. 331 e in RIDL, 2005, II, p. 549, nota di R. Romei. 42 Cass. 30 luglio 2002, n. 11310, in RIDL, 2003, II, p. 192, nota di M. Pallini. 43 Merita sottolineare che, nel caso di specie, la possibilità di costituire una RSA è stata negata al sindacato aderente alla CGIL (rappresentativo per numero di iscritti in azienda, e firmatario del contratto nazionale di categoria), per la ragione che il datore di lavoro non era iscritto ad alcuna organizzazione datoriale firmataria del contratto collettivo nazionale di categoria, e non aveva dato adesione a tale contratto collettivo, limitandosi ad applicare ai propri dipendenti solo i minimi retributivi previsti dal contratto. 27 (e, come vedremo, non risolto neppure dalla riformulazione dell’art. 19 ad opera della Corte Costituzionale: infra, § 4.2): ove la disposizione sia interpretata letteralmente, come nel caso di specie, il datore, che non si iscrive all’associazione datoriale e non applica alcun contratto collettivo, riesce ad im44 pedire ai dipendenti di costituire le proprie RSA . 4.1. L’art. 19 e il diritto dei lavoratori alla rappresentanza sindacale (a margine del caso FIAT) Venuta meno la funzione “promozionale” che, nel vecchio testo, assolvevano i criteri di cui alle lett. a) e b) dell’art. 19, la formulazione di questa disposizione uscita dal referendum finisce per accordare il sostegno solo ad alcuni sindacati e non ad altri, in base a criteri che non hanno direttamente a che fare con l’effettiva capacità del sindacato di aggregare consensi tra i lavoratori che intende rappresentare. Stante la formulazione letterale del nuovo testo dell’art. 19 St. lav. (sulla quale ora è intervenuta la Corte Costituzionale, modificandola: infra, § 4.2), la mancata sottoscrizione del contratto collettivo normativo può infatti determinare la negazione dell’accesso ai diritti sindacali a sindacati che, pur godendo di largo consenso fra i lavoratori e di una cospicua rappresentanza associativa (numero di iscritti), e pur avendo partecipato alle trattative, non siano d’accordo su una determinata soluzione contrattuale. Il problema esiste da quando è entrata in vigore la nuova formulazione del45 l’art. 19 , ma si è posto prepotentemente all’attenzione generale a seguito della vicenda della contrattazione “separata” del gruppo FIAT (retro, Parte II, Cap. III). Nel contratto FIP (“di primo livello”), stipulato (come precisato nel frontespizio del contratto) al di fuori del sistema confindustriale e della contrattualistica definita da tale organizzazione imprenditoriale (Protocollo e AI del 1993; contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici), è sancita la costituzione delle RSA ai sensi dell’art. 19 St. lav., e riaffermata la stretta correla- 44 Cfr. le osservazioni critiche alla sentenza Cass. 30 luglio 2002, n. 11310, cit., di M. Pallini, secondo cui se il datore di lavoro, che pure non è obbligato ad applicare il contratto collettivo perché non iscritto all’organizzazione datoriale stipulante, si avvale però del contratto collettivo, applicandone una parte, implicitamente riconosce la rappresentatività dei sindacati stipulanti, e da tale riconoscimento non può non conseguire la legittimazione di quei sindacati come ambito di riferimento per la costituzione delle RSA in azienda. 45 Fin da subito parte della dottrina aveva sollevato dubbi di costituzionalità: cfr. S. Scarponi 2011, e ivi riferimenti bibliografici. Diversamente P. Bellocchi 2011, che ha di recente proposto una rilettura dell’art. 19 St. lav., centrata sulla continuità tra l’art. 19 e la “autonoma regolazione” della rappresentanza sindacale e dei diritti sindacali (detto altrimenti: l’ordinamento intersindacale), e, quasi di conseguenza, sul ritorno alla “purezza” delle origini contrattuali, frutto della riforma referendaria dell’art. 19. 28 zione tra la titolarità della RSA e delle relative prerogative e la sottoscrizione 46 del contratto . È bene precisare che l’uscita del gruppo FIAT da Confindustria non doveva comportare come conseguenza obbligata l’abbandono del sistema di rappresentanza dei lavoratori in azienda, fondato sulle RSU, che era il sistema applicato nelle aziende del gruppo in precedenza; si è trattato di una scelta sulla forma della rappresentanza sindacale concordata tra le parti, e consentita dalla formulazione post-referendum dell’art. 19 St. lav. Sul piano degli effetti concreti, è accaduto che la FIOM-CGIL, non firmataria del contratto, è stata privata dei benefici di cui al Titolo III St. lav. (costituzione della RSA e prerogative attribuite ad essa: assemblee, contributi sindacali, referendum, locali, affissioni, permessi sindacali). L’esito è parso a molti paradossale, tenuto conto che la FIOM è largamente rappresentativa nella categoria, e che può vantare nelle aziende del gruppo FIAT, nelle quali è stata da sempre presente, una rappresentatività confermata, tra l’altro, dall’alto numero di no nei referendum indetti per sottoporre all’approvazione dei lavoratori interessati i nuovi contratti (Pomigliano e Mirafiori). Tale esito paradossale ha riaperto la questione della conformità dell’art. 19 all’art. 39, comma 1, Cost.: questione che si pone, se la disposizione statutaria è interpretata nel senso che i lavoratori che aderiscono ad un sindacato non firmatario del contratto collettivo applicato nell’azienda sono privati del diritto alla propria rappresentanza sindacale. 47 Secondo l’opinione espressa dal primo giudice investito della questione , mentre sul piano della contrattazione collettiva la libertà sindacale di cui all’art. 39, comma 1, impedisce di imporre vincoli in ordine alla composizione del tavolo negoziale, il diritto alla rappresentanza sindacale, essendo un diritto fondamentale dei lavoratori, non può essere negato loro quando il sindacato cui aderiscono non ha fatto parte del tavolo negoziale, o lo ha abbandonato per dissen48 so sui contenuti o sul metodo del negoziato . 46 Come chiarisce R. De Luca Tamajo 2011, ciò è stabilito nell’implicito presupposto che una volta varato un accordo collettivo, un sindacato che non lo ha firmato non possa avvalersi dei diritti previsti dallo St. lav. per “contestare dall’interno” l’accordo stesso. 47 Trib. Torino 14 settembre 2011, in RIDL, 2011, II, con nota di R. Del Punta. Cfr. anche la serrata critica di F. Carinci 2011c. 48 Ridotta all’essenziale, e sfrondata da un insieme sovrabbondante e non necessario di argomentazioni, la tesi del giudice è la seguente. La scelta delle organizzazioni sindacali (e segnatamente di FIM-CISL e UILM) di abbandonare il sistema democratico della RSU a vantaggio del ritorno alla rappresentanza associativa (RSA) è poco comprensibile, e tuttavia rientra nell’ambito della loro libertà e autonomia. Dal punto di vista invece del datore di lavoro, alla luce del divieto di discriminazioni per ragioni sindacali e di condotte dirette a limitare o impedire lo svolgimento dell’attività sindacale (artt. 15 e 28 St. lav.), non può ritenersi lecita un’in- 29 La tesi, certamente ispirata dalla lodevole intenzione di porre rimedio ad una situazione di discriminazione in danno di un sindacato rappresentativo 49 ma scomodo, lascia perplessi: come si è giustamente osservato , costituisce una indubbia forzatura definire come “condotta antisindacale” (o, per usare le parole del giudice, “abuso di diritto di contrattazione”) l’avere il datore di lavoro sfruttato fino in fondo e a suo vantaggio le possibilità offerte dal diritto, facendo ricorso all’applicazione dell’art. 19 St. lav. e portandone fino alle estreme conseguenze la formulazione letterale uscita dal referendum. In giurisprudenza si sono successivamente confrontati orientamenti diversi. Da un lato vi sono giudici che hanno ritenuto sufficientemente chiara e non superabile in via interpretativa la lettera dell’art. 19, e pertanto hanno ritenuto legittimo il comportamento dell’azienda che aveva negato ai lavoratori aderenti alla FIOM la possibilità di costituire la propria RSA. D’altro lato, vi sono invece giudici che hanno ritenuto possibile dare un’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 19, rendendolo compatibile con il principio della libertà sindacale sancito dall’art. 39, comma 1, Cost., nella attuazione che tale principio ha avuto proprio nello Statuto dei lavoratori. Superando la formulazione letterale dell’art. 19, questi giudici hanno ritenuto che la firma del contratto applicato nell’unità produttiva non potesse essere considerata come criterio costitutivo di rappresentatività, ma come mero indice di rappresentatività, che come tale poteva essere messo sullo stesso piano di altri indici di rappresentatività: ciò al fine di non privare i lavoratori del diritto alla rappresentanza, e altresì di non consentire al datore di lavoro di usare la contrattazione a fini di esclusione del sindacato scomodo. 50 Altri giudici , infine, hanno ritenuto che, essendo la lettera dell’art. 19 inequivocabile, non ne fosse possibile un’interpretazione “adeguatrice” che ne tesa negoziale che sancisca il ritorno alla RSA, «in quanto ciò realizza un intervento nei rapporti tra i sindacati, così da squilibrare la loro rispettiva presenza e forza negoziale, materia rispetto alla quale il datore deve invece mantenersi rigorosamente estraneo e neutrale». Secondo il giudice, gli accordi in questione determinano infatti un aiuto a favore dei sindacati firmatari e in danno della FIOM, la quale, «pur avendo espresso posizioni che hanno ottenuto nella competizione referendaria il consenso di una apprezzabile (ancorché minoritaria) percentuale di lavoratori, si trova ora nella condizione di non poterli rappresentare o assistere a nessun livello». In conclusione, il giudice dispone l’estensione dei diritti di cui al Titolo III St. lav. (e in primo luogo il diritto alla RSA) anche alla FIOM, considerando anzitutto che questo sindacato all’inizio della vicenda faceva parte a pieno titolo della delegazione trattante, mentre all’esito della trattativa risulta privato della rappresentanza in azienda, e ciò avviene non per carenza di requisito rappresentativo, bensì perché è in posizione di dissenso rispetto alle nuove pattuizioni che regolano il rapporto di lavoro, che non ritiene di sottoscrivere. 49 R. Del Punta 2011. 50 Ordinanze Trib. Modena 4 giugno 2012; Trib. Vercelli 25 settembre 2012; Trib. Torino 12 dicembre 2012. 30 forzasse la formulazione letterale, e hanno perciò rimesso la questione della conformità dell’art. 19 agli artt. 3 e 39 Cost. alla Corte Costituzionale; i giudici hanno chiesto alla Corte non una decisione demolitoria (vale a dire l’annullamento dell’intero comma 1 dell’art. 19), «che avrebbe creato un vuoto normativo colmabile solo dal legislatore», ma una pronuncia additiva di accoglimento, che estendesse l’applicabilità dell’art. 19 alle organizzazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, che, stando alla (inequivoca) lettera dell’art. 19 sarebbero state escluse dal godimento dei diritti e delle prerogative di cui al Titolo III St. lav. La Corte costituzionale è stata così investita della questione, sulla quale ha deciso con sentenza 23 luglio 2013, n. n. 231: salutata come l’auspicato ripristino della legalità costituzionale, la sentenza ha chiuso (almeno provvisoriamente) la vicenda dei diritti sindacali della FIOM nelle aziende del gruppo FIAT. Ma i problemi aperti, come vedremo, restano molti. 4.2. La sentenza n. 231/2013 della Corte Costituzionale Con la sentenza n. 231/2013 la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell’art. 19 St. lav. «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda». La Corte ha pronunciato una sentenza additiva di accoglimento, che, pur lasciando formalmente immutata la lettera della disposizione, nella sostanza la riscrive, modificandone il significato e la portata pratica. Ricordiamo intanto che nella sentenza (interpretative di rigetto) n. 244/1996 (ma anche nella ordinanza n. 345/1996), il dato fattuale della sottoscrizione del contratto collettivo era stato interpretato dalla Corte Costituzionale in linea di (relativa) continuità con il passato: la sottoscrizione del contratto collettivo, che l’art. 19 faceva assurgere a criterio selettivo a fini di accesso alle prerogative di cui al Titolo III St. lav., era basato – secondo la Corte – sulla rappresentatività effettiva del sindacato, ovvero sulla sua capacità di imporsi come controparte contrattuale. La Corte escludeva che il criterio della sottoscrizione del contratto si risolvesse nell’attribuzione al datore di lavoro di un potere di accreditamento del proprio interlocutore sindacale, affermando che la sottoscrizione del con- 31 tratto significava piuttosto reciproco riconoscimento degli stipulanti come parti 51 contrattuali . La vicenda della esclusione della FIOM, sindacato la cui forza, per numero di iscritti e per successo elettorale (nelle elezioni di RSU), è un dato di fatto indiscutibile, ha messo la Corte Costituzionale di fronte alla necessità di riscrivere l’art. 19, per ricomporre un quadro, che bene o male aveva retto per più 52 di dieci anni , ma che usciva sconvolto da quella vicenda. A fronte del caso FIOM vs. FIAT, la Corte è stata infatti costretta a prendere atto che, in mancanza di sottoscrizione del contratto (e dunque in presenza di dissenso), si spezza il nesso che nell’art. 19 tiene insieme la rappresentanza sindacale dei lavoratori in azienda e la rappresentatività del sindacato misurata sul suo consenso alla stipulazione del contratto. L’esclusione di un sindacato, la cui rappresentatività, nei fatti, non dipende dalla circostanza che sia disponibile a sottoscrivere un contratto da cui dissente, rimette in discussione la razionalità del criterio selettivo previsto dall’art. 19, perché il dissenso del sindacato maggiormente o significativamente rappresentativo sul contratto, che lo porta a non sottoscriverlo, finisce per essere punito dalla lettera dell’art. 19. Non resta che ammettere che la selezione a favore dei soli sindacati firmatari premia i sindacati “consonanti” (cioè d’accordo con il datore di lavoro), in spregio dei principi costituzionali di eguaglianza e di libertà sindacale. Lo “squilibrio per difetto” deve essere allora sanato: il sindacato effettivamente rappresentativo deve essere incluso, anche se dissenziente. La Corte, che si tiene prudentemente sul crinale dei propri precedenti (specificamente, la sentenza n. 244/1996 e l’ordinanza n. 345/1996), rispolvera, a fini di inclusione, il criterio selettivo della partecipazione alle trattative, mettendo nel contempo da parte il criterio della sottoscrizione, dato che, ormai, firmatario vuol dire anche non firmatario del contratto. Tuttavia, la riscrittura dell’art. 19 fa assurgere a criterio selettivo la partecipazione alle trattative, attribuendo ad essa (e non più alla sottoscrizione del contratto) la funzione di indice di una rappresentatività “effettiva”, che il sindacato ha acquisi53 to altrove («nei fatti e nel consenso dei lavoratori dell’unità produttiva») ; ma 51 In base all’insegnamento di Giugni, cui la Corte rende implicitamente omaggio, il reciproco riconoscimento tra le parti contrattuali è il criterio cardine dell’ordinamento intersindacale. 52 In realtà più male che bene. Vero che solo l’esplodere della conflittualità tra le tre maggiori Confederazioni ha fatto esplodere anche il problema della legittimità costituzionale dell’art. 19 St. lav. (che il passaggio dalle RSA alle RSU contribuiva a tenere, per così dire, coperto); ma è anche vero che nessuno poteva ignorare che l’imprenditore che non applicasse alcun contratto collettivo aveva il diritto di negare ai sindacati, più o meno rappresentativi che fossero, la costituzione delle Rsa. La riscrittura dell’art. 19 ad opera della Corte Cost. non risolve ancora questo problema. 53 Corte Cost. n. 231/2013, Considerato in diritto, 6.5. 32 il sindacato che non partecipa alle trattative (e ciò può avvenire per varie ragioni) non è selezionato (e dunque non è rappresentativo) ai fini dell’applicazione dell’art. 19. Che il sindacato rappresentativo partecipi alle trattative non è affatto scontato. In proposito merita anzitutto segnalare che nel T.U. sulla rappresentanza (AI 10 gennaio 2014) è previsto che «Ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell'art. 19 e ss. della legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro definito secondo le regole del presente accordo». Dunque, secondo l’accordo, il raggiungimento della soglia di rappresentatività non garantisce automaticamente al sindacato la presenza nella delegazione trattante (le regole saranno definite autonomamente dalle Federazioni di categoria) e quindi quella partecipazione alle trattative che apre la porta alla costituzione della RSA. La clausola citata si riferisce all’ipotesi in cui non sia stata costituita la RSU e si tratti dunque di individuare quali sindacati potranno costituire RSA e accedere così ai diritti e alle prerogative di cui al Titolo III St. lav. La clausola fornisce una interpretazione della disposizione di legge (come riscritta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 231) che restringe l’accesso ai soli sindacati (pure significativamente rappresentativi, avendo raggiunto la soglia del 5%) che hanno fatto parte della delegazione che ha trattato il rinnovo del contratto collettivo nazionale. Una siffatta limitazione dei diritti sindacali, che può colpire organizzazioni significativamente rappresentative, suscita molte perplessità: occorre infatti valutare se, in ipotesi, l’esclusione dalla delegazione trattante non costituisca discriminazione del sindacato dissenziente, che non ha “contribuito” alla definizione della piattaforma, e perciò è stato escluso. L’autonomia collettiva può certamente dettare le proprie regole contrattuali, ma deve pur sempre fare i conti con la legge, e la legge (cioè l’art. 19, come riscritto dalla Corte costituzionale) sembra dirci con chiarezza che il sindacato che gode di consenso tra i lavoratori non può essere escluso dall’accesso ai diritti e alle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro a causa del proprio dissenso. Al di là delle regole sulla partecipazione alle trattative contrattuali definite dalle Confederazioni stipulanti nel T.U. sulla rappresentanza, resta il problema più generale della legittimità dell’esclusione di un sindacato (più o meno rappresentativo) dalle trattative, che coinvolge la questione della presenza e della estensione, nel nostro ordinamento, di un obbligo del datore di lavoro a trattare: ne parleremo oltre, affrontando l’argomento della condotta antisindacale (infra, PT. III, Cap. IV). 33 4) Parte III, Capitolo IV – pp. 224-225 – sostituire con le pagine seguenti [Omissis] In questo stesso ambito problematico assume rilievo il problema del rifiuto del datore di lavoro di trattare con il sindacato. Nel nostro ordinamento giuridico non è previsto un generale obbligo del datore di lavoro di trattare con i sindacati; l’obbligo può tuttavia sussistere quando la legge specificamente lo preveda (in materia di licenziamenti per riduzione del personale, di trasferimenti d’azienda, di ricorso alla cassa integrazione), o quando a prevedere 54 la trattativa (o l’esame congiunto) sia il contratto collettivo . Al di fuori dei casi regolati dalla legge o dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro resta libero di non trattare con i sindacati ovvero di trattare con alcuni e non con altri (sempre che la preferenza accordata ad una organizzazione sindacale non abbia le finalità vietate dall’art. 17 St. lav.: retro, Cap. I, § 1.3). La giurisprudenza ha tuttavia ravvisato gli estremi della condotta antisindacale nel rifiuto immotivato di trattare con l’organismo sindacale rappresentativo di tutti i dipendenti (la RSU), perché, pur non esistendo un obbligo a trattare, tale comportamento può essere giudicato contrario ai principi di buona fede e 55 correttezza nelle relazioni industriali ; egualmente ha configurato come condotta antisindacale l’esclusione dalle trattative per il rinnovo del contratto collettivo aziendale di una organizzazione sindacale, quando il precedente contratto collettivo prevedeva la convocazione congiunta di tutte le organizzazioni 56 sindacali per tutte le ipotesi di contrattazione . Al contrario, i giudici ritengono che non costituisca condotta antisindacale il rifiuto del datore di contrattare su materie che il contratto collettivo nazionale esclude dalle materie di 57 competenza della contrattazione decentrata ; o ancora, che non sia antisindacale procedere alla trattativa su tavoli separati, a meno che tale condotta non celi un intento discriminatorio nei confronti di alcune organizzazioni sindaca58 li: intento che questa volta dovrà essere provato dal ricorrente . 54 Talora tuttavia le clausole del contratto collettivo possono essere ambigue: cfr. Trib. Casale Monferrato 14 aprile 2006 (decreto), in ADL, 2006, p. 1783, commento di A. Allamprese. 55 Trib. Lecce 9 agosto 1999, in Corti Bari, Lecce e Potenza, 2001, I, p. 475. 56 Trib. Milano 6 dicembre 2001, in RCDL, 2002, p. 329. Trib. Milano 24 aprile 2001, in NGL, 2001, p. 404. La Cassazione ha inoltre ritenuto che non costituisca condotta antisindacale la concessione, non contrattata con i sindacati, di aumenti retributivi ad una percentuale elevata di dipendenti, a meno che non abbia finalità discriminatorie (come nel caso in cui la scelta dei lavoratori destinatari del beneficio venga fatta con modalità che discriminano gli appartenenti al sindacato): Cass. 11 marzo 2005, n. 5343, in RIDL, 2006, II, p. 37. 58 Trib. Benevento, 17 maggio 1999, in Riv. giur. Molise e Sannio, 1999, f. 1, p. 1. 57 34 In un fuggevole passaggio della motivazione della sentenza n. 231/2013 sull’art. 19 St. lav., della quale abbiamo parlato sopra (retro, Parte III, Cap. III, Sez. I), la Corte costituzionale configura come condotta antisindacale l’eventuale, non giustificata, esclusione dalle trattative contrattuali di un sindacato, la cui rappresentatività sia “acquisita”. È sufficiente a dire che, in tal modo, la Corte ha introdotto un obbligo a trattare in capo al datore di lavoro? La risposta pressoché unanime dei commentatori è negativa, e si può essere senz’altro d’accordo. L’obbligo a trattare incide direttamente sulla libertà sindacale, che l’art. 39 Cost. garantisce anche ai datori di lavoro, che implica anche la libertà di scegliersi i propri interlocutori (e dunque i sindacati con i quali si vuole contrattare); tale libertà può essere oggetto di una disciplina autonoma (di autolimitazione, o di limitazione concordata con le controparti: così è negli AI del 2011 e 2013, nei quali le parti hanno definito la composizione del tavolo negoziale). L’obbligo non può invece essere ricavato, e per di più in via indiretta, da un divieto di condotte antisindacali che, per essere tali, dovrebbero nella specie integrare gli estremi di un comportamento ritorsivo, o discriminatorio, nei confronti del sindacato rappresentativo. Dunque, nessun obbligo a trattare; invece un opportuno, implicito, richiamo alla distinzione concettuale tra libertà e arbitrio, su cui già, peraltro, si è pronunciata la giurisprudenza ricordata sopra. Insomma, la libertà del datore di lavoro di contrattare con chi vuole non è assoluta: la Corte fa gravare sul datore di lavoro l’onere della “giustificazione” della esclusione dal tavolo negoziale di un sindacato, che, nei fatti, goda di un significativo consenso tra i lavoratori; cosicché ove il giudice possa convincersi, sulla base delle allegazioni del sindacato in ipotesi ricorrente, che alla base dell’esclusione sta la ritorsione verso, o la discriminazione del, sindacato conflittuale e/o dissenziente, potrà condannare il datore di lavoro per condotta antisindacale e ordinare la integrazione del tavolo contrattuale. 35 5) Parte IV, Capitolo II, Sezione I – pp. 275-278, §§ 5, 6 – sostituire con le pagine seguenti 5. Le successive riforme: l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011; il Protocollo 31 maggio 2013 e il T.U sulla rappresentanza 10 gennaio 2014 Illustrando l’evoluzione del nostro diritto sindacale ci siamo già soffermati sull’AI 28 giugno 2011, sul Protocollo 31 maggio 2013 e sul T.U sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, descrivendone sinteticamente i contenuti essenziali 59 (retro, Parte II, Cap. III) . Ora dobbiamo entrare nel dettaglio di questi contenuti, perché gli accordi dettano un insieme di regole destinate a governare nel futuro prossimo il sistema contrattuale. Nell’AI del 2011 le parti hanno anzitutto ribadito il ruolo centrale del contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL), che ha la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale»; nello stesso tempo hanno affermato di condividere «l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello per cui vi è la necessità di promuoverne l’effettività e di garantire una maggiore certezza alle scelte operate d’intesa fra aziende e rappresentanze sindacali dei lavoratori», precisando però che «la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge». Ambedue le frasi citate sono riportate nel T.U. sulla rappresentanza, con il quale le parti (Confindustria, CGIL, CISL, UIL) hanno dato attuazione al Pro60 tocollo del 2013 . La strada imboccata con l’AI del 21 novembre 2012, intitolato “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia” (documento programmatico, non sottoscritto dalla CGIL), che riduceva il ruolo del CCNL, a vantaggio di una ampia autonomia riservata alla contrattazione aziendale, anche derogatoria, è stata abbandonata. Il CCNL costitui59 Di tali accordi abbiamo già descritto anche la parte relativa alle regole in materia di rappresentatività sindacale (retro, Parte III, Cap. II, § 3.1.3). 60 Il T.U. ribadisce che «il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale», e aggiunge altresì che «la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge». 36 sce dunque ancora il perno del sistema contrattuale; è gerarchicamente sovraordinato rispetto ai contratti di secondo livello, dei quali predetermina le competenze, definendo anche i limiti e le procedure per le specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nel contratto nazionale consentite a livello aziendale. Gli accordi derogatori sono dunque previsti, ma ricondotti – almeno a regime – sotto il controllo della contrattazione nazionale. Approfondiremo oltre l’argomento; fin d’ora tuttavia merita segnalare che, come già l’AI del 2011, anche il T.U. sulla rappresentanza apre un ampio spazio alla stipulazione di accordi collettivi aziendali che derogano al contratto nazionale anche in mancanza 61 di espressa previsione del contratto nazionale . Per quanto riguarda la contrattazione nazionale, l’innovazione principale già introdotta dall’AI del 2011, ora ulteriormente precisata nel Protocollo del 2013, e poi completata con le regole di dettaglio necessarie per l’applicazione nel T.U. sulla rappresentanza, riguarda la fissazione di una soglia minima di rappresentatività nella categoria (5%) perché i sindacati siano 62 ammessi al tavolo negoziale . Ovviamente, trattandosi di una regola contrattuale, la sua efficacia è limitata alle parti stipulanti (le Confederazioni e le Federazioni ad esse aderenti): un obbligo reciproco, ma particolarmente rivolto alla parte datoriale, che si impegna a non trattare con sindacati che 61 La previsione del T.U. è la seguente. «I contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative così definite esplicano l’efficacia generale come disciplinata nel presente accordo». 62 La formulazione nel T.U. è la seguente. «Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo e dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel. Nel rispetto della libertà e autonomia di ogni Organizzazione Sindacale, le Federazioni di categoria – per ogni singolo CCNL – decideranno le modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni con proprio regolamento». 37 non abbiano raggiunto la prevista soglia di rappresentatività. La previsione della soglia minima di rappresentatività per la partecipazione alla trattativa non può mettere al riparo dal rischio del contratto “separato”: vale a dire di un accordo sottoscritto solo da alcuni dei sindacati rappresentativi e non da altri. Della questione già si occupava (o meglio si preoccupava) l’intesa CGILCISL-UIL allegata all’AI del 2011: per i contratti di categoria le Confederazioni avevano previsto l’impegno delle Federazioni di darsi specifici regolamenti, relativi al «percorso per la costruzione delle piattaforme» e «per l’approvazione delle ipotesi di accordo», costruiti in modo da «coinvolgere sia gli iscritti che tutti i lavoratori e le lavoratrici»; e avevano anche previsto anche «momenti di verifica per l’approvazione degli accordi mediante il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori in caso di rilevanti divergenze interne alle delegazioni trattanti». Su ambedue le questioni (la formazione delle piattaforme contrattuali e la verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori destinatari del contratto collettivo) sono tornati il Protocollo del 2013 e il T.U. sulla rappresentanza, dettando regole in parte nuove. Intanto si prevede che le organizzazioni sindacali «favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie»; ancora una volta le Confederazioni rinviano, «nel rispetto della libertà e autonomia di ogni organizzazione sindacale», alle Federazioni di categoria, che per ogni CCNL decideranno, con proprio regolamento, le modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni. Se l’auspicio è nel senso della presentazione di piattaforme unitarie, la consapevolezza della realtà porta le parti ad aggiungere che, «in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+1». Come appare evidente, le parti si sono preoccupate di applicare alla negoziazione la regola di maggioranza fin dall’avvio della trattativa. La regola di maggioranza è riaffermata anche nel punto successivo, nel quale, riprendendo quanto già prefigurato dall’AI del 2011, è prevista la verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori destinatari del contratto collettivo, mediante una consultazione (referendum), le cui difficoltà di attuazione sono state già messe in evidenza dai commentatori. La verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori coinvolti ha, come obiettivo, quello di garantire che, appunto in virtù della regola di maggioranza, il contratto collettivo stipulato dai sindacati che rappresentano la maggioranza assoluta dei lavoratori coinvolti, e successivamente approvato mediante referendum dalla maggioranza semplice dei lavo63 ratori coinvolti, sia efficace e vincolante per tutti . 63 La regola formulata nel T.U. sulla rappresentanza è la seguente. «I contratti collettivi na- 38 Il significato della regola di maggioranza così stabilita pare essere questo: posta la partecipazione alla contrattazione nazionale di categoria di una larga platea di sindacati rappresentativi (rappresentatività certificata dalla combinazione del dato associativo con quello elettorale), il contratto collettivo sul quale converge il consenso della maggioranza si impone anche alla minoranza dissenziente. Ma proprio la previsione di una consultazione per la verifica del consenso dei lavoratori in caso di rilevanti divergenze tra i sindacati partecipanti alle trattative (che possono registrarsi sia nella fase della formazione della piattaforma contrattuale, sia all’interno della delegazione trattante) rende evidente che le parti hanno ritenuto più opportuno subordinare al consenso della maggioranza dei lavoratori destinatari l’applicazione di un contratto sul quale converga il consenso solo della maggioranza dei sindacati partecipanti alla negoziazione. Il “dominio della maggioranza”, imposto nell’intento evidente di rendere certa la cosiddetta esigibilità del contratto collettivo (vale a dire il suo effetto vincolante per tutti), che dovrebbe mettere al riparo dalle contestazioni da parte delle organizzazioni sindacali dissenzienti, non mette al riparo dalla considerazione dei limiti entro i quali, alla luce dei principi costituzionali di pluralismo e di non discriminazione sindacale (art. 39), possa essere soppresso lo spazio per la manifestazione e la tutela del dissenso. In ogni caso, è chiaro che la regola di maggioranza fissata negli accordi interconfederali citati non implica l’efficacia ultra partes del contratto collettivo, ma solo l’effetto vincolante nei confronti delle parti che hanno partecipato alla trattativa. L’efficacia ultra partes, vale a dire l’estensione degli effetti del contratto anche ai sindacati rimasti al di fuori del sistema delineato negli accordi (dunque non aderenti alle Confederazioni stipulanti o che comunque non abbiano sottoscritto gli accordi), e che pertanto non hanno partecipato alla negoziazione, potrebbe essere stabilita solo da una legge, che desse attuazione 64 all’art. 39, comma 4, Cost. . La parte più corposa dell’AI del 2011 è dedicata alla contrattazione collettiva aziendale, dove sono previste una serie di regole (di contenuto fortemente innovativo rispetto agli Accordi separati del 2009) relative alla rappresentatività dei soggetti stipulanti, strettamente collegate all’efficacia del contratto aziendale. L’efficacia generale del contratto collettivo aziendale (dunque la sua zionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle Organizzazioni Sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza, come sopra determinata, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice – le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto – saranno efficaci ed esigibili. La sottoscrizione formale dell’accordo, come sopra descritta, costituirà l’atto vincolante per entrambe le Parti». 64 Ampiamente sul punto F. Carinci 2011b. 39 applicabilità anche a lavoratori che aderiscono a sindacati dissenzienti) è affidata, nell’AI all’applicazione della regola di maggioranza, diversamente coniugata a seconda che a stipulare il contratto sia la RSU o siano invece le RSA. Pur lasciando inalterate le regole fissate nell’AI del 2011, il Protocollo del 2013 e il T.U. sulla rappresentanza introducono alcune novità significative (specialmente in tema di c.d. esigibilità – vale a dire di vincolatività – degli accordi). Poiché dovremo esaminare queste regole nel capitolo dedicato al contratto collettivo aziendale, ne rinviamo la trattazione a quella sede (infra, Sez. II). 6. L’art. 8, legge n. 148/2011: una controriforma? L’AI 28 giugno 2011 era stato stipulato da poco, quanto si è verificato un intervento del legislatore, tanto inatteso, quanto sconcertante nei contenuti: come abbiamo detto altrove, il Governo ha infilato a sorpresa nel decreto legge n. 138/2011 (la manovra finanziaria di Ferragosto) una disposizione che nulla ha a che fare con quella manovra; una disposizione che, da un lato, ha molto a che fare invece con le vicende del caso FIAT; dall’altro lato, spinge l’acceleratore nella direzione della deregolamentazione “selvaggia” del diritto del lavoro, autorizzando la contrattazione aziendale o territoriale a derogare alla legge (Statuto dei lavoratori incluso) su una serie aperta di materie (retro, Parte II, Cap. III; infra, Sez. III). Nella parte dedicata alla contrattazione collettiva definita di prossimità (aziendale o territoriale), il legislatore “scavalca” l’AI 28 giugno 2011, prevedendo che i contratti collettivi aziendali o territoriali possano derogare, con effetti erga omnes, ai contratti nazionali, senza vincoli né procedurali, né sostanziali (la serie delle materie su cui è possibile la deroga è aperta, e l’efficacia generale, dunque anche nei confronti dei lavoratori iscritti a sindacati dissenzienti, è condizionata ad un generico “criterio maggioritario”). Questo ampliamento del raggio di azione di una contrattazione collettiva aziendale priva di vincoli mette in discussione il ruolo centrale finora affidato al contratto nazionale, che (come hanno ribadito le parti sociali nell’Accordo) dovrebbe invece continuare ad assicurare la uniformità dei trattamenti minimi ai lavoratori sul territorio nazionale, evitando che crescano ulteriori disparità nel nostro mercato del lavoro. In secondo luogo, l’attribuzione di efficacia erga omnes a contratti collettivi aziendali in deroga, stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi anche solo sul piano territoriale, e indipendentemente da strumenti di verifica del consenso della maggioranza dei sindacati rappresentativi, nonché della maggioranza dei lavoratori interessati, riapre la strada alla contrattazione separata che le parti sociali hanno cercato se non proprio di 40 sbarrare almeno di restringere con l’AI 28 giugno 2011. 65 “Una legge contro l’accordo” si è detto : tanto che le parti firmatarie dell’Accordo, al momento della sottoscrizione definitiva hanno stilato una postilla di questo tenore: «Confindustria, CGIL, CISL e UIL concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti. Confindustria, CGIL, CISL e UIL si impegnano ad attenersi all’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, applicandone compiutamente le norme e impegnandosi a far sì che le rispettive strutture, a tutti i livelli, si attengano a quanto concordato nel suddetto Accordo Interconfederale». Insomma, più che una presa di distanza, è un impegno reciproco a non applicare la legge. Qualche verifica sull’applicazione dell’art. 8 ci dice però che una contrattazione derogatoria, presumibilmente motivata da pressanti ragioni di crisi aziendale, esiste, ed è sottoscritta da organizzazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’AI, nessuna esclusa, e che dunque l’impegno assunto dalle Confederazioni nella postilla all’AI del 2011 non riesce a “tenere” in situazioni aziendali nelle quali risulta proficua l’utilizzazione dello spazio di deroga al contratto nazionale e alla legge aperto dall’art. 8 alla contrattazione “di prossimità”. E qualche giudice comincia a ritenere la contrattazione aziendale in deroga al contratto nazionale pienamente legittima. Insomma, e per concludere: la contrattazione interconfederale ha proseguito sulla strada aperta dall’AI del 2011, definendo un complesso di regole che governano il sistema contrattuale, ma continua a dover fare i conti con la presenza di una disposizione di legge che contraddice quelle regole. Peraltro, l’abrogazione dell’art. 8, legge n. 148/2011, pure richiesta da un settore non irrilevante dell’opinione politica e sindacale, non è mai stata presa in considerazione dai Governi succedutisi dal novembre 2011 ad oggi. 65 L. Mariucci 2011a. 41 6) Parte IV, Capitolo II, Sezione II, § 2 – pp. 282-83 – sostituire con le pagine seguenti [Omissis] Il Protocollo del 1993 prevedeva inoltre una clausola di tregua sindacale, stabilendo che durante i tre mesi precedenti alla scadenza del contratto e per il mese successivo le parti non dovessero assumere iniziative unilaterali né procedere ad azioni dirette (come lo sciopero o la serrata): la violazione di questo periodo di raffreddamento del conflitto comportava, a carico della parte responsabile, l’anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire 66 dal quale decorreva l’indennità di vacanza contrattuale . Come abbiamo detto, queste regole sono state modificate dall’AQ 22 gennaio 2009 e dagli AI stipulati in attuazione di esso; tali modifiche dovrebbero essere considerate come implicitamente confermate dall’Accordo del 28 giugno 2011, che nulla dispone in materia. Nell’AI del 2009, il termine per la presentazione delle proposte per il rinnovo del CCNL è di sei mesi prima della scadenza del contratto. L’indennità di vacanza contrattuale è soppressa: al suo posto è previsto “un meccanismo” che, dalla data di scadenza del contratto precedente, riconosce una copertura economica (non meglio definita); la misura di tale copertura a favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo di rinnovo è ancora indeterminata: sarà stabilita nei singoli contratti collettivi nazionali di categoria. Venuto meno il deterrente della maggiorazione dell’indennità di vacanza contrattuale, nel caso (assai frequente) in cui le trattative si prolunghino oltre i sei mesi dalla scadenza il contratto collettivo, non resta che “l’interessamento” del Comitato paritetico, che valuterà le ragioni che non hanno consentito il raggiungimento dell’accordo per il rinnovo del contratto. Anche l’AI del 2009 prevede (come già il Protocollo del 1993) un periodo di raffreddamento del conflitto, che ha una durata doppia rispetto al passato: è infatti stabilito che durante i sei mesi antecedenti e nel mese successivo alla scadenza del contratto collettivo e comunque per un periodo complessivamente pari a sette mesi dalla data di presentazione delle proposte di rinnovo, le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad azioni dirette. Diversamente dal Protocollo del 1993, la violazione della tregua non dà luogo a sanzioni: è previsto però si possa esercitare il diritto di chiedere la revoca o la sospensione dell’azione messa in atto. Nuove regole sono state introdotte dal Protocollo 31 maggio 2013 e dal 66 La clausola vincolava solo le parti stipulanti e non i singoli lavoratori, ma la sanzione colpiva proprio i lavoratori: par questo era stata commentata da più parti criticamente: cfr. P. Lambertucci 2007, p. 230 ss. 42 T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014: si tratta di innovazioni estremamente importanti, che tuttavia riguardano essenzialmente non la fase delle trattative, nella quale dovrebbe continuare ad operare la regola del periodo di raffreddamento di cui abbiamo detto sopra, ma la fase successiva alla stipulazione dei contratti. Secondo quanto previsto dal Protocollo, i contratti collettivi nazionali di categoria, «dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa». La previsione è dunque ancora generica. Entra invece nel dettaglio il T.U. sulla rappresentanza, stabilendo che, premessa la necessità di «definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate», i contratti collettivi nazionali di categoria «dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto». Il T.U. aggiunge, e qui sta la novità maggiore (e anche quella che ha immediatamente innescato aspre discussioni, specie all’interno della CGIL), che «i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare «le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa». Le sanzioni saranno di carattere pecuniario, ma potranno anche «comportare la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa». Il riferimento alla “agibilità” è quantomeno ambiguo: perché la “presente intesa”, cioè il T.U., regola la costituzione delle RSU e l’accesso all’applicazione dell’art. 19 St. lav. nelle situazioni nelle quali si costituiscano le RSA. Il T.U. prosegue stabilendo che le clausole di tregua sindacale previste dai contratti collettivi aziendali (stipulati secondo le regole di cui all’AI 28 giugno 2011 e al T.U.) e finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, «hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori». Le parti hanno così ribadito la non vincolatività per i singoli lavoratori delle clausole di tregua sindacale, in omaggio alla concezione del diritto di sciopero come diritto a titolarità individuale: le organizzazioni sindacali dunque possono impegnare se stesse ad astenersi da comportamenti conflittuali (nella specie: la proclamazione dello sciopero), ma non possono dispor- 43 re di un diritto (il diritto di sciopero di cui non sono titolari): di ciò parleremo in modo più approfondito oltre (Parte VI, Cap. I). Occorre infine ricordare che le trattative per il rinnovo del contratto collettivo fino ad ora si concludevano ordinariamente con l’adozione di un’ipotesi di accordo, sottoposta all’approvazione da parte delle assemblee dei lavoratori (tutti i lavoratori interessati, o solo i lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti) o mediante referendum; in caso di esito positivo della consultazione l’accordo 67 sarà ratificato (in genere con effetto retroattivo) . 68 È destinata a modificare questa prassi la nuova regola , introdotta dal Protocollo 31 maggio 2013 e dal T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, che prevede, a fini di applicazione generalizzata ai lavoratori e di vincolatività del contratto collettivo nazionale di categoria per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie del T.U., che questo sia sottoscritto dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza, e che inoltre sia approvato dalla maggioranza (semplice) dei lavoratori mediante una consultazione, le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto. 67 La vincolatività dell’ipotesi di accordo non può essere esclusa a priori: l’ipotesi di accordo può infatti costituire espressione di un’effettiva volontà contrattuale delle parti, desumibile in concreto dai loro comportamenti concludenti: in tal senso Cass. 19 giugno 2004, n. 11464, in RIDL, 2005, II, p. 73, nota di N. Ghirardi. 68 La verifica del consenso dei lavoratori destinatari non era prevista dall’AI 28 giugno 2011, ma l’Intesa CGIL-CISL-UIL su accordi sindacali con valenza generale, allegata all’AI, prevedeva una procedure da seguirsi per accordi interconfederali e contratti collettivi di categoria. 44 7) PT. IV, Cap. II, Sez. II – pp. 288-293, §§ 2.2, 2.2.1 – sostituire con le pagine seguenti 2.2. Sostituzione del nuovo contratto collettivo al contratto collettivo scaduto Quando al contratto collettivo scaduto faccia seguito il rinnovo del contratto, si verifica la successione della nuova disciplina alla precedente. La successione apre il problema della sostituzione dei trattamenti previsti dal contratto scaduto con i nuovi trattamenti: problema che abbiamo già affrontato parlando della sostituzione dei contratti collettivi corporativi ultrattivi ad opera dei contratti collettivi di diritto comune (retro, Parte I, Cap. III), nonché dei contratti collettivi recepiti nei decreti delegati ex lege n. 741/1959, ad opera dei successivi contratti collettivi di diritto comune più favorevoli ai lavoratori (retro, Cap. I, § 4.1.1). Prima di affrontare questi problemi, guardando ora alla successione tra contratti collettivi di diritto comune e ai suoi effetti di sostituzione della nuova disciplina a quella precedente, occorre soffermarsi sulla seguente questione preliminare: quando possa dirsi che il nuovo contratto col69 lettivo succeda a quello precedente, sostituendolo . La questione si pone quando le parti che hanno stipulato il nuovo contratto collettivo non sono le stesse che hanno stipulato il contratto precedente: è il caso di quei contratti collettivi separati, cui abbiamo fatto cenno parlando dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune (retro, Cap. I, § 4.3.1). Per comprendere pienamente quali siano i problemi coinvolti faremo ricorso ad un esempio, tratto dalle cronache sindacali e giudiziarie recenti; il caso è quello del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Poiché l’illustrazione del caso richiede la ricostruzione di una vicenda complessa, ne rinviamo la trattazione al prossimo paragrafo, nel quale è appunto ricostruita la vicenda del rinnovo del contratto. 69 Questa questione non deve essere confusa con la diversa questione della sostituzione di un contratto collettivo di diritto comune ad un contratto collettivo con efficacia erga omnes quale abbiamo parlato a proposito della successione dei contratti collettivi di diritto comune ai contratti corporativi e ai contratti estesi erga omnes dalla legge Vigorelli). La questione di cui parliamo ora è quella della contrattazione separata. Il fenomeno della contrattazione separata non deve essere confuso con quello della concorrenza tra diversi contratti collettivi aventi il medesimo ambito oggettivo di applicazione (categoria in senso merceologico) stipulati da soggetti collettivi diversi. In tali ipotesi, la disciplina dei rapporti di lavoro di uno stesso settore potrà essere diversa a seconda del contratto collettivo applicato, e l’applicazione dell’uno o dell’altro contratto collettivo dipenderà dall’iscrizione del datore di lavoro all’una o all’altra organizzazione. Il contratto collettivo separato, cioè privo della sottoscrizione di una delle organizzazioni sindacali partecipanti al negoziato (nell’attuale esperienza, la firma mancante è per lo più quella della CGIL, sindacato maggiormente rappresentativo in una pluralità di settori), si propone non come contratto concorrente con altri contratti collettivi, ma come unica fonte collettiva di disciplina dei rapporti di lavoro nell’ambito della categoria per la quale è stato stipulato. 45 2.2.1. (Segue): problemi di efficacia soggettiva del contratto collettivo “separato” Alla luce dell’orientamento interpretativo di cui abbiamo detto nel capitolo precedente, il datore di lavoro iscritto all’organizzazione datoriale che ha stipulato il contratto collettivo si obbliga ad applicare il contratto vigente a tutti i propri dipendenti, indipendentemente dalla loro affiliazione sindacale. In linea di principio, dunque, quando un nuovo contratto collettivo succede al precedente, la nuova disciplina che sostituisce la precedente dovrà essere applicata. La circostanza che una (o più) delle organizzazioni sindacali che avevano stipulato il precedente contratto non abbia sottoscritto anche quello 70 nuovo era stata sin qui considerata, in linea di principio, priva di rilevanza . Queste regole, occorre sottolinearlo, sono state elaborate in via interpretativa, quando sussisteva un’unità di azione sindacale e quando dall’applicazione del nuovo contratto collettivo di categoria i lavoratori traevano vantaggio. Il quadro attuale è certamente mutato a causa del venir meno dell’unità di azione sindacale per gravi divergenze sui contenuti economici e normativi dei nuovi contratti. Non c’è allora da meravigliarsi se si sia tornati a discutere di regole date in passato per scontate. La vicenda più importante finita nelle aule giudiziarie è quella legata al CCNL dei metalmeccanici, che ha fatto da sfondo al “caso FIAT”, di cui ab71 biamo anticipato altrove una breve illustrazione (retro, Parte II, Cap. III) . Ricapitoliamo quella vicenda per sommi capi. Il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici del 2008 (in vigore fino al 31 dicembre 2011) era stato disdettato nel 2009 da FIM-CISL e UILM (nella prospettiva dell’attuazione delle nuove regole di cui agli Accordi separati del 2009); questi sindacati avevano quindi stipulato con Federmeccanica, il 15 ottobre 2009, un accordo “separato” che stabiliva la decorrenze immediata degli aumenti economici, mentre per le altre modifiche la decorrenza era fissata alla data di scadenza del contratto del 2008 (che restava dunque temporaneamente in vigore anche per i firmatari del contratto separato). A questo primo accordo ne erano seguiti altri, nei quali le parti avevano definito ulteriori aspetti del trattamento econo- 70 Non la pensa così Trib. Monza 6 ottobre 2009, in RGL, 2010, II, p. 188, nota di F. Aiello (si tratta di una delle prime sentenze in materia di contratti collettivi separati), secondo cui il contratto collettivo ultrattivo non può ritenersi validamente sostituito dal successivo contratto collettivo sottoscritto da alcuni dei soggetti già firmatari del precedente contratto, con la conseguenza che i due contratti coesistono. 71 È il caso di segnalare che la FIOM ha contestato la condotta antisindacale per avere il datore di lavoro applicato il contratto collettivo separato anche ai propri iscritti e/o per aver omesso di segnalare agli iscritti alla FIOM la perdurante vigenza – per loro – del contratto unitario del 2008. Si tratta di una fattispecie di condotta antisindacale rimasta fino ad ora decisamente in ombra (retro, Parte III, Cap. IV). 46 mico e regolato le intese modificative del contratto nazionale ad opera dei contratti aziendali. Nel settembre 2010 anche Federmeccanica (su richiesta della FIAT, che a ciò aveva condizionato la sua permanenza in Confindustria) aveva disdettato il contratto (la disdetta era comunque destinata a produrre effetti solo dopo la scadenza del CCNL 2008). Scaduto il contratto del 2008 si sono aperte le trattative per il rinnovo del CCNL (2013-2015) dei metalmeccanici: Federmeccanica, d’intesa con FIM-CISL e UILM-UIL, hanno escluso dalle trattative la FIOM, in quanto non firmataria dell’accordo “separato” del 2009, stipulato mentre era ancora vigente il CCNL del 2008 (che era stato invece sottoscritto anche dalla FIOM); le parti consideravano che il rinnovo avesse come base di partenza l’accordo del 2009 e gli accordi successivi, con i quali era stato modificato il CCNL del 2008. La FIOM ha fatto ricorso contro l’esclusione dalle trattative, ma il giudice le ha dato torto (vedremo oltre perché). Ma procediamo con ordine. a) Il primo e principale problema che la complessa vicenda ha posto è se, essendo ancora vigente il CCNL unitario del 2008, un nuovo contratto (si tratta dell’accordo del 2009 e di quelli successivi) potesse sostituirlo, non essendo stato sottoscritto dal sindacato maggiormente rappresentativo nella categoria (la FIOM-CGIL), che giudicava il nuovo contratto peggiorativo rispetto al precedente e non adeguato ai bisogni dei lavoratori o non rispettoso dei loro diritti. Premettiamo che la dottrina prevalente è concorde nel ritenere che nulla impedisca alle parti (o, come nella specie, ad alcune soltanto di esse) di recedere dal contratto prima della scadenza, e, soprattutto, di sovrapporre al pri72 mo un secondo contratto ; anche la maggior parte dei giudici pronunciatisi sulla questione (a seguito dei ricorsi promossi dalla FIOM) è stata di questo 73 avviso . Se a stipulare il nuovo contratto sono però alcune e non tutte le parti che avevano sottoscritto il contratto precedente, e questo contratto è ancora in vigore, si verifica una situazione di concorrenza tra vecchio e nuovo contratto: in sostanza il problema della sostituzione si risolve allora nel problema dell’applicabilità del nuovo contratto ai lavoratori, che aderendo al sindacato non firma- 72 A sostegno di tale tesi si porta l’argomento che il contratto collettivo non è un contratto plurilaterale associativo, né un contratto unitario con una parte complessa, ma un contratto con più parti autonome e distinte (A. Vallebona, in MGL, 2011, p. 614). Osserva R. Del Punta, in nota a Trib. Tolmezzo 18 maggio 2011, Trib. Torino 2 maggio 2011, Trib. Torino 26 aprile 2011, Trib. Modena 22 aprile 2011, Trib. Torino 18 aprile 2011, in RIDL, 2011, p. 268 ss., che il nuovo contratto è stato stipulato nel quadro di divisione sindacale degli Accordi separati del 2009 (che per le parti stipulanti avevano posto termine all’operatività del Protocollo del 1993), mentre il contratto collettivo del 2008 era stato stipulato nel quadro di unità di azione sindacale del Protocollo. 73 In tal senso: Trib. Tolmezzo 18 maggio 2011, Trib. Torino 2 maggio 2011, Trib. Torino 26 aprile 2011, cit.; in senso contrario Trib. Modena 22 aprile 2011. 47 tario, pretendono di vedersi applicato (fino alla scadenza) il contratto precedente. La domanda è dunque se, a fronte dell’aperto dissenso dei lavoratori aderenti al sindacato non firmatario, la tutela della loro libertà sindacale impedisca – per loro – la sostituzione del contratto precedente con il nuovo contratto. Le risposte avanzate dalla dottrina sono sostanzialmente tre, e tutte e tre sono fondate su argomenti nello stesso tempo sostenibili e criticabili. Secondo un primo orientamento, il nostro sistema di contrattazione collettiva non regolato dalla legge si basa sul principio di unanimità dei partecipanti al tavolo negoziale (e non sul criterio proporzionalistico, con rilevanza del sindacato di maggioranza, come nell’inattuato art. 39, comma 4); chi non è d’accordo può ritirarsi dal tavolo, negando la firma, ma il contratto collettivo sarà nondimeno applicabile a tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati fir74 matari . Questa soluzione è certamente coerente alla regola giurisprudenziale secondo la quale il datore di lavoro iscritto all’organizzazione datoriale che ha stipulato il contratto collettivo si obbliga ad applicare il contratto vigente a tutti i propri dipendenti, indipendentemente dalla loro affiliazione sindacale. Ma trascura di prendere in considerazione la questione del dissenso dei lavoratori non rappresentati. Secondo un altro orientamento, la tutela della libertà sindacale dei lavoratori legittima il loro rifiuto di vedersi applicato un contratto collettivo non 75 firmato dal sindacato al quale aderiscono . Questa risposta rimette in discussione la regola giurisprudenziale che vincola il datore di lavoro ad applicare uniformemente il contratto collettivo a tutti i propri dipendenti, prospettando la necessità, di fronte al dissenso, di tornare alla concezione della rappresentanza sindacale come rappresentanza dei soli iscritti al sindacato. La terza risposta in sostanza evita di rispondere alla domanda. Secondo 76 questo orientamento , la soluzione del problema non deve essere cercata sul 74 Secondo M. Napoli 2009, l’attuale sistema «non è in grado di offrire soccorsi per la mancata firma della CGIL», che è appunto la maggiore Confederazione che non ha sottoscritto importanti contratti collettivi di categoria e Accordi interconfederali. 75 A. Lassandari 2010; G. Santoro Passarelli 2010. La risposta positiva lascia aperto il problema di quale sia la disciplina del rapporto di lavoro applicabile nei confronti dei lavoratori che rifiutino l’applicazione del nuovo contratto collettivo: se il contratto collettivo è scaduto non vi è più una disciplina applicabile (solo la parte retributiva, grazie all’art. 36 Cost., può ancora essere presa a riferimento); se il contratto collettivo è ultrattivo continua a produrre effetti, ma solo fino al rinnovo; secondo alcuni i lavoratori potranno rinunciare all’applicazione del nuovo contratto, ma resteranno sostanzialmente privi di una disciplina contrattuale applicabile (cfr. le osservazioni in tal senso di G. Santoro Passarelli 2010); secondo altri, il contratto ultrattivo, non essendo sostituito per gli aderenti al sindacato non firmatario dal nuovo contratto “separato”, continuerà a produrre effetti nei loro confronti. 76 A. Maresca 2010. 48 piano della efficacia soggettiva del contratto collettivo e della sua funzione normativa (retro, Cap. I, § 6), ma sul piano dell’autonomia individuale. Nella realtà e nella prassi diffusa – si afferma – il contratto collettivo si applica perché, al momento dell’assunzione, le parti convengono di fare rinvio “dinamico” alla contrattazione collettiva, come fonte di disciplina del contratto individuale, senza alcun riferimento all’identità dei soggetti collettivi che hanno firmato il contratto collettivo; di conseguenza, la circostanza che il nuovo contratto collettivo sia “separato” non ha rilevanza: ad essere rilevante è l’obbligo che deriva ad ambedue le parti dal contratto individuale che hanno stipulato. Questo orientamento in primo luogo trascura di considerare che, almeno quando il datore si lavoro sia iscritto all’organizzazione stipulante, il contratto collettivo opera come fonte eteronoma e la sua vincolatività non dipende dalla 77 recezione nel contratto individuale mediante clausola di rinvio ; in secondo luogo, trascura di considerare che la clausola di rinvio (il cui oggetto deve es78 sere almeno determinabile) vincola il lavoratore all’applicazione di un determinato contratto collettivo, ma non anche alle nuove discipline stipulate da sindacati ai quali non aderisca. L’orientamento prevalente nella giurisprudenza formatasi sin qui sulla vicenda è nel senso della non applicabilità del nuovo contratto collettivo separato ai lavoratori aderenti al sindacato non firmatario, o che comunque non abbiano 79 espressamente richiesto l’applicazione del nuovo contratto . Tuttavia, secondo alcuni giudici, gli aumenti salariali previsti dal nuovo contratto devono essere 77 A. Lassandari 2010. Cfr. G. Santoro Passarelli 2010: l’A. contesta la validità di una clausola di “rinvio dinamico” alla contrattazione collettiva, sottolineando la necessità che l’oggetto della clausola sia determinato o determinabile. 79 L’opinione contraria, che ha dato luogo a molte discussioni per l’importanza della sentenza e per la singolarità della motivazione (un lungo saggio, ricco di citazioni e note a pie di pagina), è quella del Trib. Torino 14 settembre 2011. Secondo il giudice estensore, la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. non ha storicamente impedito ai contratti collettivi di diventare reali fonti del diritto, idonee a regolare le relazioni industriali ed i rapporti di lavoro, tanto che può ritenersi consolidata la convinzione che si sia venuta creando, in linea di fatto, una situazione di efficacia generalizzata ed erga omnes dei contratti collettivi; alla luce del principio del pluralismo sindacale, ogni singola organizzazione sindacale deve ritenersi tendenzialmente autorizzata a svolgere il compito di agente della contrattazione, in quanto titolare del potere negoziale con la controparte datoriale (tradotto in termini più semplici: il contratto collettivo “separato”, oltre che pienamente legittimo, è anche efficace erga omnes). In caso di rottura dell’unità sindacale e di stipula di accordi sindacali separati – conclude il giudice –, compito del Tribunale è unicamente quello di verificare che non ci si trovi in presenza di una regolamentazione adottata da sindacati di comodo o, comunque, che non siano state poste in essere da parte datoriale condotte costituenti lesione di diritti e prerogative delle organizzazioni sindacali in posizione di dissenso. Per un approfondito commento critico a questa parte della sentenza cfr. F. Carinci 2011c. 78 49 applicati a tutti i dipendenti, in quanto la mancata applicazione costituirebbe una discriminazione collettiva vietata dall’art. 16 St. lav. (divieto di trattamenti 80 economici collettivi discriminatori) . Si tratta di una affermazione suggestiva ma opinabile, per la difficoltà di qualificare in termini di discriminazione sindacale un comportamento in sé legittimo, perché fondato sulla premessa della non applicabilità del contratto collettivo (di cui gli aumenti salariali sono parte integrante) ai lavoratori aderenti al sindacato che quel contratto non lo ha firmato (a 81 meno che l’applicazione non la abbiano espressamente richiesta) . Ma è pur vero che anche un comportamento in sé legittimo può essere discriminatorio, se produce un effetto pregiudizievole che trova la sua ragione, diretta o indiretta, 82 nell’affiliazione sindacale . Resta da dire che tutte le soluzioni proposte lasciano aperti problemi che potrebbero trovare soluzione se alle nuove discipline del sistema contrattuale di cui agli Accordi interconfederali di cui abbiamo ampiamente detto nelle pagine precedenti facesse effettivamente seguito una contrattazione collettiva nazionale di categoria unitaria. Almeno per quanto riguarda alcune categorie (in primis quella dei metalmeccanici) le cose tuttavia non stanno attualmente così. b) Un secondo problema che si è posto è se, una volta scaduto un CCNL che sia stato sottoscritto solo da alcune organizzazioni sindacali, dalle trattative per il rinnovo del contratto possa essere esclusa una organizzazione sindacale non firmataria del contratto scaduto. Le risposte possono variare a seconda delle peculiarità del caso che si esamina. Il caso, che ha portato all’attenzione di tutti il problema della composizio83 ne del tavolo negoziale (e sul quale è intervenuto anche il giudice) , ha riguardato il nuovo CCNL dei metalmeccanici 2013-2015, dalle cui trattative come abbiamo già ricordato – Federmeccanica, d’intesa con FIM-CiSL e UILM-UIL, hanno escluso la FIOM, sindacato largamente rappresentativo nella categoria (per numero di iscritti e per eletti nelle RSU), ritenendo che questo sindacato, non avendo sottoscritto l’accordo del 2009, con il quale era stato (in parte) modificato il CCNL allora vigente, non poteva essere parte della negoziazione del nuovo CCNL. Nel caso di specie il problema si pone perché con l’AI 28 giugno 2011 (ma 80 Trib. Tolmezzo 17 maggio 2011; Trib. Torino 26 aprile 2011; Trib. Ivrea 1° giugno 2011, in MGL, 2011, p. 580, nota di A. Vallebona. 81 Cfr. le osservazioni di F. Liso e L. Zoppoli in nota a Trib. Tolmezzo 18 maggio 2011, Trib. Torino 2 maggio 2011, Trib. Torino 26 aprile 2011, Trib. Modena 22 aprile 2011, Trib. Torino 18 aprile 2011, in RIDL, 2011, pp. 700 ss. e 708 ss. 82 Per osservazioni in tal senso cfr. L. Zoppoli, op. cit. 83 Trib. Roma 13 maggio 2013, in DRI, 2013, p. 771. 50 su ciò non diversamente con i successivi AI: Protocollo 31 maggio 2013 e T.U. sulla rappresentanza) le Confederazioni (Confindustria, alla quale aderisce Federmeccanica, e CGIL, CISL, UIL, alle quali aderiscono FIOM, FIMCISL, UILM-UIL) hanno concordemente definito una serie di regole relative: alla composizione del tavolo negoziale (al quale sono ammessi i sindacati che raggiungono la soglia di rappresentatività del 5%); alla funzione del CCNL di garantire trattamenti economici e normativi uniformi a tutti i lavoratori destinatari. Le Confederazioni firmatarie hanno inoltre previsto che le Federazioni di categoria definiscano le procedure per la formazione della piattaforma contrattuale (possibilmente unitaria) e la composizione della delegazione trattante. La FIOM, esclusa dalle trattative per volontà non solo del datore di lavoro ma anche (e forse soprattutto) di FIM-CISL, UILM-UIL, ha contestato in giudizio a tutti questi soggetti l’inadempimento degli obblighi contrattuali assunti con la stipulazione dell’AI del 2011 (l’unico all’epoca vigente), al quale sarebbero tenute ad attenersi le Federazioni di categoria che aderiscono alle Confederazioni firmatarie, chiedendo inoltre al giudice di annullare il CCNL nel frattempo eventualmente stipulato. Il giudice ha respinto il ricorso, con l’argomento che l’AI non produce effetti direttamente in capo alle Federazioni di categoria, che mantengono la propria autonomia (sono, afferma il giudice, «autonomi centri di imputazioni giuridiche attive e passive») rispetto alle Confederazioni alle quali aderiscono. Ad avviso del giudice, l’AI è fonte di obbligazioni per le sole Confederazioni firmatarie; la Federazione che adotta comportamenti non coerenti con quanto disposto dall’AI è certamente responsabile verso la propria Confederazione, ma questa responsabilità non ha rilevanza esterna (e dunque non incide sulla validità del contratto collettivo stipulato), perché resta all’interno del rapporto endosindacale (vale a dire del rapporto tra la singola Confederazione e la Federazione ad essa aderente). Avendo preliminarmente escluso che l’AI 28 giugno 2011 fosse fonte di obbligazioni per Federmeccanica, FIMCISL, UILM-UIL, e dunque imponesse un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che avessero raggiunto la soglia di rappresentatività minima del 5%, il giudice ha respinto il ricorso della FIOM. La soluzione data dal giudice è quanto meno discutibile. Certamente le opinioni della dottrina sulla autonomia delle Federazioni di categoria divergono; in ogni caso molto dipende da quanto prevedono gli statuti delle Confederazioni (che, lo ricordiamo, sono associazioni di associazioni) in ordine alla attribuzione del potere di rappresentanza negoziale alle Federazioni (nella specie tale potere non sembra essere conferito alla Confederazione dallo statuto della CGIL). Possiamo segnalare che la questione della autonomia delle Federazioni è attualmente al centro di un intenso dibattito, innescato dalla previsione (nel Protocollo del 2013, e soprattutto nel T.U. sulla rappresentanza), di stringenti obblighi (la cui violazione può comportare sanzioni di vario 51 genere) a carico delle Federazioni, tenute, anche in caso di dissenso, a garantire la “esigibilità” dei contratti collettivi stipulati sui quali si sia formato il consenso della maggioranza e ad astenersi da “qualsiasi azione” di contrasto (il T.U. prevede una apposita procedura interconfederale di conciliazione e arbitrato per la soluzione delle eventuali controversie relative a comportamenti delle Federazioni in contrasto con gli obblighi di cui sopra). 52 8) Parte IV, Capitolo II, Sezione II – pp. 302-308, §§ 3.2., 4 – sostituire con le pagine seguenti 3.2. Efficacia soggettiva del contratto aziendale e rappresentatività dei soggetti stipulanti, secondo la disciplina interconfederale L’efficacia generale degli accordi gestionali, di cui si è detto sopra, ha un fondamento giuridico diverso da quello su cui la giurisprudenza ha sin qui costruito, con esiti non sempre convincenti, l’efficacia generale dei contratti collettivi aziendali aventi contenuto normativo (e destinati perciò a regolare i rapporti individuali di lavoro). Il problema dell’efficacia del contratto collettivo aziendale si pone, come abbiamo visto, essenzialmente quando all’interno dell’impresa vi sono lavoratori che pretendono che il contratto, da cui dissentono, non sia loro applicato: o perché non sono stati rappresentati nella stipulazione, o perché sono stati 84 mal rappresentati . L’efficacia generale (vale dire l’applicazione uniforme a tutti i lavoratori occupati nell’azienda) è un obiettivo sicuramente importante (attualmente viene espresso in termini di “esigibilità” del contratto: vale a dire di affidamento da parte dell’azienda sul rispetto degli obblighi assunti dalle controparti). Ma proprio il dissenso di parte dei lavoratori destinatari rende evidente che l’obiettivo dell’efficacia generale non può essere raggiunto prescindendo dalla considerazione dei soggetti che hanno stipulato il contratto e dalla loro capacità di rappresentare i lavoratori ai quali il contratto dovrà essere applicato. Nell’AI 28 giugno 2011, le parti sociali hanno affrontato il problema dell’efficacia generale del contratto aziendale proprio partendo dai soggetti della contrattazione aziendale. Le regole stabilite nell’AI, delle quali daremo conto in questo paragrafo, sono state ribadite anche negli accordi successivi (Protocollo 31 maggio 2013 e T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014). Dalla parte del datore di lavoro non si pongono problemi particolari, perché il soggetto stipulante è lo stesso datore di lavoro, che stipula il contratto per conto proprio o con l’assistenza della associazione imprenditoriale di ap- 84 Può anche verificarsi qualche situazione anomala: è il caso dell’accordo aziendale stipulato tra il datore di lavoro e l’assemblea dei dipendenti. La Cassazione (5 maggio 2004, n. 8565, in RIDL, 2005, II, p. 80, nota di M.G. Greco), ha attribuito natura collettiva ed efficacia generale a tale accordo, vincolante perciò anche nei confronti dei lavoratori assenti o dissenzienti. La decisione suscita più di una perplessità, specie per avere riconosciuto all’assemblea la capacità di stipulare contratti collettivi: la prassi sindacale attribuisce infatti all’assemblea un potere consultivo, e talora anche decisionale (approvazione delle ipotesi di accordo), ma non il potere contrattuale, che resta una prerogativa dei rappresentanti sindacali. 53 partenenza, ed assume perciò in proprio le obbligazioni di cui il contratto è fonte. I problemi si pongono invece dalla parte dei lavoratori, a causa della possibile presenza nell’azienda di rappresentanze diverse (RSU o RSA). a) Contratto aziendale stipulato dalla RSU Dalla parte dei lavoratori, dopo il Protocollo del 1993 (per questa parte non modificato dalla recente riforma degli assetti contrattuali: retro, Sez. I), e in tutte le imprese nelle quali il Protocollo ha trovato applicazione, agente contrattuale è la RSU. Secondo quanto allora previsto, la competenza della RSU era concorrente con quella delle strutture territoriali delle organizzazioni sin85 dacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di categoria . L’AI 28 giugno 2001, ha invece attribuito implicitamente alla RSU competenza contrattuale esclusiva e tale scelta è ribadita anche nel Protocollo 31 maggio 2013 e nel T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014. Quando a stipulare il contratto collettivo aziendale è la RSU, e questo organismo collegiale e unitario è l’unico interlocutore del datore di lavoro, era convinzione già diffusa che il contratto avesse efficacia generale. Come ha affermato un giudice, «il contratto stipulato dalla RSU è vincolante per tutti i lavoratori che hanno partecipato all’elezione perché il mandato che ha ad oggetto proprio la gestione degli interessi indivisibilmente riferiti all’azienda, si sovrappone al rapporto associativo»; «nel voto deve ritenersi compresa la volontà del lavoratore di accettare le regole elettorali e quindi la rappresentanza 86 dei soggetti risultati vincitori» . Insomma, la RSU, essendo eletta a scrutinio universale dai lavoratori dell’impresa, li rappresenta tutti: anche quelli che hanno votato per candidati della minoranza, o addirittura per candidati non 87 eletti, ed anche quelli che non sono andati a votare, avendone il diritto . Naturalmente la RSU avrebbe potuto negoziare male, cioè aver mal interpretato l’interesse collettivo dei lavoratori di cui è portatrice: ciò potrà avere rilievo nelle successive elezioni della RSU, ma non sulla validità e sull’efficacia generale del contratto collettivo aziendale. 85 L’AI del 2009 aveva confermato questa regola, prevedendo che le proposte di rinnovo dell’accordo di secondo livello fossero sottoscritte congiuntamente dalle rappresentanze sindacali unitarie costituite in azienda e dalle strutture territoriali delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto nazionale. 86 App. Milano 4 marzo 2003, in RIDL, 2003, II, p. 511. Sull’efficacia generale del contratto aziendale stipulato dalla RSU cfr: M.P. Monaco 2003, p. 119 ss.; E. Gragnoli 2003. 87 Il consenso espresso (o esprimibile) con il voto sostituisce il consenso espresso mediante la militanza e l’adesione al sindacato, e ciò rappresenta un notevole mutamento rispetto alla tradizione sindacale. Sulla rilevanza di tale mutamento, e sulle implicazioni in termini di applicazione anche in ambito sindacale del principio maggioritario, cfr. G. De Simone 2011. 54 Occorre tuttavia tenere presente che la RSU è composta da membri eletti in liste presentate da diverse organizzazioni sindacali, e che più alto è il numero di voti raccolti da una lista, maggiore è il numero degli eletti di quella lista (ai quali, fino ad ora, potevano aggiungersi anche i componenti nominati dal sindacato nell’ambito della quota del terzo): gli eletti di una lista possono essere la maggioranza dei membri della RSU, oppure la maggioranza può essere formata dall’insieme degli eletti di due o più liste che si coalizzano; insomma, all’interno della RSU sono ordinariamente presenti una maggioranza ed una minoranza. Può allora avvenire (e di fatto avviene frequentemente) che l’operato della maggioranza non sia condiviso dalla minoranza; ove si tratti della sottoscrizione di un accordo, avviene che la minoranza lo contesti, e pretenda che non sia applicato anche ai lavoratori che nella minoranza si riconoscono. Per dare al problema del possibile conflitto interno alla RSU una soluzione nel senso della efficacia generale del contratto aziendale, le parti dell’AI 28 giugno 2011 hanno stabilito la regola seguente: «i contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale, operanti all’interno dell’azienda se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti». L’applicazione alla RSU della regola di maggioranza (fissata esplicitamente nel settore pubblico, dall’Accordo quadro del 1998: ma nel settore pubblico la RSU è stata fin dall’inizio integralmente elettiva) viene ora rafforzata dal T.U. sulla rappresentanza, che alla efficacia generale, già prevista dall’AI del 2011, aggiunge la “esigibilità” del contratto collettivo aziendale approvato appunto 88 dalla maggioranza ; l’esigibilità è a sua volta rafforzata dalla prevista definizione di una clausola di tregua sindacale (corredata di sanzioni per la violazione), che obbliga tutte le componenti delle RSU (incluse le minoranze dissenzienti) ad astenersi da comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi aziendali, approvati alle condizioni previste e disciplinate T.U. Questa rigida regola di maggioranza non è “compensata” dall’introduzione di un meccanismo (tipicamente: il referendum) di verifica del consenso della 88 La formulazione è la seguente: «I contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, operanti all’interno dell’azienda, se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali convenute con il presente Accordo». 55 maggioranza dei lavoratori interessati: verifica che tuttavia sarebbe necessaria per garantire ai lavoratori la possibilità di esprimersi sull’operato dei propri rappresentanti, almeno quando il contratto collettivo aziendale introduca deroghe in pejus al contratto nazionale di categoria (infra). b) Contratto aziendale stipulato dalle RSA Diversa dalla precedente è l’ipotesi in cui al tavolo della contrattazione aziendale non sieda la RSU, ma le RSA (tutte o alcune di esse). È infatti accaduto (così nel caso FIAT) che alcune organizzazioni sindacali abbiano abbandonato la RSU, e abbiano costituito le proprie RSA, oppure che la RSU non sia presente: così ad esempio nelle imprese aderenti ad organizzazioni datoriali che non hanno sottoscritto o non hanno aderito agli Accordo interconfederali (a partire dal Protocollo del 1993), oppure che non sono affiliate ad alcuna organizzazione datoriale. Come abbiamo visto sopra (PT. III, Cap. III, Sez. I), la materia è attualmente regolata (a livello contrattuale) dagli AI stipulati tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL nel 2011, nel 2013 e nel 2014: all’interno di questo sistema, la costituzione di RSA è legittima se, nell’unità produttiva interessata, non vi siano mai state rappresentanze sindacali dei lavoratori, ovvero nel caso in cui già esistano RSA e il passaggio dalle RSA alle RSU non sia stato definito unitariamente dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo 31 maggio 2013. Occorre inoltre tenere presente che il nostro ordinamento non prevede alcun obbligo per l’imprenditore di trattare con tutte le rappresentanze dei lavoratori (della questione, dopo la sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale, abbiamo detto altrove: retro, Parte III, Cap. IV): l’esclusione di una o più RSA o della stessa RSU dalla trattativa non costituisce di per sé comportamento illecito che possa incidere sulla validità del contratto collettivo aziendale. A meno che, s’intende, l’esclusione non possa integrare, per come è stata realizzata, gli estremi di una condotta antisindacale, o viceversa la trattativa riservata ad un particolare soggetto non possa configurare violazione del divieto di sindacati di comodo (art. 17 St. lav.). Resta in ogni caso da considerare che in tutte le ipotesi nelle quali al tavolo della contrattazione aziendale non siedano tutti i soggetti che rappresentano i lavoratori, e in tutte le ipotesi in cui l’accordo non porti la firma di organizzazioni sindacali rappresentative, si pone inevitabilmente il problema dell’efficacia soggettiva dell’accordo. Anche su questa controversa questione (resa scottante dalle vicende della contrattazione aziendale FIAT derogatoria “separata”) è intervenuto l’AI 28 giugno 2011. In tale accordo le parti, pur avendo l’evidente intenzione di rilanciare le RSU, sembravano avere accettato l’idea che in aziende, che pure aderiscono a Confindustria (e dunque tenute all’epoca ad applicare il Proto- 56 collo e l’AI del 1993, per questa parte ancora vigenti), la rappresentanza dei lavoratori potesse essere affidata, anziché alla RSU, alle RSA costituite ai sensi 89 dell’art. 19 St. lav. . La situazione è stata chiarita con il Protocollo del 2013 e il T.U. sulla rappresentanza, che da un lato ribadiscono in modo netto la scelta a favore della RSU, d’altra parte regolano il rapporto tra RSU e (residuali) RSA nel modo che abbiamo illustrato altrove (retro, (Parte III, Cap. III, Sez. I). Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale stipulato dalle RSA, l’AI 28 giugno 2011 detta le seguenti regole. «In caso di presenza delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ex art. 19 della legge n. 300/70, i suddetti contratti collettivi aziendali esplicano pari efficacia», cioè efficacia nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda, «se approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati direttamente dall’azienda. (...) Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali con le modalità sopra indicate devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione firmataria del presente accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’in90 tesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti» . Tale regole sono ribadite dal T.U. sulla rappresentanza; il testo resta immutato. Rispetto al caso precedente (contratto stipulato dalla RSU) si segnalano due importanti differenze. La prima ha riguardo al criterio maggioritario adottato: la maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali fa riferimento al dato associativo. Il contratto collettivo aziendale, per essere efficace verso tutti i lavoratori dovrà essere stipulato dalle RSA costituite nell’ambito di sindacati che, nel contesto 89 Come abbiamo già notato, ciò pare in contrasto con la clausola di salvaguardia di cui al Protocollo del 1993, che impegna le organizzazioni sindacali firmatarie a rinunciare alla costituzione di RSA. 90 Le parti hanno anche stabilito che «Ai fini di garantire analoga funzionalità alle forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, come previsto per le rappresentanze sindacali unitarie anche le rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, quando presenti, durano in carica tre anni». Probabilmente le parti hanno voluto dettare una regola da applicare alle sole RSA costituite nell’ambito delle associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie, non estensibile pertanto ad altre organizzazioni sindacali: le RSA sono regolate dalla legge, e la legge non prevede una durata limitata del mandato conferito dai lavoratori ai loro rappresentanti. 57 aziendale, hanno il maggior numero di iscritti. La seconda differenza ha riguardo alla verifica del consenso (o meglio del dissenso) dei lavoratori destinatari. Non prevista nel caso del contratto stipulato dalla RSU, è invece prevista nel caso del contratto stipulato dalle RSA la (eventuale) verifica ex post del dissenso della maggioranza dei lavoratori ai quali si pretende che il contratto aziendale sia applicato, indipendentemente dal fatto che siano stati rappresentati nella negoziazione (perché non sindaca91 lizzati, o perché aderenti ad sindacato escluso dalla negoziazione) . La ragione della diversità delle regole sta nella diversità dei soggetti stipulanti dalla parte dei lavoratori: le RSA non sono elette dai lavoratori, ma costituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle organizzazioni sindacali alle quali aderiscono; dunque non rappresentano la generalità dei lavoratori, ma ciascuna i lavoratori che in essa si riconoscono. Per applicare il contratto aziendale stipulato dalle RSA anche ai lavoratori non rappresentati, le parti sociali hanno ritenuto necessario adottare un meccanismo che consenta di verificare anzitutto il consenso delle RSA maggioritarie, e in secondo luogo il consenso della maggioranza dei lavoratori destinatari del contratto. Diversa dalle soluzioni elaborate dalle parti sociali nell’AI del 2011 quella adottata dal legislatore (art. 8, legge n. 148/2011): poiché la legge fa esclusivo riferimento ai contratti aziendali “derogatori”, ne riparleremo oltre, affrontando questo argomento (§§ 4.1.1, 4.1.2). 91 Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 19 St. lav., la RSA non può essere costituita nell’ambito di un sindacato non firmatario del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. Retro, Parte III, Cap. III, Sez. I, § 4 ss. 58 9) Parte VI, Cap. I – pp. 394-396, § 8 – sostituire con le pagine seguenti 8. Le clausole di tregua sindacale [Omissis] Le clausole di tregua stanno conoscendo in questo periodo una nuova stagione. Si tratta questa volta di clausole che impegnano i sindacati firmatari a “garantire l’esigibilità degli impegni assunti” con il contratto collettivo: non dunque ad astenersi dal proclamare lo sciopero per un periodo “di raffreddamento” e ad attendere l’esito del tentativo di conciliazione, ma ad astenersi dal proclamare scioperi durante la vigenza del contratto collettivo che hanno stipulato. Clausole di questo tenore sono contenute nei contratti collettivi stipulati dalla FIAT, e segnatamente nel contratto Fabbrica Italia Pomigliano, este92 so a tutto il gruppo FIAT, dopo l’uscita dell’azienda da Confindustria . Come abbiamo già segnalato, sia l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011 (punto 6), sia gli Accordi interconfederali successivi (Protocollo 31 maggio 2013, T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014), prevedono che i contratti collettivi aziendali, stipulati alle condizioni previste dall’Accordo, definiscano (nei due AI più recenti la definizione è divenuta esplicitamente doverosa) delle clausole di tregua di questo tipo: ma con la precisazione che vincolano solo i sindacati firmatari e non i singoli lavoratori. Torneremo oltre su questo specifico punto, che coinvolge la questione della titolarità individuale o collettiva del diritto di sciopero. Preliminarmente conviene soffermarsi sulla più recente formulazione della clausola di tregua che copre il contratto per tutta la durata della sua vigenza. Le clausole di questo tipo configurano un c.d. dovere relativo di pace sindacale: dovere della cui legittimità si dubitava in passato (e forse si dovrebbe dubitare anche oggi), perché la stipulazione di un patto non può implicare, in nome del principio pacta sunt servanda, un impegno che si traduca in una sostanziale rinuncia a fare ricorso allo sciopero per ottenere la modifica del patto, quando sopravvengano ragioni di aggravio della condizione dei lavoratori che la rendano necessaria. La clausola di tregua è rafforzata, nei due Accordi del 2013 e del 2014, dalla previsione di sanzioni a carico delle organizzazioni sindacali che le abbiano violate. Il T.U. sulla rappresentanza (che, lo ripetiamo, dà attuazione al Proto- 92 La formulazione è molto ambigua e sembra implicare la vincolatività della clausola anche per i singoli lavoratori: cfr. M.V. Ballestrero 2011. 59 collo del 2013, ma inserendo alcune innovazioni rispetto allo scarno testo del Protocollo), detta due distinte regole: la prima (a) per i contratti collettivi nazionali; la seconda (b) per i contratti collettivi aziendali. a) Per quanto riguarda i contratti nazionali, le Confederazioni firmatarie, nell’intento di prevenire e sanzionare «azioni di contrasto di ogni natura», che possano compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali, e specialmente «l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure» previste negli AI citati, hanno stabilito che i contratti collettivi nazionali di categoria «dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto». Il T.U. aggiunge che «i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa». Le sanzioni «dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa». L’espressa previsione di sanzioni, sia di carattere pecuniario, sia addirittura di limitazione dei diritti e dell’agibilità sindacale, a carico “di tutte le parti contraenti” (si tratta delle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie degli AI, che sono vincolate dalla clausola anche nel caso in cui non abbiano condiviso la piattaforma contrattuale e/o non abbiano fatto parte della delegazione trattante) ha suscitato forti reazioni negative anzitutto nell’ambito di una delle Confederazioni firmatarie. Nella CGIL si è aperto un aspro confronto tra la Segreteria generale e la FIOM, che investe questioni assai rilevanti non solo in ordine alla autonomia delle Federazioni rispetto alla Confederazioni (retro, Parte IV, Cap. II, Sez. II, § 2.2), ma soprattutto in ordine alla tutela del dissenso e della sua manifestazione mediante “azioni di contrasto” (come la proclamazione di uno sciopero). Le reazioni negative (che si registrano anche tra i commentatori del T.U.) erano prevedibili: non poteva certo essere accolta con entusiasmo da un settore dell’opinione sindacale e politica la rigida formulazione di una regola di maggioranza, che, al fine di garantire alle imprese la stabilità dei contratti collettivi, arriva ad imporre anche alle minoranze dissenzienti comportamenti di totale ossequienza, spingendosi fino a prevedere sanzioni che incidono sull’esercizio di diritti fondamentali di libertà. Dal punto di vista giuridico, pare legittimo esprimere forti dubbi sulla validità di clausole che si pongono in contrasto con norme e principi fondamentali, imponendo limitazioni di diritti di libertà (la libertà sindacale è solennemente sancita dall’art. 39, comma 1, Cost.); ove poi la repressione delle “azioni di con- 60 trasto di ogni natura” dovesse essere interpretata nel senso di una limitazione del diritto al ricorso in giudizio, il contrasto con l’art. 24 Cost. sarebbe del tutto evidente. b) Per quanto riguarda i contratti collettivi aziendali, il T.U. sulla rappresentanza prevede tali contratti definiscano clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva; tali clausole – precisa il T.U. – «hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori». Ancora una volta le Confederazioni firmatarie, nell’intento di garantire alle imprese la stabilità del contratto, insistono sulla affermazione della regola di maggioranza (in base alla quale il contratto approvato dalla maggioranza vincola anche la minoranza dissenziente, tenuta ad astenersi da ogni “azione di contrasto”) e rafforzano la regola con l’espressa previsione di sanzioni a carico delle rappresentanze o delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie che violino la clausola di tregua. Valgono, anche in questo caso, le considerazioni svolte sopra. Infine, innovando rispetto al Protocollo 31 maggio 2013 cui dà attuazione, il T.U. sulla rappresentanza prevede che «in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia disciplinata dalla parte quarta del presente accordo, le parti contraenti concordano che eventuali comportamenti non conformi agli accordi siano oggetto di una procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale». Ha suscitato forti reazioni negative anche questa previsione, che sembra voler limitare la possibilità per l’organizzazione sindacale, alla quale sia imputato un comportamento in violazione della clausola di tregua passibile di sanzioni pecuniarie o di limitazione dell’esercizio dei diritti sindacali, di rivolgersi direttamente al giudice per tutelare i propri diritti. Torniamo ora alla precisazione da parte delle Confederazioni firmatarie degli AI sul carattere non vincolante delle clausole di tregua nei confronti dei singoli lavoratori. La precisazione richiama l’opinione dominante, che assegna alle clausole di tregua efficacia vincolante soltanto per le parti che le hanno 93 stipulate : la costruzione si basa sulla titolarità individuale del diritto di sciopero, e sulla conseguente indisponibilità di tale diritto da parte dei sindacati. 93 Le osservazioni critiche di T. Treu 2001, p. 229 ss. si collocano all’interno di una ricostruzione appunto fortemente critica degli orientamenti della dottrina giuslavoristica in materia di sciopero (diritto assoluto a titolarità individuale) che hanno in sostanza impedito, ad avviso dell’A. che si affermasse nella nostra cultura giuridica (e anche sindacale) un modello di regolazione negoziale del conflitto industriale. 61 Solo l’accantonamento della tesi della titolarità individuale (retro, § 5.2) potrebbe aprire la strada, altrimenti preclusa, che porta a ricondurre tali clausole nella parte normativa del contratto collettivo: cosa che le renderebbe vincolanti anche per i lavoratori destinatari del contratto collettivo medesimo. In tal caso, lo sciopero dei lavoratori in violazione della tregua imposta dalla clausola sarebbe immediatamente configurabile come violazione della lex contractus. Si può osservare che ove limitassero direttamente il diritto dei lavoratori di astenersi dal lavoro, le clausole sarebbero uno strumento forte di prevenzione degli scioperi. Ma resterebbe ancora un nodo da sciogliere, e non di poco conto. Infatti, la titolarità collettiva (o sindacale) del diritto di sciopero, che legittimerebbe le parti collettive ad imporre ai lavoratori la tregua concordata nel contratto collettivo, non sarebbe sufficiente a risolvere il problema dell’estensione degli obblighi di comportamento imposti dalle clausole di tregua ai sindacati che non le abbiano sottoscritte. Insomma, neppure cambiando le basi su cui si regge la consolidata teoria del diritto di sciopero, l’obiettivo di ridurre la frequenza degli scioperi sarebbe garantito, perché non verrebbe meno la 94 possibilità, per i sindacati non firmatari, di proclamare lo sciopero . Per quanto riguarda infine la mediazione dei conflitti collettivi, nessuna regola legale disciplina la materia, ma la pratica della mediazione (a livello sia delle amministrazioni locali, sia dei Ministeri competenti, in primo luogo del Ministero del lavoro) è largamente diffusa: il potere politico gioca un ruolo importante, anche se in via informale. Una formalizzazione del ruolo del Governo si è verificata nella stagione dei grandi accordi di concertazione sociale (di cui abbiamo parlato retro, Parte II, Cap. III). 94 Si attenuerebbe invece, con molta probabilità, la frequenza degli scioperi proclamati da sindacati che non sottoscrivono i contratti o che non vengono neppure ammessi al tavolo della negoziazione, perché i lavoratori beneficiari del contratto collettivo dovrebbero comunque rispettare la clausola di tregua, e dunque incorrerebbero nell’inadempimento del contratto ove seguissero il mot d’ordre di un sindacato non firmatario.