1
Le rivoluzioni del 1848
1.1
Nel 1848 eccezionale fu la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l’Europa continentale. Solo la
Russia (dove l’arretratezza della società civile e l’efficienza dell’apparato repressivo impedivano l’emergere dei
fermenti democratici) e la Gran Bretagna ( dove al contrario il sistema politico si dimostrava più adatto a recepire le
spinte della società) non furono toccate dall’ondata delle rivoluzioni.
Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel biennio 1846-47 l’Europa aveva attraversato una
fase di crisi. Il disagio economico e l’inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di così
vaste proporzioni se su di essi non si fosse inserita l’azione consapevole svolta dai democratici di tutta Europa,
depositari di una tradizione comune che affondava le sue origini nella rivoluzione francese.
Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente
intrecciata - in Italia, in Germania e nell’Impero asburgico - alla spinta verso l’emancipazione nazionale. Simile fu
anche la dinamica dei moti cominciarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle capitali, sfociate poi in scontri
armati.
Un altro tratto comune delle rivoluzioni del 1848 fu rappresentato dalla massiccia partecipazione dei ceti popolari
urbani, in particolare a Parigi, la componente popolare e operaia si mosse in relativa autonomia, e spesso in contrasto,
rispetto alle forze democratico-borghesi e cercò di imporre propri specifici obiettivi di lotta.
1.2 LA RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO IN FRANCIA
La monarchia liberale di Luigi Filippo d’Orleans era certamente uno dei regni europei meno oppressivi. Ma la stessa
maturazione economica, civile e culturale della società francese faceva apparire sempre meno tollerabili i limiti
oligarchici di quel regime e la politica “ultramoderata” praticata da Luigi Filippo. Si andò così coalizzando un vasto
fronte di opposizione che andava dai liberali progressisti ai socialisti, senza escludere alcune frange di opinione
pubblica cattolica.
Per i democratici, l’obbiettivo da raggiungere era il suffragio universale. Nettamente minoritari in parlamento, i
democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel “paese reale”. Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei
banchetti: riunioni in forma privata che aggiravano i divieti governativi.
Fu proprio la proibizione di uno dei banchetti, previsto per il 22 febbraio a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria.
Lavoratori e studenti parigini organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo ricorse
alla Guardia Nazionale, il corpo volontario di cittadini armati. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo
largamente impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti. Il successivo intervento dell’esercito radicalizzò la
situazione e rese impossibile qualsiasi soluzione di compromesso.
Dopo due giorni di barricate e violenti scontri, gli insorti erano padroni della città. Luigi Filippo abbandonò Parigi.
All’Hotel de Ville (il municipio parigino) veniva costituito un governo provvisorio che si pronunciava a favore della
repubblica e annunciava la convocazione di un’Assemblea Costituente da eleggere a suffragio universale.
Nel governo figuravano tutti i capi dell’opposizione democratico-repubblicana ed erano presenti anche due socialisti.
Fu abrogata ogni limitazione della libertà di riunione, fu abolita la pena di morte per i reati politici, la repubblica si
impegnava in oltre a rispettare l’equilibrio europeo, rinunciando così ad “esportare la rivoluzione oltre i suoi confini”. Il
governo provvisorio aveva stabilito in 11 ore la durata massima della giornata lavorativa e aveva affermato il diritto al
lavoro. Per dare attuazione a tale diritto, furono istituiti degli “ateliers nationaux”, il cui nome faceva pensare a quegli
“ateliers sociaux” che Luis Blanc aveva teorizzato, ne “L’organizzazione del lavoro”, come vere e proprie coperative di
produzione.
Una prima secca sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per la Costituente. Il suffragio
universale portò infatti alle urne un elettorato rurale di gran lunga più conservatore della popolazione delle città. I veri
vincitori furono i repubblicani moderati. L’assemblea approvò a stragrande maggioranza una costituzione democratica,
ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente eletto direttamente dal popolo per la durata di 4 anni e
un’unica assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale.
Ma alle elezioni presidenziali i repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori di ogni gradazione fecero
blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte. Bonaparte assicurava, per la sola forza del suo nome, una forte
presa su vasti strati dell’elettorato popolare. Il calcolo si rivelò esatto. Una vera e propria valanga di voti si riverso sul
Bonaparte.
Si chiudeva così la fase democratica della seconda repubblica francese.
1.3 LA RIVOLUZIONE NELL’EUROPA CENTRALE
Nell’Impero asburgico, negli Stati italiani e nella Confederazione germanica gli echi degli avvenimenti parigini fecero
esplodere una situazione già tesa: il malcontento suscitato dalla crisi economica si univa alla protesta contro la gestione
autoritaria del potere e si mescolava alle tensioni provocate dalle numerose “ questioni nazionali”.
Diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente sociale rimase in secondo piano.
Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna. L’occasione della rivolta fu data da una grande
manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall’esercito. Dopo giorni di combattimenti, gli ambienti di
corte furono costretti a sacrificare il cancelliere Metternich: l’uomo simbolo della Restaurazione.
Le notizie dell’insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione: vi furono tumulti a
Budapest, si sollevarono Venezia e Milano, i cittadini di Praga inviarono una petizione all’imperatore chiedendo
autonomia e libertà politiche. L’imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere la convocazione di un
parlamento dell’impero eletto a suffragio universale.
In Ungheria le promesse del governo non bastarono, sotto la spinta dell’ala democratico-radicale i patrioti ungheresi
profittarono della crisi per creare un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu eletto un
parlamento a suffragio universale, infine, Kossuth comincio a creare un esercito nazionale.
Anche a Praga fu formato un governo provvisorio, ma i patrioti cechi non mettevano in discussione il vincolo con la
monarchia asburgica, si limitavano piuttosto a chiedere più ampie autonomie per tette le popolazioni slave dell’impero.
La capitale boema fu assediata e bombardata. La sottomissione di Praga segnò l’inizio della riscossa per il potere
imperiale.
Il marescialle Radetzky sconfiggeva i piemontesi e ristabiliva il controllo austriaco in Lombardia, sotto la protezione
dell’esercito l’imperatore rientrava a Vienna. Per venire a capo della secessione ungherese il governo imperiale si servì
delle rivalità che dividevano gli slavi dai magiari, i quali sognavano una grande Ungheria comprendente tutti gli slavi
del sud. Gli slavi furono indotti così ad appoggiarsi all’impero che offriva loro maggiori garanzie di conservare la
propria identità nazionale. Ma per il momento l’Ungheria si salvò grazie ad una nuova insurrezione scoppiata a Vienna.
I reparti impegnati in Ungheria furono richiamati per schiacciare la rivolta che veniva così stroncata nella sua punta più
avanzata.
Poche settimane dopo, l’imperatore Ferdinando I abdicava in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel
marzo 1849 il nuovo sovrano sciolse il reichstag imperiale e promulgò una costituzione “moderata”.
Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania, la grandi manifestazioni popolari scoppiate a Berlino costrinsero il
re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un parlamento prussiano.
Intanto agitazioni erano scoppiate in molti degli stati della Confederazione germanica. Ne era scaturita la richiesta di
un’Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli stati tedeschi, Austria compresa. La costituente sarebbe
stata eletta suffragio universale e avrebbe avuto la sua sede a Francoforte. Ben presto fu chiaro che la costituente di
Francoforte non aveva i poteri necessari per avviare un processo di unificazione nazionale, le sue sorti dipendevano da
quanto sarebbe accaduto in Prussia. Intanto Federico Guglielmo scioglieva il parlamento prussiano e promulgava una
costituzione assai poco liberale.
I lavori della costituente erano assorbiti dalle dispute fra “grandi tedeschi” e “piccoli tedeschi”. Alla fine prevalse la tesi
piccolo-tedesca, ma quando nell’aprile ’49 una delegazione dell’Assemblea si recò a Berlino per offrire al re di Prussia
la corona imperiale, questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da un’assemblea popolare.
Il gran rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della Costituente di Francoforte.
1.4 LA RIVOLUZIONE IN ITALIA E LA PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA
La rivoluzione in Italia ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo. Già all’inizio del 1848 tutti gli stati italiani
apparivano percorsi da un generale fermento.
Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio- legata soprattutto alle tradizionali rivendicazioni autonomistiche dei
siciliane –a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone ad annunciare la
concessione di una costituzione nel Regno delle due Sicilie. La mossa inattesa di Ferdinando II ebbe l’effetto di
rafforzare l’agitazione costituzionale in tutto il resto d’Italia. Spinti dalla pressione dell’opinione pubblica e dalle
continua dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana e Pio IX si decisero a
concedere la costituzione. Annunciate prima della rivoluzione di febbraio in Francia , le costituzioni del ’48 avevano
tutte un carattere moderato.
Lo statuto promesso da Carlo Alberto, che sarebbe poi divenuto legge fondamentale del Regno d’Italia, prevedeva una
camera dei deputati, un senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal Re.
Lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell’Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo
spazio all’iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale.
A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei
prigionieri politici, pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell’Arsenale militare, cui si unirono ufficiali e marinai
costringeva i reparti austriaci a capitolare. Un governo provvisorio proclamava la costituzione della Repubblica veneta.
A Milano l’insurrezione inizio con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per 5 giorni. Borghesi e popolani
combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco. La direzioni delle operazioni fu assunta da
un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti
dell’aristocrazia liberale finirono per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita ad un governo provvisorio.
Radetzky preoccupato per un eventuale intervento dei Savoia, decise di ritirare le sue truppe al confine tra Veneto e
Lombardia, all’interno del cosiddetto quadrilatero formato dalle fortezza di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera.
All’indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e Milano, il Piemonte dichiarava guerra all’Austria. Diverse
furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano
l’occasione per liberare ‘Italia dagli austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia sabauda ad allargare i confini
ad est; infine il timore che il Lombardo-veneto diventasse un centro di agitazione repubblicana.
Anche in questo caso l’esempio di un sovrano finì col condizionare l’altro, Ferdinando II, Leopoldo II e Pio IX decisero
di unirsi alla guerra antiaustriaca, accompagnati da un grande entusiasmo popolare, assieme a folte colonne di volontari.
Ma l’illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupò
soprattutto di preparare l’annessione del Lombardo-veneto al Piemonte.
Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX, che si trovava in guerra contro una grande potenza cattolica. Il
Papa annunciò il ritiro delle sue truppe, lo imitavano Leopoldo II e poco dopo Ferdinando II che intanto aveva sciolto il
parlamento appena eletto. Rimasero i volontari toscani e giunse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a
disposizione del governo provvisorio lombardo, ma il contributo dei volontari fu poco e male utilizzato da Carlo
Alberto.
Mentre venivano indetti nei territori liberati frettolosi plebisciti per sancire l’annessione al Regno sabaudo, l’iniziativa
tornò nelle mani dell’esercito asburgico, nella prima grande battaglia campale, che si combattè a Custoza, le truppe di
Carlo Alberto furono nettamente sconfitte.
Il 9 agosto 1848 fu firmato l’armistizio con gli austriaci.
1.5 LOTTE DEMOCRATICHE E RESTAURAZIONE CONSERVATRICE
Nell’autunno ’48, la situazione in Italia era ancora fluida. La Sicilia restava sotto il controllo dei separatisti che si erano
dati un proprio governo, Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la battaglia di Custoza, aveva proclamato
nuovamente la repubblica. In Toscana, il granducato fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero
democratico. A Roma, l’uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, aveva indotto il Papa ad abbandonare la
città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando II. Nella capitale presero il sopravvento i gruppi
democratici. In tutti i territori dello Stato pontificio si tennero le elezioni, a suffragio universale, per l’Assemblea
costituente, la quale, appena eletta, proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo Stato
avrebbe assunto il nome glorioso di “Repubblica romana”.
Gli sviluppi della situazione a Roma ebbero immediate ripercussioni in Toscana, Leopoldo II abbandonò il paese
mentre veniva convocata un’Assemblea costituente e i poteri effettivi passavano ad un triumvirato.
Intanto i democratici ripresero l’iniziativa anche in Piemonte. Carlo Alberto, schiacciato fra le loro pressioni e
l’intransigenza degli austriaci che ponevano condizioni molto pesanti per la firma della pace, si decise a tentare di
nuovo la via delle armi.
L’esercito di Radetzky affrontarono le truppe sabaude e gli inflissero una netta sconfitta. La stessa sera, per non mettere
in pericolo le sorti della dinastia, Carlo Alberto abdicava in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Questi, il giorno
dopo, firmò un nuovo armistizio con gli austriaci. Gli Asburgo potevano ora procedere alla restaurazione dell’ordine in
tutta la penisola. Le truppe imperiali strinsero d’assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi 5 mesi,
occuparono il territorio delle legazioni pontificie e posero fine all’esperienza della repubblica toscana, nel frattempo
Ferdinando II riusciva a riconquistare la Sicilia.
Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, il cui governo si qualificò per l’energia con cui cerco di
portare avanti l’opera di laicizzazione dello stato e di rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali
ecclesiastici e fu decretata la confisca dei beni del clero e la rassegnazione alla popolazione secondo una riforma
agraria.
Frattanto però, da Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. Il presidente
Bonaparte – sia per assicurarsi l’appoggio dei cattolici sia per prevenire un intervento austriaco – si riservò il ruolo
principale nella restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione che attaccò all’inizio di giugno del
’49.
I repubblicani riuscirono a tenere in scacco i francesi per più di un mese e poco prima di annunciare la resa,
simbolicamente, l’Assemblea approvò il testo della Costituzione.
Mentre i francesi entravano a Roma Garibaldi lasciava la città nel vano tentativo di salvare almeno la repubblica
Veneta.
Dopo la fine della Repubblica romana, l’unico focolaio di rivolta in Europa – a parte l’estrema resistenza di Venezia restava l’Ungheria di Kossuth. Per venire a capo della ribellione il governo austriaco chiese l’aiuto dello Zar di Russia,
preoccupato dalla persistenza di un focolaio rivoluzionario ai confini del suo impero. Attaccato da due eserciti
contemporaneamente il neonato stato magiaro fu costretto a soccombere. Due settimane dopo capitolava anche Venezia.
La causa principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture che attraversavano al loro
interno le forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti democraticho-radicali dai gruppi
liberal-moderati.
1.6 LA FRANCIA DALLA SECONDA REPUBBLICA AL SECONDO IMPERO
Portato al potere da una coalizione di conservatori, Luigi Napoleone Bonaparte mostrò subito di voler mantere gli
impegni assunti col partito dell’ordine. Una delle prime conseguenze delle elezioni fu la decisione del governo di
affrettare i tempi dell’intervento militare nel Lazio. Nel 1859 fu varata una nuova legge delle istruzione che riapriva le
porte delle scuole e delle università alla chiesa, furono aumentate le tasse sulle imprese giornalistiche (misura mirata a
colpire le testate più piccole). Una nuova legge elettorale privava circa 3 milioni di nullatenenti del diritto di voto. I
gruppi che avevano favorito l’elezione di Bonaparte iniziavano a guardare con sospetto a un eccessivo rafforzamento
del suo potere personale, così la Camera respinse la proposta di modificare quell’articolo della costituzione che
impediva la rielezione di un presidente alla scadenza del mandato. Pochi mesi dopo, un colpo di stato attuato con
l’appoggio dell’esercito consentì a Bonaparte di sbarazzarsi sia della maggioranza che dell’opposizione, la camera fu
occupata dalle truppe e sciolta. Oltre 10 mila oppositori furono arrestati e deportati oltremare. Un plebiscito sanzionò
l’operato di Bonaparte egli attribuì il compito di redigere una nuova costituzione. Questa stabiliva in 10 anni la durata
del mandato presidenziale, ripristinava il suffragio universale ma toglieva alla camera l’iniziativa legislativa
riservandola al presidente, istituiva un senato vitalizio di nomina presidenziale. Nel dicembre 1852 un nuovo plebiscito
approvava la restaurazione dell’impero. Luigi Napoleone assumeva così il nome di Napoleone III col diritto di
trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi.
2 Società borghese e movimento operaio
2.1LA BORGHESIA EUROPEA
Nel ventennio successivo al 1848 la borghesia crebbe e si affermò come ceto sociale essenziale. Riuscì a presentarsi
come portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione e a far valere le sue influenze e le sue linee guida
che si traducevano in:
_ merito individuale
_ libera iniziativa
_ concorrenza
_ innovazione tecnica
La borghesia inoltre includeva una gamma ampia di figure e posizioni sociali: dall’artigiano e contadini piccolo
proprietari, ai ceti emergenti, ai grandi magnati dell’industria più il ceto medio che costituiva la piccola borghesia.
La borghesia europea aveva il suo stile di vita che manifestava attraverso:
abbigliamento
arredamento
etica e cultura tradizionale(la morale sessuale, l’austerità,il risparmio, la subordinazione della donna, la povertà era vista
come un peccato e le doti morali come garanzie della posizione sociale)
2.2OTTIMISMO BORGHESE E CULTURA POSITIVA
L’ottimismo della metà dell’ottocento si basava su 2 pilastri: lo sviluppo economico e le conquiste della scienza.
Proprio per questo le scienze naturali erano predominanti e sintomo di progresso nella cultura europea. Il positivismo
era una sorta di mentalità diffusa per ricercare e interpretare la realtà. Le teorie darwiniane influenzavano il dibattito
filosofico e agirono sulla mentalità e sulla credenza delle classi dirigenti e popolari. Erano però anche quelle che
contraddicevano le teorie religiose ma quelle che alimentavano la fiducia nel progresso dl’umanità e della convinzione
di poter controllare grazie alla scienza il corso della natura e degli stessi processi sociali
2.3LO SVILUPPO ECONOMICO
Dal 1848 in poi l’economia europea conobbe una forte espansione(aumento dei salari, dei prezzi, dei profitti). Tra il
1850 e il1873 ci fu il boom dell’industria che avvantaggiò le nuove potenze industriali come Francia e Germania che
diminuirono il divario che le separava dalla Gran Bretagna.
Si svilupparono soprattutto il settore meccanico e siderurgico in senso sia qualitativo che quantitativo(macchina a
vapore, telai meccanici, combustibile minerale). I costi crescenti degli impianti e l’accresciuta concorrenza diedero un
forte impulso all’aumento delle dimensioni e delle concentrazioni aziendali(nascono le società per azioni). L’eccesso di
fiducia nell’espansione del mercato fu all’origine di 2 crisi scoppiate tra il 1856/57 e il1866/67 che furono anche le
prime due crisi del capitalismo moderno.
I fattori al’origine del boom furono:
_ la rimozione degli ordinamenti corporativi che bloccavano la mobilità del lavoro e dell’innovazione tecnologica.
_ il trionfo del libero scambio(reti commerciali con riduzioni doganali)
_ aumento della disponibilità di materie prime
_ scoperta di nuovi giacimenti auriferi in California che fecero confluire in Europa grandi quantità di metalli preziosi
_ affermazione e diffusione di nuovi mezzi di trasporto e comunicazione(ferrovie, navi a vapore)
2.4RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI E MEZZI DI COMUNICAZIONE
Questi nuovi mezzi influenzarono significativamente le abitudini e i modi di pensare della gente comune e
l’immaginario del mondo cambiò radicalmente e sono:
1.il treno
2.navigazione a vapore
3.il telegrafo
2.5LA CITTA’ MODERNA
Con l’affermazione della borghesia ci fu anche una crescita del proletariato e una sviluppo di grani centri urbani a
partire soprattutto dal 1870. Due furono le cause principali:
1. lo sviluppo industriale(occasioni di lavoro)
2. la rivoluzione dei trasporti (più facile spostarsi)
La sovrappopolazione delle città fu però causa di epidemie e di alta mortalità. I pubblici poteri cominciarono allora ad
interessarsi dei problemi cittadini e si svilupparono gli apparati gli burocratici in grado di governare le città.
2.6IL MONDO DELLE CAMPAGNE
Tra il 1850 e il 1860 i progressi nell’agricoltura non cambiarono di molto la situazione del contadino che quindi
cominciò a migrare verso le città. Esodo dalle campagne e per gli europei anche verso l’America del nord.
2.7 IL PROLETARIATO URBANO E IL MOVIMENTO OPERAIO DOPO IL1848
Lo sviluppo della grande industria rese il proletariato di fabbrica sempre più consistente ma i salari di questi lavoratori
non erano di molto superiori a quelli di un contadino e quindi non sufficienti al sostentamento nelle città. La precarietà
della posizione operai contrastava ampiamente con la prosperità della borghesia. La classe operaia matura una
coscienza di classe e sviluppa le associazioni operaie.
In Inghilterra vengono rafforzate le Trade Unions e nel 1868 il Trade Unions Congress radunava i delegati dei aggiori
sindacati.
In Francia invece i poche nuclei erano organizzati a base locale ed erano illegali e si dividevano in:
_ comunismo insurrezioni sta di Gustave Blanqui
_ federalismo a sfondo anarchico di Proudhon
In Italia le teorie prudoniane influenzavano le teorie socialiste di Pisacane eFerrari ma il proletariato di fabbrica era
pressoché inesistente e i pochi nuclei di operai erano di mutuo soccorso.
In Germania c’era una forte classe operaia e nel 1857 Lassalle, leader del movimento socialista, fondò l’Associazione
dei lavoratori tedeschi che fu il primo esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale.
2.8 MARX E IL CAPITALE
Scritto nel 1867 costituisce un nuovo soggetto rivoluzionario: il proletariato industriale. Sarà fondamentale il
movimento operaio e la cultura occidentale. Il socialismo non è più solo un’utopia la cui riuscita dipende dalle capacità
dell’insurrezione ma scaturisce dalle leggi stesse dello sviluppo economico e dall’azione consapevole del proletariato.
2.9L’INTERNAZONALE DEI LAVORATORI
Nel 1862 una delegazione dei lavoratori francesi va a un’esposizione a Londra e stabilisce insieme alle Trade Unions di
dar vita a un’associazione aperta anche ad altri paesi. Nel 1864 si svolge la prima riunione dell’associazione
internazionale dei lavoratori (o prima internazionale) che divenne un punto di riferimento per i lavoratori europei. Si
divise tra veri socialisti e prudoniani e poi arrivarono anche le idee anarchiche di Bakunin. Nel 1872 Marx riesce a
mettere in minoranza i bakuniani e fa spostare la sede a New York causandone la fine anche se sarà poi ufficialmente
sciolta nel 1876.
2.10 IL MONDO CATTOLICO DI FRONTE ALLA SOCIETA’ BORGHESE
Il mondo cattolico era critico nei presupposti laici e individualistici della nuova società e Pio IIX voleva riaffermare la
più rigida ortodossia dottrinaria.
Nel 1854 viene proclamato il dogma dell’immacolata concezione. Nel 1864 con un’enciclica viene condannato il
liberalismo, la democrazia, il socialismo e la civiltà moderna. Nel 1870 ci fu il Concilio Vaticano I con la
proclamazione dell’infallibilità del papa che crea una frattura tra il papato e i vari stati cattolici ed infatti quando nel
1870 arrivano le truppe italiane a Roma nessuno stato corre in soccorso del papa.
In realtà la civiltà borghese lasciava un ampio spazio ai movimenti cristiano-sociali.
3 L’unità d’Italia
3.1 LA SECONDA RESTAURAZIONE
In Italia le conseguenze della seconda restaurazione furono gravi soprattutto in termini di mancata evoluzione delle
strutture politiche, ma anche per lo sviluppo economico.
Il Lombardo-veneto, la regione più economicamente avanzata, fu sottoposto a un pesante regime di occupazione
militare cui si accompagnò un inasprimento della già forte pressione fiscale. Né a tutto ciò faceva riscontro un adeguato
sviluppo delle opere pubbliche; l’Impero asburgico vide così allargarsi il fossato di risentimento e di incomprensione
che separava la monarchia dalle popolazioni italiane.
Nello Stato pontificio, riorganizzato secondo il vecchio modello teocratico-assolutistico, democratici e liberali furono
perseguitati e il potere restò nelle mani di una ristretta oligarchia di prelati.
Anche nel Regno delle due Sicilie il ritorno al sistema assolutistico fu integrale. In campo economico, la politica dei
governi borbonici fu improntata a un gretto conservatorismo e la relativa mitezza della pressione fiscale si traduceva in
una forte limitazione della spesa statale. I settori più sacrificati furono così quelli dell’istruzione e delle opere pubbliche.
La poche iniziative dei governi nel campo dei lavori pubblici si concentrarono nel napoletano e dunque l’insofferenza di
questo stato di cose era particolarmente viva in Sicilia, dove l’opposizione al restaurato centralismo napoletano
accomunava aristocrazia borghesia e masse popolari.
3.2 L’ESPERIENZA LIBERALE IN PIEMONTE E L’OPERA DI CAVOUR
Diversa fu la vicenda politica del Piemonte, dove, poté sopravvivere l’esperimento costituzionale.
Quando, nell’agosto del ’49, fu conclusa la pace con l’Austria – in base alla quale il Piemonte si impegnava a pagare
una forte indennità di guerra – la Camera rifiutò d’approvarla. La corona e il governo D’Azeglio, decisero di sciogliere
la Camera e di indire nuove consultazioni da cui venne fuori una maggioranza “moderata” che approvò la pace.
Il governo D’Azeglio poté così portare avanti l’opera di modernizzazione dello stato; tappa fondamentale fu
l’approvazione della legge Siccardi che riordinava i rapporti tra Stato e Chiesa, ponendo fine agli anacronistici privilegi
di cui il clero godeva. La battaglia per l’approvazione della legge Siccardi vide emergere nelle file della maggioranza
liberal-moderata un nuovo leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d’affari, proprietario terriero
e giornalista. Cosmopolitismo culturale e intraprendenza borghese furono le due componenti decisive nella formazione
di Cavour, il cui ideale politico era quello di un liberismo moderato, moderno e pragmatico, comunque molto lontano
dai valori base della democrazia ottocentesca.
Cavour entrò a far parte del gabinetto D’Azeglio come ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel 1850, due anni
dopo, quando si era già reso protagonista di una rivoluzione parlamentare promuovendo un accordo fra l’ala più
progressista della maggioranza moderata e la componente più moderata della sinistra democratica, fu nominato dal Re a
sostituire il dimissionario D’Azeglio. L’avvento di Cavour affermò quell’interpretazione parlamentare dello Statuto che
faceva dipendere la vita del governo non solo dalla fiducia del sovrano, ma anche dal sostegno di una maggioranza in
parlamento.
Cavour si adoperò per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo adottando
una linea decisamente liberoscambista. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche, cui
Cavour diede un fortissimo impulso, a costo di inasprire la pressione fiscale.
Lo sviluppo delle ferrovie ebbe effetti positivi sul commercio, ma servì anche da stimolo per l’industria siderurgica e
meccanica.
Le condizioni delle classi subalterne non conobbero miglioramenti sostanziali. Il tasso di analfabetismo si mantenne
elevato.
Nonostante tutto, Cavour riuscì così a dimostrare che la causa delle libertà faceva tutt’uno con quella del progresso
economico e a diventare il naturale punto di riferimento per la borghesia liberale di tutta Italia.
3.3 IL FALLIMENTO DELL’ALTERNATIVA REPUBBLICANA
Le sconfitte del ’48-49 non avevano mutato nella sostanza la strategia di Mazzini che da un lato si preoccupò di
intensificare i rapporti con i maggiori esponenti di tutto il movimento democratico europeo, dall’altro si adoperò
instancabilmente per ritessere le fila dell’attività cospirativa in Italia. I risultati furono, però, fallimentari. Mazzini fondo
nel 1853 a Ginevra una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d’Azione.
Fin dall’inizio degli anni ’50 si delinearono però fra i democratici italiani nuovi orientamenti che tendevano a mettere in
discussione la guida politica di Mazzini ritenendola o troppo intransigente o, collocandosi già in una prospettiva
socialista, troppo moderata.
Negli stessi anni nacque anche ufficialmente un movimento indipendentista filopiemontese che promuoveva l’unione di
tutte le correnti, democratiche e moderate, intorno all’unica forza in grado di raggiungere l’obiettivo: la monarchia
costituzionale di Vittorio Emanuele II. Il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società
Nazionale.
3.4 LA DIPLOMAZIA DI CAVOUR E LA II GUERRA D’INDIPENDENZA
Prima preoccupazione in politica estera ed economica di Cavour fu quella di avvicinare il Piemonte all’Europa più
moderna. Un passo importante in questa direzione fu compiuto nel 1855, quando il governo piemontese rispose
positivamente all’invito rivoltogli da Francia e Inghilterra di associarsi alla guerra contro la Russia e inviò in Crimea un
corpo di 18.000 uomini. In questo modo il Piemonte ottenne di sedere come stato vincitore alla conferenza di Parigi del
1856. Cavour protesto contro la presenza militare austriaca nelle legazioni pontificie e denuncio il malgoverno dello
Stato della Chiesa e del Regno delle due Sicilie come causa di tensioni rivoluzionarie e dunque minacca dell’equilibrio
europeo.
L’esperienza del congresso di Parigi fu però avara di risultati concreti. Cavour ne uscì convinto che era necessario, da
un lato, mantenere viva l’agitazione patriottica ( con l’appoggio alla Società Nazionale); dall’ altro, assicurarsi
l’appoggio dell’unica grande potenza europea veramente interessata ad una modifica dello status quo: la Francia di
Napoleone III.
Fu proprio il gesto isolato di un mazziniano, che voleva vendicare l’intervento contro la Repubblica Romana, ad
affrettare i tempi dell’alleanza franco-piemontese. Nel gennaio 1858, Felice Orsini, un repubblicano, attentò alla vita
dell’imperatore ma fallì l’obiettivo. Orsini aveva agito di propria iniziativa. Ma il suo gesto gettò ulteriore discredito sul
movimento mazziniano e diede spunto a Cavour per ribadire l’urgenza di una soluzione del problema italiano. Ebbe
così la strada spianata verso la conclusione di un’alleanza franco-piemontese sancita in incontro segreto svoltosi nel
luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières. Gli accordi ipotizzavano un regno dell’Alta Italia comprendente, oltre
al Piemonte, il Lombardo-veneto e l’Emilia Romagna, sotto la casa sabauda (che avrebbe ceduto alla Francia Nizza e la
Savoia); un regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province pontificie; un regno meridionale liberato
dai Borbone. Al Papa sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana.
Dietro questo progetto si celavano due diversi disegni: quello di Napoleone III, che mirava a porre l’Italia sotto il suo
controllo; e quello di Cavour, che contava sulla forza d’attrazione del Piemonte nei confronti degli altri stati italiani.
Premessa indispensabile per la riuscita dei progetti di Cavour era la guerra contro l’Austria. Il governo piemontese fece
il possibile per far salire la tensione con lo stato vicino tanto che fu lo stesso governo asburgico a creare il tanto
sospirato casus belli inviando un secco ultimatum al Piemonte e che Cavour ebbe buon gioco di respingere.
I Franco-piemontesi spostarono il grosso delle truppe sul Ticino e sconfissero gli asburgici aprendosi la via di Milano.
In questa situazione estremamente favorevole Napoleone III decise unilateralmente di interrompere la campagna e
propose agli austriaci un armistizio, che fu firmato l’11 luglio a Villafranca. L’impero asburgico rinunciava alla
Lombardia e la cedeva alla Francia ( che l’avrebbe poi “girata” al Piemonte ), mantenendo il Veneto.
La notizia dell’armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour che rassegno le
dimissioni.
Fra i motivi che avevano spinto l’imperatore c’erano le pressioni dell’opinione pubblica impressionata dagli alti costi
della guerra; c’era la minaccia di un intervento della Confederazione germanica a fianco dell’Austria: ma c’era anche la
nuova situazione nell’Italia centro-settentrionale che vanificava il progetto ideato a Plombières. A Firenze e nei ducati
Modena e Parma, una serie di insurrezioni aveva costretto alla fuga i vecchi sovrani. Poco dopo la sollevazione si estese
anche allo stato della chiesa; i moti furono saldamente controllati dai moderati e i governi provvisori che si costituirono
si pronunciarono per l’annessione al Piemonte.
Dopo alcuni mesi di stallo, Cavour, tornato a capo del governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la cessione alla
Francia di Nizza e della Savoia – cui il Piemonte non era più tenuto dopo Villafranca – in cambio dell’assenso francese
alle annessioni nell’Italia centrale.
3.5 GARIBALDI E LA SPEDIZIONE DEI MILLE
Allargando i suoi confini verso la Lombardia e l’Italia centrale, lo Stato sabaudo si avviava a diventare uno Stato
nazionale. Un simile risultato poteva apparire soddisfacente a Cavour e ai moderati; ma certo non accontentava i
democratici. Tornava d’attualità l’idea di una spedizione di volontari nel Regno delle due Sicilie, era infatti proprio la
Sicilia, in stato latente di rivolta contro il governo napoletano, a offrire un terreno favorevole per un’iniziativa
rivoluzionaria.
Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto di una
spedizione nell’isola. Crispi e Pilo cercarono, da una parte, di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei
volontari; dall’altra, di assicurare alla spedizione un’efficiente guida politica e militare e di garantirsi nel contempo un
qualche appoggio del governo piemontese.
Crispi si adoperò per convincere Giuseppe Garibaldi ad assumere la guida della spedizione. Cavour, che temeva le
complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un’occasione per il rilanci per i mazziniani, la avversò, pur senza
far nulla di serio per impedirla. Vittorio Emanuele II guardava invece con malcelata simpatia al tentativo di Garibaldi.
Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari presero il mare a Quarto, presso Genova. Pochi giorni
dopo, i volontari sbarcarono a Marsala e penetrarono nell’entroterra, accolti con entusiasmo dalla popolazione. Il 15
maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine entrarono in contatto con un contingente borbonico e riuscirono a metterlo
in fuga, potevano adesso puntare su Palermo. All’arrivo delle avanguardie garibaldine, la città insorse, i contingenti
governativi furono costretti ad abbandonare il capoluogo, dove Garibaldi aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio
Emanuele II e proclamò la decadenza della monarchia borbonica.
Fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15.000 volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all’attacco
delle truppe borboniche e sconfiggerle il 20 luglio a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul continente.
Di fronte all’inatteso successo dell’azione garibaldina, il primo ministro piemontese mostrò, da un lato, di volerne
agevolare il buon esito, favorendo l’afflusso di armi e di volontari in Sicilia; dall’altro, tentò di bloccare gli ulteriori
sviluppi, suscitando un movimento di opinione pubblica favorevole all’annessione al Piemonte. Fra i patrioti giunti dal
nord, che miravano a una meta essenzialmente politica, e i contadini insorti, che si preoccupavano invece di raggiungere
i propri obiettivi (la lotta per le terre), nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione.
Intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano sempre più all’annessione al Piemonte come
all’unica efficace garanzia per la tutela dell’ordine sociale.
3.6 L’INTERVENTO PIEMONTESE E I PLEBISCITI
Garibaldi profittando della benevola neutralità della flotta inglese, riuscì a sbarcare in Calabria e poi risalì velocemente
la penisola. Il 7 settembre, Garibaldi fece il suo ingresso trionfale a Napoli. La città liberata rischiava di trasformarsi in
un quartier generale dei democratici e di diventare la base per una spedizione nello Stato pontificio.
Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non quella di prevenire l’iniziativa garibaldina con un intervento
militare. Dopo che Cavour ebbe ottenuto l’assenso di Napoleone III, le truppe regie varcarono i confini dello Stato
pontificio e invasero l’Umbria e le Marche. Ai primi di ottobre l’esercito sabaudo iniziò la marcia verso il mezzogiorno.
Una volta esclusa l’ipotesi di uno scontro fratricida, il 21 ottobre, in tutte le province meridionali e in Sicilia si tennero
plebisciti a suffragio universale maschile, nella forma voluta da Cavour.
A Garibaldi non restò che attendere l’arrivo dei piemontesi (Teano, 25 ottobre 1860) per cedere loro ogni responsabilità
nel governo delle province liberate.
Il 17 marzo 1861, il primo parlamento nazionale proclamava Vittorio Emanuele II re d’Italia.
3.7 LE RAGIONI DELL’UNITA’
L’Italia unita si presentava, almeno da un punto di vista formale, come il risultato dell’allargamento di uno Stato
regionale, e da questo l’intero paese si vedeva imporre sovrano e istituzioni, leggi e ordinamenti. In Italia, però, l’unità
fu preparata da un ampio moto di opinione pubblica che coinvolse gli strati sociali più attivi e dinamici, seppur
minoritari: intellettuali, studenti e anche una borghesia produttiva.
Fu dunque proprio grazie ai suoi progressi economici, oltre che al suo modello istituzionale indubbiamente più avanzato
e liberale che il Piemonte poté conquistare un ruolo egemone.
Infine, l’unità non sarebbe stata raggiunta, in tempi così brevi, senza l’aiuto di una serie di circostanze favorevoli a
livello internazionale: la benevola neutralità della Gran Bretagna, l’isolamento del Regno delle due Sicilie e dell’Impero
asburgico, l’appoggio di Napoleone III nella guerra del ’59.
4 L’Europa delle grandi potenze (1850-1890)
4.1 LA LOTTA PER L’EGEMONIA CONTINENTALE
Il ventennio 1850-70, segnato da ben quattro guerre, fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità,
originata soprattutto del tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione contrapponendosi
all’Impero asburgico. Ma l’indebolimento dell’Austria ebbe fra le sue conseguenze quella di facilitare l’ascesa della
potenza prussiana. La crescita della Prussia costituiva una minaccia intollerabile per la Francia, che da oltre due secoli
aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la
strada dell’unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia. L’esito di questo scontrò
elevò la Germania al ruolo di garante di un nuovo equilibrio e di fulcro di un sistema di alleanze mirato all’isolamento
della Francia..
Sul piano delle politiche interne, le sconfitte dei democratico-radicali del ’48 non pregiudicarono il cammino
dell’Europa verso forme più avanzate di governo. La Gran Bretagna consolidò le sue istituzioni liberali, la Francia si
ritrasformò in repubblica dopo la sconfitta con la Prussia e dopo il 1870 nel Reich tedesco era in vigore il suffragio
universale maschile.
4.2 LA FRANCIA DEL II IMPERO E LA GUERRA IN CRIMEA
Il Secondo Impero inaugurò un modello politico nuovo, che da allora fu detto bonapartismo: l’omaggio formale al
principio della sovranità popolare (attraverso i plebisciti) legittimava in realtà un potere fondato sulla forza delle armi; il
centralismo autoritario si univa ad una certa dose di riformismo sociale; all’autoritarismo e al centralismo, Napoleone
III univa la pratica del paternalismo e la ricerca del consenso popolare.
Oltre al consenso delle campagne, l’imperatore ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della
finanza e dell’industria. Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime bonapartista
svolsero la funzione di motore dello sviluppo.
Giunto al potere soprattutto grazie alla forza del suo nome, Napoleone III non poteva prescindere dalla tradizioni
belliche del Primo Impero. La prima occasione fu offerto dall’improvviso riacutizzarsi della questione d’oriente.
All’origine della crisi vi era l’aspirazione della Russia a espandersi in direzione del Mar Nero e dei Balcani, profittando
dell’incapacità dell’Impero Ottomano. Gli iniziali successi della Russia suscitarono però la reazione del governo
inglese. Alla Gran Bretagna si associò subito Napoleone III, interessato soprattutto all’affermazione della presenza
francese nel Mediterraneo.
Nell’estate del 1854 una flotta anglo-francese penetrò nel Mar Nero. Gli eserciti alleati sbarcarono nella penisola di
Crimea e posero l’assedio alla piazzaforte di Sebastopoli. Vi furono pochi scontri campali, tutto si risolse nel
lunghissimo assedio di Sebastopoli.
Nel febbraio 1856 un congresso delle potenze europee tenuto a Parigi confermò la neutralizzazione del Mar Nero, che
restava chiuso alle navi da guerra di tutti i paesi compresa la Russia. L’Impero Ottomano vide garantita la sua integrità.
La Francia non ottenne risultati concreti ma accrebbe il suo prestigio. L’appoggio ai movimenti nazionali che lottavano
contro l’equilibrio del congresso di Vienna rappresentò una direttiva fondamentale nella politica estera del Secondo
Impero. L’episodio più significativo di questa politica fu l’alleanza col Piemonte, stipulata nel 1858 e culminata, l’anno
seguente, nella guerra contro l’Austria.
Sul piano interno, lo scontro con l’Austria e l’appoggio al movimento nazionale italiano determinarono un contrasto fra
l’imperatore e i gruppi cattolico-conservatori.
L’esperimento nel 1870 fu bruscamente interrotto dallo scoppio della guerra franco-prussiana dal crollo del regime
napoleonico.
4.3 IL DECLINO DELL’IMPERO ASBURGICO E L’ASCESA DELLA PRUSSIA
La costituzione concessa dall’Imperatore d’Austria nel ’49, e mai realmente applicata, fu revocata nel 1851. Il
centralismo amministrativo fu rafforzato e la burocrazia sempre più “germanizzata”. L’aristocrazia era stata
danneggiata dall’abolizione della servitù della gleba. Questa misura aveva invece giovato ai contadini che da allora
avrebbero finito col costituire il sostegno più sicuro per la monarchia. L’altro pilastro su cui poggiò la restaurazione
assolutistica di Francesco Giuseppe fu l’alleanza con la Chiesa cattolica. La monarchia sacrificò le esigenze della
borghesia produttiva (soprattutto in Lombardia e Boemia). L’Impero mancò, dunque, l’appuntamento con lo sviluppo
economico degli anni ’50 e ’60, senza riuscire a mantenere il ruolo di primissimo piano che aveva nel concerto delle
potenze europee.
Fu così la Prussia a riproporre con autorità la sua candidatura alla guida della nazione tedesca fidando sulla forza
trainante del suo sviluppo industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con quella degli altri stati tedeschi
(1834, Lega Doganale “Zollverein”).
L’abolizione degli ordinamenti feudali non aveva scalfito il potere dei nobili latifondisti prussiani, gli Junker. Questi
fornivano la quasi totalità degli ufficiali di carriera e occupavano anche i più alti gradi dell’amministrazione statale. Lo
stesso sistema elettorale rimasto in vigore dopo il ’48 assicurava agli Junker una rappresentanza sproporzionata alla loro
consistenza numerica.
La mancata evoluzione delle istituzioni e la presenza ai vertici dello stato di un ceto di aristocratici non ebbero però
sulla
società
tedesca
gli
effetti
negativi
che
ebbero
in
Russia e nell’Impero d’Austria. Autoritarismo politico e conservatorismo sociale si rivelarono componenti essenziali di
quella “via prussiana” allo sviluppo che avrebbe finito col costituire una sorta di modello alternativo a quello britannico.
In Germania esisteva un efficiente sistema di comunicazioni interne che facilitavano gli scambi, una rete ferroviaria
sviluppata e un’alta diffusione dell’ istruzione elementare. A tutto ciò si aggiunga la forza di una tradizione nazionale
tedesca che traeva origine dalle guerre contro Napoleone I e dalla grande cultura romantica e idealistica del primo ‘800.
Infine la politica della potenza dello Stato prussiano prevedeva un necessario complemento: lo sviluppo di un’adeguata
forza militare.
Il problema del rafforzamento dell’esercito venne in primo piano agli inizi degli anni ’60, quando il nuovo sovrano
Guglielmo I, succeduto nel ’61 a Federico Guglielmo IV, cercò di fare approvare al parlamento un progetto di riforma
delle forze armate.
Non riuscendo a venire a capo dell’opposizione parlamentare, Guglielmo I decise di sfidarla apertamente e, nel 1862,
nominò cancelliere il conte Otto von Bismarck, tipico esponente dell’ala più reazionaria degli Junker. Nel momento in
cui salì al potere si impegnò a realizzare il progetto di riforma dell’esercito a prescindere dal consenso del parlamento,
proclamando di voler risolvere il problema dell’unità nazionale “ non con discorsi né con deliberazioni della
maggioranza bensì col sangue e col ferro”.
Il primo ostacolo sulla via dell’unificazione era costituito dall’Austria. Il contrasto si fece acuto nel 1864-65, quando le
due potenze, dopo essersi accordate per strappare alla Danimarca i ducati Schleswig, Holstein e Lauenburg, entrarono in
conflitto circa l’amministrazione dei territori conquistati.
Bismarck svolse un abile lavoro di preparazione diplomatica, alleandosi con il neocostituito Regno d’Italia e
assicurandosi la benevola neutralità di Francia e Russia.
Cominciata nel giugno 1866, la guerra durò solo tre settimane. Mentre l’Italia impegnava, con scarsa fortuna, una parte
delle forze imperiali, il rinnovato esercito prussiano,guidato dal generale von Moltke, il 3 luglio nella grande battaglia
campale di Sadowa, infliggeva agli austriaci una durissima sconfitta. Si giunse così alla firma della Pace di Praga.
L’Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all’Italia. Ma dovette accettare la fine di ogni
sua influenza nell’Europa centro-settentrionale. Gli stati tedeschi situati a nord del fiume Meno entrarono a far parte di
una nuova Confederazione della Germania del Nord presieduta da Guglielmo I.
Nel 1867 l’Impero fu diviso in due stati, l’uno austriaco l’altro ungherese, uniti fra loro nella persona del sovrano, ma
ciascuno con un proprio parlamento e un proprio governo, salvo che per i ministeri degli Esteri, Guerra e Finanza. Col
“compromesso” del ’67, la dinastia asburgica si accordava con il gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava
soprattutto gli Slavi.
Il trionfo di Bismarck ebbe immediate ripercussioni anche sulla politica interna prussiana: la borghesia liberale rinunciò
in pratica a guidare il processo di unificazione nazionale e accettò di collocarsi in una posizione subalterna nei confronti
della corona e dell’aristocrazia terriera.
4.4 LA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA E L’UNIFICAZIONE TEDESCA
La Prussia di Bismarck e di Guglielmo I poteva accingersi a realizzare l’ultima fase del suo ambizioso programma:
l’unificazione di tutti gli stati della defunta Confederazione Germanica. L’ultimo ostacolo reale era ora rappresentato
dalla Francia di Napoleone III. L’occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il trono di
Spagna era rimasto vacante, il governo provvisorio spagnolo aveva offerto la corona a Leopoldo di Hohenzollern,
parente del re di Prussia. La prospettiva spaventava ovviamente la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento.
La reazione del governo francese fu fermissima, al limite dell’ultimatum, tanto da indurre il principe di Hohenzollern,
d’accordo con la corte prussiana, a declinare la proposta.
Ma Bismarck all’indomani di un incontro tra Guglielmo I e l’ambasciatore francese, comunicò alla stampa un
telegramma a lui indirizzato dal re: il testo, opportunamente manipolato, lasciava intendere che il rappresentante di
Napoleone III fosse stato bruscamente congedato. Quel comunicato provocò in Francia un’ondata di furore
nazionalistico. Il governo e lo stesso imperatore francese dichiararono guerra alla Prussia.
Come nel ’66, le truppe di von Moltke si mossero con grande rapidità e metà dell’esercito francese venne accerchiato a
Sedan e costretto ad arrendersi. Lo stesso imperatore cadde prigioniero dei tedeschi.
Dopo una serie di sconfitte il governo fu costretto a lasciare Parigi e a chiedere l’armistizio.
Frattanto le vittorie prussiane avevano fatto cadere le residue resistenze degli stati tedeschi indipendenti nei confronti
dell’unificazione. Il 18 gennaio 1871, nella reggia di Versailles, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco.
La Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra e a mantenere truppe d’occupazione tedesche sul
proprio territorio fino al completo pagamento di questa indennità, inoltre dovette cedere al Reich l’Alsazia e la Lorena.
La guerra franco-prussiana fu diversa da tutte quelle che l’avevano preceduto dalla Restaurazione in poi: guerre che si
erano concluse con paci di compromesso e non avevano impedito la ripresa di normali rapporti fra gli ex-belligeranti.
La disfatta di Sedan rappresentò per la Francia più che una semplice sconfitta, si tratto di una vera e propria umiliazione
nazionale. Il desiderio di riparare a questa umiliazione avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese.
4.4 LA COMUNE DI PARIGI
Nella primavera del 1871, mentre si stava ancora negoziando la pace con la Germania, la Francia dovette affrontare una
drammatica crisi interna. Dopo la sconfitta di Sedan, era stato il popolo della capitale ad insorgere, a costituire una
guardia nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi aveva vissuto la caduta dell’impero come una
nuova occasione rivoluzionaria. Molto diverso era l’orientamento delle campagne e dei centri minori, dove prevalevano
le tendenze conservatrici.
La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della nuova assemblea nazionale, che si tennero nel febbraio 1871;
l’Assemblea risultò composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu
chiamato Adolphe Thiers che si affrettò ad aprire trattative con i vincitori per la conclusione della pace. Ma, quando
furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck, il popolo di Parigi protestò in massa.
A metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, il comando della Guardia
nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il consiglio della comune. In questa tornata elettorale, tenutasi a
fine marzo, l’elettorato conservatore si astenne e il potere restò dunque nelle mani dei gruppi di estrema sinistra. I
dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane al più radicale esperimento di democrazia diretta che
mai si fosse tentato in Europa. Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo; tutti i funzionari furono resi
elettivi e continuamente revocabili; l’esercito fu sostituito da milizie popolari armate. Tutta racchiusa entro i confini di
una sola città, isolata dal resto del paese, la Comune avrebbe avuto qualche speranza di sopravvivere solo se fosse
riuscita a provocare un moto generalizzato che coinvolgesse anche i piccoli centri e le campagne.
Gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni caddero nel vuoto. E l’esperienza della Comune durò il tempo necessario
a Thiers per raccogliere, con la benevola neutralità degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere
alla conquista della capitale. In maggio le truppe governative procedettero all’occupazione di Parigi. Alla disperata
resistenza dei comunardi fece riscontro la condotta spietata dei reparti regolari. La repressione governativa proseguì con
immutata durezza anche dopo la caduta delle ultime resistenze.
Per la seconda volta in poco più di vent’anni, il movimento rivoluzionario francese si trovava sconfitto e
numericamente decimato.
4.6 LA SVOLTA DEL 1870 E L’EQUILIBRIO BISMARCKIANO
Compiuti i processi di unificazione italiano e tedesco, la carta politica d’Europa assunse un effetto più definito e stabile.
Non per questo però vennero meno i motivi di rivalità, ma il teatro delle tensioni si spostò ai Balcani e ai territori d’Asia
e d’Africa. Il risultato fu che per quasi mezzo secolo nessuna regione d’Europa fu mai attraversata da eserciti in guerra.
La pace fu assicurata soprattutto dall’indiscussa egemonia esercitata sugli equilibri del continente dall’Impero tedesco.
Se prima del 1870 l’iniziativa bismarckiana aveva rappresentato l’elemento dinamico e perturbatore nel concerto delle
grandi potenze, dopo la vittoria sulla Francia e la proclamazione del Reich, gli obiettivi della politica tedesca mutarono
radicalmente e Bismarck divenne il custode dell’equilibrio europeo. Infatti, finche egli rimase al potere, la Germania
poté contare, da un lato, sulla tradizionale tendenza dell’Inghilterra a non impegnarsi sul continente europeo, dall’altro,
riuscì a legare a sé le altre due potenze maggiori – Austria e Russia - e la stessa Italia.
Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori, stipulato nel 1873 fra Germania, Russia e Austria:
un patto essenzialmente difensivo che aveva per mira la tutela degli equilibri conservatori. L’alleanza aveva però un
punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e Russia nei Balcani. Nel 1875-76 l’esercito turco intervenne in Bosnia, in
Erzegovina e in Bulgaria schiacciando una serie di rivolte scoppiate tra le popolazioni slave. Nella primavera ’77, la
Russia, grande protettrice dei popoli slavi, entrò in guerra con la Turchia e la sconfisse imponendole una pace molto
onerosa (trattato di Santo Stefano) che prevedeva la creazione di un grosso stato bulgaro, l’indipendenza della Serbia e
del Montenegro e l’autonomia della Bosnia e dell’Erzegovina.
Questo accordo provocò però la reazione di Austria e Inghilterra. Bismarck prese allora l’iniziativa di convocare un
congresso tra le grandi potenze a Berlino nel 1878. si giunse così ad un accordo: Serbia e Montenegro mantennero
l’indipendenza, lo stato Bulgaro venne ridimensionato nei confini, la Bosnia e l’Erzegovina furono dichiarate autonome
ma sotto l’amministrazione provvisoria dell’Austria, la Gran Bretagna ottenne Cipro (strategica per il controllo di Suez)
e alla Francia venne data mano libera per un’eventuale azione in Tunisia. In questo modo Bismarck creave le premesse
per un contrasto tra Francia e Italia.
La diplomazia bismarckiana si impegnò nella difficile impresa di rimettere assieme l’alleanza con Austria e Russia.
L’intesa fu raggiunta con la divisione dei Balcani in zone d’influenza e, nel 1881, fu rinnovato il patto dei 3 imperatori.
L’anno seguente il complesso edificio diplomatico fu completato con la firma della triplice alleanza che univa
Germania, Austri e Italia.
La costruzione era in apparenza perfetta visti anche gli ottimi rapporti tra la triplice e l’Inghilterra, ma fra Italia e
Austria c’era la questione irrisolta del Trentino e della Venezia Giulia e restava sempre la frizione tra Austria e Russia.
Nel 1885-86, una serie di scontri fece di nuovo salire la tensione. Non potendo tenere assieme i due imperi, Bismarck
intraprese la via degli accordi bilaterali. Mantenne ferma l’alleanza con l’Austria ma senza informarla stipulò con la
Russia il trattato di contr’assicurazione: un patto di non aggressione che impegnava la Russia a non aiutare la Francia in
caso di attacco alla Germania e la Germania a non unirsi all’Austria in caso di attacco alla Russia.
Di lì a 3 anni i contrasti con Guglielmo II avrebbero determinato la caduta del cancelliere e del suo sistema di alleanze.
4.7 LA GERMANIA IMPERIALE
Dal punto di vista istituzionale il Reich tedesco era un organismo piuttosto complesso. I 25 stati avevano poteri
esclusivamente in campo amministrativo mentre le grandi scelte politiche erano di competenza del governo centrale,
presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all’imperatore.
Il potere legislativo era esercitato da una camera (Reichstag) eletta a suffragio universale e da un consiglio federale (
Bundesrat). La camera aveva poche possibilità di condizionare l’operato dell’esecutivo, concentrato nelle mani
dell’imperatore e del cancelliere.
Il potere del cancelliere si fondava su un blocco sociale imperniato sull’alleanza fra il mondo industriale e bancario e
l’aristocrazia terriera e militare.
La forma autoritaria ed accentrata del potere non impedì, tuttavia, il manifestarsi di una vivace dialettica politica.
Proprio in Germania si svilupparono prima che altrove forti movimenti di massa. Nel 1871 il Centro (Zentrum) parito di
dichiarata ispirazione cattolica, nel 1875, dall’accordo tra alcune correnti di sinistra, nacque al congresso di Gotha il
partito socialdemocratico tedesco (Spd).
Il centro poggiava su una base sociale piuttosto composita reclutata quasi esclusivamente negli stati cattolici di cui
esprimeva le esigenze autonomistiche. La lotta di Bismarck contro i cattolici, Kulturkampf (battaglia per la civiltà),
ebbe la sua acme nel periodo 1872-75 in cui vennero emanate delle misure volte ad affermare il carattere laico dello
stato e a porre sotto sorveglianza l’operato del clero cattolico. La battagli ebbe però l’effetto di scatenare l’orgoglio e la
compattezza dei cattolici.
La chiusura del Kulturkampf fu imposta al cancelliere dalla necessità di fronteggiare la nuova e temibile minaccia
rappresentata dalla socialdemocrazia e furono varati provvedimenti espressamente contro di loro come le limitazioni
alle libertà di stampa e di riunione. Bismarck però non si limitò alle misure repressive e fece approvare una legislazione
sociale molto avanzata, inserita nell’ambito di una corrente di riformismo paternalistico e conservatore. Il cancelliere
mirava a integrare le masse lavoratrici nelle stato in una posizione subalterna. Si ispirava dunque al modello della
Francia bonapartista dove la concessione di riforme sociali non si accompagnava all’allargamento delle libertà politiche.
Questa operazione non riuscì però a bloccare la crescita elettorale dell’Spd che ebbe non poca parte nel determinare
l’allontanamento dal governo del cancelliere Bismarck.
4.8 LA TERZA REBUBBLICA IN FRANCIA
Nel ’73, con qualche mese di anticipo sulla data fissata, fu ultimato il pagamento dell’indennità di guerra dovuto ai
tedeschi. Alla fine degli anni 70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale, disponeva
di un forte esercito e cominciava a incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali.
Se la ricostruzione economica fu relativamente rapida, assai più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. La
stessa forma repubblicana di governo fu a lungo in forse. Nel 1875 la costituzione della terza repubblica prevedeva che
il potere legislativo fosse esercitato da una camera eletta a suffragio universale maschile e da un senato composto in
parte da membri vitalizi e in parte elettivi. Un elemento di stabilità era costituito dalla figura del Presidente della
Repubblica, capo dell’esecutivo, che veniva eletto dalle camere riunite e godeva di poteri molto estesi.
I repubblicani francesi, nelle elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice fino ad allora
prevalente e ad assicurarsi una solida maggioranza. I repubblicani dell’ala moderata, i cosiddetti opportunisti, facevano
capo a Jules Ferry; i repubblicani più avanzati, o radicali, avevano come leader Georges Clemenceau.
Nel 1879, fu deciso il ritorno del Parlamento a Parigi, fu approvata l’amnistia per i comunardi, il Senato fu reso
completamente elettivo, fu approvata una legge che garantiva la libertà di stampa, una che ampliava le autonomie locali
e una che introduceva il divorzio, l’istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale
mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio.
L’indebolimento dei poteri del presidente della repubblica e l’instaurarsi di una prassi parlamentare ebbero come
conseguenza negativa un altissima instabilità dei governi. Un altro male storico della terza repubblica fu la corruzione
diffusa nelle alte sfere del potere il susseguirsi di scandali politico-finanziari mise spesso a dura prova la solidità delle
istituzioni.
Un segno eloquente di questo disagio si ebbe alla fine degli anni ’80, quando un generale in fama repubblicano,
Georges Boulanger, si mise a capo di un vasto movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario
e antiparlamentare. L’avventura neobonapartista di Boulanger ebbe però breve vita.
4.9 L’INGHILTERRA VITTORIANA
Intorno alla metà del secolo, il Regno Unito era, sotto quasi tutti gli aspetti, la più progredita fra le potenze europee.
Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta mercantile pari alla metà di quella di tutti
gli altri paesi europei messi assieme. Possedeva un impero coloniale vasto e in via di ulteriore espansione. Aveva un
tasso di analfabetismo fra i più bassi del mondo.
Il ventennio 1848-66, caratterizzato dalla presenza ininterrotta dei liberali al governo, segnò un ulteriore
consolidamento del sistema parlamentare. Alla corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di
personificazione dell’identità nazionale. In Gran Bretagna molti poteri spettavano ancora alla camera dei Lords, alla
quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia. Ma anche la camera dei comuni (elettiva) era espressione di
uno strato piuttosto ristretto della popolazione, avevano infatti diritto di voto negli anni ’60 circa il 15% del totale dei
maschi adulti.
La riforma elettorale rappresentò in questo periodo il principale oggetto di dibattito nella vita politica britannica. Il
leader dei liberali William Gladstone presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di
voto, cosa che provocò, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Ma furono
proprio i conservatori, grazie al loro leader Benjamin Disraeli, ad assumere l’iniziativa di una riforma elettorale più
avanzata.
Disraeli mostrava di riconoscere il peso che i lavoratori dell’industria avevano assunto nella società inglese.
In un primo tempo però l’allargamento del suffragio favorì i liberali. Nelle elezioni del 1868 i conservatori furono
sconfitti e Gladstone tornò al potere. Sotto questo governo, che durò fino al 1874, l’Inghilterra conobbe un periodo di
incisive riforme: fu ridimensionato il ruolo della chiesa anglicana nella scuola, fu affermato nell’amministrazione
pubblica il principio del reclutamento tramite concorso pubblico, fu infine abolita la pratica del voto palese.
La stagione delle riforme non fu interrotta dal ritorno al potere dei conservatori nel 1874. disraeli mutò gli indirizzi
della politica estera e la rese più consona al clima bismarckiano. Diede una decisa priorità alla politica coloniale. In
politica interna cerco il consenso delle masse popolari entrando in competizione con i liberali nel campo delle riforme
sociali: furono approvati diversi provvedimenti in materia di assistenza ai lavoratori e le Trade Unions poterono
giovarsi della caduta di numerose restrizioni al diritto di sciopero.
L’esperimento di conservatorismo popolare si concluse nel 1880, quando Disraeli fu sconfitto alle elezioni.
Tornato al potere Gladstone cercò di riqualificare il ruolo del suo partito nel campo delle riforme politiche. Una nuova
legge allargò ancora il corpo elettorale.
Il ministero liberale dovette però dedicare buona parte delle sue energie alla questione irlandese. L’Irlanda infatti vide
aggravare la sua condizione alla fine degli anni ’70, in conseguenza della generale crisi che allora colpì l’intero mondo
agricolo europeo. La reazione del movimento nazionale irlandese si espresse sia in azioni terroristiche, sia in un’intensa
pressione esercitata in parlamento per ottenere che fosse messo all’ordine del giorno il problema dell’autonomia
dell’isola. Gladstone si convinse che l’unica vera soluzione stava nella concessione all’Irlanda di un’ampia autonomia
politica. Quando però, nel 1868, presentò in parlamento il suo progetto di Home Rule (autogoverno), Gladstone dovette
affrontare anche la ribellione di una parte del suo partito. Fra i ribelli c’era anche l’ex sindaco di Birmingham Joseph
Chamberlain che vantava il più solido legame con l’elettorato operaio la secessione degli unionisti fece fallire il
progetto di Home Rule e provocò la caduta del governo Gladstone.
4.10 LA RUSSIA DI ALESSANDRO II
Fra le grandi potenze europee il primato dell’arretratezza spettava alla Russia. Negli anni ’50, più del 90% della
popolazione era impiegata nell’agricoltura e oltre 20 milioni di contadini erano soggetti alla servitù della gleba.
L’organizzazione del lavoro agricolo era fondata sui mir, ossia sulle comunità di villaggio. L’impero zarista era inoltre
l’unico assolutamente privo di istituzioni rappresentative e governato da un gigantesco apparato burocratico-poliziesco,
responsabile dei sui atti solo nei confronti dello Zar.
All’immobilismo delle strutture sociali e politiche faceva singolare riscontro l’eccezionale livello della vita intellettuale.
I membri della nobiltà usavano compiere lunghi viaggi in Europa e si servivano abitualmente del francese come lingua
colta.
Sulla questione dei rapporti con la cultura occidentale, gli intellettuali russi si divisero in due correnti contrapposte. Agli
occidentalisti, che vedevano nell’adozione dei modelli politici e culturali europei il mezzo per risollevare le sorti della
Russia, si opponevano gli slavofili, questi si richiamavano, contro il razionalismo e l’individualismo, alle tradizioni dei
popoli slavi, alla religione ortodossa e alle antiche istituzioni comunitarie.
Gli occidentalisti segnarono un punto a loro favore quando, nel 1855, alla morte di Nicola I, salì al trono imperiale
Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno concedendo un’amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme
che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e
nell’esercito. La riforma più importante fu l’abolizione della servitù della gleba; i servi acquistarono la libertà personale
e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che avevano
coltivato.
In realtà i contadini si videro assegnata meno terra di quella dovuta, e dovettero pagare, per entrarne in possesso, una
somma mediamente superiore all’effettivo valore dei fondi.
Agli entusiasmi che avevano accompagnato l’inizio della riforma subentrò ben presto un clima di delusione.
Si chiuse così la breve stagione liberalizzante di Alessandro II.
Fra le giovani generazioni andarono diffondendosi atteggiamenti di rifiuto totale dell’ordine costituito: rifiuto che
poteva sboccare nell’individualismo anarchico e radicalmente pessimista dei nichilisti o nello sforzo sincero di
accostarsi in modo non paternalistico ai problemi delle classi subalterne. Fu questo il senso della parola d’ordine
“andare al popolo”, donde il nome populisti ( narodniki, da narod, popolo). Il populismo russo riuniva componenti
diverse: dai gruppetti clandestini che si collegavano al filone dell’anarchismo europeo, ai democratici occidentalisti, ai
socialisti.
L’incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l’isolare sempre più
i narodniki.
Nel 1881 Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico.
5 I nuovi mondi: Stati Uniti e Giappone
5.1 SVILUPPO ECONOMICO E FRATTURE SOCIALI NEGLI USA
Intorno alla metà del secolo XIX, gli USA offrivano l’immagine di un paese in crescente espansione. Ma a questa
eccezionale vitalità del’economia e del corpo sociale facevano riscontro profonde fratture interne. Coesistevano infatti
tre diverse società, corrispondenti a diverse zone del paese. C’erano gli stati del nord-est, la zona più progredita, più
ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori centri urbani e dove principalmente si indirizzava l’ondata
migratoria. Un ambiente dunque in perenne trasformazione.
Quella del sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua
organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone. La manodopera che vi lavorava era costituita in gran parte da
schiavi neri.
A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi coltivatori e allevatori di
bestiame che popolavano gli stati dell’ovest; questa restava legata all’etica e ai valori della frontiera: l’iniziativa
individuale, l’indipendenza, l’uguaglianza delle opportunità.
Fu proprio l’ovest a costituire il pomo della discordia e al tempo stesso l’elemento risolutore, nel contrasto che, a partire
dalla metà del secolo oppose il nord industriale e il sud schiavista.
Fino alla metà del secolo, il cotone esercitò un peso decisivo sull’economia dell’intero paese. Quando però, con gli anni
’40 e ’50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi settori, diminuì l’importanza della produzione cotoniera nel
complesso dell’economia americana e si allentò il rapporto di dipendenza reciproca; contemporaneamente si fecero più
strette le relazioni tra il nord-est industriale e l’ovest agricolo.
Su queste premesse si inserì l’acutizzarsi dello scontro sulla schiavitù. Al centro del dibattito stava la possibilità di
introdurla nei nuovi territori acquisiti. L’estensione dell’economia delle piantagioni e dunque della schiavitù ai nuovi
territori era richiesta dai piantatori del sud; ma incontrava forti resistenze nell’opinione pubblica del nord e dell’ovest.
Lo scontro sulla questione della schiavitù fece sentire i suoi effetti anche in campo politico.
Precedentemente la scena politica era stata dominata da due grandi partiti: il partito democratico che si ispirava a ideali
di democrazia rurale, di liberismo economico e di rispetto dell’autonomia dei singoli stati e raccoglieva il consenso sia
dei piccoli e medi agricoltori sia dei grandi piantatori del sud; il partito Whig godeva invece dell’appoggio della
borghesia del nord e si riallacciava alla tradizione del federalismo nell’invocare un rafforzamento del potere centrale. Il
partito Wigh, diviso tra una corrente progressista e una conservatrice si dissolse nel giro di pochi anni. Nacque nel 1854
una nuova formazione politica: il partito repubblicano. Qualificandosi in senso decisamente antischiavista e accogliendo
nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni degli industriali sia quelle dei coloni dell’ovest, il nuovo partito
conquistò un seguito sempre crescente. Finche, nelle elezioni del 1860, riuscì a portare alla presidenza un tipico uomo
dell’ovest: Abraham Lincoln, proveniente da una modesta famiglia di agricoltori del Kentucky.
5.2 LA GUERRA DI SECESSIONE E LE SUE CONSEGUENZE
Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un abolizionista radicale. Ciononostante, la
vittoria repubblicana nelle elezioni del ’60 fu sentita da una parte dell’opinione pubblica del sud come l’inizio di un
processo che avrebbe portato alla vittoria degli interessi degli industriali, al rafforzamento del potere centrale, alla
progressiva emarginazione degli stati schiavisti. Di qui la decisione, presa da 11 stati del sud, di distaccarsi dall’unione
e di costituirsi in una confederazione indipendente.
La secessione non poteva non suscitare la reazione del potere federale; non vi era dunque alternativa alla guerra civile,
che ebbe inizia nell’aprile del ’61 quando le forze confederate attaccarono la piazzaforte di Fort Summer, nella Carolina
del sud, occupata dall’esercito unionista.
I confederati facevano assegnamento sulla migliore qualità delle loro forze armate e speravano in un intervento a loro
favore della Gran Bretagna. Gli stati del nord confidavano nella schiacciante superiorità numerica della loro
popolazione e sul loro maggiore potenziale economico.
Nelle fasi iniziali il miglior addestramento delle forze sudiste e le notevoli capacità del loro comandante, il generale
Robert Lee, diedero ai confederati una netta prevalenza. Ma il fattore numerico ed economico si rivelò decisivo. I primi
successi nordisti si ebbero nel ’63, quando le forze dell’unione comandate dal generale Ulysses Grant, cominciarono
una lenta avanzata lungo il corso del Mississippi.
Il 9 aprile 1865, quando ormai l’esercito unionista occupava buona parte del sud, i confederati si arresero. Pochi giorni
dopo il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un fanatico sudista.
La rivoluzione democratica implicita nell’esito della guerra fu ben lontana dal compiersi interamente. La legge del ’62
sulla distribuzione delle terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra. Gli schiavi acquistarono la libertà
ma la loro condizione economica non migliorò. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non bastarono a colmare
le disuguaglianze sociali, né poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del sud, che
dopo la guerra fu sottoposto a un vero e proprio regime di occupazione militare e fu governato da uomini dell’ala
radicale del partito repubblicano. Fra questi, accanto agli idealisti sinceri, c’erano molti avventurieri del nord in cerca di
fortuna. Il risultato fu una reazione di rigetto, che prima si espresse in forme di lotta clandestina ( fu creata
l’organizzazione paramilitare e razzista del Ku Klux Klan) e che più tardi determinò la riscossa del partito democratico
negli stati del sud.
5.3 NASCITA DI UNA GRANDE POTENZA
Negli ultimi decenni dell’800, chiuso il capitolo della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato slancio la
colonizzazione dei territori dell’ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria (1869, completamento della linea
transcontinentale dall’Atlantico al Pacifico).
Intorno al 1890 la conquista del West poteva considerarsi conclusa. Vittime principali della corsa all’ovest furono le
tribù pellirosse. Contro di essi il governo federale condusse una serie di campagne militari. Gli indiani cercarono di
resistere alla conquista bianca e riuscirono anche a riportare qualche isolato successo ( come quello di Little Big Horn,
nel 1876, quando un corpo di cavalleria comandato dal generale Custer fu sterminato dai Sioux). Ma i pellirosse
decimati dalle guerre furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale nella società americana che
aveva tra i suoi principi costitutivi quello della proprietà individuale, sconosciuto agli indigeni.
Lo sviluppo economico fu reso possibile grazie soprattutto all’esistenza di un mercato interno in continua espansione.
La popolazione statunitense, che nel 1871 ammontava a 31 milioni di persone, passò a 97 nel 1914. per oltre un terzo,
questo aumento fu dovuto al flusso di immigrati provenienti dall’Europa. Tale era il bisogno di manodopera che, nel
1882, il governo federale spalancò le porte all’immigrazione. Gli USA conobbero in questo periodo una rapida crescita
dei grandi centri urbani soprattutto nel nord-est.
Fino agli ultimi anni dell’800, la crescita economica della potenza statunitense non ebbe proiezioni significative al di
fuori delle Americhe. La stessa dottrina Monroe, con la quale nel 1823 gli USA avevano affermato il loro ruolo di
custodi degli equilibri del continente contro ogni ingerenza esterna, fu intesa soprattutto in senso difensivo, tant’è che
non agirono ma attivamente nell’emisfero meridionale.
In una sola occasione gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la minaccia di un reinserimento di una potenza europea
vicino ai propri confini. Fu quando Napoleone III cercò di imporre l’influenza francese sul Messico. Nel 1861, il
presidente messicano Benito Juarez per far fronte a una situazione finanziaria drammatica, aveva sospeso i pagamenti
dei debiti con l’estero. I maggiori stati creditori avevano tutti reagito con un intervento militare. Napoleone volle
profittare dell’occasione per impiantare nel continente americano uno stato satellite. Fu così creato un Impero del
Messico, al cui corona fu offerta a un principe di casa d’Austria, Massimiliano d’Asburgo. Alla proclamazione
dell’impero le forze patriottiche risposero con una violenta guerriglia. Gli stati uniti fornirono ai repubblicani messicani
un solido retroterra oltre a consistenti aiuti in armi e denaro. Nel 1867 Napoleone III richiamò le sue truppe,
rinunciando al sogno dell’ ”Impero latino”.
5.4 LA CINA, IL GIAPPONE E LA PENETRAZIONE OCCIDENTALE
Intorno alla metà del secolo XIX, i due paesi più importanti dell’estremo oriente, Cina e Giappone, si trovarono
entrambi a fronteggiare la pressione delle potenze europee che miravano a imporre la loro presenza commerciale in aree
fino ad allora chiuse alla penetrazione occidentale.
La Cina era già lo stato più popoloso del mondo, la sua organizzazione politica si fondava su un forte potere centrale,
incarnato dall’imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari, i Mandarini. L’impero
cinese era rimasto fino all’inizio del secolo pressochè inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali; non
aveva relazioni diplomatiche con l’esterno. Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina
meridionale. Da tempo ormai la società cinese aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto
fino al ‘500. il ceto burocratico ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il
risultato fu che, al primo traumatico scontro con l’occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.
Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni ’30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a
proposito del commercio dell’oppio che prodotto in grandi quantità nelle piantagioni indiane, veni trasportato
clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito. La Gran Bretagna
fu ritenuta non a torto la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, nel 1839, un funzionario imperiale
fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo britannico decise di intervenire
militarmente. Dopo una guerra di due anni gli inglesi ebbero la partita vinta.
Col trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong e aprire al
commercio straniero altri quattro porti, tra cui Shangai. La prima guerra dell’oppio ebbe il doppio effetto di sconvolgere
gli equilibri sociali su cui si reggeva l’Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze.
Nel decennio ’50-’60 la Cina si trovò ad affrontare un nuovo scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata dalla Francia. Il
conflitto si concluse nel 1860 con un’altra capitolazione cinese, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie
fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli stati occidentali.
Una vicenda analoga fu quella dell’Impero del Giappone. La società giapponese era organizzata secondo uno schema
feudale. L’imperatore, mikado, era un capo religioso. Il governo del paese era nelle mani di una dinastia di feudatari, i
Tokugawa, che si trasmettevano per via ereditaria la carica di shogun, cioè la più alta carica militare e il più alto
dignitario imperiale che teneva legato a sé, con un vincolo di vassallaggio, i grandi feudatari, daimyo. Al di sotto dei
daimyo stavano i samurai, ossia la piccola nobiltà un tempo dedita al mestiere delle armi. Privati di una loro autonoma
funzione sociale dalla lunga pace interna che era seguita all’avvento dei Tokugawa. Mercanti e artigiani costituivano
nella società giapponese un gruppo numericamente debole e politicamente emarginato. Le poche industrie, per lo più
dedite alla produzione di armi e navi da guerra, erano sotto il diretto controllo dello shogun. L’unica attività produttiva
di rilievo era la coltura del riso.
Non esistevano rapporti diplomatici o culturali con l’occidente. Il commercio con l’estero era vietato e solo il porto di
Nagasaki era aperto ai mercanti stranieri. L’isolamento fu rotto dall’iniziativa degli Stati Uniti che, nel 1854, inviarono
una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero formalmente allo shogun il libero accesso nei porti. L’iniziativa
americana trovò il Giappone impreparato e lo shogun fu costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali
che assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione economica.
5.5 LA “RESTAURAZIONE MEIJI” E LA NASCITA DEL GIAPPONE MODERNO
La firma dei trattati ineguali del ’58 suscitò in tutto il paese un’ondata di risentimento nazionalistico che si indirizzo
contro lo shogun. Ad esso fu contrapposta la figura dell’imperatore. I daimyo si resero sempre più indipendenti dal
potere centrale, rafforzarono i loro eserciti privati e giunsero a prendere iniziative autonome contro la presenza straniera
nel paese. Nel gennaio 1868 le forze congiunte dei sei maggiori feudi occuparono la città imperiale di Kyoto,
dichiararono decaduto lo shogun e diedero vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all’autorità
imperiale Mutsuhito ( detto Meiji Tenno, imperatore illuminato). La restaurazione meiji non fu solo un fenomeno di
reazione tradizionalista, né si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell’imperatore. Questo forse era lo
scopo dei grandi feudatari, ma ben più ambizioso erano gli scopi di intellettuali, funzionari e militari provenienti dal
ceto dei samurai. Questa élite dirigente era consapevole dell’inferiorità politica e militare del Giappone ed era dunque
decisa a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi. Nel giro di pochi anni il Giappone compì quella transizione
dal sistema feudale allo stato moderno che nella maggior parte dei paesi europei si era compita in tempi lunghissimi.
Nel 1871 fu proclamata l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, furono aboliti i diritti feudali. Negli anni seguenti fu
introdotto l’obbligo dell’istruzione elementare, fu unificata la moneta e fu organizzato un esercito nazionale basato sulla
coscrizione obbligatoria. Procedeva intanto l’opera di modernizzazione economica: sia nell’agricoltura, sia, e
soprattutto, nell’industria grazie al massiccio investimento di capitali statali e alla rapidissima importazione di
tecnologia straniera. Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture. Nell’ultimo ventennio del secolo il Giappone
vantava un tasso di crescita del prodotto nazionale fra i più alti del mondo, quasi il 5% annuo.
Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria rivoluzione dall’alto, realizzata senza alcuna
partecipazione attiva delle classi inferiori e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia
politica. Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione, spogliandosi spontaneamente sei loro antichi
diritti, senza per questo perdere la loro posizione privilegiata, trasformandosi insomma da oligarchia feudale in
oligarchia finanziaria ed industriale. Il processo di rapida modernizzazione si accompagnò alla conservazione dei
tradizionali valori culturali e religiosi.
L’esperienza giapponese è stata spesso accostata a quella della Germania bismarckiana. Non era mai capitato che uno
stato mutasse così velocemente e radicalmente i suoi tratti politici, economici e sociali senza una rivoluzione dal basso.
6LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
1.1
Da 1870 industrializzazione fino a I guerra mondiale → II rivoluzione industriale: non solo vapore, ma + fonti di
energia, + Paesi, scoperte scientifiche
≠ da I riv industriale (‘700) dove nascita
industria + macchina a vapore, solo
England
Produzione industriale (+ efficiente → catena di montaggio [pag 40 a 43] → - tempo) e non + artigianale (direttamente
da legno a mobile) → Taylorismo Fordismo: teoria della produzione = - tempo.
2 principi:
-operaio non deve cercare i pezzi ma i pezzi vanno da lui
-se operaio fa – operazioni le farà meglio
Problemi di sfruttamento infantile e femminile.
Questa teoria da’ origine a concentrazione di operai:
società di massa
metropoli
igiene
problemi
spazio
adattamento
Iper-produzione industriale causa problemi ad agricoltura e solo Paesi che riescono ad applicare tecnologia ad
agricoltura salvano il settore (Es. Russia solo agricoltura ≠ England dove lo stesso ettaro produce 3 volte di più.
Migliorati i trasporti con i primi treni, navi a vapore (es. grano di England costa – di quello Russo) e si affermano Stati
Uniti (grandi spazi, ma poca manodopera)
Agricoltura intensiva grazie a tecnologie mette in crisi agricoltura
estensiva (latifondi, es.Russi) e provoca spostamento verso città.
Cercano nuove tecnologie x lavorare i campi, concimi chimici, studiare
nuovi metodi di rotazione, bonifica.
Con facilitazione trasporti per macchina a vapore concorrenza insopportabile: fame, disoccupazione, miseria nelle
campagne, tensioni sociali (sbocco? Emigrazione crescente verso l’oltreoceano). Situazione porta al protezionismo
agrario, ma ciò danneggia i consumatori e non blocca il declino economia agraria.
Anche la Germania fa un balzo industriale che ha molte materie prime (produce x 1a volta acciaio) ≠ England perde
predominio mondiale, ma ha ancora “ancora di salvataggio” le colonie.
Trovati anche sistemi di conservazione, refrigerazione, sterilizzazione e questo favorisce distribuzione e diminuire
carestie; nuova vita in città grazie a elettricità; cinema importante x comunicazione.
+ Crisi economica moderna che è crisi di sovrapproduzione
_troppa merce che mercato non riesce ad assorbire
_caduta dei prezzi
fabbriche si fermano
(1873-1896) stallo → GRANDE
Soluzioni/Situazioni:
• “Monopolio” o “Trust” : concentrazione industriale x controllare il mercato (avere in mano tutta la
produzione di un certo prodotto
- “Trust orizzontale”: quando la concentrazione opera nello stesso settore (Rockfeller:
monopolio del petrolio);
- “Trust verticale” quando vengono coinvolte diverse fasi di produzione (Krupp: industria
estrattiva, siderurgica, meccanica)
• “Cartello”: consorzio di imprese dello stesso settore che si accordano sui prezzi e sulla produzione
• “Holdings”: una forma societaria in cui una società capogruppo ne controlla altre mediante
partecipazioni azionarie. Controllare società <i senza acquistarle, ma investendo capitali.
tenere alti i prezzi
Banche e grandi imprese si legano sempre più (banche azioniste in imprese + soldi, dirigenti imprese in commissione
amministrativa banche) = “capitalismo finanziario” (def. da economisti marxisti), centro motore economia.
I governi tentano di difendere la propria economia, aggirare le regole del mercato x salvare l’economia interna:
PROTEZIONISMO:
• posti dei dazi → salvaguardia economia interna
• turba la libera concorrenza
• applicato in USA, Germania (x prod. industriale e x agricoltura)
• usato in tempi di crisi
• aggirato tramite grandi imprese internazionali (es. fabbrica a Milano e New York) o Holdings, Trust e Cartelli
LIBERISMO – LIBERALISMO:
• tutela l’individuo e le sue libertà
• ideologia ottimistica (tutti stan meglio se stato non interviene → no leggi)
• applicato solo da Gran Bretagna (grazie a colonie)
Grazie a scoperte scientifiche (Hertz – onde elettromagnetiche, Marconi – telegrafo, Rntgen – raggi x) nuove scoperte
tecnologiche impiegate nella vita comune (lampadina, ascensore elettrico,motore a scoppio, telefono, bicicletta,
macchina, tram elettrico, macchina da scrivere, etc.). Forte legame scoperte scientifiche – applicazioni pratiche in
industria.
Nuove industrie: chimica, acciaio (vasto uso xke ridotti i prezzi x ottenerlo), elettrica. Ingegneria civile (cemento armato
e grandi edifici(Tour Eiffell e Tower Building di New York). Stretto legame chimica-industria (utilità-stimolo).
Inventato il motore a scoppio (o a combustione interna): combustibile fornisce spinta bruciando ed espandendosi in
spazio. Fratelli Benz→prime macchine(1885).
Petrolio importante ma ostacolato da costi di produzione.
Elettricità: trasformare il movimento di un corpo entro un campo magnetico in corrente elettrica, immagazzinarla e
distribuirla (illuminazione, riscaldamento,...). Lampadina a filamento incandescente di Edison (1879). Centrali termiche
e idroelettriche.
Medicina:
1. pratiche igieniste: prevenzione e contenimento malattie
2. microscopia ottica: Louis Pasteur identificarono i microorganismi come causali di peste, colera e tubercolosi
3. farmacologia: grazie a chimica, usata anestesia, aspirina e Ddt(insetticida) per contro la malaria
4. nuovi ospedali: suddivisione pazienti in reparti specializzati per classi di malattie e rispetto norme igieniche
Boom demografico di Europa e Nord America grazie a: medicina, igiene, sviluppi industria alimentare. Vita media
uomo (30-35 anni prima di riv. industriale) è ora di 50 anni. Caduta della mortalità, ma anche calo della natalità
(metodi contraccetivi). Aumento demografico anche, ma <, in Asia e Africa.
7 Imperialismo e colonialismo
7.1 LA FEBBRE COLONIALE
Negli ultimi decenni del secolo XIX, la tendenza delle potenze europee a costruire imperi coloniali nei territori
d’oltremare conobbe una forte accelerazione. Se questa era rimasta legata soprattutto all’iniziativa dei privati, in
particolare delle grandi compagnie mercantili, la nuova espansione venne assunta sempre più come un obbiettivo di
politica nazionale. La tendenza prevalente divenne quella di imporre un controllo più o meno formale a vastissimi
territori dell’Africa, dell’Asia e del Pacifico che furono colonie (se venivano assoggettati all’amministrazione diretta dei
conquistatori) o protettorati ( se il controllo era esercitato tenendo in vita, formalmente, gli ordinamenti preesistenti). I
territori detenuti dalle potenze europee, nell’una o nell’altra forma, vennero ampiamente ampliati nel giro di pochi
decenni. Alla competizione coloniale si unirono anche stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria
molto recente:così la Germania, il Belgio, l’Italia, il Giappone e gli Stati Uniti( unica assente di rilievo fu l’Austria). Gli
interessi economici giocarono senza dubbio un ruolo notevole. C’era la spinta all’accaparramento di materie prime a
basso costo, la ricerca di sbocchi commerciali; mentre più recente era la spinta proveniente dall’accumulazione di
capitali finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nelle terre d’oltremare. Le motivazioni politicoideologiche ebbero spesso un’importanza pari a quelle economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza
di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Inghilterra, Disraeli si definiva
appartenente ad una “ razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo”; Chamberlain era invece uno
strenuo sostenitore di una Più Grande Bretagna (Greater Britain). La vocazione imperiale si legò a quello di una
missione della civiltà europea ( il “fardello dell’uomo bianco” di cui parlava Kipling). L’interesse dell’opinione
pubblica europea nei confronti delle colonie fu fortemente alimentato dall’eco delle grandi esplorazioni che ebbero per
teatro soprattutto l’Africa (ricchezze nascoste, curiosità scientifico-geografiche, moda dell’esotismo, figure dei grandi
esploratori: il missionario scozzese David Livingstone e il tedesco Karl Peters).
7.2 COLONIZZATORI E COLONIZZATI
Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall’uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni
indigene: terribile quello perpetrato nel 1905 dai tedeschi nell’Africa del sud-ovest ai danni delle tribù bantu degli
herero, che fu quasi completamente distrutta.
Ci furono però anche effetti positivi: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite
infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma
tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo depauperamento di risorse materiali e umane. Nuovi paesi entrarono in un
più vasto mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passero cioè dalla povertà al “sottosviluppo”.
Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afroasiatici non furono meno violente. I sistemi culturali che
erano legati a strutture politco-sociali più organizzate e avevano e avevano alle spalle una più solida tradizione – come
quelli dell’Asia e dell’Africa del nord – si difesero meglio: per un verso, seppero porre una resistenza più consapevole;
per l’altro, finirono per assimilare in qualche modo questo apporto. Ben diverso fu il caso dell’Africa più arcaica,
animista e pagana. Qui l’effetto fu dirompente: interi sistemi di vita, di riti e di credenza, di costumi e di valori,
entrarono rapidamente in crisi. In molti casi ne rimasero appena le tracce.
L’espansione coloniale fini col favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio dei nazionalismi locali,
ad opera soprattutto dei nuovi quadri dirigenti che si formarono nelle università europee.
L’Europa si trovo così ad esportare ciò che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il
proprio destino.
7.3 L’ESPANSIONE IN ASIA
Agli inizi dell’età dell’imperialismo, gli europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. Gli inglesi,
oltre all’India, possedevano Ceylon, Hong Kong e Singapore. Gli olandesi dominavano l’arcipelago indonesiano. I
portoghesi controllavano Macao. La Spagna possedeva le Filippine. La Russia la Siberia e l’Asia centrale. La Francia
aveva gettato negli anni del secondo impero le basi di un vasto dominio nella penisola indocinese.
A dare nuovo impulso alla corsa verso oriente contribuì l’inaugurazione, avvenuta nel 1869, del canale di Suez che
abbreviava di parecchie settimane i collegamenti marittimi tra Europa e Asia. L’espansione ebbe un’ulteriore
accelerazione seguendo tre direttrici principali: il consolidamento della dominazione inglese in India; la penetrazione
della Francia nella penisola indocinese; l’avanzata dell’Impero russo verso l’Asia centrale e l’estremo oriente.
Passata nel ‘700 sotto il controllo britannico, l’India fu a lungo amministrata da una compagnia privata, la Compagnia
delle Indie orientali. A metà dell’ ‘800 il territorio controllato dalla compagnia era vastissimo (India, Pakistan e Bangla
Desh) e offriva ampi sbocchi di mercato per i manufatti inglesi.
La struttura sociali indiana era basata su una rigida divisione in caste. Il potere statale, formalmente ancora
rappresentato dall’antico impero Moghul, era carente o addirittura assente. I colonizzatori inglesi si erano appoggiati
sulle gerarchie sociali preesistenti – i signori locali, i sacerdoti induisti (brahmini) – per assicurare il mantenimento
dell’ordine e la riscossione delle imposte. I loro tentativi di avviare un prudente processo di modernizzazione
provocarono in più di un caso reazioni di stampo tradizionalistico-religioso. La più importante fu la cosiddetta “rivolta
dei Seypos”, originata da un ammutinamento dei reparti indigeni dell’esercito. La rivolta indusse il governo britannico a
riorganizzare la presenza inglese in India. Soppressa nel 1858 la Compagnia delle Indie, il paese passò sotto la diretta
amministrazione della corona, rappresentata da un vicerè. L’esercito e la burocrazia furono ristrutturati: il principio
seguito fu quello di promuovere gli elementi indigeni fedeli alla Gran Bretagna, affiancandoli ad elementi inglesi. Nel
1876, a coronamento di questa riorganizzazione, la regina Vittoria fu nominata imperatrice d’India.
La penisola indocinese, abitata da popolazioni di religione buddista, era divisa in una serie di regni gravitanti nell’orbita
dell’Impero cinese. I più importanti erano quelli dell’Annam (Vietnam), quello del Siam (Thailandia) e quello della
Cambogia. La penetrazione francese si limitò all’inizio a qualche stazione commerciale. Furono le persecuzioni contro i
missionari a fornire alla Francia il pretesto per un intervento militare: nel 1862, i francesi occuparono la parte
meridionale dell’Amman, e l’anno dopo imposero il protettorato alla Cambogia. La seconda fase dell’espansione
francese si aprì all’inizio degli anni ’80. la Francia riuscì a estendere il suo protettorato a tutto l’Amman; la Gran
Bretagna, per evitare che i possedimenti francesi giungessero a ridosso dell’India procedette all’occupazione del Regno
di Birmania. La Francia rispose assicurandosi il controllo del Laos. Quanto al Siam si accordarono per mantenerlo
indipendente, come “Stato cuscinetto”.
Sul fianco nord-occidentale la Gran Bretagna doveva preoccuparsi della Russia.
La colonizzazione della Siberia fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo dell’autorità statale; nei primi 50
anni dell’800 la Siberia vide quasi raddoppiare la sua popolazione e incrementate le attività produttive. Si accentuava
nel frattempo la spinta della Russia a consolidare le proprie posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico. Nel 1860 fu
avviata la costruzione del porto di Vladivostok, sul mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno
rinunciare all’Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il turrito rio fu così venduto nel 1867 agli
USA per 7 milioni di dollari. Nel 1891 fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana, la più lunga del mondo
che, dal 1904, collegò Mosca a Vladivostok. In Asia centrale l’impero zarista riuscì a incamerare l’intera regione del
Turchestan: una zona forte produttrice di cotone, ma pericolosamente vicina alle frontiere dell’impero indiano. Dopo
essersi fronteggiate a lungo tra il Turchestan, l’Afghanistan e il Pakistan, Russia e Inghilterra giunsero ad un accordo: il
regno dell’Afghanistan veniva mantenuto indipendente, ma assegnato alla sfera d’influenza inglese.
Anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli inglese e tedesco. La
Gran Bretagna che già controllava Australia e Nuova Zelanda, occupò le isoli Fiji, la Salomone e le Marianne; la Nuova
Guinea fu divisa fra tedeschi e inglesi.
Intanto nell’area si andavano affacciando il Giappone e gli Stati Uniti. Nel 1894 i giapponesi mossero guerra alla Cina e
la sconfissero per terra e per mare; i cinesi dovettero rinunciare a ogni influenza sulla Corea e cedere al Giappone l’isola
di Formosa. La prospettiva di uno sgretolamento dell’impero provocò per reazione la nascita di un movimento
conservatore, nazionalista e xenofobo che si proponeva la restaurazione integrale delle antiche tradizioni imperiali.
Questo movimento trovò il suo braccio armato in una società segreta a carattere paramilitare, nota in occidente come
movimento di Boxers. Nel 1900 in seguito ad una serie di violenza compiute dai Boxers, le grandi potenze – compresi
gli USA e il Giappone – si accordarono per un intervento militare congiunto. In due settimane la rivolta fu sedata e
Pechino venne occupata dalle forze alleate.
7.4 LE ORIGINI DELL’IMPERIALISMO AMERICANO
Nati essi stessi da una rivoluzione anticoloniale, gli Stati Uniti d’America potevano solamente praticare una sorta di
“imperialismo informale” fondato essenzialmente sull’esportazione di merci e di capitali. Verso la fine del secolo si
sviluppò un movimenti d’opinione, ispirato al saggio di John Fiske “Manifest Destiny”, che sosteneva il diritto degli
USA di esportare in tutto il mondo i propri principi e la propria organizzazione sociale. L’espansionismo statunitense si
esercitò in due direzioni. La prima, verso il Pacifico. La seconda, verso l’America latina.
La prima importante manifestazione della nuova politica di potenza degli USA si ebbe con l’intervento a Cuba dove, nel
1895, era in atto una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi attuarono una dura repressione che suscitò
notevoli preoccupazione per le sorti dei cospicui interessi che gli USA avevano nelle piantagioni di canna da zucchero
sull’isola. L’affondamento, nel 1898, di una corazzata americana nel porto dell’Avana, portò così alla guerra con la
Spagna, che fu rapidamente sconfitta.
Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia alla tutela degli americani. La Spagna fu inoltre costretta
a cedere Portorico e l’intero arcipelago delle Filippine. Sempre nel ’98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata
dall’annessione delle Hawai.
7.5 LA SPARTIZIONE DELL’AFRICA
Del continente africano, nel 1870, i paesi europei possedevano appena un decimo: i francesi l’Algeria e il Senegal; i
portoghesi l’Angola e il Mozambico; gli inglesi la colonia del Capo. Quando gli europei procedettero alla conquista
dell’Africa, ben poco restava delle antiche civiltà locali. La regione sahariana e quella della costa nord-occidentale
erano controllate da una serie di potentati locali e di regni musulmani in declino, dove però la dispersione tribale era
compensata da un forte elemento coesivo, la religione islamica. Compattamente cristiano era invece il grande impero
etiopico.
Gli elementi di coesione politica o religiosa erano invece del tutto assenti nell’Africa centrale e meridionale. Quelle che
restavano erano società tribali fortemente disaggregate.
I primi atti della nuova espansione furono l’occupazione francese della Tunisia, nel 1881, e quella inglese dell’Egitto,
nel 1882. in entrambi i paesi le potenze europee avevano consistenti interessi economici e strategici. La Tunisia
rientrava nella sfera di influenza rivendicata dalla Francia, ma subiva anche l’ipoteca di consistenti interessi italiani.
Negli anni ’70 sia l’Egitto che la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione, che avevano
finito però col dissestare le finanze dei due paesi. Per tutelarsi contro il rischio della bancarotta, Inghilterra e Francia,
principali creditori, scelsero la strada dell’intervento militare. La Francia avendo avuto mano libera dalle altre potenze
nel congresso di Berlino del ’78, trasse pretesto da un incidente per inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al
bey un regime di protettorato.
In Egitto invece, la nascita di un forte movimento nazionalista, guidato dal colonnello Arabi Pascià, parve mettere in
pericolo anche il controllo internazionale del canale di Suez. Nel 1882, in seguito allo scoppio di moti antieuropei ad
Alessandria, il governo inglese inviò in Egitto un corpo di spedizione che sconfisse le truppe guidate da Arabi Pascià e
assunse il controllo del paese. Dall’Egitto, gli inglesi si trovarono ben presto impegnati nel vicino Sudan, un vastissimo
territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed,
una straordinaria figura carismatica di integralista islamico. Appoggiato dalla setta religiosa dei dervisci, il Mahdi
lanciò le tribù sudanesi in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane, sconfiggendole a più riprese, e fondando nel
1885 un proprio stato che gli inglesi riuscirono a rovesciare solo nel 1898. l’azione unilaterale degli inglesi in Egitto
determinò il risentimento della Francia.
Altri contrasti si delinearono nel bacino del Congo, dove re Leopoldo II del Belgio si era costruito una sorta di impero
personale. Il sovrano belga cerco di consolidare il suo dominio con uno sbocco sull’Atlantico, ma suscitò l’opposizione
del Portogallo.
La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale che si tenne a Berlino per iniziativa di Bismarck nel
1884-85. la conferenza, prima di dare una prima sanzione alla spartizione dell’Africa, codificò le norme che avrebbero
dovuto regolarla anche nell’avvenire. Il principio adottato fu quello dell’effettiva occupazione come unico titolo
legittimante il possesso di un territorio. La conferenza riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sull’immenso
territorio del Congo e gli assegno anche un piccolo sbocco sull’Atlantico. In Africa occidentale, la Germania si vide
riconosciuto il protettorato sul Togo e il Camerun. L’Inghilterra ebbe il controllo del basso Niger, mentre la Francia si
assicurò l’alto corso del fiume. Da questa regione, in dieci anni di sanguinose guerre con gli stati musulmani del Sahara,
i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in gran parte desertici. La Gran Bretagna
concentrò invece le sue mire sull’Africa sud-orientale, importante per il controllo dell’Oceano Indiano. La tendenza era
quella di saldare i possedimenti a sud dell’equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi il controllo
ininterrotto “dal Capo al Cairo”.
Questo disegno però si scontrava con la presenza della Germania che si era assicurata il controllo del Tanganika. Nel
1890, l’Inghilterra riconobbe l’Africa orientale tedesca, rinunciando all’ambizioso progetto, ricevendo in compenso
l’isola di Zanzibar, nodo importantissimo delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano.
All’inizio del ‘900, oltre alla piccola repubblica di Liberia, restavano indipendenti solo l’Impero etiopico e, ancora non
per molto, la Libia e il Marocco.
7.6 IL SUDAFRICA E LA GUERRA ANGLO-BOERA
Gli avvenimenti dell’Africa australe costituirono un esempio di impulso espansionistico proveniente dalla stessa realtà
coloniale, la colonia inglese del Capo. L’imperialismo europeo, in questo caso, si scontrò con un nazionalismo locale
anch’esso di origine europea, quello boero.
Discendenti dagli agricoltori olandesi che nel XVII secolo avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza,
i boeri erano caduto sotto la sovranità britannica quando questà aveva ottenuto la colonia, al tempo delle guerre
napoleoniche. Molti dei boeri, allora, avevano dato vita ad un esodo verso nord, dove avevano fondato due repubbliche
l’Orange e il Transvaal. Ma la scoperta di importanti giacimenti di diamanti nel Transvaal risvegliò l’interesse della
Gran Bretagna, che lasciò mano libera alla politica aggressiva della classe dirigente inglese della colonia del Capo.
Promotore di questa politica aggressiva fu Cecil Rhodes, presidente della British South Africa Company, e poi primo
ministro della Colonia del Capo; fu sua l’idea del dominio “dal Capo al Cairo”.
Un’ulteriore scoperta di giacimenti auriferi nell’Orange attirò nelle due repubbliche boere un gran numero di immigrati
di origine inglese. In questo afflusso di forestieri (uitlanders) i boeri videro il pericolo di una “ricolonizzazione”. Gli
Uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes non perse occasione per appoggiarne la protesta. La tensione
crebbe, finché ,nel 1899, non fu il presidente del Transvaal, Paul Kruger, a dichiarare guerra all’Inghilterra. I boeri
combatterono con grande tenacia, suscitando simpatie nell’opinione pubblica europea, soprattutto tedesca. Anche dopo
la sconfitta, che nel 1902 fu seguita dall’annessione del Transvaal e dell’Orange all’Impero britannico, i boeri
condussero un’accanita lotta di resistenza. In seguito l’Orange e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a
quello della colonia del Capo, alla quale vennero uniti nel 1910, dando vita all’Unione Sudafricana.
8 Stato e società nell’Italia unita
8.2 LA CLASSE DIRIGENTE: DESTRA E SINISTRA
Poche settimane dopo la proclamazione dell’unità, moriva Cavour; i suoi successori si attennero sostanzialmente alla
politica da lui già impostata nelle grandi linee. Nei primi parlamenti dell’Italia unità, la maggioranza si collocava a
destra. In realtà però, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra si era
infatti autoesclusa dalle istituzioni del nuovo Stato. Un fenomeno analogo si verificò sull’altro versante. I mazziniani di
stretta osservanza e i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare alla vita politica ufficiale.
La Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, che era formata essenzialmente dai gruppi piccolo
e medio borghesi delle città e anche da gruppi di operai e artigiani del nord (esclusi dall’elettorato). La sinistra fece
proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: il suffragio universale e il completamento dell’unità.
Non bisogna dimenticare che destra e sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta. La
legge elettorale piemontese, estesa a tutto il regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero
compiuto i 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno. Nelle prime elezioni
dell’Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano meno del 2% della popolazione totale. Nell’assenza di partiti
organizzati nel senso moderno del termine, la lotta politica si imperniava su singole personalità più che su programmi
definiti ed era pesantemente condizionata dalle ingerenze del potere esecutivo.
Questi caratteri della vita politica ebbero l’effetto di accentuare l’isolamento della classe dirigente, ad ogni modo, gli
uomini della Destra storica si distinsero per onestà e rigore.
8.3 LO STATO ACCENTRATO, IL MEZZOGIORNO E IL BRIGANTAGGIO
I leader della destra, ammiratori dell’esempio britannico, erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema
decentrato. Nei fatti però, prevalsero le esigenze pratiche immediate, che spingevano i governanti a stabilire un
controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e dunque a orientarsi verso un modello di stato accentrato.
Decisiva a questo proposito era stata, fra il ’59 e il ’60, l’opera svolta dal ministero LaMarmora: la legge Casati
sull’istruzione creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio dell’istruzione elementare obbligatoria; la
legge Rattizzi sull’ordinamento comunale e provinciale affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio
ristretto e a un sindaco di nomina regia.
Fra i motivi che spinsero ad accantonare ogni progetto di decentramento, il principale fu costituito dalla situazione nel
Mezzogiorno. Nelle province meridionali, il malessere antico si sommò a diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico.
Man mano che la realtà del nuovo stato si venne manifestando con i suoi tratti più spiacevoli (la pesante fiscalità e il
servizio di leva obbligatoria), i disordini si fecero estesi e frequenti. Fin dall’estate del ’61, tutte le regioni del
Mezzogiorno continentale erano percorse da bande di irregolari formate da briganti, contadini insorti ed ex militari
borbonici. Le bande assalivano i piccoli centri incendiando gli archivi comunali, quindi si ritiravano sulle montagne. A
questo attacco i governi postunitari reagirono con spietata energia. Nel ’63, il parlamento approvò una legge che
istituiva, nelle province dichiarate in “stato di brigantaggio”, un vero e proprio regime di guerra. Già nel 1865 le bande
più importanti erano state sgominate.
Rimasero però irrisolti i nodi politici e sociali. Mancò ai governi della destra la capacità o la volontà di attuare una
politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento legate alla mancata realizzazione delle secolari
aspirazioni contadine alla proprietà della terra.
In generale le principali scelte di politica economica messe in atto dai governi di destra si rivelarono tutt’altro che
vantaggiose per l’economia del Mezzogiorno.
8.4 LA POLITICA ECONOMICA: I COSTI DELL’UNIFICAZIONE
I governi della destra storica dovettero affrontare il problema dell’unificazione economica del paese. Si trattava di
uniformare sistemi monetari e fiscali diversi, di rimuovere le barriere doganali, di costruire un’efficiente rete di
comunicazioni stradali e ferroviarie, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale. La classe
dirigente moderata si mosse con grande decisione sulla strada indicata da Cavour. La legislazione doganale vigente nel
Regno sardo – ispirata a principi liberisti – fu estesa ai territori dei vecchi stati. Rapido fu lo sviluppo delle vie di
comunicazione, in particolare la rete ferroviaria. Dall’intensificazione degli scambi trassero giovamento le produzioni
agricole più specificamente rivolte all’esportazione, in particolare le colture specializzate in alcune zone del
Mezzogiorno. Nessun vantaggio immediato venne invece al settore dell’industria. Gli effetti negativi della scelta
liberista furono sentiti soprattutto dai pochi nuclei industriali del Mezzogiorno cancellati dalla brusca caduta dei dazi
protettivi.
Dopo un ventennio di vita unitaria, l’Italia era senza dubbio una nazione più unita, più avanzata politicamente e
civilmente rispetto a quella del 1861. ma non era un paese molto più ricco e, sotto il profilo dello sviluppo industriale,
aveva addirittura perso terreno. Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale dettata dalla
necessità di coprire i costi dell’unificazione. La pressione tributaria si esercitò attraverso sia imposte dirette che
indirette. Dopo il ’66, in conseguenza di una crisi internazionale e delle spese sostenute per la guerra contro l’Austria,
per rinsanguare le casse dello stato, i governi inasprirono soprattutto le imposte indirette già esistenti fino all’estate ’68
in cui ne crearono addirittura una nuova: quella sulla macinazione dei cereali, la tassa sul macinato. Si trattava di una
tassa sul consumo popolare per eccellenza. L’introduzione di questa tassa accrebbe l’impopolarità della classe dirigente
e provocò, all’inizio del 1869, le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell’Italia unita.
La politica di duro fiscalismo e di inflessibile rigore finanziario – legata al nome di Quintino Sella, ministro delle
finanze del gabinetto Lanza – ottenne alla fine l’effetto sperato, raggiungere, nel 1875, l’obiettivo pareggio.
8.5 IL COMPLETAMENTO DELL’UNITA’
Fra i molti compiti della destra storica c’era anche quello di completare l’unità, di riunire cioè alla madrepatria il
Veneto, il Trentino e il Lazio. Sulla necessità di portare a compimento l’unità del paese erano d’accordo tutti; la
rivendicazione di Roma capitale era stata solennemente proclamata dallo stesso Cavour. Ma mentre i leader della destra
si affidavano ai tempi lunghi della diplomazia, la sinistra restava fedele all’idea di guerra popolare. In realtà era proprio
la presenza del Papa a Roma a costituire il problema più spinoso, per via dei rapporti con la Francia che manteneva il
suo corpo d’occupazione a Roma e costituiva per l’Italia l’alleato più sicuro e il principale partner economico.
In Italia i cattolici costituivano la stragrande maggioranza della popolazione e il clero rappresentava in molte zone rurali
l’unica presenza organizzata e l’unico punto di riferimento culturale. I primi governi dell’Italia unita, sulla strada
indicata da Cavour, sostenevano la formula “libera chiesa in libero stato” e avevano avviato trattative informali col
Vaticano. Le proposte si scontrarono però contro l’intransigenza di Pio IX. Il fallimento di questi tentativi finì col ridare
spazio all’iniziativa dei democratici.
Nel giugno 1862, Garibaldi rilanciò pubblicamente il progetto di una spedizione contro lo stato pontificio. Ma il
disegno, coltivato anche dal re e dall’allora primo ministro Rattizzi, si rivelò impraticabile. Quando Napoleone III fece
capire di essere deciso a impedire con la forza un attacco contro Roma, Vittorio Emanuele II fu costretto a sconfessare
con un proclama l’impresa garibaldina. Così, quando nell’agosto del ’62, 2000 volontari sbarcarono in Calabria sotto il
comando di Garibaldi furono fatti intercettare sulle montagne dell’Aspromonte da reparti dell’esercito regolare. Vi fu
un breve scambio di colpi, lo stesso Garibaldi, ferito leggermente, fu arrestato.
Preoccupati di ristabilire buoni rapporti con la Francia, i governanti italiani conclusero, nel settembre del ’64, un
accordo – la cosiddetta “convenzione di settembre” – in base al quale si impegnavano a garantire il rispetto dei confini
dello stato pontificio, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno il
governo decideva di trasferire la capitale da Torino a Firenze.
Nel ’66, arrivò una proposta di alleanza militare italo-prussiana rivolta al governo italiano da Bismarck, che si
apprestava allora ad affrontare la guerra con l’impero asburgico. La partecipazione italiana fu decisiva in quanto
impegnò una parte dell’esercito austriaco sul fronte sud. Ma per le forze armate nazionali chiamate alla loro prima
prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso. Frattanto la Prussia, avendo raggiunto i suoi
obiettivi, aveva avviato le trattative per l’armistizio. Dalla successiva pace di Vienna del 3 ottobre ’66, l’Italia ottenne
solo il Veneto, senza la Venezia Giulia e il Trentino.
La situazione deludente diede slancio ancora una volta all’attività dei gruppi democratici d’opposizione. Garibaldi
ricominciò a progettare una spedizione a Roma. L’azione dei volontari avrebbe dovuto appoggiarsi su un’insurrezione
preparata dagli stessi patrioti romani. A ottobre del ’67, quando le prime colonne di volontari penetravano in territorio
pontificio, il governo francese inviò un corpo di spedizione nel Lazio. L’impresa era già praticamente fallita, le truppe
francesi da poco sbarcate a Civitavecchia attaccarono presso Mentana il grosso delle forze garibaldine e le sconfissero
dopo u duro combattimento.
Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti
sottoscritti con l’imperatore, decise di mandare un corpo di spedizione nel Lazio e di avviare contemporaneamente un
negoziato col Papa per giungere a una soluzione. Pio IX rifiutò ogni accordo. Le truppe italiane, dopo aver aperto una
breccia nella cinta muraria, entravano nella città presso Porta Pia. Pochi giorni dopo un plebiscito sanzionava a
schiacciante maggioranza l’annessione di Roma e del Lazio al regno d’Italia.
Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma fu effettuato dopo che lo stato Italiano ebbe regolato con una legge i
rapporti con la Santa Sede. La legge fu detta “ delle guarentigie”, cioè delle garanzie, in quanto con essa lo stato italiano
si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero
spirituale.
Per tutta risposta, l’invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello stato, già rivolto dal clero ai
cittadini italiani all’indomani dell’unità, si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto pronunciato dalla Curia romana e
riassunto nella forma del “non expedit” (“non è opportuno” che i cattolici partecipino alle elezioni politiche).
8.6 LA SINISTRA AL POTERE
Nella prima metà degli anni ’70 si accentuarono le fratture interne alla destra, mentre accanto alla vecchia sinistra
piemontese guidata da Agostino DePretis, e alla cosiddetta sinistra storica degli ex garibaldini Crispi e Zanardelli,
veniva emergendo una sinistra giovane, espressione di una borghesia moderata (soprattutto meridionale), poco sensibile
alla tradizione democratico-risorgimentale.
Nel marzo del 1876 la destra si presentò divisa nella discussione alla Camera di un progetto governativo per il
passaggio alla gestione statale delle ferrovie. Il governo Minghetti, messo in minoranza, rassegnò le dimissioni. Pochi
giorni dopo il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino DePretis. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del
tutto nuovo a esperienze di governo.
DePretis fu capo del governo per oltre 10 anni. Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, riuscì a
contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici che coesistevano all’interno della
nuova maggioranza.
Si allontanava l’età delle lotte risorgimentali mentre scomparivano gli ultimi protagonisti di quella stagione: Mazzini
nel 1872, Vittorio Emanuele II e Pio IX nel 1878, Garibaldi nel 1882.
La nuova classe dirigente riuscì ad esprimere in qualche modo il desiderio di democratizzazione della vita politica
diffuso in larga parte della società; seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita meglio di quanto non
seppe fare la destra.
Il programma della sinistra era basato su pochi punti fondamentali: allargamento del suffragio elettorale; riforma
dell’istruzione elementare; sgravi fiscali nel settore delle imposte indirette.
La prima riforma attuata fu quella dell’istruzione elementare: nel 1877 la legge Coppino ribadiva l’obbligo della
frequenza scolastica portandolo fino a 9 anni e aggiungendo delle sanzioni per i genitori inadempienti. Fino alla fine del
secolo, la percentuale degli analfabeti si mantenne elevata, pur diminuendo costantemente.
Legato al problema dell’istruzione era quello dell’ampliamento del suffragio. La nuova legge fu approvata nel 1882 e
concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto i 21 anni e avessero superato l’esame finale del
corso elementare obbligatorio. Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell’istruzione, e
contemporaneamente abbassato di circa la metà. Il corpo elettorale risultava ora circa il 7% della popolazione, era
quindi più che triplicato. Le prime elezioni a suffragio allargato videro l’ingresso alla Camera del primo deputato
socialista.
Furono le preoccupazioni suscitate dall’allargamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento
dell’estrema sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate che nacque da un accordo elettorale
fra DePretis e il leader della destra Minghetti e che prese il nome di “trasformismo”. A un modello “bipartitico” di
stampo inglese se ne sostituiva un altro basato su un grande centro che tendeva a inglobare le opposizioni moderate e a
emarginare le ali estreme. La maggioranza veniva costruita giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti:
il che provocava un sostanziale immobilismo dell’azione di governo.
La svolta moderata di DePretis ebbe come conseguenza il distacco dei gruppi che continuavano a battersi per il
suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca e per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale;
questo gruppo, con termine mutuato dalla Francia della terza repubblica, fu chiamato radicale.
8.7 CRISI AGRARIA E SVILUPPO INDUSTRIALE
Sotto i governi della sinistra, la famigerata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotto fino al 1884 quando fu del
tutto abolita. Fu contemporaneamente accresciuta la spesa pubblica per coprire le aumentate spese militari. Questa
politica, se da un lato, favorì l’avvio di un processo di industrializzazione, dall’altro provocò, fin dall’inizio degli anni
’80, la ricomparsa di un forte e crescente deficit nel bilancio statale.
Gli sviluppi registrati dall’agricoltura italiana nel ventennio ’60 - ’80 erano stati più quantitativi che qualitativi. Se
miglioramenti vi erano stati, questi avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già relativamente progrediti: le
terre irrigue della pianura lombarda e le colture specializzate del Mezzogiorno. In tutt’Italia però la situazione
dell’agricoltura non era molto cambiata.
A partire dal 1881, l’Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi agraria. La crisi si manifestò in un brusco
abbassamento dei prezzi che colpì in primo luogo i cereali e poi tutto l’insieme della produzione agricola, ad eccezione
delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza dei prodotti d’oltreoceano. Gli effetti sociali della crisi
agraria furono: l’aumento della conflittualità nelle campagne; il rapido incremento dei flussi migratori verso i centri
urbani e verso l’estero. Fra il 1881 e il 1901, abbandonarono definitivamente l’Italia 2 milioni di persone.
Gli esponenti della sinistra erano come i loro predecessori della destra, decisamente avversi all’intervento dello stato
nell’economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall’andamento tutt’altro che brillante dell’economia
nazionale e dall’esempio che veniva dalla Germania.
Un primo mutamento di rotta si ebbe nel 1878, con l’approvazione di una serie di dazi doganali. Si giunse nel 1887 al
varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell’industria
nazionale, colpendo le merci di importazione con pesanti dazi d’entrata.
La scelta protezionistica non aveva alternative nell’Europa di fine ‘800. E’ certo tuttavia che almeno nell’immediato, la
tariffa dell’87 produsse una serie di conseguenze negative. I dazi infatti non proteggevano in modo uniforme i diversi
comparti produttivi. Inoltre l’agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture
specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di
sbocco. La tariffa dell’87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in una vera e propria
guerra doganale, con la Francia, il maggior acquirente dei prodotti agricoli del sud.
8.8 LA POLITICA ESTERA: LA TRIPLICE ALLEANZA E L’ESPANSIONE COLONIALE
Anche per la politica estera italiana gli anni della sinistra segnarono una svolta decisiva, che si compì nel 1882 quando
il governo DePretis stipulò con la Germania e l’Austria il trattato della Triplice alleanza, voluta soprattutto dal re e dagli
ambienti militari.
Il movente decisivo era di natura internazionale e stava nel desiderio, avvertito in quasi tutti i settori dello schieramento
politico, di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un’epoca dominata dalla
logica di potenza.
Durante il congresso di Berlino del 1878 l’Italia era rimasta a mani vuote, senza riuscire ad opporsi all’espansione
austriaca nei Balcani. Un trauma ancora più grave era stato rappresentato, nel 1881, dall’affare tunisino. L’Italia
considerava la Tunisia – per la presenza di una forte comunità di immigrati siciliani – come il naturale sbocco di una
sua azione coloniale. Ma non aveva potuto far nulla per opporsi quando a muoversi era stata la Francia.
La Triplice era un’alleanza di carattere difensivo, che impegnava a garantirsi reciproca assistenza in caso di
aggressione. L’Italia veniva coinvolta nel sistema di alleanza bismarckiano, ricevendone in cambio la garanzia contro
un’improbabile aggressione francese, ma senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato.
La situazione dell’Italia migliorò nel 1887, quando, in occasione del rinnovo della Triplice, furono inserite nel trattato
due nuove clausole. La prima stabiliva che eventuali modifiche territoriali nei Balcani sarebbero avvenute di comune
accordo tra Italia e Austria e che ogni vantaggio di una delle due potenze sarebbe stato bilanciato da adeguati compensi
per l’altra. Con la seconda, la Germania si impegnava a intervenire a fianco dell’Italia in caso di un conflitto provocato
dalla Francia in Marocco e in Tripolitania.
Contemporaneamente, il governo DePretis aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in
una zona dell’Africa orientale. Il punto di partenza fu costituito dall’acquisto, nel 1882, della baia di Assab, sulla costa
meridionale del Mar Rosso. All’acquisto fece seguito, nel 1885, l’invio di un corpo di spedizione che procedette
all’occupazione di una striscia di terra fra la baia di Assab e la città di Massaia. La zona, confinava con l’impero
etipoco, il più forte e il più vasto fra gli stati africani. In un primo tempo, gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti
con l’Etiopia. Ma , quando tentarono di allargare il loro controllo territoriale verso l’interno, dovettero scontrarsi con la
reazione del negus (imperatore) Giovanni IV e dei ras(signori) locali. Nel gennaio 1887, una colonna di 500 militari
italiani fu sorpresa dalle truppe abissine e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia suscitò un’ondata di proteste,
prevalse però l’esigenza di tutelare il prestigio nazionale; e la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per
l’invio di rinforzi.
8.9 MOVIMENTO OPERAIO E ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE
La crescita di un movimento operaio organizzato fu rallentata, in Italia, dal ritardo nello sviluppo industriale e nella
conseguente assenza di un proletariato di fabbrica moderno e numericamente consistente. Fino all’inizio degli anni ’70,
l’unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo
soccorso, associazioni concepite come strumenti di educazione più che come organismi di lotta e avevano
essenzialmente scopi di solidarietà. Nel 1881, Andrea Costa fondò il Partito rivoluzionario di Romagna, che avrebbe
dovuto essere il primo nucleo di un Partito rivoluzionario italiano. Nell’82, alcune associazioni operaie milanesi
decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano. Fra l’87 e il ’93
sorsero le prime federazioni di mestiere a carattere nazionale; furono fondate le prime Camere del lavoro (
organizzazioni sindacali a base locale). Le opere di Marx erano poco conosciute e l’unico autentico e originale teorico
marxista che allora operasse in Italia era il filosofo napoletano Antonio Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma
fu invece un intellettuale milanese di formazione positivistica, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende
che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Decisivo per la sua formazione fu l’incontro con Anna
Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del
mondo socialista europeo. Nell’agosto 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe
contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò una frattura tra una maggioranza favorevole
all’immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici. Vista l’impossibilità di
trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in
altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani. L’anno seguente il nuovo partito avrebbe modificato il
suo nome in Partito socialista dei lavoratori italiani, per poi assumere, nel 1895, quello definitivo di Partito socialista
italiano.
I cattolici non organizzavano scioperi o insurrezioni, ma costituivano ugualmente una forza eversiva nei confronti delle
istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente
radicata nel tessuto sociale. Il divieto papale di partecipare alle elezioni, formulato con il non expedit del 1874, non si
applicava alle elezioni amministrative. Proprio nel 1874 un gruppo di esponenti cattolici italiani decise di dar vita a
un’organizzazione nazionale chiamata Opera dei congressi; essa ebbe il compito di convocare periodicamente congressi
delle associazioni cattoliche operanti in Italia e covava ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del
socialismo. Sorsero così società di muto soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero.
8.10 LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA DI FRANCESCO CRISPI
Quando nel 1887 morì DePretis, parve naturale che a succedergli fosse il suo ministro degli interni, il siciliano
Francesco Crispi. Egli poteva contare, in virtù del suo passato di mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra,
ma anche sulla fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle promesse di un governo di stampo bismarckiano. Per quasi
4 anni, tenendo la Presidenza del consiglio e i ministeri dell’Interno e degli Esteri, Crispi impresse una decisa svolta
all’azione di governo.
Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che allargava il diritto di voto per le elezioni amministrative e
rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti. Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale, noto come
codice Zanardelli, che aboliva la pena di morte e non negava il diritto di sciopero. Questo riconoscimento era però
contraddetto dalla nuova legge di pubblica sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia
ampi poteri discrezionali.
In politica estera, lo statista siciliano puntò fin dall’inizio sul rafforzamento della triplice e, all’interno di essa, sul
consolidamento dei rapporti con l’impero tedesco. Conseguenza di questa politica fu un ulteriore inasprimento dei
rapporti della Francia, che ebbe la sua manifestazione più clamorosa nella guerra doganale. Alla fine dell’87 fu inviato a
Massaia un nuovo corpo di spedizione. I possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati mentre venivano poste le
basi per una nuova iniziativa di espansione sulle coste della Somalia.
La politica coloniale di Crispi risultava però troppo costosa per il bilancio dello stato in un momento di grave crisi
economica. Messo in minoranza, Crispi si dimise all’inizio del 1891. nel maggio 1892, dopo una parentesi di governo
affidata al marchese Antonio di Rudinì, la presidenza del consiglio passo al piemontese Giovanni Giolitti.
8.11 GIOLITTI, I FASCI SICILIANI E LA BANCA ROMANA
Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giovanni Giolitti aveva 50 anni quando assunse per la prima
volta la guida del governo. In politica finanziaria mirava ad una più equa ripartizione del carico fiscale, secondo il
principio della progressività delle imposte. Anche politica interna aveva idee piuttosto avanzate: nel periodo in cui fu
capo del governo e ministro degli interni si astenne infatti da misure preventive nei confronti del movimento operaio e
delle organizzazioni popolari.
Giolitti non venne meno a questa linea quando, fra il ’92 e il ’93, si sviluppò in Sicilia un vasto movimento di protesta
sociale che sfociò nella formazione di una fitta rete di associazioni popolari. Lo sviluppo dei fasci siciliani suscitò forti
preoccupazioni nella classe dirigente locale e fra i conservatori di tutta Italia, che intensificarono le loro pressioni su
Giolitti perché adottasse nell’isola misure eccezionali.
La caduta di Giolitti fu dovuta tuttavia alle conseguenze di un grave scandalo politico-finanziario, quello della Banca
Romana. Questa avendo impegnato somme cospicue nell’edilizia, negli anni in cui la capitale era stata attraversata da
una vera e propria febbre speculativa, si era poi trovata in serio imbarazzo quando alla fine degli anni ’80, la crisi
economica aveva colpito il settore delle costruzioni facendo fallire molte delle imprese debitrici. Accusato di aver
coperto le irregolarità della banca in quanto ministro del tesoro nel governo Crispi, Giolitti fu costretto a dimettersi nel
dicembre 1893. le accuse non erano prive di fondamento, ma furono manovrate dei gruppi conservatori e dallo stesso
Crispi, altrettanto se non più colpevole, per sbarazzarsi di un presidente del consiglio troppo debole.
8.12 IL RITORNO DI CRISPI E LA SCONFITTA DI ADUA
Tornato al governo nel dicembre 1893, Crispi affrontò con l’abituale risolutezza una situazione preoccupante sotto tutti
i punti di vista.
Avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali. Nel 1894 proclamò lo stato
d’assedio in Sicilia e in Lunigiana, dove si erano verificati dei tentativi di insurrezione anarchica. Fece approvare in
parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione. Le leggi furono
definite antianarchiche, ma avevano come obbiettivo principale il partito socialista, che fu dichiarato fuori legge.
Le persecuzioni non riuscirono però a distruggere la già solida rete organizzativa su cui si reggeva il partito e ne
accrebbe le simpatie negli ambienti intellettuali. La nuova situazione spinse i dirigenti socialisti a riannodare i contatti
quella democrazia borghese impersonata dai radicali e dai repubblicani. Questa scelta fu premiata nelle elezioni
politiche del 1895, dove i socialisti riuscirono a fare eleggere 12 candidati. Questo successo aumento le difficoltà di
Crispi.
Ma il colpo definitivo venne dal fallimento del suo tentativo di conciliare la politica di austerità finanziaria col
mantenimento di un alto livello di spese militari e con una ripresa di iniziativa in campo coloniale.
Crispi aveva intavolato col nuovo negus Menelik trattative che portarono, 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma il
trattato redatto in due versioni conteneva notevoli ambiguità: mentre gli italiani vi lessero un riconoscimento del loro
protettorato sull’Etiopia, Menelik lo interpretò come un normale patto di amicizia e collaborazione. Quando l’equivoco
venne alla luce i rapporti italo-etiopici si deteriorarono. Nel 1895, gli italiani ripresero la loro penetrazione in Eritrea,
sollecitati in tal senso da Crispi, decisero di attaccare il grosso dell’esercitò etiopico. L’azione si risolse in un disastro: il
primo marzo 1896, nella conca di Adua, un esercitò di circa 16.000 uomini fu praticamente distrutto dalle soverchianti
forze abissine.
La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia. Il governo era costretto a dimettersi, Crispi usciva definitivamente
dalla scena politica. Al suo successore, ancora DiRudinì, non restò che concludere in tutta fretta una pace con l’Etiopia
che garantisse almeno la presenza italiana in Somalia ed Eritrea.
9 Verso la società di massa (leggere)
10 L’Europa tra due secoli
10.1 LE NUOVE ALLEANZE
A partire dal 1890 – l’anno delle dimissioni di Bismarck – i rapporti fra le grandi potenze che dominavano la politica
europea subirono radicali mutamenti. A mettere in crisi il vecchio sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la
scelta del nuovo imperatore Guglielmo II in favore di una politica di respiro mondiale, più dinamica e aggressiva; la
crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli imperi austriaco e russo, che
portò alla scelta di optare per l’alleanza con il primo, nella convinzione che l’impero zarista non avrebbe mai stretto
alleanza con la Francia repubblicana. Ma queste due potenze avevano almeno una cosa in comune: la necessità di
trovare un alleato.
Si giunse così nel 1891 e poi nel 1894 alla formazione di una vera e propria alleanza militare franco-russa. Con la
stipulazione della duplice veniva meno l’isolamento della Francia, e la Germania era costretta a premunirsi contro
l’eventualità di una guerra su due fronti.
La decisione del governo tedesco di dare il via alla costruzione di una potente flotta da guerra capace di contrastare la
superiorità britannica provocò un inasprimento dei rapporti fra Inghilterra e Germania. L’effetto fu quello di indurre gli
inglesi a impegnarsi a loro volta in una corsa agli armamenti navali. Frattanto aveva inizio fra Inghilterra e Francia quel
processo di riavvicinamento che portò a sistemare le vecchie vertenze coloniali in Africa e a stipulare, nel 1904, un
accordo che prese il nome di Intesa Cordiale.
Quando, nel 1907, anche Russia e Inghilterra sistemarono le proprie vertenze coloniali in Asia, del sistema di alleanza
bismarckiano restava solo in piedi il blocco formato dagli imperi tedesco e austriaco con l’appendice dell’Italia. A
questo blocco se ne contrapponeva un altro, quello chiamato Triplice Intesa, politicamente meno omogeneo, ma
potenzialmente più forte.
10.3 LA FRANCIA TRA DEMOCRAZIA E REAZIONE
Negli ultime decenni dell’800 in Francia le istituzioni repubblicane continuavano ad essere oggetto di una insidiosa
contestazione a sfondo militarista, bonopartista, clericale e monarchico. Alla fine del secolo queste forze si coagularono.
Cio’ avvenne in occasione di un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo condannato ai
lavori forzati nel 1894 sotto l’accusa di aver fornito documenti riservati all’ambasciata tedesca. La sentenza, che fornì
alla stampa di destra il pretesto per una violenta campagna antisemita, era basata su indizi falsi o inconsistenti. Ma la
cosa più grave fu il fatto che, una volta emersi i primi dubbi sulla colpevolezza del condannato, le alte sfere militari si
rifiutarono di procedere ad una revisione del processo.
Socialisti, radicali e una parte dei repubblicani si batterono perché venisse riconosciuta l’innocenza dell’ufficiale
condannato. Per rendergli la libertà fu necessario un atto di grazia del Presidente della repubblica. I sostenitori di
Dreyfus ebbero, almeno, partita vinta sul terreno politico. L’esito delle elezione del 1899, favorevole alle forze
progressiste, consentì la formazione di un governo di coalizione repubblicana.
Con questo e con i successivi governi, la Francia laica e repubblicana si prese le sue rivincite: alcune associazioni di
destra vennero sciolte; fu avviata un’epurazione negli alti gradi dell’esercito; vi la rottura delle relazioni diplomatiche
tra la Francia e la Santa Sede.
La Francia del primo ‘900, all’avanguardia in materia di democrazia politica e di laicità dello Stato, non lo era sul piano
della legislazione sociale né su quello dell’ordinamento fiscale. I governi fra il 1906 e il 1910, guidati da Clemenceau e
Aristide Briand, condussero in porto alcune importanti riforme sociali, ma non riuscirono a far passare un progetto di
imposta generale sul reddito e dovettero scontrarsi con la classe lavoratrice.
Lo spostamento a sinistra del movimento sindacale provocò la rottura dell’alleanza tra socialisti e radicali e ridiede
spazio alle correnti repubblicano-moderate, che riuscirono a tornare al potere fra il 1912 e il 1914 portando alla guida
del governo – e poi alla presidenza della repubblica – il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré.
10.4 IMPERIALISMO E RIFORME IN GRAN BRETAGNA
Negli anni a cavallo fra i due secoli la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra i conservatori e i liberali
“unionisti”, con Joseph Chamberlain ministro delle colonie. Come aveva fatto Disraeli, anche i governi conservatoriunionisti cercarono di contemperare l’imperialismo con una certa dose di riformismo sociale. Furono varate leggi che
stabilivano la responsabilità degli imprenditori in materia di infortuni sul lavoro e aumentavano i finanziamenti per le
scuole.
A mettere in crisi l’egemonia conservatrice fu il progetto di Chamberlain di introdurre anche in Inghilterra il
protezionismo doganale, sotto forma di una tariffa imperiale. Nell’elezioni del 1906, i liberali – che si erano opposti al
progetto – conquistarono un’ampia maggioranza, mentre per la prima volta facevano il loro ingresso alla camera un
gruppo di deputati laburisti.
I governi liberali si qualificarono per una linea meno aggressiva in campo coloniale e per una più energica e organica
politica di riforme sociali. L’aspetto più coraggioso fu il tentativo di sopperire alle spese per le riforme con una politica
fiscale fortemente progressiva.
Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lords che, aveva il diritto di respingere le leggi votate dalla
Camera dei Comuni. Il diritto di veto però non si applicava per tradizione alle leggi finanziarie. Quando, nel 1909, i
Lords violarono questa prassi respingendo il bilancio preventivo (elaborato da David Loyd Gorge allora cancelliere
dello scacchiere, ossia ministro dell’economia) ne nacque un conflitto costituzionale.
Nel 1911, dopo un braccio di ferro di due anni, i Lords, grazie anche alla pressione del nuovo re Giorgio V, si piegarono
ad accettare la legge che limitava i loro privilegi.
I progressi della legislazione sociale, non accompagnati da consistenti miglioramenti salariali, non avevano smorzato la
combattività della classe lavoratrice. Alle agitazioni operaie si aggiungevano quelle delle “suffragette” e quelle dei
nazionalisti irlandesi.
Nel 1911, il governo Asquith presentò un nuovo progeto di Home Rule, che prevedeva un’Irlanda autonoma ma pur
sempre legata alla corona britannica per tutte le questioni di comune interesse. La soluzione proposta scontentava sia i
nazionalisti irlandesi sia la minoranza protestante dell’Ulster. Il progetto liberale fu comunque approvato dalla Camera
nel 1914, ma la sua applicazione fu subito dopo sospesa a causa dello scoppio della guerra.
10.5 LA GERMANIA GUGLIELMINA
La fine del cancellierato di Bismarck, nel 1890, parve dover segnare una svolta nella politica tedesca. Lo stesso
imperatore Guglielmo II aveva annunciato di volere inaugurare un “nuovo corso” (Neue Kurs). Le speranze in una
evoluzione liberale del sistema andarono però deluse. L’imperatore mostrò una chiara inclinazione alle posizioni
autoritarie e nessuno dei cancellieri succeduti a Bismarck ebbe le capacità e la personalità che gli avevano permesso di
imporsi allo stesso potere imperiale. Il passaggio dall’età bismarckiana a quella guglielmina comportò nel gruppo di
potere un peso più accentuato dei vertici militari. Anche i nuovi orientamenti di politica estera, affermatisi quando la
Germania imboccò la via della Weltpolitik (politica mondiale), contribuirono a rinsaldare l’alleanza fra la casta agraria
e militare degli Junker e gli ambienti della grande industria. Un’industria che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di
crescita produttiva paragonabili solo agli USA.
La coscienza di questa superiorità accentuò le tendenze nazionaliste e imperialiste. La Germania, priva com’era di un
grande impero coloniale, non aveva una disponibilità di materie prime paragonabile a quella inglese, americana o russa.
Di qui la volontà di modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse.
La spinta nazionalista e aggressiva finì col coinvolgere tutte le maggiori forze politiche. L’unica autentica forza di
opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l’età guglielmina in una condizione di isolamento assoluto, che non le
impedì comunque di aumentare continuamente la massa dei propri iscritti. A lungo andare però anche la
socialdemocrazia finì col venire a patti con le ideologie nazional-imperialistiche. Alla base di questa evoluzione c’era la
volontà di uscire dall’isolamento e di non prestarsi alle manovre dei gruppi conservatori che la additavano come il
“nemico interno”.
10.6 I CONFLITTI DI NAZIONALITA’ IN AUSTRIA-UNGHERIA
Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l’impero asburgico vide aggravarsi il declino delineatosi a
partire dal 1848. dal punto di vista economico era ancora un paese prevalentemente agricolo, ma con alcune isole
altamente urbanizzate: la regione di Vienna, la Boemia e il porto di Trieste. Allo sviluppo economico e civile dei grandi
centri urbani, alla eccezionale vitalità culturale, facevano riscontro il sostanziale immobilismo del sistema politico e la
persistenza delle strutture sociali tradizionali nella provincia contadina: la chiesa e la grande proprietà terriera.
Ma il principale motivo di disagio e di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Con la soluzione dualistica varata nel
1867, la monarchia asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello magiaro.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si assisté però a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli
uni con gli altri, ma uniti dall’ostilità al centralismo imperiale.
I più irrequieti erano i popoli slavi. Fra i cechi della Boemia e della Moravia si affermò il movimento dei giovani cechi
che si batteva contro la politica di germanzzazione del governo di Vienna. Tendenze ancor più radicali cominciarono a
manifestarsi fra gli “slavi del sud”, serbi e croati, che, soggetti al dominio ungherese, subivano l’attrazione del vicino
regno di Serbia. Persino nel gruppo etnico privilegiato, quello magiaro, sorse un movimento che rivendicava totale
autonomia dall’Austria.
In questa situazione, il compito del potere centrale diventava estremamente difficile. Una parte della classe dirigente si
orientò verso l’idea di trasformare la monarchia da dualistica in trialistica: di distaccare cioè gli slavi del sud
dall’Ungheria e di creare un terzo polo nazionale. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore più autorevole
nell’arciduca Francesco Ferdinando, si scontrava con l’opposizione degli ungheresi e con quella dei nazionalisti serbi e
croati, che miravano con tutti i mezzi alla fondazione di uno stato slavo indipendente ed erano palesemente appoggiati
dalla Serbia, a sua volta protetta dalla Russia.
10.7 LA RUSSIA FRA INDUSTRIALIZZAZIONE E AUTOCRAZIA
Fra le grandi potenze europee, la Russia era la sola che si reggesse ancora su un sistema autocratico. Sotto Alessandro
III e Nicola II, ogni tentativo di occidentalizzazione delle istituzioni fu decisamente accantonato. Furono ridotti i poteri
degli organi di autogoverno locale, fu rafforzato il controllo sulla giustizia e sull’istruzione, fu intensificata l’opera di
russificazione delle minoranze.
Mentre restava immobile sul piano delle strutture politiche, la Russia compiva il suo primo tentativo di decollo
industriale. Cominciato sotto lo stimolo delle grandi costruzioni ferroviarie, lo sviluppo dell’industria ebbe un impulso
decisivo dalla politica di Sergej Vitte. Egli da un lato aumentò il sostegno dello stato inasprendo il protezionismo e
moltiplicando gli investimenti pubblici; dall’altro, incoraggiò l’influsso di capitali stranieri. Affidata all’iniziativa dello
stato e del capitale straniero più che all’autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale, l’industrializzazione risultò
fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle imprese. Pertanto anche la classe
operaia russa si concentrò in poche zone e rimase isolata in un contesto sociale ancora dominato dall’agricoltura.
All’inizio del ‘900 la Russia era in testa alle classifiche europee dell’analfabetismo e della mortalità infantile, mentre il
suo PIL pro-capite era meno della metà di quello della Francia o della Germania. In queste condizioni era naturale che
tensione politica e sociale crescesse pericolosamente. Alla timida opposizione liberale, alle ricorrenti agitazioni nelle
campagne, alla recrudescenza degli atti terroristici si aggiunsero gli scioperi dei lavoratori dell’industria e si accentuò la
penetrazione delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva l’influenza del partito
socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov, fra i contadini riscuoteva successo la propaganda del partito
socialista rivoluzionario, nato dalla confluenza di gruppi populisti e anarchici.
10.8 LA RIVOLUZIONE RUSSA DEL 1905
Priva di canali legali attraverso cui esprimersi, la protesta politica e sociale nella Russia zarista finì col coagularsi in un
moto rivoluzionario. A far precipitare gli eventi contribuì lo scoppio nel 1904 della guerra col Giappone. In una
domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150.000 persone che si dirigeva verso il Palazzo d’Inverno,
per presentare al sovrano una petizione, fu accolto a fucilate dall’esercito. La brutale repressione della domenica di
sangue scatenò in tutto il paese un’ondata di agitazioni, di sommosse, di ammutinamenti delle stesse forze armate.
Di fronte alla crisi dei poteri costituiti sorsero spontaneamente in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet,
cioè rappresentanze popolari elette e continuamente revocabili. Il più importante di questi, quello di Pietroburgo,
assunse la guida del movimento. In ottobre lo Zar parve finalmente disposto a cedere e promise libertà politiche e
istituzioni rappresentative. Nello stesso tempo però, le autorità incoraggiavano segretamente la formazione di
movimenti paramilitari di estrema destra.
Una volta ristabilito l’ordine, restava, come unico risultato del moto rivoluzionario, l’impegno dello zar di convocare
un’assemblea rappresentativa. Le attese di una evoluzione parlamentare del regime andarono comunque deluse. Eletta
nell’aprile 1906, a suffragio universale ma con un sistema che privilegiava i proprietari terrieri, dotata di poteri limitati,
la prima Duma fu sciolta dopo poche settimane. Uguale sorte subì una seconda Duma. A questo punto il governo
modificò la legge elettorale in senso smaccatamente classista e poté finalmente disporre di una assemblea più docile.
Con questo colpo di mano la Russia tornava ad essere un regime sostanzialmente assolutista.
Artefice principale della restaurazione fu il conte Petr Stolypin, egli legò il suo nome alla spietata repressione di ogni
opposizione politica, ma al tempo stesso avviò una riforma agraria. Punto chiave della riforma Stolypin fu la
dissoluzione della struttura comunitaria del mir: i contadini ebbero la facoltà di uscire dalle comunità di villaggio,
diventando proprietari della terra che coltivavano. Lo scopo era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che
fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione e di stabilità politica. Il progetto riuscì solo in parte. I più non
trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili. Tutto ciò favoriva alla lunga
l’esodo dalle campagne.
10.9 VERSO LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Nel decennio che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, i due blocchi si fronteggiarono in un contesto
internazionale sempre più inquieto. Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il prima era l’ormai
cronico focolaio balcanico. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi stati africani indipendenti, oggetto da
tempo delle mire dei francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo possibile terreno di scontro per
contrastare lo strapotere delle potenze rivali in campo coloniale.
Nel 1905 e nel 1911 il contrasto franco-tedesco sul Marocco sembrò portare l’Europa sull’orlo della guerra. Alla fine la
Francia riuscì a spuntarla. La Germania ottenne in cambio una striscia del Congo francese.
Nella zona balcanica la crisi dell’impero ottomano, aggravata dalla spinta dei nazionalismi, creava un’aria di continua
turbolenza. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, la rivoluzione dei giovani turchi.
Movimento composto da intellettuali e da ufficiali, proponeva la trasformazione dell’impero in una moderna monarchia
costituzionale. Nell’estate del 1908, un gruppo di ufficiali costrinse il sultano a concedere una costituzione. Il nuovo
regime tentò di realizzare un’opera di modernizzazione dello stato. Ma non seppe avviare a soluzione il problema dei
rapporti con i popoli europei ancora soggetti all’impero. Al contrario, i giovani turchi tentarono di attuare un
ordinamento amministrativo più centralista di quello del vecchio regime;e ottennero di accentuare le spinte
indipendentiste.
Della crisi profittò subito l’Austria per procedere nel 1908 all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina, già in
amministrazione provvisoria austriaca dal 1878. La mossa austriaca provocò tensione con la Serbia e con la stessa
Russia. Appoggiata dalla Germania, l’Austria riuscì a far accettare alle altre potenze il fatto compiuto. I due imperi
centrali ottennero un successo diplomatico; ma lo pagarono con una radicalizzazione del nazionalismo sudslavo e con
un indebolimento della triplice alleanza: l’Italia, infatti, subì l’iniziativa austriaca senza nessuno di quei compensi
previsti.
Pochi anni dopo, nel 1911, provocò una guerra con la Turchia, che subì l’ennesima sconfitta. La sconfitta turca stimolò
le mire dei piccoli stati balcanici. Nel 1912, Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria mossero guerra all’impero turco
sconfiggendolo facilmente. La Turchia perse tutti i territori che ancora conservava in Europa. Sulla costa dell’Adriatico
nasceva in oltre un nuovo piccolo stato, il Principato di Albania, voluto dall’Austria e dall’Italia per impedire lo sbocco
al mare alla Serbia. Ma, al momento della spartizione dei territori conquistati, si ruppe l’alleanza fra gli stati balcanica.
Nel 1913, la Bulgaria attaccò improvvisamente la Grecia e la Serbia. Si formò una nuova coalizione. Alla Serbia e alla
Grecia si unirono la Romania e la stessa Turchia. La Bulgaria, sconfitta, dovette restituire alla Turchia una parte della
Tracia.
Il bilancio finale delle due guerre balcaniche risultava così largamente sfavorevole per gli imperi centrali. Il loro
maggiore alleato, l’impero turco, era stato praticamente estromesso dall’Europa. La Serbia si era notevolmente
rafforzata raddoppiando quasi il suo territorio.
Si faceva sempre più forte nei circoli dirigenti austriaci la tentazione di liquidare una volta per tutte i conti con la
Serbia.
11 Imperialismo e rivoluzione nei continenti extraeuropei
11.1 IL RIDIMENSIONAMENTO DELL’EUROPA
Nel primo quindicennio del ‘900 si cominciarono a vedere i sintomi di un ridimensionamento della posizione del
vecchio continente in rapporto al resto del mondo. A suggerire questi timori non era tanto l’ascesa degli USA, quanto il
risveglio dei popoli dell’estremo oriente: il Giappone innanzitutto. Alle preoccupazioni di ordine politico e militare si
aggiungevano quelle indotte dalle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione europea continuava a crescere,
ma non al punto da ridurre il divario con i popolosissimi paesi asiatici. Fu allora che in Europa si cominciò a parlare
sempre più insistentemente di un “pericolo giallo”: un’espressione coniata da Guglielmo II.
11.2 LA GUERRA RUSSO-GIAPPONESE
Un contrasto fra Russia e Giappone cominciò a delinearsi negli ultimi anni dell’800, quando l’impero nipponico si era
inserito di forza nella spartizione in zone d’influenza dell’impero cinese, entrando in concorrenza con la Russia per il
controllo delle regioni di nord-est. Nel 1903 il Giappone propose alla Russia un accordo per la spartizione della
Manciuria. Ma i russi rifiutarono ogni trattativa preparandosi all’inevitabile scontro. Furono però i Giapponesi a
prendere l’iniziativa.
Nel 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò quella russa e strinse d’assedio la base di Port
Arthur. All’inizio del 1905 le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e sconfissero l’esercito russo. Soltanto a 16
mesi dall’inizio della guerra, giunse sul teatro delle operazioni la flotta russa del Mar Baltico, dopo una lunga e
avventurosa circumnavigazione dell’Africa e dell’Asia. Ma anche essa fu distrutta.
Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta dagli USA e firmare, in settembre, il trattato di Portsmouth: il
Giappone otteneva la Manciuria meridionale e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea.
Per l’Europa intera, la secca sconfitta della Russia rappresentò un trauma di proporzioni difficilmente immaginabili.
L’estremo oriente cessava di essere campo d’azione incontrastato per le potenze europee e si avviava a diventare terreno
di competizione fra due nuovi imperialismi in ascesa: quello giapponese e quello statunitense.
11.3 LA REPUBBLICA IN CINA
Fu la Cina a subire in maniera determinante l’influsso del vicino Giappone, visto ora come modello da imitare sul piano
dello sviluppo economico e dell’emancipazione politica. Ormai fallito il tentativo di condurre la lotta per l’indipendenza
all’insegna del tradizionalismo reazionario, la strada era aperta per l’affermazione di un movimento di ispirazione
democratica e occidentalizzante.
Nel 1905 un medico di Canton, Sun Yat-sen, fondò un’organizzazione segreta, il Tung meng hui (Lega di alleanza
giurata) con un programma basato sui tre principi del popolo: l’indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa,
il benessere. La lega i Sun Yat-sen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, gli ufficiali, fra i nuclei di proletariato
industriale e in una parte dell’ancora esigua borghesia imprenditoriale.
Nell’ottobre 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese
provocò una serie di sommosse. Nel gennaio del 1912 un’assemblea rivoluzionaria dichiarava decaduta la dinastia
Menciù ed eleggeva Sun Yat-sen alla presidenza della repubblica. Il generale Yuan Shi-kai, inviato a domare la rivolta,
si schierò dalla parte dei repubblicani e fu nominato presidente in luogo di Sun Yat-sen. Il fragile compromesso fra le
forze democratiche organizzate nel nuovo “Partito nazionale”(Kuomintang) e i gruppi conservatori che facevano capo a
Yuan Shi-kai si ruppe nel giro di pochi mesi.
Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il parlamento, mise fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yat-sen all’esilio e
instaurò una dittatura personale.
11.4 IMPERIALISMO E RIFORME NEGLI STATI UNITI
Nel continente americano, il ruolo egemonico degli USA si fondava principalmente su uno sviluppo economico che non
aveva paragone in nessun altro paese. La crescita più importante si verificò nell’industria, dove dominavano le
concentrazioni. Per contrastare le tendenze monopolistiche e la conseguente lievitazione dei prezzi, fu varata nel 1890
una legge che vietava gli accordi sui prezzi. La legge ebbe però l’effetto opposto a quello sperato, gicchè indusse le
imprese a vere e proprie fusioni. Progressi decisivi furono compiuti anche nell’agricoltura e nell’allevamento. Ma il
grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di tensioni sociali.
Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche le organizzazioni operaie. Nel 1886 venne fondata da Samuel
Gompers l’American Federation of Labour, una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa
caratterizzazione politica. Né la maggioranza delle organizzazioni sindacali né il movimento politico dei contadini
sposarono la strategia di classe dei movimenti socialisti europei.
Una decisa svolta in tema di politica sociale si verificò all’inizio del ‘900, negli anni della presidenza di Theodore
Roosvelt. Esponente dell’ala progressista del partito repubblicano. Roosvelt mostrò grande decisione nella difesa degli
interessi americani all’estero, alternando con disinvoltura la “diplomazia del dollaro” alla politica del “grosso bastone”.
Nel 1901 gli USA ottennero dal governo della Colombia l’autorizzazione a costruire e a gestire per 100 anni un canale
che tagliasse l’istmo di Panama. Quando, nel 1903, il governo colombiano rifiutò di ratificare l’accordo, gli USA non
esitarono ad organizzare una sommossa a Panama e a minacciare un intervento armato. Panama, come già Cuba,
divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Il canale fu realizzato nel giro di 10 anni e inaugurato nel
1914. imperialista e aggressiva all’estero, la linea di Roosvelt si caratterizzò in politica interna per una notevole apertura
ai problemi sociali. Si dovettero a lui i primi provvedimenti nel campo della legislazione sociale, cercò inoltre di
limitare il potere dei grandi trusts, interpretando così le esigenze della piccola e media borghesia urbana, dei piccoli
produttori indipendenti e degli stessi sindacati operai.
Una volta che Roosvelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908, il partito repubblicano si spaccò. E, nelle elezioni del
1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico Woodrow Wilson. Mentre
Roosvelt aveva cercato di rafforzare il potere federale, Wilson, fedele alla tradizione democratica, fu contrario ad ogni
limitazione dell’autonomia dei singoli stati. Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli sull’abbassamento delle
tariffe protettive. Anche in politica estera, Wilson, portò uno stile nuovo, più attento e più rispettoso delle norme della
convivenza internazionale. Era convinto che il ruolo degli USA dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla
capacità espansiva dell’economia.
11.5 L’AMERICA LATINA E LA RIVOLUZIONE MESSICANA
Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale, i paesi dell’America Latina conobbero uno sviluppo economico
di notevoli proporzioni, basato principalmente sull’esportazione di materie prime. Questo sviluppo attirò un consistente
flusso migratorio dall’Europa ma non mutò la posizione di sostanziale subalternità economica. Anzi, la crescita delle
esportazioni accentuò questi caratteri di dipendenza, favorendo la tendenza alla monocoltura. Persisteva ancora il
latifondo e il mantenimento in condizioni semiservili delle masse contadine. Dal punto di vista istituzionale, gli stati
latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani. La facciata istituzionale liberal-parlamentare copriva
però una realtà di profonda corruzione e di totale esclusione delle masse.
Negli anni immediatamente precedenti la grande guerra, questa calma relativa fu interrotta da due importanti
rivolgimenti politici che ebbero per teatro l’Argentina e il Messico. Nel caso dell’Argentina si trattò di un rivolgimento
pacifico, originato dall’introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell’Unione
Radicale, di orientamento progressista.
In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione sfociò in una lotta rivoluzionaria. La rivolta contro il regime
semidittatoriale del presidente Porfirio Diaz cominciò nel 1910 per iniziativa dei gruppi liberal-progressisti guidati da
Francisco Madero e fu subito accompagnata da un vasto moto contadino, organizzato da Emiliano Zapata e Pancho
Villa. Nel 1911 Diaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero veniva eletto presidente. A questo punto però
cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella
borghese e moderata e quella contadina, che aveva come obbiettivo una radicale riforma agraria: obiettivo fortemente
temuto in un paese in cui la proprietà della terra era i mano ad un migliaio di latifondisti. Nel 1913 il presidente Madero
fu eliminato da un colpo di stato militare che portò al potere il generale Adolfo Huerta e aprì la strada a un regime di
spietata reazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza fino all’inizio degli anni ’20, per concludersi
infine con l’assunzione della presidenza (1921) da parte del progressista Alvaro Obregòn e con il varo di una
costituzione democratica e laica, aperta alle istanze di riforma sociale. L’attuazione di queste istanze si sarebbe rivelata
lenta e difficile.
12 L’Italia giolittiana
12.1 LA CRISI DI FINE SECOLO
Negli ultimi anni del secolo XIX, l’Italia fu teatro di una crisi politico istituzionale che si concluse con una
affermazione delle forze progressiste. La caduta di Crispi (marzo 1896) non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni
politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario si delineò fra le forze conservatrici la tendenza a
ricomporre un fronte comune contro i “nemici delle istituzioni”, socialisti repubblicani o clericali che fossero. Questa
tendenza si esprimeva, da un lato, nel tentativo di interrompere la prassi parlamentare e rendere il governo responsabile
di fronte al solo sovrano; dal’altro, in una ripresa dei metodi crespini in materia di ordine pubblico.
La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane fece scoppiare in
tutto il paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo fu durissima. La repressione raggiunse il
culmine a Milano nelle giornate dell’8 e 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccarsi fecero uso
dell’artiglieria contro la folla inerme.
Lo scontro si trasferì così dalle piazze alle aule parlamentari. Caduto un primo progetto presentato da Rudinì, che
dovette dimettersi, il tentativo fu ripreso dal suo successore, Luigi Pelloux. Ma alla presentazione di un pacchetto di
provvedimenti che limitavano il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione, i gruppi di estrema
sinistra risposero mettendo in atto la tecnica dell’ostruzionismo.
Incapace di venire a capo dell’ostruzionismo, e indebolito dall’opposizione dei gruppi liberal-progressisti che facevano
capo a Zanardelli e Giolitti, Pelloux decise di sciogliere la Camera. Ma nelle elezioni lo schieramento governativo perse
parecchi seggi. Il presidente del consiglio, Pelloux, pur potendo ancora contare su una esigua maggioranza preferì
dimettersi.
Affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato, ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I
dimostrava di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva.
Il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente
dagli USA per vendicare le vittime del ’98.
12.2 LA SVOLTA LIBERALE
Il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella politica italiana, indubbiamente favorita dal buon andamento
dell’economia. Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi, il nuovo re Vittorio Emanuele III seppe ben
interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo, nel 1901, il leader della sinistra liberale
Zanardelli, che affidò il ministero degli interni a Giolitti.
Il gabinetto Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme. Furono estese le norme che limitavano il
lavoro minorile. Fu migliorata la legislazione relativa alle assicurazioni per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro.
Ma più importante delle singole riforme fu l’atteggiamento del governo in materia di conflitti del lavoro. Giolitti
mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze del settore privato purchè non degenerassero in manifestazioni
violente.
Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti. Lo sviluppo delle organizzazioni fu accompagnato da una
brusca impennata degli scioperi e ne derivò una spinta al rialzo dei salari.
12.3 DECOLLO INDUSTRIALE PROGRESSO CIVILE
A partire dagli ultimi anni del XIX secolo, l’Italia conobbe il suo primo autentico decollo industriale. Se l’economia
italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896 ciò fu dovuto anche ai progressi
che il paese era venuto realizzando nei primi 30-40 anni di vita unitaria. La costruzione di una rete ferroviaria aveva
favorito i processi di commercializzazione dell’economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la
creazione di una moderna industria siderurgica. Infine il riordinamento del sistema bancario aveva creato una struttura
finanziaria abbastanza solida ed efficiente. Ma sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti
dalle tariffe doganali, come quello chimico (soprattutto l’industria della gomma negli stabilimenti Pirelli di Milano) o
addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico: quest’ultimo si giovò dell’accresciuta richiesta di materiale
da parte dello stato. Il principale fatto nuovo nel campo della meccanica fu però costituito dall’affermazione
dell’industria automobilistica, dove riuscirono a svilupparsi riuscirono a svilupparsi numerose aziende, come la Fiat di
Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli.
Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%, superiore a quelli di qualsiasi altro paese europeo
nello stesso periodo. Il decollo industriale dell’inizio del ‘900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della
popolazione. Nel primo quindicennio del secolo il reddito procapite aumentò di quasi il 30%. Era insomma la qualità
della vita degli italiani che cominciava a mutare, sia pure lentamente e parzialmente. La diffusione dell’acqua corrente
nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto. La mortalità infantile fece
registrare un notevole calo.
Questi progressi non furono però sufficienti a colmare il divario che separava l’Italia dagli stati più ricchi e
industrializzati. Il reddito pro-capite era circa la metà di quello inglese; l’analfabetismo era ancora molto elevato,
mentre si avviava a scomparire in tutta l’Europa del nord; l’emigrazione verso l’estero toccò gli 8 milioni di partenze fra
il 1900 e il 1914. Mentre l’emigrazione dalle regioni settentrionali era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi
europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso le Americhe e aveva carattere permanente. Comunque le
rimesse degli emigranti ( i risparmi inviati in patria) alleviarono il disaggio delle zone più depresse e risultarono di non
poco giovamento all’economia dell’intero paese.
12.5 I GOVERNI GIOLITTI E LE RIFORME
Chiamato alla guida del governo nel 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, Giolitti cercò non soltanto di portare avanti
l’esperimento liberal-progressista, ma anche di allargarne le basi. Costituì un ministerno di centro e aperto alla
partecipazione di elementi conservatori.
Furono condotte in porto, nel 1904, le prime leggi speciali per il Mezzogiorno volte a incoraggiare la modernizzazione
dell’agricoltura e lo sviluppo industriale mediante una serie di stanziamenti statali e di agevolazioni fiscali. Queste leggi
avevano il limite di curare più i sintomi che le cause del male, ma avevano il vantaggio di essere attuabili in tempi
brevi.
Un altro importante progetto elaborato da Giolitti nel 1904-5 fu quello relativo alla statalizzazione delle ferrovie. Il
progetto incontrò però diffuse opposizioni sia a destra che a sinistra. Di fronte a queste difficoltà, Giolitti si dimise con
un pretesto lasciando la guida del governo ad Alessandro Fortis che restò al governo meno di un anno: il tempo
necessario per condurre in porto la legge sulla statalizzazione delle ferrovie. E vita ancora più breve ebbe il successivo
ministero guidato da Sidney Sonnino, che si presentava come il più autorevole antagonista di Giolitti.
Nel maggio 1906 Giolitti tornò alla guida del governo. La congiuntura economica favorevole che durava dal 1896 si
interruppe nel 1907. la crisi fu però superata in tempi relativamente brevi grazie anche al tempestivo intervento della
Banca d’Italia. Già dal 1908 la crescita riprese. Ma lette sociali conobbero un brusco inasprimento e l’atteggiamento
degli industriali – che nel 1910 diedero vita alla Confederazione italiana dell’industria – si fece più duro.
Nel dicembre 1909 Giolitti attuò una nuova ritirata strategica, aprendo la strada a un nuovo governo Sonnino, destinato
anch’esso a vita brevissima, e a un successivo governo Luzzatti.
Nel marzo 1911 Giolitti tornò al governo con un programma decisamente orientato a sinistra, il cui punto cardine era la
proposta di estendere il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni e a tutti i maggiorenni che
sapessero leggere e scrivere o avessero prestato servizio militare. Un altro punto importante era l’istituzione di un
monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi sarebbero andati a finanziare il fondo per le pensioni di
invalidità e vecchiaia per i lavoratori.
Nel 1911 Giolitti decise di procedere alla conquista della Libia.
12.7 LA POLITICA ESTERA, IL NAZIONALISMO, LA GUERRA IN LIBIA.
A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, fu attenuata, per senza rinnegare il vincolo con la Triplice, la linea
rigidamente filotedesca. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia poneva fine, nel 1898, alla guerra
doganale e portava, nel 1902, a un accordo per la divisione in sfere d’influenza dell’Africa settentrionale: l’Italia
otteneva il riconoscimento dei diritti di priorità sulla Libia, lasciando alla Francia il Marocco.
Il riconoscimento italiano delle aspirazioni francesi sul Marocco non piacque ai tedeschi. E meno ancora piacque agli
italiani il modo in cui l’Austria procedette unilateralmente all’annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908.
In questo clima politico poté sorgere e affermarsi un movimento nazionalista che si diede una struttura organizzativa
alla fine del 1910 con la fondazione dell’Associazione nazionalista italiana. L’associazione vide ben presto emergere un
gruppo imperialista e conservatore che diede vita ad una martellante campagna a favore della conquista della Libia. In
questa campagna i nazionalisti trovarono potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana da anni
impegnata in un opera di penetrazione economica in terra libica..
La spinta decisiva venne però dalle vicende della politica internazionale. Quando apparve chiaro che la Francia si
apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli
accordi del 1902 e, nel settembre 1911, inviò sulle coste libiche un contingente, scontrandosi però contro la reazione
dell’impero turco. La guerra fu più difficile del previsto perché i turchi anziché accettare uno scontro campale,
preferirono fomentare la guerriglia. Per venire a capo della resistenza, l’Italia dovette rinforzare il corpo di spedizione
ed estendere il teatro di guerra al Mar Egeo, occupando l’isola di Rodi e l’arcipelago del Dodecaneso. Solo nell’ottobre
del 1912 i turchi acconsentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica sulla Libia.
Dal punto di vista economico la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare e il successo propagandistico e politico
dell’impresa non si risolse però in un durevole rafforzamento del governo; al contrario la guerra di Libia rafforzò le ali
estreme.
12.8 RIFORMISTI E RIVOLUZIONARI
La svolta liberale dell’inizio del ‘900 aveva avuto nei socialisti non solo degli spettatori interessati ma anche dei
protagonisti attivi. Turati pensava che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista, pur nel
rispetto della propria autonomia di classe, fosse per il movimento operaio l’unica capace di assicurare il consolidamento
dei risultati appena conseguiti. Condivise, all’inizio, le tesi di Turati cominciarono a incontrare opposizioni crescenti.
Agli occhi dei socialisti rivoluzionari, i conflitti a volte sanguinosi fra lavoratori e forza pubblica nelle campagne del
Mezzogiorno mostravano la vera natura dello stato monarchico e borghese.
Nel settembre del 1904, la protesta dei lavoratori per l’ennesimo eccidio proletario sfociava nel primo sciopero generale
della storia d’Italia. Per il movimento operaio lo sciopero costituì un’indubbia prova di forza, ma anche una rivelazione
di alcuni gravi limiti: la distribuzione territoriale squilibrata e la mancanza di coordinamento fra le organizzazioni
locali.
L’esigenza di un più stretto coordinamento nazionale era sentita soprattutto dai riformisti. Dalle federazioni di categoria
partì l’iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della confederazione generale del lavoro(Cgl).
In questi anni si andò delineando una tendenza revisionista che faceva capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi e
che, ispirandosi alle teorie di Bernstein e all’esperienza del laburismo inglese, prospettava la trasformazione del PSI in
un partito del lavoro privo di connotazioni ideologiche troppo nette. A far precipitare i contrasti fu l’atteggiamento non
pregiudizialmente contrario assunto Bissolati e Bonomi di fronte all’impresa libica. Nel congresso di Reggio Emilia del
Luglio 1912, i rivoluzionari riuscirono ad imporre l’espulsione dal PSI dei riformisti di destra, che diedero vita al
Partito socialista riformista italiano. I riformisti rimasti nel PSI furono ridotti in minoranza e la guida del partito tornò
nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo, Benito
Mussolini, che fu chiamato alla direzione del quotidiano del partito, “l’Avanti”.
12.9 DEMOCRATICI CRISTIANI E CLERICO-MODERATI
Nel corso dell’età giolittiana, anche il movimento cattolico italiano conobbe sviluppi e trasformazioni di grande
importanza. Il fatto nuovo fu l’affermazione del movimento democratico-cristiano. Leader del movimento era un
giovane sacerdote marchigiano, Romolo Murri, approdato a posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica
contro il capitalismo e lo stato borghese si riempiva di componenti progressiste. Nei primi anni del ‘900, i democratici
cristiani fondarono riviste e circoli politici, diedero vita alle prime unioni sindacali cattoliche.
Tollerata da Leone XIII l’azione dei democratici cristiani, fu invece duramente osteggiata dal nuovo Papa Pio X.
Questi, nel 1904, temendo che l’Opera dei congressi potesse finire sotto il controllo di Murri, non esitò a scioglierla.
Murri che rifiutava di sottostare alle direttive pontificie, fu sconfessato e più tardi sospeso dal sacerdozio.
La condanna di Murri e della democrazia cristiana non impedì peraltro al movimento di continuare a svilupparsi,
soprattutto in Lombardia e in Veneto. Il movimento contadino cattolico si sviluppò anche in Sicilia, sotto la guida di un
prete di Caltagirone, Luigi Sturzo.
Preoccupati dai progressi delle forze laiche e socialiste, il papa e i vescovi favorirono le tendenze clerico-moderate e
che miravano a far fronte comune con i “partiti d’ordine”. Alleanze di questo genere furono esplicitamente autorizzate
dalle autorità ecclesiastiche e furono d’altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Questi vide nel nuovo atteggiamento
dei cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di manovra.
Il non expedit fu sospeso nelle elezioni del 1904, nel 1909 fu autorizzata la presenza di candidature dichiaratamente
cattoliche, anche se solo a titolo personale (secondo la formula “cattolici deputati sì, deputati cattolici no). La linea
clerico moderata ebbe piena consacrazione nelle elezioni del 1913 – le prime a suffragio universale maschile – quando
il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati
liberali che si impegnassero a rispettare un programma che prevedeva la tutela dell’insegnamento privato, l’opposizione
al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche.
12.10 LA CRISI DEL SISTEMA GIOLITTIANO
L’allargamento del suffragio non ebbe effetti sconvolgenti. Nonostante i progressi dei socialisti e dei cattolici e
nonostante l’ingresso alla camera di un piccolo gruppo di nazionalisti, i liberali conservavano un’ampia maggioranza.
Ma si trattava di una maggioranza più eterogenea e divisa che in passato.
Nel maggio 1914, Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Calandra. Incoraggiò
dunque un’esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al
potere. Ma la situazione era molto cambiata rispetto a 4-5 anni prima.
La grande guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una linea politica che
aveva avuto il merito di favorire la democratizzazione della società, ma che, tutta fondata sulla mediazione
parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.
13 La prima guerra mondiale
13.1 DALL’ATTENTATO DI SARAJEVO ALLA GUERRA EUROPEA
Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise l’erede al trono d’Austria, l’arciduca
Francesco Ferdinando mentre attraversava le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia. L’attentatore faceva parte di una
organizzazione irredentista che aveva la sua base operativa in Serbia. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e
dei circoli dirigenti austriaci, convinti della necessita di impartire una lezione alla Serbia.
Nell’Europa del 1914 esistevano tutte le premesse che rendevano possibile una guerra: rapporti tesi tra le grandi
potenze, divisione in blocchi contrapposti, corsa agli armamenti spinte belliciste all’interno dei singoli paesi. Ma queste
premesse non avevano come sbocco obbligato un conflitto europeo. Fu l’attentato si Sarajevo a far esplodere tensioni
che altrimenti avrebbero potuto rimanere latenti. L’Austria compì la prima mossa inviando un durissimo ultimatum alla
Serbia. Il secondo passo lo fece la Russia assicurando il proprio sostegno alla Serbia . forte dell’appoggio russo il
governo Serbo accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari
austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato.
Il 28 luglio, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Il governo russo, il giorno successivo, ordinò la mobilitazione delle
forze armate. La mobilitazione fu interpretata dal governo tedesco come un atto di ostilità. La Germania inviò un
ultimatum alla Russia, intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne risposta e
fu seguito dalla dichiarazione di guerra. Il 1° agosto, la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare,
mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum e con la successiva, del 3 agosto,
dichiarazione di guerra.
La strategia dei generali tedeschi si basava sulla rapidità e sulla sorpresa. Il piano di guerra elaborato dall’allora capo di
stato maggiore Alfred von Schlieffen, dando per scontata l’eventualità di una guerra sui due fronti, prevedeva in primo
luogo un massiccio attacco contro la Francia, che avrebbe dovuto essere messa fuori gioco in poche settimane.
Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia, potenzialmente fortissima,
ma lenta a mettersi in azione. Era previsto che truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante la sua
neutralità. Ciò avrebbe permesso di investire lo schieramento nemico nel suo punto più debole e di puntare subito su
Parigi.
Il 4 agosto i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia.. la violazione della neutralità belga
ebbe un peso decisivo nel determinare l’intervento inglese nel conflitto. Così, il 5 agosto, l’Inghilterra dichiarava guerra
alla Germania.
Tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro che si andava preparando. Le forze pacifiste trovarono scarso
appoggio in un’opinione pubblica massicciamente mobilitata a sostegno della causa nazionale. Nemmeno i partiti
socialisti seppero o vollero sottrarre al clima generale di unione sacra. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono in
Parlamento a favore dei crediti di guerra; i socialisti francesi rinunciarono ad ogni manifestazione di protesta e poco
dopo entrarono a far parte del governo; la stessa cosa fecero i laburisti inglesi. Solo in Russia e in Serbia i socialisti
mantennero un atteggiamento di intransigente opposizione. La Seconda Internazionale fu la prima vittima della grande
guerra.
13.2 DALLA GUERRA DI MOVIMENTO ALLA GUERRA DI USURA
La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di trasporto
consentirono ai belligeranti di mettere in campo rapidamente eserciti di dimensioni mai conosciute prima. Questi
eserciti così imponenti erano inoltre assai meglio armati di qualsiasi esercito ottocentesco. Eppure nessuna fra le
potenze belligeranti aveva elaborato concezioni strategiche diverse da quelle che avevano ispirato le ultime guerre
ottocentesche e si fondavano sull’idea della guerra di movimento: sullo spostamento rapido di ingenti masse di uomini
in vista di pochi e risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione di un conflitto di pochi
mesi o addirittura di poche settimane.
I tedeschi ottennero una serie di clamorosi successi iniziali. Nelle ultime due settimane di agosto, le armate del Reich
dilagarono nel Nord-est della Francia. Ai primi di settembre si attestarono lungo il corso della Marna,a poche decine di
chilometri da Parigi. Sul fronte orientale le truppe tedesche, comandate dal generale Hindenburg, fermavano i russi che
tentavano di penetrare in Prussica orientale. L’offensiva russa mise però in serie difficoltà gli austriaci e preoccupò gli
stessi comandi tedeschi. Il 6 settembre i francesi lanciarono un improvviso contrattacco che colse i tedeschi di sorpresa.
Dopo una settimana di furiosi combattimenti, gli invasori furono costretti a ripiegare su una linea più arretrata. Con
l’arresto dell’offensiva sulla Marna, il progetto di guerra tedesco poteva dirsi sostanzialmente fallito.. alla fine di
novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate, su un fronte lungo 750 chilometri che andava dal
mare del nord al confine svizzero. Solo sul fronte occidentale, si erano avuti 400.000 morti e quasi 1 milione di feriti. E
tutto questo senza che nessuno dei due schieramenti fosse riuscito a conseguire risultati decisivi sul piano strategico.
Cominciava un nuovo tipo di guerra: la guerra di logoramento, o di usura, che vedeva due schieramenti praticamente
immobili affrontarsi in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframezzati da lunghi periodi di stasi. In una
guerra di questo genere diventava essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva gettare sul piatto della bilancia le
risorse del suo impero coloniale e la sua superiorità navale. Altrettanto importante si rivelava l’apporto della Russia col
suo enorme potenziale umano.
Nell’agosto 1914, il Giappone, richiamandosi al trattato che lo legava alla Gran Bretagna dal 1902, dichiarava guerra
alla Germania. La Turchia, legata alla Germania da un trattato segreto, interveniva a favore degli imperi centrali. Nel
maggio 1915, l’Italia entrava in guerra contro l’Austria. A fianco degli imperi centrali sarebbe poi intervenuta la
Bulgaria, mentre nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo, la Romania e la Grecia. Decisivo sarebbe
risultato infine, l’intervento a favore dell’intesa degli Stati Uniti( aprile 1917).
13.3 L’ITALIA DALLA NEUTRALITA’ ALL’INTERVENTO
Il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo da Antonio Calandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia.
Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice alleanza aveva trovato concordi in un primo tempo
tutte le principali forze politiche. Ma cominciò ad essere affacciata da alcuni da alcuni settori politici l’eventualità di
una guerra lampo contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a compimento il processo di unificazione.
Portavoce di questa linea interventista furono innanzitutto gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani
custodi della tradizione garibaldina; i radicali e socialriformisti di Bissolati, fortemente legati alla Francia; e
naturalmente le associazioni irredentiste. Ad essi si aggiunsero esponenti delle frange estremiste ed eretiche del
movimento operaio (Convertirsi alla causa della guerra rivoluzionaria destinata a rovesciare gli assetti internazionali e
gli equilibri sociali all’interno dei paesi coinvolti). Sull’opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi
dell’intervento erano i nazionalisti. Più prudente e graduale fu l’adesione alla causa dell’intervento da parte dei gruppi
liberal-conservatori. Salandra e Sonnino temevano soprattutto che una mancata partecipazione al conflitto in cui si
decidevano le sorti dell’Europa avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell’Italia.
L’ala più consistente dei liberali, quella che faceva capo a Giolitti, era però schierata su una linea neutralista. Giolitti,
intuiva che la guerra sarebbe stata lunga e non riteneva il paese preparato ad affrontarla; era inoltre convinto che l’Itali
avrebbe potuto ottenere dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.
Decisamente ostile all’evento era, con poche eccezioni, il mondo cattolico italiano. Il nuovo papa Benedetto XV, salito
al soglio pontificio proprio nel momento in cui stava iniziando il conflitto, assunse un atteggiamento decisamente
pacifista. Molto netta fu infine la posizione assunta dal Psi e dalla Cgdl: una posizione di ferma condanna alla guerra,
che contrastava apertamente con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei.
L’unica defezione importante fu quella, clamorosa, del direttore dell”Avanti!” Benito Mussolini, il quale, dopo aver
condotto dalle colonne del suo giornale una vigorosa campagne per la neutralità assoluta, si schierò con un’improvvisa
conversione a favore dell’intervento. Fu destituito dal suo incarico e poi espulso dal partito.
In termini di forza parlamentare e di peso nella società, i neutralisti erano in netta prevalenza, ma le minoranza
interventiste diedero prova di un’insospettata capacità di mobilitazione e seppero impadronirsi, nei momenti decisivi,
del controllo delle piazze.
Ma ciò che in definitiva decise l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu l’atteggiamento del capo del
governo, del ministro degli esteri e del re. Fin dall’autunno 1914, Salandra e Sonnino allacciarono contatti segretissimi
con l’Intesa, pur continuando nel contempo a trattare con gli imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale
in cambio della neutralità. Infine decisero, col solo avallo del re e senza informare il Parlamento, di accettare le
proposte dell’intesa firmando, il 26 aprile 1915, il cosiddetto Patto di Londra, con Francia, Inghilterra e Russia. Le
clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo, la Venezia
Giulia e l’intera penisola istriana (con l’esclusione della città di Fiume) e una parte della Dalmazia con numerose isole
adriatiche.
Quando, ai primi di maggio, Giolitti non ancora al corrente del Patto di Londra, si pronunciò per la continuazione delle
trattative con l’Austria, ben 300 deputati gli manifestarono solidarietà, inducendo Salandra a rassegnare le dimissioni.
Ma la volontà neutralista del parlamento fu di fatto scavalcata, da un lato dalla decisione del re, che rifiutò le dimissioni
di Salandra; dall’altro dalle manifestazioni di piazza che in quei giorni decisivi di maggio si fecero sempre più
imponenti e minacciose. Il 20 maggio 1915 la Camera approvò col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei
pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio dichiarava guerra all’Austria.
I socialisti non riuscirono ad organizzare una opposizione efficace. La stessa formula “né aderire, né sabotare” era poco
più di una dichiarazione di principio e un’implicita confessione di impotenza.
13.4 LA GRANDE STRAGE (1915-16)
Sul confine orientale le forze austro-ungariche, nettamente inferiori di numero, ripiegarono per pochi chilometri: quanto
bastava per attestarsi sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell’isonzo e sulle alture del Carso. Contro
queste linee le truppe comandate dal generale Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive ( le
prime 4 battaglie dell’Isonzo) senza riuscire a cogliere alcun successo. Alla fine dell’anno l’esercito italiano perse quasi
250.000 uomini fra morti e feriti. Una situazione analogo, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese.
Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915.
In quell’anno gli unici successi di qualche rilievo furono ottenuti sul fronte orientale dagli austro-tedeschi: prima contro
i russi, che furono costretti ad abbandonare la Polonia; poi contro la Serbia che, attaccata simultaneamente da Austria e
Bulgaria, fu invasa e cancellata dal novero dei contendenti.
All’inizio dell’anno successivo, i tedeschi ripresero l’iniziativa sul fronte occidentale, sferrando un attacco in forze
contro la piazzaforte francese di Verdun. Ma la battaglia, durata 4 mesi, risulto troppo costosa anche per gli attaccanti,
che ebbero perdite di poco inferiori a quelle degli avversari. I francesi riuscirono a resistere fino alla fine di giugno,
quando gli inglesi organizzarono una controffensiva sulla Somme, presto trasformatasi in una nuova, estenuante
battaglia di logoramento.
Nel giungo 1916, mentre si andava esaurendo l’offensiva tedesca contro Verdun, l’esercito austriaco passò all’attacco
sul fronte italiano, tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta. Gli italiani furono colti di sorpresa
dall’offensiva, che fu chiamata significativamente Strafexpedition, ma riuscirono faticosamente ad arrestarla sugli
altipiani di Asiago e successivamente a contrattaccare. L’Italia non subì alcuna perdita territoriale ma il contraccolpo
psicologico fu ugualmente fortissimo. Il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da un ministero di
coalizione nazionale presieduto da Paolo Boselli.
Nel corso dell’anno furono combattute altre 5 battaglie dell’Isonzo, tutte estremamente sanguinose e tutte prive di
risultati tangibili, salvo quello, di valore morale più che strategico, della presa di Gorizia, avvenuta in agosto.
Nel 1916, sul fronte orientale a prendere l’iniziativa furono questa volta i russi che lanciarono in giugno una violenta
offensiva. I successi russi ebbero l’effetto di indurre la Romania a intervenire, in agosto, a fianco dell’intesa. Ma
l’intervento si risolse in un completo disastro: la Romania subì la stessa sorte della Serbia.
Gli imperi centrali restavano sempre inferiori all’intesa per risorse economiche e per potenziale umano e subivano le
conseguenze del ferreo blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca
aveva tentato un attacco contro quella inglese, in prossimità della penisola dello Jutland.
13.8 LA SVOLTA DEL 1917
Nei primi mesi del 1917 uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (nome assunto dalla capitale nel 1914) si
trasformò in una imponente manifestazione politica contro il regime zarista. I soldati chiamati a ristabilire l’ordine
rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono con i dimostranti; lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo fu
arrestato con l’intera famiglia reale.
Circa un mese dopo, gli Stati Uniti decidevano di entrare in guerra contro la Germania. L’intervento americano, pur
facendo sentire il suo peso solo in capo a parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello
economico: tanto da compensare il colpo gravissimo subito dall’intesa con l’uscita di scena della Russia.
Il crollo del regime zarista era il preludio della disgregazione dell’esercito. Molti reparti rifiutarono di riconoscere
l’autorità degli ufficiali. Molti soldati-contadini abbandonarono il fronte e tornarono ai loro villaggi.
Il tentativo del nuovo governo di lanciare un’offensiva contro gli austro-tedeschi si risolse in un completo fallimento. I
tedeschi penetrarono in profondità nel territorio dell’ex impero zarista e poterono trasferire contingenti di truppe sul
fronte occidentale..
Si intensificarono dappertutto le manifestazioni di insofferenza popolare contro la guerra, gli scioperi operai, gli
ammutinamenti dei reparti combattenti. Ma anche negli imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni di
stanchezza.
Particolarmente delicata era la posizione dell’Impero austro-ungarico, dove l’andamento non brillante della guerra
aveva ridato forza alle aspirazioni indipendentiste delle nazionalità oppresse. Alla costituzione di un governo
cecoslovacco in esilio seguì, nell’estate del ’17, un accordo fra serbi croati e sloveni per la costituzione di uno stato
unitario degli slavi del sud.
Il nuovo imperatore, Carlo I, avviò negoziati segreti in vista di una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte
dall’intesa. Non ebbe miglior fortuna un’iniziativa promossa dal papa Benedetto XV che invitò i governanti a por fine
all’inutile strage.
13.9 L’ITALIA E IL DISASTRO DI CAPORETTO
Anche per l’Italia il 1917 fu l’anno più difficile della guerra. Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull’Isonzo,
con risultati modesti. Tra i soldati le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti. Fra
la popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dall’aumento dei prezzi e dalla
carenza dei generi alimentari.
Il 24 ottobre 1917, un’armata austriaca rinforzata da 7 divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull’alto Isonzo e
sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto.
Gli attaccanti avanzarono nel Friuli, mettendo in atto per la prima volta la nuova tattica dell’infiltrazione (penetrare
rapidamente senza preoccuparsi di rafforzare le posizioni). La manovra fu efficace. Solo due settimane dopo un esercito
praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave.
Rimosso dal comando supremo, il generale Cadorna, fu sostituito da Armando Diaz. Paradossalmente la svolta imposta
dalla disfatta di Caporetto finì con l’avere ripercussioni positive sull’andamento della guerra italiana. I soldati si
trovarono a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò
contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica. Il nuovo
capo di stato maggiore si mostrò meno incline all’uso indiscriminato dei mezzi repressivo e più attento alle esigenze dei
soldati. Il comando supremo mise in atto una serie di provvedimenti volti a sollevare le condizioni materiali dei soldati:
vitto più abbondante, licenze più frequenti, maggiori possibilità di svago. A cominciare dall’inizio del ’18, fu svolta
un’opera sistematica di propaganda fra le truppe, attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un
Servizio P (cioè propaganda).
13.10 RIVOLUZIONE O GUERRA DEMOCRATICA?
Nell’ottobre del calendario russo (novembre per noi), un’insurrezione guidata dai bolscevichi rovesciava il governo
provvisorio. Il potere fu assunto da un governo rivoluzionario presieduto da Lenin, che decise immediatamente di por
fine alla guerra e dichiarò la sua disponibilità ad una pace “senza annessioni e senza indennità”, firmando subito dopo
un armistizio con gli imperi centrali. La pace fu stipulata il 3 marzo 1918 nella città di Brest-Litovsk. Con la pace Lenin
riuscì a dimostrare al mondo che la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente attuabile.
Per rispondere alla sfida lanciata da Lenin, gli stati dell’Intesa dovettero a loro volta accentuare il carattere ideologico
della guerra, presentandola sempre più come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo, come una difesa
della libertà dei popoli.
Questa concezione trovò il suo interprete nel presidente americano Woodrow Wilson. Nel gennaio 1918 Wilson precisò
le linee ispiratrici della sua politica in un organico programma di pace in 14 punti. Oltre a invocare il ripristino della
libertà di navigazione, l’abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti, formulava alcune proposte
circa il nuovo assetto europeo: piena reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei territori
russi occupati dai tedeschi, restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, possibilità di sviluppo autonomo dei
popoli soggetti all’Impero austro-ungarico e a quello turco, rettifica dei confini italiani secondo le linee indicate dalla
nazionalità, si proponeva infine, l’istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle Nazioni, per
assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.
Per la verità i governanti dell’intesa non condividevano affatto il programma wilsoniano, ma vincolati come erano al
raggiungimento dei rispettivi obbiettivi, dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, sia perché avevano troppo
bisogno dell’aiuto americano, sia perché speravano che il wilsonismo costituisse un valido antidoto contro la diffusione
rivoluzionaria che veniva dalla Russia bolscevica.
13.11 L’ULTIMO ANNO DI GUERRA
L’inizio del 1918 vedeva ancora i due schieramenti in una situazione di sostanziale equilibrio sul piano militare. La
partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che lo stato maggiore tedesco tentò la sua ultima e
disperata scommessa impegnando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. Negli ultimi giorni
di marzo, i tedeschi riuscirono a sfondare. In giugno l’esercito di Hindenburg era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto
il tiro dei nuovi cannoni tedeschi a lunga gittata.
Sempre in giugno, gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando in forza sul Piave,
ma furono respinti.
A metà luglio un ultimo attacco sulla Marna fu fermato dagli anglo-francesi, che agivano ora sotto un comando
unificato affidato al generale francese Foch e cominciavano a giovarsi del massiccio apporto degli USA. Alla fine di
luglio le forze dell’intesa passarono al contrattacco. Nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave
sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente.
L’ingrato compito di aprire le trattative di pace fu affidato a un nuovo governo di coalizione democratica, formatosi ai
primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici del centro.
Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente. La prima a
cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’Impero turco. Alla fine di ottobre si consumò la crisi
finale dell’Austria-ungheria. Cecoslovacchi e slavi del sud diedero vita a stati indipendenti.
Quando il 24 ottobreo gli italiani lanciarono un’offensiva sul fronte del Piave, l’Impero era ormai in piena crisi.
Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci non riuscirono a organizzare una resistenza per la
defezione dei reparti cechi e ungheresi e il 3 novembre firmarono a Villa Giusti l’armistizio con l’Italia.
Intanto la situazione precipitava anche in Germania. I marinai si ammutinarono e diedero vita insieme agli operai delle
città a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Un socialdemocratico, Friederich Ebert, fu proclamato il 9
novembre a capo del governo, mentre il Kaiser fu costretto a fuggire in Olanda. L’11 novembre i delegati tedeschi
firmavano l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes, accettando: consegna dell’armamento pesante e della
flotta,ritiro al di qua del Reno delle truppe, annullamento dei trattati con la Russia e la Romania, restituzione unilaterale
dei prigionieri.
La Germania perdeva per fame e per stanchezza, per esaurimento delle forze morali e materiali, ma senza essere stata
schiacciata sul piano militare. La guerra nata da una contesa locale si chiudeva, non solo con un tragico bilancio di
perdite umane( 8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche con un drastico
ridimensionamento del peso politico del vecchio continente sulla scena internazionale.
13.12 I TRATTATI DI PACE E LA NUOVA CARTA D’EUROPA
Un compito di eccezionale difficoltà era quello che attendeva gli stati impegnati nella conferenza di pace, i cui lavori si
aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles. Quando la conferenza si aprì, era convinzione diffusa che la
sistemazione dell’Europa postbellica si sarebbe fondata essenzialmente sul programma indicato da Wilson. In pratica
però, la realizzazione del programma wilsoniano si rivelò assai problematica; non era facile applicare i principi di
nazionalità senza rischiare di far nascere nuovi irredentismi. Inoltre quei principi non sempre erano compatibili con
l’esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti e di premiare i vincitori.
Il contrasto fra l’ideale di una pace democratica e l’obbiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando
furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell’AlsaziaLorena, ma chiedevano di spostare i loro confini sino alla riva sinistra del Reno. Ma questi progetti incontravano
l’opposizione di Wilson e quella, meno esplicita, degli inglesi, contrari allo strapotere di un unico stato sul continente.
La Germania poté così limitare le amputazioni territoriali, ma subì una serie di clausole che, se eseguite integralmente,
sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato di pace con la
Germania fu firmato il 28 giugno 1919. si trattò di una vera e propria imposizione, subita sotto la minaccia
dell’occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale il trattato prevedeva la restituzione
dell’Alsazia-Lorena, il passaggio alla ricostituita Polonia dei alcune regioni orientali (l’alta Slesia, la Posnania e una
striscia della Pomerania) per consentire al nuovo stato di affacciarsi sul Baltico e di accedere al porto di Danzica.
Questa città veniva tolta alla Germania e trasformata in città libera. La Germania perse inoltre le sue colonie e dovette
impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazioni, i danni seguiti in conseguenza del conflitto. Per finire la
Germania fu costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del suo
esercito a 100.000 uomini dotati solo di armamento leggero e a lasciare smilitarizzata l’intera valle del Reno, che
sarebbe stata presidiata per 15 anni da truppe inglesi francesi e belghe.
Un problema diverso era costituito dalla dissoluzione dell’Impero asburgico. A fare le spese della nuova sistemazione
furono i gruppi etnici tedesco e ungherese, che avevano avuto una posizione dominante nella duplice monarchia e che
furono trattati alla stregua di popoli vinti. La nuova repubblica d’Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena
85.000 km2 ; Vienna era ormai una capitale sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del piccolo stato.
L’indipendenza austriaca sarebbe stata affidata alla tutela della Società delle Nazioni: una formula che serviva a
mascherare l’opposizione delle potenze vincitrici all’eventualità di un’unificazione con la Germania.
Un trattamento severo toccò all’Ungheria che perse tutte le regioni slave fin allora dipendenti da Budapest.
I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia. I boemi e gli slovacchi confluirono nella repubblica della
Cecoslovacchia. Gli slavi del sud si unirono a Serbia e Montenegro per dar vita alla Jugoslavia. Il nuovo assetto
balcanico era completato dall’allargamento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa
estromissione dall’Europa dell’Impero ottomano.
Le potenze occidentali non riconobbero la Repubblica socialista, anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i
gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano
formate con l’appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la
Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di stati-cuscinetto (le 4 repubbliche baltiche, la
Polonia e la Romania) che le erano tutti fortemente ostili.
L’Europa contava ben 8 nuovi stati sorti dalle rovine dei vecchi imperi. Ad essi si sarebbe aggiunto, nel 1921, lo stato
libero d’Irlanda.
Nelle intenzioni di Wilson ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la
Società delle nazioni, la cui istituzione fu ufficialmente accettata da tutti i paesi partecipanti alla conferenza di
Versailles. Il nuovo organismo sopranazionale nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, più grave di tutte
l’esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia. Ma il colpo più grave ed inatteso lo ricevette proprio dagli Stati
Uniti. Il senato respinse nel marzo 1920 l’adesione alla Società delle nazioni. Wilson gravemente ammalato, non si
ripresentò alle elezioni presidenziali del ’20. cominciava per gli USA una stagione di isolazionismo. Quanto alla Società
delle nazioni essa finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire nessuna
crisi internazionale.
14 La rivoluzione russa
14.1 DA FEBBRAIO A OTTOBRE
Quando nel marzo 1917( febbraio per il calendario russo) il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta di Pietrogrado, la
successione fu assunta da un governo provvisorio di orientamento liberale, presieduto dal principe Georgij L’vov.
Obbiettivo del governo era quello di continuare la guerra e promuovere l’occidentalizzazione del paese. Condividevano
questa prospettiva anche i menscevichi, che si ispiravano ai modelli della socialdemocrazia europea. I
socialrivoluzionari erano divisi in correnti molto eterogenee, ma quasi tutti ritenevano inevitabile il passaggio attraverso
una fase democratico-borghese. Per questo accettarono di far parte del governo provvisorio, in cui il democraticoradicale Kerenskij assunse in ministero della guerra.
Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi, convinti che solo la classe operaia avrebbe potuto
assumersi la guida della trasformazione del paese. Ma anch’essi assunsero sulle prime una posizione di attesa.
Il consenso, o la neutralità, di tutte le forze politiche antizariste non furono tuttavia sufficienti per fondare su solide basi
il potere del governo provvisorio. Come già era accaduto nel 1905, al potere legale del governo si era subito affiancato e
sovrapposto il potere di fatto sei soviet.
Nell’aprile del ’17, Lenin, leader dei bolscevichi, rientrò in Russia. Il viaggio era stato reso possibile dalla copertura
delle autorità tedesche che. Conoscendo le idee di Lenin, speravano di indebolire la posizione di quanti in Russia si
battevano per la prosecuzione del conflitto. Giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un documento in dieci punti (le tesi di
aprile) in cui poneva in termini immediati il problema della presa del potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa.
L’obbiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet e di lanciare le parole d’ordine della pace e della terra
ai contadini poveri.
Questo programma consentì al partito bolscevico di allargare sensibilmente l’area dei suoi consensi. Al tempo stesso si
approfondiva però la frattura con gli altri gruppi socialisti. Il primo episodio di esplicita ribellione al governo
provvisorio si ebbe a Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la
partenza per il fronte di alcuni reparti. I bolscevichi tentarono di assumerne il controllo. Ma l’insurrezione fallì. Alcuni
leader bolscevichi furono arrestati o, come Lenin, costretti a fuggire.
In agosto il principe L’vov si dimise e fu sostituito da Kerenskij. Il nuovo presidente era però screditato dal fallimento
dell’offensiva da lui promossa in luglio; e i suoi tentativi di portare avanti una politica personale gli avevano alienato sia
le simpatie del suo stesso partito sial’appoggio dei moderati che ormai gli contrapponevano apertamente il nuovo uomo
forte della situazione, il comandante dell’esercito generale Kornilov.
Kornilov lanciò un ultimatum al governo chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari. Kerenskij reagì facendo
appello alle forze socialiste, compresi i bolscevichi. Si distribuirono armi alla popolazione e si incitarono alla rivolta. Il
tentativo di colpo di stato militare fu così stroncato. Ma ad uscire rafforzati furono soprattutto i bolscevichi, che
conquistarono la maggioranza nei soviet di Mosca e Pietrogrado. Per Lenin la parola d’ordine era adesso: “tutto il
potere ai soviet”.
14.2 LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
La decisione di rovesciare con la forza il governo Kerenskij fu presa dai bolscevichi il 23 ottobre. Lenin dovette
superare forti opposizioni, contrari all’insurrezione erano due fra i più autorevoli leader del partito, Zinov’ev e
Kamenev. Favorevole era invece un altro leader, noto con lo pseudonimo di Trotzkij ed eletto in settembre presidente
del soviet di Pietrogrado; egli fu l’organizzatore e la mente militare dell’insurrezione.
La mattina del 7 novembre (25 ottobre secondo il calendario russo), soldati rivoluzionari e guardie rosse, dopo essersi
assicurati durante la notte il controllo dei punti nevralgici della capitale, circondarono e isolarono il palazzo d’inverno e
se ne impadronirono incontrando scarsa o nessuna resistenza.
Negli stessi giorni, si riuniva a Pietrogrado il congresso panrusso dei soviet (l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte
le province). La coincidenza di date era stata voluta dai bolscevichi perché il congresso potesse sanzionare l’avvenuta
presa del potere.
Come suo primo atto il congresso approvò due decreti proposti personalmente da Lenin. Il primo per una pace giusta e
democratica, senza annessioni e indennità. Il secondo stabiliva che la grande proprietà terriera era abolita senza alcun
indennizzo.
Veniva frattanto costituito un nuovo governo rivoluzionario, composto esclusivamente da bolscevichi di cui Lenin era
presidente, che fu chiamato Consiglio dei commissari del popolo. I menscevichi, i cadetti e la maggioranza dei
socialrivoluzionari protestarono vivacemente contro l’atto di forza. Ma non organizzarono manifestazioni e preferirono
puntare le loro carte sull’imminente convocazione dell’Assemblea costituente, le cui elezioni erano state fissate per la
fine di novembre.
I risultati delle urne costituirono una gravissima delusione per i bolscevichi; ebbero infatti meno di un quarto dei seggi.
Quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfatori delle elezioni furono i socialrivoluzionari. Ma i
bolscevichi non avevano nessuna intenzione di rinunciare al potere. Riunitasi la prima volta i gennaio, la Costituente fu
immediatamente sciolta grazie all’intervento di militari bolscevichi, che obbedivano ad un ordine del congresso dei
soviet.
14.3 DITTATURA E GUERRA CIVILE
Se era stato facile per i bolscevichi impadronirsi del potere, molto più difficile si presentava il compito di gestire questo
potere, di amministrare un paese immenso, di affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime. Un compito
reso ancora difficile dal fatto che i bolscevichi non potevano contare né sull’appoggio delle altre forze politiche, né sulla
collaborazione degli strati sociali più elevati.
I leader bolscevichi affermarono di voler procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo stato proletario ispirato
all’esperienza della comune di Parigi, e prevedeva che poi lo stato stesso si sarebbe avviato verso una rapida estinzione,
le masse si sarebbero autogovernate secondo i principi di democrazia diretta sperimentati nei soviet. Per quanto
riguardava la guerra, l’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di una sollevazione generale dei popoli europei,
da cui sarebbe scaturita una pace equa.
Ma questa ipotesi non si realizzò. E i capi rivoluzionari si trovarono a trattare in condizione di grave inferiorità con una
potenza che già occupava vaste zone dell’ex Impero russo. La pace separata con la Germania, che fu conclusa il 3
marzo 1918 con la firma del durissimo trattato di Brest-Litovsk, era una scelta priva di alternative.
Gravissime furono le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali. Le potenze dell’Intesa considerarono
la pace di Brest-Litovsk come un tradimento e, in risposta, cominciarono ad appoggiare concretamente le forze
antibolsceviche. Fra la primavera e l’estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord della
Russia e poi sulle sponde del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale.
Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari. Si era cominciato con la creazione di una polizia
politica, la Ceka. Nel giugno 1918 tutti i partiti d’opposizione vennero messi fuorilegge e fu reintrodotta la pena di
morte. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di “nemici di classe” entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del
nuovo regime. Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell’esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio del
’18 col nuovo nome di Armata Rossa degli operai e dei contadini. Trotzkij, servendosi anche di ufficiali del vecchio
esercito zarista, fece di quella che avrebbe dovuto essere una milizia popolare una potente macchina da guerra. La
creazione di un esercito efficiente consentì alla Russia bolscevica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi
nemici che pure erano superiori sul piano militare. Le forze controrivoluzionarie erano però divise e mal coordinate, e
non riuscirono a guadagnarsi l’appoggio dei contadini.
Infine, nell’estate del 1919, i “bianchi” persero l’appoggio diretto ei governi occidentali, preoccupati per le proteste che
l’intervento suscitava nei loro paesi e per la diffusione del contagio rivoluzionario fra gli stessi reparti inviati in Russia.
Nella primavera del ’20 le armate bianche erano sconfitte e la fase più acuta della guerra civile poteva considerarsi
esaurita.
Ma nel momento in cui trionfava sui suoi nemici interni, il regime bolscevico dovette subire un inatteso attacco esterno.
A sferrarlo, nell’aprile 1920, fu la nuova repubblica di Polonia. L’esercito polacco dilagò entro i confini russi. La
reazione dei bolscevichi fu rapida ed efficace. Ai primi di agosto, dopo una travolgente avanzata, l’Armata rossa giunse
fino alle porte di Varsavia. Ma, a fine agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi ad una precipitosa ritirata. Si
giunse infine alla conclusione di un armistizio e quindi alla pace, nel marzo 1921. La Polonia vide in parte accontentate
le sue aspirazioni territoriali. La guerra contro l’aggressione straniera aveva accresciuto in Russia il senso di coesione
nazionale.
14.4 LA TERZA INTERNAZIONALE
Fra i dirigenti bolscevichi era diffusa l’idea che questa fosse una situazione transitoria e che alla lunga il regime
comunista avrebbe potuto sopravvivere solo con l’aiuto del proletariato dell’Europa più progredita. Fu in questo clima
che Lenin decise di realizzare un progetto concepito fin dall’inizio della guerra: sostituire alla vecchia Internazionale
socialista una nuova Internazionale “comunista”, che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari di tutto il mondo.
La riunione costitutiva dell’Internazionale comunista, o terza internazionale, ebbe luogo a Mosca ai primi di marzo del
1919. Vi parteciparono una cinquantina di delegati; nel suo primo anno di vita la nuova organizzazione non svolse
alcuna attività di rilievo. La struttura e i compiti dell’internazionale comunista furono fissati soltanto nel II congresso. I
partecipanti questa volta erano numerosi e autorevoli e rappresentavano 69 partiti operai di ogni parte del mondo. Il
problema centrale del congresso fu rappresentato dalle condizioni per essere ammessi a farne parte. I partiti aderenti al
Cominter avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di partito comunista,
difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica e rompere con le correnti riformiste.
14.5 DAL COMUNISMO DI GUERRA ALLA NEP
Quando i comunisti presero il potere, l’economia russa si trovava già in uno stato di gravissimo dissesto, che la
rivoluzione e le devastazioni della guerra civile finirono col rendere ancor più completo.
A partire dall’estate del ’18 il governo bolscevico cercò di attuare anche in campo economico una politica più energica
e autoritaria, che fu poi definita comunismo di guerra. Si cercò innanzitutto di risolvere il problema degli
approvvigionamenti alle città. Per questo furono istituiti in tutti i centri rurali dei comitati col compito di provvedere
all’ammasso e alla distribuzione di derrate: squadre di operai e contadini poveri percorsero le campagne requisendo il
grano degli agricoltori benestanti.
In campo industriale il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del giugno 1918 che nazionalizzava tutti i
settori più importanti. Si cercò quindi di utilizzare i vecchi quadri dirigenti delle imprese, spesso affiancandoli con
funzionari di partito, e di reintrodurre nelle fabbriche criteri di efficienza.
Grazie al comunismo di guerra il regime bolscevico riuscì ad armare e nutrire il suo esercito. Ma sul piano economico
l’esperienza si risolse in un totale fallimento. Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben 7 volte
inferiore a quello del 1913. le grandi città si erano letteralmente spopolate per la disoccupazione e per la fame. Nelle
campagne i raccolti dei cereali risultavano più che dimezzati rispetto all’anteguerra. Il commercio privato, formalmente
vietato, fioriva nell’illegalità con gli inevitabili fenomeni di borsa nera.
Allontanatosi l’incubo del ritorno del vecchio regime, i contadini manifestarono sempre più chiaramente la loro
insofferenza. La crisi raggiunse il culmine nella primavera estate del ’21, quando, per l’effetto congiunto della guerra
civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne, provocando la morte di almeno 3 milioni di
persone. Non meno imbarazzante per il potere comunista era il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai.
In quello stesso marzo del ’21 si tenne a Mosca il X congresso del partito comunista. Sul piano politico il congresso
segnò la fine di ogni aperta dialettica all’interno del partito, vietando la costituzione di correnti organizzate. In materia
economica si abbandonò l’esperimento del comunismo di guerra.
La nuova politica economica (Nep) aveva l’obiettivo principale di stimolare la produzione agricola e di favorire
l’afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai contadini si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali
eccedenze, una volta che avessero consegnato agli organi statali una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si
estese anche al commercio e alla piccola industria. Lo stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei
maggiori gruppi industriali.
Accolta con generale favore, la Nep ebbe conseguenze indubbiamente benefiche su un’economia del tutto stremata.
Nelle campagne favorì il riemergere del ceto dei contadini ricchi. La liberalizzazione del commercio aumentò la
disponibilità di beni di consumo. Se le piccole imprese realizzarono appezzabili progressi, la grande industria di stato
stentava a riprendere slancio, anche per la ristrettezza del mercato interno. In queste condizioni l’industria non era in
grado di dare lavoro a tutti quelli che ne avevano bisogno. I salari, pagati nuovamente in denaro, erano in genere
piuttosto bassi, mentre la contrattazione era resa difficile dall’assenza di una vera organizzazione sindacale. Proprio la
classe operaia risultò così la maggiore sacrificata dalle scelte della Nep.
14.6 L’UNIONE SOVIETICA: COSTITUZIONE E SOCIETA’
La prima costituzione della Russia rivoluzionaria era stata varata nel luglio del ’18, in piena guerra civile, e
rispecchiava l’originaria impostazione operista e consiliare del gruppo dirigente bolscevico. La costituzione prevedeva
inoltre che il nuovo stato avesse carattere federale, rispettasse l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse
all’unione, su basi di parità, con altre future repubbliche sovietiche.
Nel dicembre del ’22 i congressi dei soviet delle singole repubbliche decisero di dar vita all’Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche. La nuova costituzione dell’Urss, approvata nel 1924, dava vita ad una struttura istituzionale, in cui
il potere supremo era affidato al Congresso dei soviet dell’Unione. Il potere reale era però nelle mani del Partito
comunista. Era il partito a fornire le direttive ideologiche e politiche. Era il partito a controllare la potentissima polizia
politica. Era il partito a proporre i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese.
Come tutti i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi miravano a cambiare la società nel profondo, a
creare una cultura adatta alla realtà socialista che si voleva costruire. Lo sforzo dei bolscevichi si concentrò soprattutto
in due direzioni: l’educazione della gioventù e la lotta contro la chiesa ortodossa, in quanto espressione di una visione
del mondo che si voleva estirpare perché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina marxista.
L’influenza della chiesa ortodossa non fu del tutto eliminata, ma certo drasticamente ridimensionata. La chiesa
ortodossa era, già prima della rivoluzione, indebolita e screditata da una troppo lunga tradizione di dipendenza dal
vecchio ordine politico. A partire dal 1925, allentatasi la stretta repressiva nei suoi confronti, si adattò a vivere negli
spazi limitatissimi che il regime decise di concedergli.
Il governo rivoluzionario stabilì tra i suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al
massimo le pratiche per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Fu proclamata l’assoluta parità fra i sessi e la
condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi. Nonostante tutto ciò furono ben presto emarginate le
posizioni di coloro che ritenevano che la rivoluzione avrebbe dovuto portare all’assoluta libertà sessuale e alla
scomparsa della famiglia.
L’istruzione fu resa obbligatoria fino all’età di 15 anni. Si cercò di collegare la scuola al mondo della produzione,
privilegiando l’istruzione tecnica su quella umanistica. E ci si preoccupò, nel contempo, di formare ideologicamente le
nuove generazioni incoraggiando l’iscrizione in massa nell’organizzazione giovanile del partito.
Parecchi intellettuali di prestigio andarono ad ingrossare le file dell’emigrazione politica. Ma i più si gettarono con
entusiasmo nell’esperienza rivoluzionaria, tentando di trasferirne contenuti e valori nei propri settori di attività. In una
prima fase queste tendenze d’avanguardia furono guardate con simpatia dalle autorità. Furono gli anni della poesia di
Majakovskij, della pittura astrattista di Malevic e dei primi film di Ejzenstein. A partire dalla metà degli anni ’20, la
libertà artistica fu sempre più condizionata.
14.7 DA LENIN A STALIN: IL SOCIALISMO IN UN SOLO PAESE
Nell’aprile del 1922 l’ex commissario alle nazionalità Stalin, fu nominato segretario generale del partito comunista
dell’Urss. Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che lo avrebbe condotto alla
morte nel gennaio 1924. Con la malattia di Lenin e la quasi contemporanea ascesa di Stalin alla segreteria del partito le
cose cambiarono rapidamente. I dissensi interni si fecero più aspri e si intrecciarono con una sempre più scoperta lotta
per la successione.
Il primo grave scontro ebbe per oggetto il problema della centralizzazione e della burocratizzazione del partito e degli
enormi poteri che si andavano accumulando nelle mani del segretario generale Stalin. Protagonista sfortunato della
battagli volta a limitare le prerogative dell’apparato fu Lev Trotzkij.
Trotzkij era il più autorevole e popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi. Ma era anche, proprio per questo, isolato
rispetto agli altri leader di primo piano (Zinov’ev, Kamenev, Bucharin) che respinsero le sue critiche alla gestione del
partito e fecero blocco col segretario generale. Lo scontro fra Trotzkij e Stalin non riguardava solo il problema della
burocratizzazione. Trotzkij collegava l’involuzione del partito all’isolamento internazionale dello stato sovietico.
L’Urss doveva, dunque, da un lato accelerare i suoi ritmi di industrializzazione, dall’altro concentrare i suoi sforzi nel
tentativo di favorire l’estendersi del processo rivoluzionario nell’Occidente capitalistico.
Contro questa tesi (rivoluzione permanente) scese in campo lo stesso Stalin. Egli sosteneva che, nei brevi tempi, la
vittoria del “socialismo in un solo paese” era possibile e probabile e che l’Urss aveva in sé la forza sufficiente a
fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista.
L’atteggiamento delle potenze europee, che fra il ’24 e il ’25 si decisero a riconoscere lo stato sovietico e ad instaurare
con esso normali rapporti diplomatici, finì col rafforzare implicitamente Stalin. Una volta sconfitto Trotzkij, venne
meno però il principale legame che teneva uniti i suoi avversari e il gruppo dirigente conobbe una nuova spaccatura.
L’occasione di scontro fu la politica economica. A partire dall’autunno del ’25 Zinov’ev e Kamenev si pronunciarono
per un’interruzione dell’esperimento della Nep e per un deciso rilancio dell’industrializzazione a spese dei contadini
benestanti. La tesi opposta fu sostenuta con decisione da Bucharin, che ebbe l’appoggio di Stalin. Zinov’ev e Kamenev,
messi in minoranza, si riaccostarono a Trotzkij e, assieme a lui, cercarono di organizzare un fronte unico di
opposizione.
Ma la lotta contro Stalin era persa in partenza. I leader dell’opposizione furono dapprima allontanati dall’Ufficio
politico e dal Comitato centrale, poi, nel ’27, addirittura espulsi dal partito. Trotzkij fu deportato e successivamente
espulso dall’Urss.
Con l’uscita di scena di buona parte del gruppo dirigente storico, si chiudeva definitivamente la prima fase della
rivoluzione comunista. Cominciava una nuova fase, che sarebbe stata caratterizzata dalla continua crescita del potere
personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l’Urss alla condizione di grande potenza.
15 L’eredità della grande guerra
15.3 IL BIENNIO ROSSO
Tra la fine del 1918 e l’estate del 1920, il movimento operaio europeo fu protagonista di un’impetuosa avanzata
politica. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori diedero vita a
un’imponente ondata di agitazioni. Ma la grande ondata di lotte operaie del biennio rosso non si esaurì nelle sole
rivendicazioni sindacali, si manifestavano aspirazioni più radicali, “fare come in Russia” divenne la parola d’ordine dei
gruppi rivoluzionari.
L’ondata rossa del ’19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse. In Francia e in Gran Bretagna
le classi dirigenti riuscirono a contenere senza eccessive difficoltà le pressioni del movimento operaio.
Germania, Austria e Ungheria furono invece teatro di veri e propri tentativi rivoluzionari. Ma ciò che era stato possibile
in Russia, in presenza di un capitalismo debole, di una borghesia numericamente esigua, di un movimento operaio
abituato alla cospirazione più che alle lotte quotidiane, non fu possibile negli altri paesi europei.
La rivoluzione d’ottobre in Russia aveva accentuato la frattura fra le avanguardie e il resto del movimento operaio,
legato ai partiti socialdemocratici. Il contrasto fu sancito ufficialmente nel ’19, con la costituzione dell’Internazionale
comunista. La scissione del movimento operaio avrebbe contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.
15.4 RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE NELL’EUROPA CENTRALE
Prima ancora, la rottura fra socialdemocrazia e comunismo era stata segnata dalle vicende che avevano portato i
bolscevichi al potere e da quelle drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione della repubblica. Già
al momento della firma dell’armistizio, lo stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. Il
governo legale era esercitato da un consiglio dei commissari del popolo presieduto dal socialdemocratico Ebert. Ma
nelle città i veri padroni erano i consigli degli operai e dei soldati.
La situazione poteva sembrare molto simile a quella della Russia del ’17. in realtà le differenze erano notevoli. C’erano
gli eserciti vincitori schierati lungo il Reno pronti a intervenire. Mancava una mobilitazione delle masse rurali, in
maggioranza ostili ai movimenti rivoluzionari urbani. La classe dirigente era più numerosa e meglio radicata nella
società. Contrariamente ai menscevichi, i socialdemocratici tedeschi avevano dietro di sé una lunga tradizione di lotte
legali, controllavano le centrali sindacali, disponevano di un apparato organizzativo efficiente e capillare.
I leader socialdemocratici erano contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e favorevoli a una democratizzazione del
sistema politico entro il quadro delle istituzioni parlamentari. Si creò così un’obbiettiva convergenza fra i capi della Spd
e gli esponenti della vecchia classe dirigente.
La linea moderata adottata dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio
tedesco: gli indipendenti dell’Uspd e soprattutto i rivoluzionari della “Lega di Spartaco”. Questi ultimi puntavano tutto
sui consigli. Gli spartachisti erano però consapevoli di essere nettamente minoritari e avrebbero evitato volentieri
un’immediata prova di forza. Fu l’iniziativa spontanea delle masse della capitale a spingerli verso lo scontro.
Il 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare. I dirigenti spartachisti e alcuni
leader indipendenti decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero un comunicato in cui si
incitavano i lavoratori a rovesciare il governo.
Durissima fu la reazione del governo socialdemocratico che affidò l’incarico di fronteggiare la rivolta al commissario
alla difesa Gustav Noske che, non potendo contare su un esercito efficiente , si servi di squadre volontarie (i cosiddetti
Freikorps). I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da
ufficiali dei corpi franchi.
Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l’assemblea costituente. Assenti i comunisti, che avevano deciso di boicottare le
elezioni, i socialdemocratici si affermarono come il partito più forte, ma non riuscirono a raggiungere la maggioranza.
L’accordo fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile l’elezione di Ebert alla presidenza della repubblica, la
formazione di un governo coalizione a direzione socialdemocratica e il varo della nuova costituzione repubblicana. Una
costituzione indubbiamente democratica ( struttura federale dello stato; suffragio universale; governo responsabile di
fronte al parlamento; presidente della repubblica eletto dal popolo ).
Ai primi di marzo vi furono nuovi disordini a Berlino. In primavera l’epicentro del moto rivoluzionario si spostò in
Baviera. Ma ancora più grave era la minaccia che veniva dall’estrema destra: dai militari smobilitati e inquadrati nei
corpi franchi. Di ciò fecero le spese soprattutto i socialdemocratici. Nelle elezioni del giugno 1920 la Spd subì una
secca sconfitta e dovette cedere la guida del governo ai cattolici del centro.
In Austria dopo la proclamazione della repubblica furono i socialdemocratici, forti soprattutto nella capitale, a
governare il paese, mentre i comunisti tentarono ripetutamente la carta dell’insurrezione. Nel 1920, però, le elezioni
videro prevalere il voto clericale e conservatore delle campagne e la maggioranza assoluta andò al partito cristianosociale.
Breve fu la vita della repubblica democratica in Ungheria, dove i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel
marzo del 1919, una repubblica sovietica. L’esperimento durò poco più di 4 mesi. Ai primi di agosto, il regime guidato
dal comunista Bèla Kun cadde sotto l’urto delle forze conservatrici guidate dall’ammiraglio Miklos Horthy e dalle
truppe rumene, che avevano invaso il paese con l’appoggio di Inghilterra e Francia. Horthy si insediò al potere
scatenando un’ondata di “terrore bianco”.
15.5 LA STABILIZZAZIONE MODERATA IN FRANCIA E GRAN BRETAGNA
La fine del biennio rosso e la recessione economica seguita alla fase espansiva dell’immediato dopoguerra segnarono in
tutta l’Europa un brusco riflusso delle agitazioni operaie, una riscossa delle forze moderate e un ritorno alle soluzioni
conservatrici in campo politico ed economico.
In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal ’19 in poi attuò una politica fortemente
conservatrice. Solo nella primavera del ’24 i radicali di sinistra, uniti ai socialisti riuscirono a strappare la maggioranza
ai moderati. Ma l’esperimento ebbe breve durata. Nel luglio del ’26 la guida del governo fu assunta dal leader storico
dei moderati, l’ex presidente della repubblica Raymond Poincaré. In questi anni la Francia conobbe un vero boom
economico.
Più lenta e incerta fu la stabilizzazione economica in Gran Bretagna. Il risultato fu un generale ristagno produttivo
protrattosi per tutti gli anni ’20. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono sempre al potere, salvo un breve intervallo
nel ’24 con il primo governo a guida laburista di James Mac Donald.
I conservatori avviarono una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li portò a scontrarsi
duramente con i sindacati. Furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti
alle Trade Unions venivano iscritti “d’ufficio” al Labour Party. I laburisti accusarono il colpo ma riuscirono a risalire la
corrente e ad affermarsi nelle elezioni del ’29. Si formò così un nuovo ministero laburista guidato ancora da Mac
Donald ma destinato anch’esso a vita breve, per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30.
15.7 LA CRISI DELLA RUHR
Nel gennaio 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata corresponsione di alcune riparazione in natura,
inviarono truppe nel bacino della Ruhr. L’azione aveva per scopo ufficiale quello di controllare la consegna dei
materiali dovuti, ma il vero obiettivo era spegnere ogni velleità tedesca di sottrarsi al pagamento integrale delle
riparazioni. Impossibilitato a reagire militarmente, il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della
popolazione.
Per le già dissestate casse tedesche l’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo. Il marco precipitò a
livelli impensabili e il suo potere d’acquisto fu praticamente annullato. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di
stato perse tutto. Furono invece avvantaggiati i possessori di beni reali e tutti coloro che avevano contratto debiti.
Doppiamente avvantaggiati furono gli industriali che producevano per l’esportazione e si facevano pagare in valuta
straniera.
Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò la forza per reagire. Nell’agosto del 1923 si formò un
governo di grande coalizione presieduto da Gustav Stresemann. Questi era convinto che la rinascita della Germania
sarebbe stata possibile solo attraverso accordi con le potenze vincitrici. In settembre il governo ordinò la fine della
resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia.
A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al partito nazionalsocialista e ad altre
formazioni paramilitari cercarono di organizzare un’insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto capeggiato
da Hitler non ottenne lo sperato appoggio dei militari e delle autorità locali e fu rapidamente represso.
Ristabilita l’autorità dello stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico. Fu avviata una politica
rigorosamente deflazionistica che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graduale ritorno alla normalità
monetaria. Una vera stabilizzazione sarebbe tuttavia stata impossibile senza un accordo con i vincitori sulle riparazioni.
L’accordo fu trovato, all’inizio del ’24, sulla base di un piano elaborato da un finanziere americano, Charles Dawes. Il
piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in
grado di far funzionare al meglio la sua macchina produttiva. La Germania rientrava dunque in possesso della Ruhr,
vedeva temporaneamente alleviato l’onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa
economica.
La crisi della Ruhr e la grande inflazione del ’23 avevano comunque lasciato segni profondi nella società tedesca. La
grande coalizione guidata da Stresemann si ruppe. Le elezioni del ’24 videro un calo dei partiti democratici e una
parallela avanzata delle due estreme. Un anno dopo nelle elzioni presidenziali il cattolico Wilhelm Marx, sostenuto da
tutti i partiti democratici, fu battuto di stretta misura del vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell’esercito e
simbolo vivente del passato imperiale.
Negli anni successivi tuttavia, grazie anche alla ripresa economica, la situazione politica si andò stabilizzando. I partiti
di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928. Stresemann conservò ininterrottamente fino alla sua
morte (1929) la carica di ministro degli esteri.
15.8 LA RICERCA DELLA DISTENSIONE IN EUROPA
In seguito alla scelta isolazionista degli USA e vista la riluttanza della Gran Bretagna ad assumere nuovi impegni
militari sul continente, la Francia si era sentita in qualche modo tradita dai suoi alleati e aveva cercato di costruirsi da
sola il proprio sistema di sicurezza, legando a sé tutti quei paesi dell’Europa centro-orientale che erano stati
avvantaggiati dai trattati di Versailles: in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania.
L’accordo coi piccoli stati dell’est non sembrava tuttavia sufficiente ad allontanare lo spettro di una rivincita tedesca.
Da qui l’impegno fanatico nel pretendere il rispetto del pagamento delle riparazioni.
Questa linea di politica estera subì un deciso mutamento nel ’24 con l’accettazione del piano Dawes. Si inaugurò allora
una fase di distensione fra le due potenze che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel ministro
degli esteri francese Aristide Briand. I due statisti perseguivano obiettivi diversi ma alla base della loro intesa c’era però
la volontà comune di superare le fratture create dalla guerra nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva. Il
risultato più importante dell’intesa franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell’ottobre del ’25, che
consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e
nell’impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. Un anno dopo la firma del patto la
Germania fu ammessa alla società delle nazioni. Nel giungo del ’29 un nuovo piano elaborato sempre da un finanziere
americano, Owen Young, ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni. Nel 1930 gli ultimi reparti francesi si
ritirarono dalla Renania. Il nuovo clima di distensione internazionale trovò una conferma nel 1928 quando i
rappresentanti di 15 stati, fra cui Germania e Urss, riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di stato
americano Frank Kellog, firmarono un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere
le controversie.
Ma questa stagione si interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con l’inizio della grande crisi
economica mondiale.
16 Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo
16.1 I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA
Dopo la vittoria, in Italia l’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica. Tutti i settori della società erano in
fermento. La classe operaia, infiammata dagli echi di quanto stava accadendo in Russia, reclamava maggior potere in
fabbrica e manifestava tendenze rivoluzionarie. I contadini tornavano dal fronte con una accresciuta consapevolezza dei
loro diritti, decisi ad ottenere l’attuazione delle promesse fatte nel corso del conflitto. I ceti medi tendevano a
organizzarsi e a mobilitarsi più che in passato per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici. Questi problemi si
presentavano in forma più acuta in un paese come l’Italia dove le strutture economiche erano meno avanzate e il
processo di democratizzazione era appena agli inizi.
A guerra finita la vecchia classe dirigente non si mostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che
il conflitto mondiale aveva suscitato e finì così col perdere l’egemonia indiscussa di cui aveva goduto.
Risultarono invece favorite quelle forze, socialiste e cattoliche che non erano compromesse con le responsabilità della
guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica.
16.2 CATTOLICI, SOCIALISTI E FASCISTI
Furono i cattolici a portare il primo fattore di novità dando vita, nel 1919, a una nuova formazione politica, il Partito
popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo padre e primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con
un programma di impostazione democratica e si dichiarava aconfessionale, ma in realtà era strettamente legato alla
chiesa. Nelle file del partito erano confluiti gli eredi della democrazia cristiana di Romolo Murri e i capi delle leghe
bianche.
L’altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista. Schiacciante era la
prevalenza della corrente massimalista, su quella riformista, che conservava però una posizione di forza nel gruppo
parlamentare. I massimalisti avevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica socialista e si
dichiaravano ammiratori della rivoluzione bolscevica. In realtà i massimalisti italiani più che preparare la rivoluzione, la
aspettavano. In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra che si battevano per
un più coerente impegno rivoluzionario. Fra questi gruppi emergevano quello napoletano che faceva capo ad Amedeo
Bordiga e quello che operava a Torino attorno ad Antonio Gramsci.
Prospettando una soluzione “alla russa”, i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze
democratico-borghesi. Insistendo nella condanna indiscriminata di tutto ciò che avesse a che fare con il passato conflitto
ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono argomenti all’oltranzismo nazionalista dei numerosi gruppi
che si formarono nell’immediato dopoguerra.
Fra questi movimenti faceva spicco quello fondato nel 1919 da Benito Mussolini col nome di Fasci di combattimento.
Politicamente il movimento si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme e si dichiarava favorevole alla repubblica;
ma ostentava un acceso nazionalismo e un’avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi il fascismo si fece
notare per il suo stile politico aggressivo e violento, tutto teso verso l’azione diretta. Proprio i fascisti furono
protagonisti del primo episodio di guerra civile d’Italia: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano nel ’19 e
conclusosi con l’incendio della sede dell “Avanti!”.
16.3 LA “VITTORIA MUTILATA” E L’IMPRESA FIUMANA
Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l’Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata. Aveva raggiunto i
“confini naturali”; aveva visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l’Impero asburgico. Si ponevano
però una serie di problemi non previsti al momento della firma del Patto di Londra: in esso si stabiliva che la Dalmazia
– abitata da slavi e ora rivendicata dalla Jugoslavia – fosse annessa all’Italia e che la città di Fiume – dove gli italiani
erano la maggioranza – restasse all’Impero austro-ungarico.
La delegazione italiana alla conferenza di Versailles, capeggiata da Orlando e Sonnino, chiese l’annessione di Fiume
sulla base del principio di nazionalità, ma in aggiunta ai territori promessi nel ’15. Tali richieste incontrarono
l’opposizione di Wilson che non era vincolato dalle clausolo del patto di Londra. Nell’aprile del ’19, per protestare
contro l’atteggiamento di Wilson, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles. Un mese dopo tornarono a Parigi senza
aver ottenuto alcun risultato.
Orlando si dimise a metà giugno. Il nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio Nitti. Gli avvenimenti della
primavera del ’19 avevano suscitato un sentimento di ostilità verso gli ex alleati e verso la stessa classe dirigente,
incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si parlò allora di vittoria mutilata.
La manifestazione più clamorosa si ebbe nel settembre del ’19, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di
volontari, sotto il comando di Gabriele D’Annunzio, occuparono la città di Fiume e ne proclamarono l’annessione
all’Italia. L’avventura fiumana si prolungo per 15 mesi e si trasformò in un’inedita esperienza politica. A Fiume, dove
D’Annunzio istituì una provvisoria reggenza, furono sperimentate per la prima volta formule e rituali collettivi (adunate
coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla) che sarebbero stati ripresi su ben più larga scala dai movimenti autoritari
degli anni ’20 e ’30.
16.4 LE AGITAZIONE SOCIALI E LE ELEZIONI DEL ‘19
Fra il ’19 e il ’20, in coincidenza con l’impresa fiumana e le polemiche sulla questione adriatica, l’Italia attraversò una
fase di convulse agitazioni sociali. Gli scioperi dell’industria aumentarono e anche il settore dei servizi pubblici fu
sconvolto da una lunga serie di scioperi; furono questi ultimi a provocare le prime reazioni contro quella che venne
definita “scioperomania”.
Non meno intense furono le lotte dei lavoratori agricoli. Oltre alla Bassa Padana dove le leghe rosse avevano il
monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni interessarono anche l’area del Centro-Nord in cui erano attive le
leghe bianche cattoliche. Le leghe bianche e quelle rosse si battevano spesso per le stesse rivendicazioni immediate, ma
divergevano profondamente negli obiettivi a lungo periodo. Mente in forma spontanea, tra l’estate e l’autunno del ’19,
si verificò nel Centro-Sud l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri.
Le molte piccole rivoluzione che sconvolsero il paese all’indomani della guerra procedettero ognuna per conto proprio
o addirittura l’una contro l’altra, seguendo le tradizionali linee di divisione della società italiana: laici-cattolici; operaicontadini; Nord-Sud.
Le prime elezioni politiche del dopoguerra ebbero luogo nel novembre del ’19. fuorno le prime tenute col metodo della
rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente. I gruppi liberal
democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta. I socialisti si affermarono come
primo partito seguiti dai popolari. Dal momento che il Psi rifiutava ogni collaborazione coi gruppi “borghesi”, l’unica
maggioranza possibile era quella basata sull’accordo fra popolari e liberal-democratici. Su questa precaria coalizione si
fondarono gli ultimi anni dell’era liberale.
16.5 GIOLITTI, L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE E LA NASCITA DEL PCI
Il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu chiamato l’ottantenne
Giolitti, che era rientrato in scena delineando un programma molto avanzato, in cui si proponeva fra l’altro la
nominatività dei titoli azionari (permettendone così la tassazione) e un’imposta straordinario sui “sovraprofitti”
realizzati dall’industria bellica.
Nei 12 mesi in cui tenne la guida dell’esecutivo, Giolitti diede prova ancora una volta di abilità e di energia. I risultati
più importanti il governo li ottenne in politica estera, imboccando la strada del negoziato diretto con la Jugoslavia. Il
negoziato si concluse il 12 novembre 1920 con la firma del Trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta
l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che restò all’Italia. Fiume fu dichiarata città libera
(sarebbe diventata italiana nel 1924). A Fiume, D’Annunzio annunciò una resistenza a oltranza; ma quando le truppe
regolari attaccarono la città preferì abbandonare la patria.
Più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna. Avviò il risanamento del bilancio
statale ma non riuscì a rendere operanti i progetti di tassazione dei titoli e dei profitti di guerra. Ma a fallire fu il disegno
politico complessivo che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie accogliendone in parte le istanze. In
realtà ormai il centro della lotta politica si era spostato dal parlamento alle segreterie dei partiti, alle centrali sindacali o
addirittura alle piazze; i conflitti sociali conobbero nell’estate-autunno del ’20 il loro episodio più drammatico,
culminato nell’occupazione delle fabbriche.
La vertenza vedeva contrapposti da un lato gli industriali del settore metalmeccanico, dall’altro una categoria operaia
compatta e combattiva, che era organizzata dal più forte dei sindacati aderenti alla Cgl, la Fiom, ma che aveva visto
anche lo svilupparsi dell’esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: una sorta di corrispettivo italiano dei
soviet.
Nei primi giorni di settembre, quasi tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici furono occupati dagli operai, che
issarono le bandiere rosse, organizzarono servizi armati di vigilanza e cercarono di proseguire da soli il lavoro. Ma il
movimento non era capace di uscire dalle fabbriche e di collegarsi alle altre lotte sociali in corso.
Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano impostare lo scontro sul piano economico. Tale esito fu
favorito dall’iniziativa mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità. Il capo del governo
riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della
Fiom.
Sul piano sindacale gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma sul piano politico la sensazione dominante era di
delusione. Gli industriali non nascondevano la loro irritazione e la borghesia cominciava a serrare i ranghi,
apprestandosi a sfruttare ogni occasione di rivincita. I dirigenti riformisti della Cgl erano accusati di aver svenduto la
rivoluzione. Ma anche la direzione massimalista del Psi era attaccata dai gruppi di estrema sinistra per il suo
comportamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con le fratture provocate dal II congresso del Comintern:
dove erano state fissate le condizioni per l’ammissione dei partiti all’Internazionale.
I massimalisti rifiutarono di sottostare alle condizioni dettate da Mosca perché le ritenevano lesive dell’autonomia del
partito e perché sapevano che espellendo i riformisti, il Psi avrebbe perso buona parte dei suoi deputati. Al congresso
del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio del 1921 fu allora la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per fondare
il Partito comunista d’Italia. Il nuovo partito nasceva così con una base piuttosto ristretta e con un programma
rigorosamente leninista.
16.6 IL FASCISMO AGRARIO E LE ELEZIONI DEL ‘21
L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. In questo quadro si
inserì un fenomeno che non aveva riscontro in nessun altro paese e che aveva origine nelle campagne: lo sviluppo del
fascismo agrario. Fino all’autunno del ’20, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica. Tra la fine del
’20 e l’inizio del ’21 il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad abbandonare l’originario
programma radical-democratico, a fondarsi su strutture paramilitari e a puntare le sue carte su una lotta spietata contro il
socialismo, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. Mussolini aveva deciso di cavalcare
l’ondata di riflusso antisocialista seguita al biennio rosso.
In due anni di lotte aspre e quasi sempre vittoriose, le leghe socialiste avevano creato un sistema apparentemente
inattaccabile. Attraverso i loro uffici di collocamento, le leghe controllavano il mercato del lavoro contrattando con i
proprietari. I socialisti disponevano inoltre di una fitta rete di cooperative e avevano in mano buona parte delle
amministrazioni comunali.
L’atto di nascita del fascismo agrario viene comunemente individuato nei fatti di Palazzo d’Accursio, a Bologna, del 21
novembre 1920, quando i fascisti si mobilitarono per impedire la cerimonia di insediamento della nuova
amministrazione comunale socialista. Per errore i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale spararono sulla
folla. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. I socialisti
furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzare reazioni adeguate. I proprietari terrieri scoprirono nei Fasci lo
strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento
fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute. Nel giro di pochi mesi il fenomeno dello squadrismo
dilagò in tutte le province padane, facendo qualche sporadica comparsa nelle grandi città del Centro-Nord. Pressoché
immune dal contagio rimase solo il mezzogiorno, con l’eccezione della Puglia.
Il successo travolgente dell’offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine militare; né può essere
imputato interamente agli errori dei socialisti. In realtà il movimento operaio si trovò a combattere una lotta impari
contro un nemico che godeva di una notevole impunità, potendo giovarsi della benevola neutralità di buona parte della
classe dirigente e degli apparati statali.
Pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti guardò con malcelata compiacenza allo sviluppo del
movimento fascista, pensando di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti e pensando di poterlo in seguito
“costituzionalizzare”.
In questa strategia si inquadrava la decisione di convocare nuove elezioni per il maggio 1921 e di favorire l’ingresso dei
candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali (conservatori, liberali e democratici). I fascisti ottenevano così una
legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo rinunciare ai metodi illegali. Ciononostante, i risultati
delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione piuttosto lieve, tenuto conto della
scissione comunista. I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici uniti nei blocchi nazionali
migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il controllo del parlamento. In definitiva la maggior novità
fu costituita dall’ingresso alla camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da Mussolini.
16.7 L’AGONIA DELLO STATO LIBERALE
L’esito delle elezioni mise fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti. Il suo successore, l’ex socialista Bonomi,
tentò di far uscire il paese dalla guerra civile. Una tregua fu conclusa nell’agosto 1921, con la firma di un patto di
pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva in un generico impegno per la rinuncia alla violenza da ambo le
parti.
Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico ufficiale e
temeva il diffondersi di una reazione contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti
intransigenti. I cosiddetti Ras sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione la
leadership di Mussolini. La ricomposizione delle fratture si ebbe al congresso dei fasci tenutosi a Roma. Mussolini
sconfessò il patto di pacificazione e i ras riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del
movimento in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d’azione.
Intanto si consumava la parabola del ministero Bonomi. Nel febbraio 1922, dopo un veto posto da don Sturzo al ritorno
al potere di Giolitti, la guida del governo fu affidata a Luigi Facta. La scarsa autorità politica del nuovo governo finì col
dare ulteriore spazio alla dilagante violenza squadrista. Il fascismo si rese protagonista, a partire dalla primavera del
’22, di operazioni sempre più ampie e clamorose.
All’offensiva del fascismo – che giocava contemporaneamente sulla violenza armata e sulla manovra politica – i
socialisti non seppero opporre risposte efficaci. Inutile fu la decisione presa dal gruppo parlamentare socialista
dichiarando la propria disponibilità ad appoggiare un governo di coalizione democratica. Addirittura disastrosa nei suoi
effetti si rivelò la decisione di proclamare uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali.
Per un’intera settimana le camice nere si scatenarono contro sezioni, circoli, sedi di organizzazione e giornali socialisti.
Il movimento operaio usciva da questa prova materialmente e moralmente distrutto. Ai primi di ottobre del ’22, i
riformisti guidati da Turati abbandonavano il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario (Psu).
16.8 LA MARCIA SU ROMA
In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più
autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia
sconfessando le passate simpatie repubblicane. Dall’altro lasciò che l’apparato militare del fascismo si preparasse
apertamente alla presa del potere mediante un colpo di stato. Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su
Roma.
Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte
delle autorità. Le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo.
Lo stesso Mussolini pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come di un mezzo di pressione politica, contando
sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della corona e delle forze armate.
In effetti fu l’atteggiamento del re a risultare determinante. Deciso ad evitare una guerra civile, Vittorio Emanuele III
rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio. Forte della resa
ottenuta senza colpo ferire, Mussolini chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina
del 30 ottobre, mentre gli squadristi cominciavano a entrare nella capitale, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il
nuovo gabinetto era pronto. Ne facevano parte, oltre a 5 fascisti, esponenti di tutti i partiti che avevano partecipato ai
precedenti governi.
I fascisti si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto simulata. I moderati si rallegrarono
per il fatto che la legalità costituzionale era stata rispettata almeno nella forma. I rivoluzionari si illusero che nulla fosse
cambiato nella sostanza. Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di
governo sarebbe presto diventato un cambio di regime.
16.9 VERSO LO STATO AUTORITARIO
Una volta assunta la guida del governo, Mussolini continuò ad alternare la linea dura a quella morbida. Ciò gli possibile
anche per la miopia delle altre forze politiche. A dissolvere le illusioni dei moderati non valse il tono ricattatorio usato
da Mussolini alla camera nel dibattito sulla fiducia al governo (discorso del bivacco). Né valsero i provvedimenti con
cui il partito fascista assumeva ruolo e funzioni incompatibili con lo stato liberale: fu istituito il Gran consiglio del
Fascismo, che aveva il compito di raccordo fra partito e governo; le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale (nelle intenzioni di Mussolini cio’ doveva disciplinare lo squadrismo e limitare il
potere dei ras).
L’istituzionalizzazione delle milizie non servì per altro a far cessare le violenze contro gli oppositori. Le vittime
principali della repressione furono i comunisti. Il sindacato non fascista si ridusse a sopravvivere solo in alcune
categorie. Il numero degli scioperi scese a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione.
Il governo mirò soprattutto a restituire libertà d’azione e margini di profitto all’iniziativa privata. Furono alleggerite le
tasse gravanti sulle imprese. Il servizio telefonico fu privatizzato. Si cercò infine di contenere la spesa pubblica con un
energico sfoltimento nei ruoli del pubblico impiego. Su un piano strettamente economico, la politica liberista del
ministro DeStefani parve ottenere discreti successi.
Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe da una chiesa cattolica in cui, dopo l’avvento (febbraio ’22) del nuovo
papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Dal canto suo Mussolini abbandonò i
toni anticlericali tipici del primo fascismo e fu prodigo di riconoscimenti per la missione universale della chiesa. Anche
la riforma scolastica, varata nel ’23 dal ministro e filosofo Giovanni Gentile, andava incontro alle attese del mondo
cattolico: la riforma, tutta fondata sul primato dell’istruzione classica, prevedeva oltre all’insegnamento della religione
nelle scuole elementari e l’introduzione di un esame di stato al termine di ogni ciclo di studi. La prima vittima
dell’avvicinamento fra chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai un ostacolo. Nell’aprile del ’23
Mussolini impose le dimissioni di tutti i ministri popolari. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del vaticano,lasciò
la segreteria del Ppi. Liberatosi del più forte fra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di rafforzare la sua
maggioranza parlamentare.
Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nel luglio ’23. La lista avvantaggiava vistosamente
la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando, all’inizio del
’24, la camera fu sciolta si riformò il blocco delle elezioni del ’21 ma con i fascisti in posizione predominante. I due
partiti socialisti, i comunisti, i popolari, e i liberali d’opposizione si presentarono ciascuno con proprie liste: il che
significava condannarsi a sicura sconfitta.
I fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia durante le votazioni.
La scontata vittoria fascista assunse così dimensioni clamorose. Le liste nazionali ottennero infatti il 65% dei voti. Il
successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori
radici, ma si era rapidamente ingrossato; un dato che confermava come ormai il fascismo avesse sostituito la classe
dirigente liberal-moderata nella guida del blocco conservatore.
16.10 IL DELITTO MATTEOTTI E L’AVENTINO
Il successo nelle elezioni rafforzò notevolmente la posizione di Mussolini. Le opposizioni, indebolite e sfiduciate, non
sembravano in grado di reinserirsi nel gioco politico. Ma un evento tragico e inatteso intervenne bruscamente a mutare
lo scenario. Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Psu, fu rapito a Roma da un gruppo di
squadristi e ucciso a pugnalate. Il suo cadavere fu trovato solo due mesi dopo. Matteotti aveva pronunciato alla camera
una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali.
Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati arrestati dopo pochi giorni, né allora né in seguito si poterono
individuare con certezza i mandanti. Il paese tuttavia capì…
Il fascismo si trovò improvvisamente isolato. Tutto l’edificio del nascente regime parve per un momento sul punto di
crollare. Ma l’opposizione non aveva la possibilità di mettere in minoranza il governo, né d’altra parte era in grado di
affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza. L’unica iniziativa concreta presa dai gruppi
d’opposizione fu quella di astenersi dai lavori parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata
la legalità democratica. La secessione dell’Aventino aveva un indubbio valore simbolico ma era di per sé priva di
alcuna efficacia pratica.
Il re non intervenne. I fiancheggiatori, pur accentuando le critiche all’illegalismo fascista, non tolsero l’appoggio al
capo del governo. Per venire incontro alle loro richieste, Mussolini accettò di dimettersi da ministro degli interni e di
sacrificare i suoi collaboratori più coinvolti nell’affare Matteotti.
Nel giro di pochi mesi rifluì l’ondata antifascista. E Mussolini decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, il capo del
governo ruppe ogni cautela legalitaria, dichiarò chiusa la questione morale e minacciò apertamente di usare la forza
contro le opposizioni. La crisi Matteotti aveva determinato la disfatta dei partiti democratici e accelerato il passaggio da
un governo autoritario a una vera e propria dittatura.
16.11 LA DITTATURA A VISO APERTO
Molti politici e uomini di cultura sentirono la necessità di prendere posizione. A un “Manifesto degli intellettuali del
fascismo” diffuso per iniziativa di Gentile, gli antifascisti risposero con un “contromanifesto” redatto da Benedetto
Croce. Ma intanto il fascismo chiudeva ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti
furono costretti a prendere la via dell’esilio. I grandi quotidiani di informazione furono fascistizzati mediante pressioni
sui proprietari. Nell’ottobre del ’25, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di Palazzo Vidoni, con
cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti.
Una serie di falliti attentati alla vita di Mussolini servì a creare il clima adatto al varo della nuova legislazione. La prima
importante legge costituzionale fu quella che rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia
rispetto al parlamento. Nel ’26 una legge sindacale proibì lo sciopero. Infine all’indomani dell’ultimo attentato a
Mussolini furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime. Furono dichiarati
decaduti dal mandato i deputati aventiniani. Fu reintrodotta la pena di morte.
Le leggi fascistissime del ’26 avevano messo fine alla parabola dello stato liberale nato con l’unità d’Italia e avevano
dato vita a un nuovo regime in cui la separazione dei poteri era stata abolita e tutte le decisioni importanti erano
concentrate nelle mani di una sola persona.
17 La grande crisi degli anni ‘30
17.3 IL GRANDE CROLLO DEL 1929
Il 24 ottobre 1929, il cosiddetto “giovedì nero”, a Wall Street, furono scambiati 13 milioni di titoli. La corsa alle vendite
determinò naturalmente una precipitosa caduta del valore dei titoli. Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i
ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la loro capacità d’acquisto, finì con l’avere conseguenze disastrose
sull’economia di tutto il paese e sull’intero sistema economico mondiale.
Gli effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli USA cercarono innanzitutto di difendere la propria
produzione inasprendo il protezionismo e contemporaneamente ridussero l’erogazione di crediti all’estero. Il
protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare misure analoghe a difesa della propria bilancia
commerciale. Fra il ’29 e il ’32 il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre il 60%; la recessione economica
si diffuse in tutto il mondo con l’eccezione dell’Urss. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia,
soprattutto, in quello agricolo. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli USA e di 15 milioni in Europa.
17.4 LA CRISI IN EUROPA
In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che altrove, a causa della netta integrazione che il sistema
dei prestiti internazionali aveva creato tra l’economia statunitense e quella tedesca. Nel marzo del ’30 la guida del
governo tedesco passò dai socialdemocratici a un esponente del centro cattolico, Bruning, che attuò una severissima
politica di sacrifici. Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale ridusse
sensibilmente l’entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per 3 anni. Ma intanto la politica di Bruning aveva
prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni di lavoratori disoccupati (più di un terzo di tutti i disoccupati d’Europa)
facevano da sfondo alla rapida ascesa del movimento nazionalsocialista.
Anche tutti gli altri paesi europei furono costretti ad attuare una politica di austerità economica, ma di certo non si
trovavano nella drammatica situazione tedesca.
17.5 ROOSVELT E IL “NEW DEAL”
Nel novembre 1932 dopo tre anni di crisi, si tennero negli USA le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, Herbert
Hoover, non aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi. Nettissima fu quindi la sua sconfitta nei
confronti del candidato democratico, il governatore dello stato di New York Franklin Delano Roosvelt. Quest’ultimo
non aveva un programma organico ma capì che la condizione preliminare di un’azione politica di successo stava nella
capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Nel discorso inaugurale della sua presidenza, nel marzo del
’33, Roosvelt annunciò di voler iniziare un new deal, un nuovo corso nella politica economica e sociale caratterizzato
da un più energico intervento dello stato.
Il New Deal fu avviato immediatamente: fu ristrutturato il sistema creditizio; fu svalutato il dollaro per rendere più
competitiva le esportazioni; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e furono concessi prestiti per consentire di
estinguere le ipoteche sulle case.
A queste misure d’emergenza il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici: proponeva di limitare la
sovrapproduzione nel settore agricolo assicurando premi in denaro. Inoltre il governo potenziò l’iniziativa statale
varando vasti programmi di lavori pubblici e allargando il flusso di spesa pubblica: garantì alla maggior parte dei
lavoratori la pensione di anzianità e riorganizzò l’assistenza statale a favore dei bisognosi.
L’azione di Roosvelt, se da un lato smentì i dogmi liberisti dimostrando che l’intervento statale era indispensabile per
arrestare il corse della crisi, dall’altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era proposto: quello
cioè di ridare slancio all’iniziativa economica dei privati. Per tutti gli anni ’30 l’economia americana ebbe bisogno di
continue iniezioni di denaro pubblico. Sarebbe giunta a una ripresa totale solo durante la seconda guerra mondiale con
lo sviluppo della produzione bellica.
LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETA’ NEGLI ANNI 30La grande crisi:Economia e società negli anni ‘30
Anni ’20: apparente stabilità. Rapporti tra potenze più distesi. Problema tedesco si andava risolvendosi. Apparente
stabilità e prosperità fino a grande crisi del ’29: Stati Uniti, durata anche per bona parte degli anni ’30, fece sentire i
suoi effetti su politica, cultura, stato, strutture sociali, etc. Diede una decisiva spinta alla decadenza dell’Europa liberale.
Negli anni ’30 vengono in evidenza problemi e tematiche che segneranno la società del secondo dopoguerra:
- compenetrazione apparati statali ed economici (già in evidenza dutante la guerra)
- capitalismo diretto (dall’alto)
- crescita della classe media
- sviluppo settore terziario
- radicalizzazione conflitti ideologici e il loro trasformarsi su scala internazionale.
Anni prima della crisi:
Stati Uniti cospicui prestiti agli alleati europei dollaro moneta più forte dell’economia mondiale. Mercato finanziario
di New York importante come quello di Londra.
Seguendo principi del taylorismoaumenti di produttività (manifatturiero 72%, industria 30%, etc)
Reddito nazionale aumenta, ma anche la disoccupazione tecnologica: gli sviluppi tecnologia diminuiscono il numero di
addetti necessari. Parallelamente cresce per espansione funzioni burocratiche e amministrative il settore dei servizi e i
suoi addetti. (primo paese in cui il numero di addetti al terziario supera addetti industria).
Si diffondono le automobili e gli elettrodomestici. Vendite rateali. Espansione e standardizzazione dei consumi.
Egemonia partito repubblicanoliberismo economico. Politica fortemente conservatrice: ridotte imposte dirette,
aumentate le indirette, spesa pubblica molto bassa (si abbandonano classi più povere), si favoriscono le
monopolizzazioni (si tolgono i divieti).
Distribuzione redditi fortemente squilibrata. squilibri sociali, anche se alcune industrie (es. Ford) o altre minoranze
proteggono i loro lavoratori.
Ondata di conservatorismo ideologico. Limitate leggi immigrazione, per evitare contaminazioni della razza e diffusione
idee sovversive europee. Caso famoso: processo a due anarchici innocenti Sacco e Vanzetti, condannati a morte.
Si inaspriscono pratiche discriminanti nei confronti di popolazioni di colore. Ku Klux Klan negli Stati del Sud diventa
un’organizzazione di massa. Anche cattolici e ebrei visti con diffidenza.
Leggere Ceto Medio, parola chiave a pag. 320
Proibizionismo: divieto di comprare o vendere bevande alcoliche. (1920-1934). Ubriachezza considerata vizio di neri e
proletari in genere.
Ottimismo borghesia frenetica attività di borsa (Wall Street), speculazioni (comprare azioni e rivenderle a prezzo più
alto). Prospettiva di facili guadagni.
Espansione speculativa aveva basi poco solide:
1. beni di consumo durevoli tendevano a saturare il mercato capacità produttiva sproporzionata per mercato
interno.
2. crisi settore agricolo teneva bassi i salari degli agricoltori.
↓
Aumento esportazioni, in particolare in Europa, dove il mercato si stava riprendendo grazie anche all’afflusso di captali
statunitensi creatosi un pericoloso legame di interdipendenza tra espansione europea e economia
statunitense.Capitali emanati da banche, perciò legati a puri calcoli di profitto. Quando si scelse di dirigere quei soldi
verso speculazioni in borsa, più redditizi, le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire e si ripercossero anche
sull’economia statunitense, il cui indice cominciò a scendere nell’estate del ’29.
Crollo della borsa fu spia del malessere dell’economia mondiale e elemento propulsore che portò in superficie tutti gli
squilibri accumulati.
Settembre del 1929 i titoli raggiunsero i livelli più elevati. Il 24 ottobre, il ‘giovedì nero’ furono scambiati 13 milioni di
titoli corsa alle venditeprecipitosa caduta dei valori dei titoli.
Molte fortune volatilizzatesi. Undici suicidi tra speculatori e agenti di borsa. Ricchi e benestanti perdono buona parte, se
non tutte le loro ricchezze non investono più disastrose conseguenze su economia mondiale.
USA inasprisce il protezionismo. Blocca l’erogazione di crediti all’estero anche gli altri paesi europei si comportano
di conseguenza e applicano il protezionismo. Il valore del commercio mondiale si ridusse, durante la crisi, del 60%
Recessione economica in tutto il mondo (tranne Urss): industrie chiudono perché prive di ordini. Licenziamenti. I
lavoratori diminuiscono spese. Circolo vizioso. Imprese falliscono. Negozi chiudono. Crisi agricola peggiora. I prezzi
crollano.
I disoccupati aumentanocrisi nelle istituzionimutamenti politici
1931 si esauriscono le riserve auree della Banca d’Inghilterra (sorta di banchiere del mondo) la convertibilità della
sterlina viene sospesa, la valuta si svaluta.
Analoghi provvedimenti nel resto d’Europa. Si spera che svalutazione favorisca le esportazioni.
Autorità politiche impreparate a una crisi del genere, ricorsero ai classici sistemi liberali: il pareggio del bilancio
spesa pubblica tagliata, nuove tasse peggiora la domanda interna, la disoupazione, la recessione.
Ripresa dalla crisi lenta e difficile. Solo con il riarmo a la guerra si uscì dalla crisi.
In Germania la crisi si fece sentire ancora di più, essendo la sua economia molto fragile e legata all’ USA. Governo in
grave difficoltà. Divario tra Spd e centro-destra. 1930 governo passa a Bruning (leader centro cattolico)severissima
politica di sacrificio, anche allo scopo di far capire al mondo che la Germania non poteva sopportare le sanzioni
impostale 1932 si riducono le riparazioni e si sospende il loro pagamento per tre anni (mai più ripreso). Ma intanto la
politica di Bruning fece aumentare enormemente i disoccupatiprepara ascesa a nazionalsocialisti, che sfruttarono il
disagio.
In Francia: politica di austerità applicata con rigore. Qui la crisi giunse in ritardo ma durò più a lungo. I governi
all’inizio non vollero svalutare il franco (difesa del loro prestigio). Ma nel ’37 ne sono costretti. Grande instabilità
politica. Si succedono 17 governi.
In Gran Bretagna Mac Donald (laburisti) vorrebbe tagliare sussidi ai disoccupati. Ma Trade Unions si oppongono. A
quel punto rompe con il suo partito e si accorda con liberali e conservatori. Sale al governo, svaluta la sterlina,
abbandona la secolare tradizione libero scambista adottando tariffe doganali che privilegiavano scambi all’interno del
Commonwealth. Inghilterra esce dalla crisi nel ’33-’34 con notevole anticipo.
Novembre 1932, dopo tre anni di crisi, il presidente uscente Hoover è battuto da Franklin Delano Roosevelt, 50 anni,
ricca famiglia, brillante carriera politica, governatore stato di New York, democratico. Notevoli doti comunicative:
molto popolare, infonde speranza e coraggio a popolazione (es. “chiacchierate al caminetto”, alla radio), anche se non
ha un programma politico organico. Concezione del “New Deal” (nuovo patto, corso) nella politica economica e
sociale: nuovo stile di governo, caratterizzato da un più energico intervento dello stato nei processi economici.
Obiettivo: ripresa economica e riforma sociale. Nei primi mesi (cosiddetti “cento giorni”) applica una serie di riforme,
per arrestare il corso della crisi:
- svalutato il dollaro
- aumentati i sussidi di disoccupazione
- concessi debiti per permette ai cittadini di estinguere le ipoteche sulla casa.
- Agricultural Adjustment Act (Aaa): volto a limitare sovrapproduzione nel settore agricolo dando premi a
coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti
- National Industry recovery Act (Nira): che imponeva alle imprese “codici di comportamento” volti a evitare
concorrenza troppo accanita, ma anche tutelare diritti e salari lavoratori.
- Tennessee Valley Authority (Tva): ente che aveva il compito di sfruttare risorse idroelettriche del bacino del
Tennesse.
Tva ebbe notevole successo. Le altre (aaa e nira) effetti più lenti e contraddittori. Nira tutelava grande industria
perplessità piccoli e medi operatori. Aaa causò si la caduta dei prezzi, ma anche disoccupazione nei contadini.
Alla fine del ’34 la crisi non era risolta il governo aumenta ancor di più la spesa pubblica (l’iniziativa statale),
varando vasti progetti: creare nuovi posti di lavoro ne offrire nuovi sbocchi all’industria. Allarga al di là di ogni
consuetudine la spesa pubblica nella convinzione che l’aumento della produzione e del reddito possa compensare il
deficit.
1935 nuove riforme fiscali,legge sulla sicurezza sociale (pensioni e assistenza statale per bisognosi), e nuova disciplina
dei rapporti di lavoro, che favorì attività sindacali (e quindi tutelò diritto lavoratori a contrattazione collettiva)
Roosevelt si guadagna appoggio movimento sindacale, che in quegli anni stava subendo una forte espansione per
un’ondata di lotte operaie senza precedenti.
Si forma cmq un’ampia coalizione antirooseveltiana. Corte suprema dichiara incostituzionali l’aaa e il nira. Ma forte
dello schiacciante successo elettorale Roosvelt reagisce con energia.
L’azione di Roosevelt smentì gli antichi dogmi liberisti di indipendenza e autonomia del mercato, dimostrando che
l’intervento statale era essenziale nei momenti di crisi, ma non riuscì a fermare la crisi. Per tutti gli anni ’30 economia
americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico.
Prima della crisi l’intervento statale era solo considerato un intervento da attuare in momenti di crisi. Durante la crisi
però lo stato si assunse nuovi e importanti oneri. Si intensificarono le tradizionali misure di sostegno esterno alle attività
produttive. Stato diviene un soggetto attivo dell’espansione economica, in modi diversi da stato a stato (USA tva, in
Italia assunte industrie in crisi)
Iniziativa di soggetti individuali viene sostituita da nuove forme di capitalismo diretto, che non intaccò però il principio
del profitto. Condotta fortemente empirica dello stato.
Il primo sforzo di sistemazione economica fu di Keynes, economista inglese. Nel suo libro confuta alcune proposizioni
fondamentali della teoria economica classica, secondo le quali il mercato tenderebbe spontaneamente e produrre
equilibrio tra domanda e offerta. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei non fossero sufficienti ad un
utilizzo ottimale delle risorse. Ma non soluzione socialista, piuttosto correzioni all’instabilità capitalistica. Sostiene che
lo stato debba accrescere il volume della domanda effettiva, manovrando in senso espansivo la spesa publica abbandono del mito del bilancio in paregio: la spesa pubblica doveva essere finanziata con il deficit e l’aumento della
quantità di moneta in circolazione. Effetti inflazionistici compensati dai benefici. Linea di Keynes rispecchia quella
attuata da Roosevelt.
La crisi non impedì che nuovi abitudini di vita si diffondessero.
- urabanizzazione. Popolazione delle città in continua crescita, accelerata dalla grave crisi agricola, nonostante la
diffusione di ideologie ruraliste (che esaltano funzione e valori agricoltura).
- Boom edilizio e servizi domestici. Le case nuove, con i nuovi servizi tecnologici (acqua corrente e elettricità)
sono più appetibili. Si trovano per lo più in zone periferiche aumenta il trasporto pubblico e motorizzazione
privata. Industrie di produzione di beni di consumo durevoli sono avvantaggiate.
- La caduta dei prezzi favorì chi aveva mantenuto il proprio posto di lavoro. Aumenta la disponibilità di denaro
per l’acquisto di altri beni. Negli anni ’30 l’Europa conosce per la prima volta i consumi di massa.
-
La motorizzazione privata aumenta. Nascono le prime vetture popolari (volkswagen = auto del popolo, la
topolino in Italia). Si cerca di imitare il successo della Ford T.
Elettrodomestici più costosi (es. frigorifero) sono ancora considerati beni di lusso. Ma si cominciano a
diffondere tra i ricchi. Altri apparecchi meno costosi si diffondono.
Comunicazioni di massa: radio ha fatto molti progressi. Da mezzo di comunicazione tra due, diventa strumento di
irradiazione: dunque comunicazione e svago.
I primi programmi regolari si hanno nel 1920 negli USA. Compagnie private finanziate da introiti pubblicitari. Ma
anche enti che operano sotto il controllo statale (es. Bbc) con canone di abbonamento. Sviluppo rapidissimo. Prezzo
molto basso e nessun costo d’esercizio: svago per le classi popolari. Ma anche mezzo di informazione i giornali
allora si concentrano sulle immagini, per far fronte alla concorrenza (calano le vendite). Riviste illustrate.
Radio tappa decisiva nella storia della civiltà. Usata anche per propaganda.
Ma anche anni de trionfo del cinema, che con la scoperta della colonna sonora diventa uno spettacolo completo come il
teatro o l’opera, ma molto più economico. Creazione artistica + prodotto industriale. Nasce il fenomeno del “divismo”
di massa, ovvero rapporto di attrazione per alcuni personaggi. Mostrati modelli di vita. Usato anche per propaganda (es.
cinematografia statunitense che diffonde i valori tipici della società americana.) Primi cinegiornali d’attualità, trasmessi
in apertura di spettacolo. Ogni cosa diviene fonte di spettacolo (es. anche le competizioni sportive). I regimi autoritari
cominciano a sfruttare ed accentuare il lato spettacolare delle manifestazioni di massa.
Scienza: grossi sviluppi tecnologici (elettrodomestici, cinema, comunicazione). La rivoluzione scientifica fa sentire i
suoi effetti nella vita quotidiana. Carattere sempre meno neutrale della scienza.
Si sviluppa la ricerca nucleare (l’italiano Fermi), da studi sul nucleo condotti inizio ‘900. La scoperta che dalla scissione
si produceva un’ enorme quantità di energia fece subito pensare ad applicazioni belliche. Si realizza il primo reattore
nucleare. Spettro della guerra nucleare.
Progressi dell’aeronautica. Aerei più rapidi e sicuri. Aumenta capacità di carica e autonomia. Trasporto aereo. Timidi
passi dell’aviazione civile. Ma costosa. Grossi sviluppi aeronautica militare. Si intensifica in tutte le grandi e medie
potenze la costruzione di aerei. L’ipotesi di una guerra in cui si spargeva il terrore tra la popolazione civile divenne una
certezza.
Anni di crisi e mutamenti unità politica europea. Le scuole di pensiero sorte in questi anni hanno metodologie e
interessi molto distanti. Discorso analogo per letteratura, arte, musica. Ricerca a volte esasperata di nuovi canoni
espressivi. Pubblico ampio e disponibile in questa società delusa. Si sviluppano nuovi movimenti (es. surrealismo, da
gruppo intellettuali francesi: arte espressione dell’inconscio. Lotta a ogni espressione borghese). Ma nessuna corrente si
affermo sulle altre. Grandi personalità del tempo: Picasso e Stravinskij, eclettici, le attraversarono tutte.
Crisi del romanzo borghese: rappresentano problemi e angoscie dell’uomo del XX secolo. Rottura con universo
borghese che aveva fatto da sfondo a grande narrativa del XIX secolo.
Letterati e artisti fortemente coinvolti nelle grandi contrapposizioni politico – ideologiche.
Fenomeno più esteso dell’impegno politico di letterati e intellettuali. Nascono i primi appelli firmati da personalità della
cultura. Spesso utilizzati spregiudicatamente da governi e partiti. Cultura liberale: Benedetto Croce e Thomas Mann,
comunisti Ricasso, destra Gentile e Heidegger (esistenzialismo). Gli intellettuali mettono in secondo piano il ruolo di
guida delle coscienze per affermarsi come propagandisti.
I regimi causano scomparsa fisica di intellettuali e fanno aumentare fuga di cervelli. Molti intellettuali (soprattutto
ebrei) si rifugiano in Svizzera, Francia, Gran Bretagna, ma soprattutto USA. A lasciare l’Europa fu il nucleo più
importante della fiorente cultura della repubblica di Weimar, scienziati, architetti, fisici, psicoanalisti (tra i più grandi,
tedeschi e non, Einstein. Mann, Gropius, Fermi, etc) Europa negli anni trenta fortemente impoverita.. Centro
culturale, oltre che industriale, al di là dell’oceano.
18 L’età dei totalitarismi
18.2 LA CRISI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR E L’AVVENTO DEL NAZISMO
Nel 1923 Adolf Hitler era un politico di secondo piano, capo di una minuscola formazione a metà tra il partito e la
formazione paramilitare. Meno di 10 anni dopo, nel gennaio ’33, Hitler, leader di un partito che ormai rappresentava un
terzo dell’elettorato tedesco, riceveva l’incarico di formare il governo.
Fino al ’29, il partito nazista rimase un gruppo minoritario che si collocava al di fuori della legalità repubblicana, si
serviva della violenza contro gli avversari politici e fondava la sua forza su una robusta organizzazione armata: le SA.
Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato di dare al partito un volto più “rispettabile”. Aveva
messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno da parte di
alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva rinunciato al nucleo del suo programma, che prevedeva la
denuncia del trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova “grande Germania”, l’adozione di misure
discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamentarismo corruttore”. Hitler credeva nell’esistenza di una razza
superiore e conquistatrice, quella ariana. I caratteri originari dell’arianesimo si erano conservati solo nel popolo tedesco,
che avrebbe dunque dovuto dominare sull’Europa e sul mondo. Per realizzare questo era necessario schiacciare i nemici
interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto popolo senza patria, i portatori del virus della dissoluzione morale.
Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo stato, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di
Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi.
Un programma estremista e guerrafondaio come quello delineato nel Mein Kampf trovò scarsi consensi nella Germania
dell’età di Stresemann. Ma con lo scoppio della grande crisi lo scenario mutò radicalmente. La maggioranza dei
tedeschi ridotta alla fame per la terza volta in 10 anni, perse fiducia nella repubblica. A destra, le forze conservatrici si
sentirono definitivamente sciolte da ogni vincolo di lealtà verso le istituzioni repubblicane. A sinistra, settori consistenti
della classe operaia si staccarono dalla socialdemocrazia per avvicinarsi ai comunisti, che attaccavano la classe
dirigente democratica. In questa situazione i nazisti poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della
grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi e sulla rabbia dei disoccupati.
L’agonia della repubblica di Weimar cominciò nel settembre del ’30, quando Bruning convocò nuove elezioni sperando
di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole alla sua politica di austerità. Accadde invece che i nazisti ebbero
uno spettacolare incremento. I comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici; le forze antisistema si
ingrossavano, i partiti fedeli alla repubblica non disponevano più della maggioranza. Il ministero Bruning continuò a
governare per altri 2 anni grazie all’appoggio concessogli dall’Spd e dal presidente Hinenburg. Ma in quei 2 anni le
istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andò continuamente precipitando.
Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice.
Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante. Le città divennero teatro di scontri sanguinosi tra
nazisti e comunisti. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza non
fecero che confermare la crescita delle forze eversive. Si cominciò nel marzo del ’32, con le elezioni per la presidenza
della repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler che aveva presentato la propria candidatura, i partiti democratici
appoggiarono la rielezione del maresciallo Hindenburg. Questi fu eletto ma cedette alle pressioni dei militari e della
grande industria e congedò Bruning. A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra conservatrice: prima
il cattolico VonPapen, poi il generale VonSchleicher. Entrambi i tentativi si risolsero in un fallimento. Nelle due
successive elezioni politiche , a luglio e novembre, i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco.
Il 30 gennaio 1933, Hitler fu convocato dal presidente della repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i
nazisti avevano 3 ministeri su 11. gli esponenti conservatori cedettero di aver ingabbiato Hitler, ma si sarebbero presto
resi conto di aver sbagliato grossolanamente le loro previsioni.
18.3 IL CONSOLIDAMENTO DEL POTERE DI HITLER
A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere molto più totalitario di quello che Mussolini avrebbe mai esercitato
in Italia. L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro: l’incendio
appiccato al Reichstag una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione elettorale. L’arresto di un
comunista, indicato come l’autore materiale dell’incendio, fornì al governo il pretesto per un’imponente azione di
polizia contro i comunisti e per una serie di misure che annullavano la libertà di stampa e di riunione.
Nelle successive elezioni i nazisti mancarono però l’obbiettivo della maggioranza assoluta. Ma Hitler mirava ormai
all’abolizione del parlamento. E il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al
governo i pieni poteri, compreso quello di legiferare e di modificare la costituzione.
Nel giugno del ’33 la Spd fu sciolta dopo che era stata soppressa con un decreto di polizia la confederazione dei
sindacati liberi. Una sorte non molto migliore toccò a quelle forze politiche che avevano favorito o assecondato
l’avvento del nazismo (il Partito tedesco-nazionale e il Centro cattolico). In luglio Hitler poteva varare una legge in cui
si proclamava che il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi era l’unico consentito in Germania.
Di fronte a lui restavano ancora due ostacoli: da una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata dalle SA di Rohm
che invocavano apertamente una seconda ondata rivoluzionaria; dall’altra la vecchia destra, impersonata dal presidente
Hindenburg, che chiedeva a Hitler di frenare i rigurgiti estremisti. Hitler, che temeva l’autonomia delle SA, aveva
provveduto a creare una sua milizia personale, le SS, e decise di risolvere il problema nel modo a lui più congeniale:
con un massacro. In quella che fu ricordata come la “notte dei lunghi coltelli”, Hitler provvide, armi alla mano, ad
arrestare il capo delle SA, Rohm, che fu poi assassinato dalle SS.
Quando il vecchio maresciallo Hindenburg morì, nell’agosto del ’34, Hitler si trovò così, grazie a una legge emanata dal
suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e presidente della repubblica. Ciò significava, fra l’altro,
l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà a Hitler.
18.4 IL TERZO REICH
Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler nasceva il Terzo Reich ( dopo il sacro romano impero medioevale e
quello nato nel 1871). Il Fuhrer non era soltanto colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte
suprema del diritto; la guida del popolo e colui che sapeva esprimerne le autentiche aspirazioni. Il rapporto fra capo e
popolo doveva essere diretto. L’unico tramite era costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati,
come il Fronte del lavoro e le organizzazioni giovanili. Compito di queste organizzazioni era trasformare l’insieme dei
cittadini in una comunità di popolo dalla quale erano esclusi per definizione gli stranieri e soprattutto gli ebrei.
Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza, erano concentrati soprattutto nelle grandi città e occupavano
le zone medio-alte della scala sociale. La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre del ’35, dalle
cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità dei diritti. La persecuzione antisemita subì un’ulteriore
accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traendo pretesto dall’omicidio di un diplomatico tedesco a Parigi
per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in un tutta la Germania. Quella fra l’8 e il 9
novembre ’38 fu chiamata “notte dei cristalli” per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che andarono
infrante. Ma vi furono conseguenze ben più gravi. Da allora in poi per gli ebrei rimasti in Germania la vita divenne
pressoché impossibile. Finché a guerra mondiale iniziata, Hitler non concepì il progetto di una soluzione finale del
problema: deportazione in massa e progressivo sterminio.
La persecuzione antiebraica fu certo la manifestazione più vistosa della politica razziale del nazismo, ma non fu l’unica.
Essa si inquadrava in un più ampio programma di difesa della razza che prevedeva la sterilizzazione per i portatori di
malattie ereditarie e la soppressione degli infermi di mente. La stessa idea dello stato aveva, rispetto a quella della
razza, una funzione del tutto secondaria.
18.5 REPRESSIONE E CONSENSO NEL REGIME NAZISTA
L’opposizione comunista riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini. La socialdemocrazia fece
sentire la sua voce solo attraverso gli esuli. I cattolici finirono con l’adattarsi al regime, incoraggiati anche
dall’atteggiamento della chiesa di Roma che, nel luglio del ’33, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi
la libertà di culto e la non interferenza dello stato negli affari interni del clero. Solo nel ’37, di fronte agli eccessi della
politica razziale, il papa Pio XI intervenne con un’enciclica per condannare dottrine e pratiche che sempre più
rivelavano il loro carattere pagano. Ma non vi fu una scomunica ufficiale del nazismo.
Deboli furono anche le resistenze della chiesa protestante, che si piegò alle imposizioni del regime, compreso il
giuramento di fedeltà dei pastori al Fuhrer. Paradossalmente l’opposizione più pericolosa per Hitler sarebbe venuta,
negli ultimi anni del regime, da esponenti di gruppi conservatori e militari.
Come spiegare la debolezza dell’opposizione al nazismo? La repressione poliziesca e i lager possono spiegare la
limitatezza del dissenso, ma non ci aiutano a capire le dimensioni del consenso al regime. Una prima spiegazione sta nei
successi in politica estera. Smontando pezzo per pezzo tutta la costruzione di Versailles, Hitler stimolò l’orgoglio
patriottico dei tedeschi e fece provare ai suoi concittadini la sensazione della rivincita. Un altro importante fattore di
consenso fu senza dubbio la ripresa economica. Analogo effetto ebbe il programma di lavori pubblici che consentì alla
Germania di dotarsi, prima in Europa, di una vasta rete di autostrade. Nel settore delle relazioni industriali,
l’imprenditore fu elevato al rango di capo assoluto dell’azienda. I lavoratori videro i loro salari aumentare in misura
mediamente inferiore al costo della vita. Tuttavia fruirono di servizi sociali migliori e soprattutto videro allontanarsi
l’incubo della disoccupazione.
Inoltre si deve tenere conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di proporre e imporre formule e miti
capaci di toccare le corde dell’anima popolare. L’utopia che il nazismo proponeva era un’utopia reazionaria e ruralista:
un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadiniguerrieri, libera dalle brutture della civiltà industriale. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace un
ministero della propaganda che, affidato all’abilissimo Joseph Goebbels, divenne uno dei principali centri di potere del
regime. Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale e dovettero fare atto di adesione al regime.
Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche. Queste cerimoniespettacolo erano preparate con estrema cura. Nella grande adunata il cittadini trovava quegli elementi “sacrali” che
aveva perso col tramonto della vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scandito da feste e riti.
18.6 IL CONTAGIO AUTORITARIO
L’avvento del nazismo fu l’episodio centrale e decisivo della crisi della democrazia in Europa. Ma i successi del
fascismo in Italia non furono un caso isolato. Il virus autoritario si diffusa dapprima nei paesi dell’Europa centroorientale. Il primo paese a sperimentare l’autoritarismo di destra fu l’Ungheria dell’ammiraglio Horthy. Un altro regime
semidittatoriale si affermò in Polonia nel 1926 grazie a Jozef Pilsudski. In Grecia il regime repubblicano nato nel ’24
non riuscì a funzionare regolarmente per i continui interventi militari. In Bulgaria l’esperimento democratico fu
interrotto nel ’23 da un colpo di stato militare. In Jugoslavia per domare le proteste dei croati, il re Alessandro I attuò
nel 1929 un colpo di stato, col risultato di spingere il movimento separatista croato ( gli Ustascia) sulla via del
terrorismo. Tutti questi regimi non potevano definirsi autenticamente fascisti, anche se aveva col fascismo non pochi
punti i comune. In Spagna un colpo di stato fu attuato nel 1923 dal generale Primo de Rivera, con l’appoggio del
sovrano Alfonso XIII. Nel 1930 Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte ad una massiccia ondata di proteste
popolari. Nelle elezioni del 1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che indusse il re
a lasciare il paese. Si formò così una repubblica destinata a una vita breve e travagliata. Anche in Portogallo furono i
militari ad interrompere, nel 1926, l’esperienza di una fragile democrazia parlamentare. Fu un economista cattolico,
Antonio de Oliveira Salazar, ad assumere il ruolo di ispiratore e guida di u regime autoritario, clericale e corporativo
che rimase in vita per quasi mezzo secolo. Con la vittoria di Hitler in Germania la crisi dei regimi e dei valori
democratici subì, ovviamente, una ulteriore accelerazione. In tutta l’Europa centro-orientale si assisté alla crescita di
movimenti estremisti, al rafforzamento delle tendenze dittatoriali e alla nascita di nuove dittature di stampo
monarchico-fascista, come in Grecia nel ’36 e in Romania nel ’38. Anche in Austria, nel febbraio 1934, dopo aver
represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata a Vienna, il cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss
mise fuorilegge il parti socialdemocratico e varò una nuova costituzione, molto vicina al modello fascista.
18.7 L’UNIONE SOVIETICA E L’INDUSTRIALIZZAZIONE FORZATA
La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all’esperienza della Nep fu presa da Stalin tra il
’27 e il ’28. Solo un deciso impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell’Urss una grande potenza militare. Ma,
per raggiungere questo scopo in tempi brevi, era necessario che lo stato acquistasse il controllo completo dei processi
economici. Il primo e più importante ostacolo fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki. Contro di loro
furono adottate misure restrittive e poiché queste si rivelarono inefficaci, Stalin proclamò, nell’estate del ’29, la
necessità di procedere immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo e addirittura di eliminare i kulaki
come classe. Contro questa linea prese posizione Nicolaj Bucharin, numero due del regime e convinto teorico della
Nep. Ma la maggioranza del partito si schierò con Stalin e Bucharin fu condannato nel 1930 come “deviazionista di
destra”. Tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono
considerati come nemici del popolo. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia e chiusi in
campi di lavoro forzato. Nel giro di pochi anni i kulaki furono eliminati non solo come classe ma anche come persone
fisiche e la maggioranza dei contadini fu inserita nelle fattorie collettive.
Ma i costi economici dell’operazione furono altissimi e i risultati immediati disastrosi. Il vero scopo della
collettivizzazione non era però tanto quello di aumentare la produzione agricola, quanto quello di favorire
l’industrializzazione del paese. Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli: il primo piano
quinquennale per l’industria, varato nel 1928, fissava una serie di obbiettivi tecnicamente impossibili da raggiungere.
La crescita del settore fu comunque imponente. Nel ’32 la produzione industriale era aumentata, rispetto al ’28, del 50
%. Col secondo piano quinquennale la produzione aumento di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i
10 milioni.
Questi risultati furono consentiti anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella
classe operaia. Gli operai furono infatti sottoposto a una disciplina severissima ma furono anche stimolati con incentivi
materiali e morali. I lavoratori che contribuivano in maniera maggiore alla crescita della produzione venivano promossi
e insigniti con onorificenze, la più ambita delle quali era quella di “eroe del lavoro”.
18.8 LO STALINISMO
Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco, ma anche dal consenso spontaneo di milioni di lavoratori,
Stalin finì con l’assumere in Urss un ruolo di capo carismatico. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo. Era
l’autorità politica suprema, ma anche il depositario della autentica dottrina marxista-leninista. Ogni critica assumeva
l’odioso carattere del tradimento. Le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi
interpreti autorizzati. Le arti furono costrette a svolgere una funzione propagandistico-pedagogica entro i canoni del
cosiddetto realismo socialista: il che significava limitarsi alla descrizione idealizzata della realtà sovietica.
Già negli anni del primo piano quinquennale la macchina del terrore aveva cominciato a funzionare, ma il periodo delle
grandi purghe cominciò nel 1934. L’assassinio, organizzato da Stalin, di un esponente di punta del gruppo dirigente
comunista, fornì il pretesto per un’imponente ondata di arresti che colpirono in larga misura gli stessi quadri del partito.
Negli anni successivi le purghe si susseguirono, si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che diede vita ad un
immenso universo concentrazionario formato dai campi di lavoro disseminati in tutte le zone più inospitali dell’Urss.
Nella maggior parte dei casi le vittime furono prelevate dalle loro case, senza nemmeno conoscere i propri capi
d’imputazione. Forse peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi in realtà basati su
confessioni estorte con la tortura in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati immancabilmente
d’intesa con i “trotzkisti” e con gli agenti del fascimo internazionale.
In questo modo furono eliminati Zinov’ev e Kamenev nel ’36 e Bucharin nel ’38. Lo stesso Trotzkij, esule dal ’29 e
animatore dall’estero di un’instancabile polemica antistaliniana, fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin.
Fra l’inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle vittima dello
stalinismo ammontò, secondo le stime più attendibili, a 10-11 milioni.
18.9 LA CRISI DELLA SICUREZZA COLLETTIVA E I FRONTI POPOLARI
La prima importante decisione del governo nazista in materia di politica estera fu, nel ’33, il ritiro della delegazione
tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze tentavano di giungere a un accordo sulla
limitazione degli armamenti. Seguì il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni.
Queste decisioni destarono allarme in tutta Europa. Anche l’Italia fascista ebbe ben presto motivo di preoccuparsi per le
mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel 1934, gruppi nazisti berlinesi tentarono di impadronirsi del potere e
uccisero il cancelliere Dollfuss al fine di preparare l’unificazione, Mussolini reagì facendo schierare 4 divisioni al
confine italo-austriaco. Hitler fu costretto a fare marcia indietro sconfessando gli autori del complotto.
Meno di un anno dopo, di fronte a una nuova iniziativa unilaterale del governo tedesco, che reintrodusse la coscrizione
obbligatoria, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa. Pochi mesi più tardi l’aggressione
italiana all’Etiopia avrebbe rotto il fronte di Stresa e dato avvio a un processo di avvicinamento italo-tedesco.
Ma intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo sostegno: l’Urss. Fino al ’33 la politica estera
dell’Urss si era ispirata a una linea dura e spregiudicata (nessuna distinzione tra stati fascisti e democrazie borghesi). I
successi di Hitler indussero Stalin a modificare radicalmente le precedenti impostazioni. Nel settembre del ’34 l’Urss
entrò nella società delle nazioni e nel maggio ’35 stipulò un’alleanza militare con la Francia. Fu accantonata la tattica
della contrapposizione frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora delle socialdemocrazie. La
nuova parola d’ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern (Mosca, 1935), fu quella della lotta al
fascismo. Ai partiti comunisti spettava il compito di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette
fronti popolari.
Questa spinta si avvertì soprattutto in Francia. Quando l’estrema destra organizzò una marcia sul parlamento per
impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier, socialisti e comunisti risposero con
manifestazioni unitarie.
L’avvicinamento fra l’Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare,
nel ’35, l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia; ne poterono impedire che, nella primavera del ’36, Hitler violasse
un’altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania smilitarizzata.
Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento
operaio europeo. Nel febbraio del 1936, una coalizione di Fronte popolare comprendente anche i comunisti vinse le
elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia, il netto successo elettorale delle sinistre aprì la
strada alla formazione di un governo composto da radicali, socialisti, sostenuto dai comunisti e presieduto dal socialista
Leon Blum. Ma l’inflazione e la contemporane fuga di capitali verso l’estero costrinsero Blum a dimettersi nel giugno
del ’37. nella primavera del ’38 l’esperienza del fronte popolare poteva considerarsi già chiusa.
18.10 LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA
Fra il 1936 e il 1939 la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile. Dopo la dittatura di Primo de
Rivera e la caduta della monarchia, la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale,
che aveva visto succedersi un fallito colpo di stato militare, nel ’32, e una insurrezione anarchica sanguinosamente
repressa, nel ’34. La Spagna era l’unico paese al mondo in cui la maggiore centrale sindacale fosse ancora controllata
dagli anarchici. Ma era anche uno degli stati in cui si faceva più sentire il peso dell’aristocrazia terriera.
Quando nel 1936 le sinistre unite in una coalizione di fronte popolare si affermarono nelle elezioni politiche la tensione
esplose in tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l’inizio di una rivoluzione sociale. La reazione
della vecchia classe dominante si espresse prima nella violenza squadrista, affidata ai gruppi fascisti della Falange;
quindi un nuovo pronunciamento (ribellione, colpo di stato) messo in atto da militari.
Iniziata nel luglio del ’36, la ribellione ebbe il suo punto di forza nelle truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo
e fu organizzata da una giunta di 5 generali: fra essi il poco più che quarantenne Francisco Franco, assurto al ruolo di
capo degli insorti. I ribelli assunsero inizialmente il controllo di gran parte della Spagna occidentale; le prime fasi dello
scontro parvero però favorevoli al governo repubblicano che poté mantenere il controllo della capitale e delle regioni
del Nord-Est.
Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Mussolini inviò in Spagna un contingente di 50.000
“volontari” oltre a materiale bellico. Meno rilevante quantitativamente fu l’aiuto della Germania nazista, che inviò
soprattutto aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare l’efficienza della sua aviazione. Nessun aiuto venne
invece alla repubblica. I conservatori inglesi si attennero a una rigida neutralità; il governo francese di fronte popolare si
astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e si illuse di bloccare gli aiuti al campo opposto promuovendo un accordo
generale fra le grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola. Sottoscritto nell’agosto del ’36, anche da Italia e
Germania, l’accordo fu però rispettato solo da Francia e Gran Bretagna. L’unico stato aportare un aiuto efficace alla
repubblica fu l’Urss che, non solo rifornì il governo spagnolo di materiale bellico, ma favorì, attraverso il Comintern la
formazione di Brigate internazionali.
Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti politicamente dalle loro divisioni interne.
Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo (duce) si guadagnava l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche,
dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata e realizzava l’unità di tutte le destre in un partito
unico chiamato Falange nazionalista. Inoltre i nazionalisti misero in piedi nei loro territori uno stato ai chiari connotati
autoritari, mentre i repubblicani si scontravano fra loro. Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici
dagli altri partiti della coalizione. Numerosi militanti anarchici scomparvero fra il ’37 e il ’38 e un intero partito, il
Poum, fu liquidato anche con l’intervento di agenti sovietici.
Le divisioni del fronte repubblicano facilitarono l’offensiva delle forze nazionaliste: un offensiva lenta ma sistematica e
spietata. La sorte della guerra fu segnata nella primavera del ’38, quando i franchisti riuscirono a spezzare i due il
territorio controllato dai repubblicani separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da tutti, anche dal Comintern, la
repubblica spagnola resistette ancora per quasi un anno. All’inizio del ’39, i nazionalisti sferrarono l’offensiva finale
che si concluse in marzo, con la caduta di Madrid.
18.11 L’EUROPA VERSO LA CATASTROFE
Nel periodo in cui si combatté la guerra di Spagna, la marcia dell’Europa verso la catastrofe di un secondo conflitto
generale subì una paurosa accelerazione. Il fattore scatenante dell’accresciuta tensione fu senza dubbio la politica della
Germania hitleriana e il comportamento arrendevole tenuto da Gran Bretagna e Francia.
I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra con le potenze occidentali. Hitler sperò fino all’ultimo
di poter evitare uno scontro con l’Inghilterra, a patto naturalmente che questa lasciasse campo libero alle mire tedesche
in Europa centro-orientale. In questa speranza fu indubbiamente incoraggiato dalla linea seguita dai conservatori
inglesi, soprattutto a partire dal ’37, quando la guida del governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore
dell’appeasement: una politica basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler accontentandolo nelle sue
rivendicazioni più ragionevoli. Ma il presupposto era sbagliato visto che i programmi di Hitler non erano affatto
ragionevoli.
La più coerente opposizione a Chamberlain venne da un’esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Winston
Churchill. Questi sostenevano che l’unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione anche a costo
di affrontare subito una guerra.
Quanto alla Francia, essa fu attraversata da una sorta di crisi morale che ne minò la capacità di reazione. In Francia la
paura della Germania era per ovvi motivi più sentita che in Gran Bretagna. Ma ancora più forte era la paura di una
nuova guerra. Protetti dall’ ”inespugnabile” linea Maginot, i francesi si chiedevano se valesse la pena rischiare una
nuova guerra per difendere la Russia comunista o i lontani alleati dell’est europeo. Ad alimentare queste perplessità
concorrevano sia il tradizionale pacifismo dei socialisti sia l’aperto filofascismo di una destra che affermava:” meglio
Hitler che Blum”.
Ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di grossi successi. Il primo lo ottenne nel marzo 1938 con l’annessione
(Anschluss) dell’Austria al Reich tedesco. Questa volta Mussolini rinunciò ad opporre resistenza, come nel ’34. Chiusa
la questione austriaca, Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione: quella riguardante i 3 milioni di tedeschi
che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia, nel Sudetland. Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti
locali.
Il governo inglese si mostrò ancora una volta propenso ad accontentare Hitler. Nel settembre del ’38, Chamberlain volò
in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso. Alla fine di settembre Hitler accettò la proposta di
un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Russia esclusa) lanciata da Mussolini. Nell’incontro che
si svolse a Monaco di Baviera, Chamberlain e il primo ministro francese Daladier accettarono un progetto presentato
dall’Italia che in realtà accoglieva alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l’annessione al Reich dell’intero
territorio dei Sudati. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza non restò che accettare un accordo
che li lasciava alla mercè della Germania. I sovietici, anch’essi tenuti fuori dal tavolo delle trattative, capirono di non
potere contare sulla solidarietà delle potenze occidentali in caso di aggressione tedesca e ne trassero le conseguenze.
Chamberlain, Daladier e Mussolini furono accolti in patria da imponenti manifestazioni di entusiasmo popolare e
acclamati come salvatori della pace. Ma quella salvata a Monaco era una pace fragile e precaria. Il commento più
appropriato agli accordi di Monaco fu quello di Wiston Churchill:” Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno
scelto il disonore e avranno la guerra”.
19 L’Italia fascista
19.1 IL TOTALITARISMO IMPERFETTO
Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello stato
e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. Il punto di congiunzione era rappresentato dal Gran consiglio del
fascismo, organo di partito investito anche di importantissime funzioni costituzionali. Al di sopra di tutti si esercitava il
potere di Mussolini, capo del governo e duce del fascismo.
Diversamente da altri regimi totalitari, l’apparato dello stato ebbe fin dall’inizio, per esplicita scelta di Mussolini, una
netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua volontà a tutto il regno, Mussolini si servì dei
prefetti più che degli organi locali del Pnf. A controllare l’ordine pubblico e a reprimere il dissenso provvedeva la
polizia di stato, mentre la Milizia era solo un corpo ausiliario.
Privato di ogni autonomia politica, il partito fascista venne però continuamente dilatando la sua presenza nella società
civile. Una funzione importante nella fascistizzazione del paese fu svolta da alcune organizzazioni collaterali al partito:
come l’Opera nazionale dopolavoro che si occupava del tempo libero dei lavoratori organizzando attività ricreative; o
come il Comitato olimpico nazionale. Più importanti di tutte erano le organizzazioni giovanili del partito: i Fasci
giovanili, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l’Opera nazionale balilla (Onb). L’Onb inquadrava tutti i
giovani fra i 12 e i 18 anni e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a qualche rudimento di
istruzione “premilitare”, anche un minimo di indottrinamento ideologico.
Il tentativo messo in atto dal fascismo attraverso queste e altre organizzazioni di massa era quello di occupare la società,
di riplasmarla dalle fondamenta. L’ostacolo maggiore a questo tentativo era senza dubbio rappresentato dalla chiesa. In
un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica non era facile governare contro la chiesa o
senza trovare con essa un qualche accordo.
Consapevole di ciò, Mussolini non solo aveva cercato un’intesa politica col Vaticano, ma aveva mirato più lontano,
avviando a definitiva composizione lo storico contrasto fra stato e chiesa che aveva segnato l’intera vita del regno
d’Italia. Le trattative fra governo e santa Sede cominciarono nel ’26 e si conclusero l’11 febbraio del 1929 con stipula
dei patti Lateranensi.
Questi si articolavano in 3 parti distinte: un trattato internazionale, con cui la santa sede riconobbe lo stato italiano e la
sua capitale e si vide riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; una convenzione finanziaria, con
cui l’Italia si impegnava a pagare al papa una forte indennità a titolo di risarcimento per la perdita dello stato pontificio;
infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra stato e chiesa. Il concordato stabiliva che sacerdoti fossero
esonerati dal servizio militare, che il matrimonio religioso avesse effetti civili e che l’insegnamento della religione
cattolica fosse considerato fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica.
Presentandosi come l’artefice della conciliazione, come l’uomo che era riuscito laddove erano falliti tutti i governo
liberali, Mussolini consolidò ed estese la sua area di consensi. Fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi
e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva già irrimediabilmente perso, la chiesa acquistò una posizione
di indubbio privilegio nei rapporti con lo stato e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società, mantenendo intatta
anche la rete di associazioni e circoli facenti capo all’Azione Cattolica.
19.4 IL FASCISMO E L’ECONOMIA. LA BATTAGLIA DEL GRANO E QUOTA 90
Fra capitalismo e socialismo, il fascismo italiano credette di individuare la sua terza via nella formula del
corporativismo. In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell’economia da parte delle
categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività produttive e comprendenti sia gli
imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Questo sistema non trovò mai vera attuazione.
Il fascismo non mantenne comunque, nel corso del ventennio, una linea di politica economica coerente e riconoscibile.
Nei primi anni (1922-25) adottò una linea liberista e produttivista, volta a rilanciare la produzione incoraggiando
l’iniziativa privata e allentando i controlli statali. Questa linea provocò per, insieme a un consistente incremento
produttivo, un riaccendersi dell’inflazione e un forte deterioramento del valore della lira.
Con l’estate del ’25, la politica economica subì una svolta: il ministro delle finanze DeStefani fu sostituito da Giuseppe
Volpi che inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione e sulla stabilizzazione monetaria. Primo
provvedimento fu l’inasprimento dei dazi doganali sui cereali che fu accompagnata da una rumorosa campagna
propagandistica detta battaglia del grano. Scopo della battaglia che si sarebbe protratta per tutto il corso del ventennio,
era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore dei cereali, sia attraverso l’aumento della superficie coltivata a
grano sia mediante l’impiego di tecniche più avanzate. Lo scopo fu in buona parte raggiunto. Ma il prezzo fu ancora una
volta il sacrificio di altri settori, come l’allevamento e le colture specializzate dirette all’esportazione.
La secondo battaglia fu la rivalutazione della lira. Nell’agosto del ’26 il duce annunciò di voler riportare in alto il corso
internazionale della moneta e fissò l’obbiettivo di quota 90 (ossia 90 lire per una sterlina). L’obbiettivo di quota 90 fu
raggiunto in poco più di un anno, in virtù di una serie di provvedimenti che limitavano drasticamente il credito, e con
l’aiuto di un cospicuo prestito concesso allo stato da grandi banche statunitensi. I prezzi interni diminuirono e la lira
recuperò il potere d’acquisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori dipendenti, che si videro tagliare stipendi e
salari in misura più che proporzionale. Furono inoltre colpite le industrie che lavoravano per l’esportazione, mentre
quelle che operavano sul mercato interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro.
19.5 IL FASCISMO E LA GRANDE CRISI: LO “STATO IMPRENDITORE”
L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le
conseguenze della grande crisi mondiale. Queste furono meno drammatiche che in altri paesi. Eppure la recessione fu
pesante anche in Italia. La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici fondamentali: lo sviluppo dei lavori
pubblici come strumento per rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali; l’intervento diretto o indiretto dello
stato a sostegno dei settori in crisi.
Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne creando dapprima un istituto di credito
pubblico (l’Imi, istituto mobiliare italiano) col compito di sostituire le banche bel sostegno alle industrie in crisi e dando
vita due anni dopo all’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri).
L’Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il
controllo di alcune fra le maggiori imprese italiane. La riprivatizzazione risultò impraticabile e l’Iri diventò, nel ’37, un
ente permanente.
In questo modo lo stato italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di
qualsiasi altro stato, salvo naturalmente l’Urss.
Per gli interventi più importanti in economia Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito ma si affidò
piuttosto a tecnici puri. Nei nuovi enti parastatali e nella stessa banca d’Italia si formò così una burocrazia parallela
destinata a svolgere un ruolo determinante nell’Italia postfascista.
Intorno alla metà degli anni ’30, l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi e ne era uscita prima e meglio rispetto
alla maggior parte delle potenze industriali. A partire dal ’35 Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese
militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi. Cominciava per l’Italia una lunga stagione di
economia di guerra destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale.
19.6 L’IMPERIALISMO FASCISTA E L’IMPRESA ETIOPICA
Nel movimento fascista fu sempre presente una forte componente nazionalistica. Il fascismo doveva parte del suo
successo al fatto di presentarsi come paladino della riscossa nazionale e continuò a proporsi come il restauratore delle
glorie di Roma antica. Fino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e spesso
contraddittorie e si tradussero in una generica contestazione dell’assetto uscito dai trattati di Versailles; nella richiesta di
un nuovo equilibrio mediterraneo più favorevole all’Italia. Tutto ciò contribuì a rendere più tesi i rapporti con la
Francia, ma non impedì all’Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e di restare all’interno del sistema di
sicurezza collettiva fondato sull’accordo tra le potenze vincitrici della guerra. L’accordo di Stresa dell’aprile ’35 fu la
manifestazione più significativa di questa fase della politica estera fascista.
Ma mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini già preparava
l’aggressione all’Impero Etiopico. Con la guerra d’Etiopia Mussolini intendeva dare uno sfogo alla vocazione imperiale
del fascismo, vendicando la sconfitta di Adua e mostrando che il suo regime poteva riuscire dove la classe dirigente
liberale aveva fallito. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in
secondo piano i problemi economici e sociali del paese.
I governanti francesi e inglesi erano disposti ad assecondare le mire italiane, ma non potevano accettare che uno stato
membro della società delle nazioni fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Così quando ai
primi dell’ottobre del ’35 l’Italia diede inizio all’invasione dell’Etiopia, i governi francese e inglese non poterono fare a
meno di proporre al consiglio della società delle nazioni l’adozione di sanzioni consistenti nel divieto di esportare in
Italia merci necessarie all’industria di guerra. Le sanzioni ebbero un’efficacia molto limitata: sia perché il blocco non
era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli stati che non facevano parte della società delle nazioni,
come USA e Germania.
L’immagine dell’Italia proletaria cui le nazioni plutocratiche volevano impedire la conquista di un proprio posto al sole
riuscì in effetti a far breccia nell’opinione pubblica italiana. Il paese fu percorso da un’andata di imperialismo
popolaresco, ben più ampia di quella che aveva accompagnato, un quarto di secolo prima, la spedizione in Libia. Ma
non mancò neppure il tentativo di assegnare alla guerra scopi umanitari.
Gli etiopici si batterono con accanimento per più di 7 mesi sotto la guida di Hailé Selassiè. Ma il loro esercito nulla
poteva contro un corpo di 400.000 uomini con mezzi corazzati e bombardieri. Il 5 maggio 1936, le truppe italiane,
comandate dal maresciallo Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle
folle plaudenti “la riapparizione dell’impero sui collo fatali di Roma” e offrire al sovrano la corona di imperatore
d’Etiopia.
Da un punto di vista economico la conquista dell’Etiopia rappresentò per l’Italia un peso non indifferente. Ma sul piano
politico il successo fu clamoroso e indiscutibile. Mussolini diede a molti la sensazione di aver conquistato per l’Italia
uno status di grande potenza. In realtà si trattava di una sensazione illusoria. Mussolini era consapevole di tutto questo
ma credette ugualmente di poter condurre una politica adeguata a una grande potenza, sfruttando ogni occasione per
allargare l’area di influenza italiana giocando sulla rivalità fra tedeschi e franco-inglesi. In questo gioco doveva rientrare
anche il riavvicinamento dell’Italia alla Germania, sancito nell’ottobre del ’36 dalla firma di un patto d’amicizia cui fu
dato il nome di asse Roma-Berlino. Rafforzato nell’autunno ’37 dall’adesione italiana al Patto anticomintern (un
accordo stipulato l’anno prima da Germania e Giappone).
Mussolini considerava l’avvicinamento alla Germania un mezzo di pressione sulle potenze occidentali, uno strumento
che consentisse all’Italia di lucrare qualche ulteriore vantaggio coloniale. Ma il dinamismo aggressivo della Germania
era tale da non consentire a Mussolini i tempi e gli spazi necessari per realizzare il suo programma: il duce ne fu sempre
più condizionato, al punto da dover accettare l’annessione dell’Austria. Finché nel maggio 1939 si decise a firmare un
formale patto di alleanza militare con la Germania, il patto d’acciaio.
19.7 L’ITALIA ANTIFASCISTA
Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scarsi successi immediati, si dovrebbe
concludere che la sua incidenza nella situazione italiana fu poco più che nulla. Per molto tempo gli antifascisti attesero
invano un grande sommovimento popolare che abbattesse il regime e solo nell’ultima fase del conflitto mondiale ebbero
l’occasione di combattere il fascismo.
Eppure il movimento antifascista svolse, fra il ’26 e il ’43, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale.
Testimoniò l’esistenza di un’Italia che non si piegava al fascismo; rese possibile il sorgere, dopo il ’43, di un
movimento di resistenza armata al nazifascismo che invece mancò del tutto in Germania.
19.8 APOGEO E DECLINO DEL REGIME FASCISTA
Svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato l’impresa coloniale, il distacco fra regime e paese andò lentamente
ma inesorabilmente allargandosi. A suscitare disagio e perplessità era innanzi tutto la politica economica fascista,
sempre più condizionata dalle spese militari. Alla fine del ’35 Mussolini decise di intensificare e rilanciare la politica
dell’autarchia. In pratica l’autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del
sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre e dei combustibili sintetici. I
risultati finali dell’autarchia non furono brillanti. L’autosufficienza rimase un traguardo irraggiungibile, nonostante i
progressi in alcuni settori. Crebbero i prezzi e ciò comportò un peggioramento nei livelli di vita delle classi popolari.
A questi motivi di disagio si aggiungevano le preoccupazioni per il nuovo indirizzo di politica estera attuato da
Mussolini e dal ministro degli esteri, suo genero Galeazzo Ciano. L’aspetto che più inquietava era senza dubbio
l’amicizia con la Germania. La nuova politica mussoliniana si mostrava inoltre priva di risultati immediati (al contrario
non mancarono gli scacchi clamorosi come quello dell’Anschluss) e faceva sembrare più vicina l’eventualità di una
nuova guerra europea.
Il duce auspicava per l’Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari; pensava che gli italiani avrebbero dovuto
non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi, trasformandosi in popolo di attitudini e di tradizioni guerriere.
Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime sarebbe dovuto diventare più totalitario di quanto non fosse stato fino allora.
Di qui scaturirono una serie di modifiche istituzionali e alcune di carattere più che altro formale e quasi folkloristico.
Ma la manifestazione più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l’introduzione, nell’autunno del 1938,
di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei. Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati e
preparata da un’intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che
non aveva mai conosciuto forme di antisemitismo diffuse (diversamente da paesi come Germania, Francia e Russia). Le
leggi razziali suscitarono sconcerto o quanto meno perplessità nell’opinione pubblica e aprirono per giunta un serio
contrasto con la chiesa.
In generale lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni ’30 per trasformare gli italiani in un popolo guerriero
ottennero risultati decisamente mediocri. L’unico settore in cui le aspirazioni totalitarizzanti ottennero qualche successo
di rilievo fu quello dei giovani. Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo
cominciò a perdere progressivamente il sostegno dei giovani.
20 Il tramonto del colonialismo. Il medio oriente e l’Asia
20.1 IL DECLINO DEGLI IMPERI COLONIALI
Negli anni fra le due guerre mondiali, la crisi dell’egemonia europea sugli altri continenti subì una brusca accelerazione.
Le potenze europee, esaurite dal conflitto mondiale, non avevano più le risorse economiche e le capacità militari
necessarie per mantenere il controllo sui loro sterminati imperi, dove nel frattempo si moltiplicavano i segni di
insofferenza nei confronti dei dominatori. Alla crisi del colonialismo di vecchio stampo contribuirono infatti sia gli echi
della rivoluzione russa e di quella kemalista sia la diffusione dell’ideologia wilsoniana, che riconosceva a tutti i popoli il
diritto dell’autodeterminazione.
20.2 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE
Una parziale legittimazione alle aspirazioni indipendentiste dei paesi soggetti al dominio europeo era venuta dalle stesse
potenze coloniali, che nel corso della guerra mondiale non avevano esitato ad appoggiare queste aspirazioni
ogniqualvolta ciò potesse tornar loro utile per danneggiare gli avversari.
Gli inglesi avevano giocato spregiudicatamente contro i turchi la carta del nazionalismo arabo. Nel 1915-16 l’alto
commissario britannico per l’Egitto, MacMahon, si accordò con uno di questi capi, lo “sceriffo” della Mecca Hussein,
promettendo, in cambio di una collaborazione militare contro l’impero ottomano, l’appoggio del suo governo alla
creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l’Arabia, la Mesopotamia e la Siria.
Le vere intenzioni della Gran Bretagna erano però diverse. Nel maggio 1916, francesi e inglesi si spartirono in zone di
influenza tutta la zona compresa fra la Turchia e la penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, all’Inghilterra la
Mesopotamia e la Palestina. A guerra finita la spartizione fu attuata, appena velata dall’assegnazione alle due potenze
dei rispettivi territori sotto forma di mandato. La Gran Bretagna creò nella zona di sua competenza due nuovi stati,
l’Iraq e la Transgiordania.
In Palestina il governo inglese aveva riconosciuto, nel novembre del ’17, con una dichiarazione ufficiale del ministro
degli esteri Balfour, il diritto del movimento sionista a creare una sede nazionale per il popolo ebraico.
20.3 RIVOLUZIONE E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA
Fra tutti i paesi sconfitti l’impero turco fu quello cui venne riservata la sorte peggiore. Drasticamente ridimensionato dal
punto di vista territoriale era inoltre oggetto di un tentativo di spartizione da parte di Gran Bretagna e Francia, che
occupavano militarmente alcune regioni costiere.
La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu il generale Mustafà Kemal, che aveva partecipato al
movimento dei “giovani turchi” e aveva combattuto contro gli inglesi, ad assumere la guida del movimento di riscossa
nazionale. Mentre le potenze vincitrici trattavano col governo fantoccio del sultano, un’assemblea nazionale riunita ad
Ankara nella primavera del ’20 affidava a Kemal il compito di liberare il suolo della Turchia dagli stranieri.
L’impresa fu condotta a termine in poco più di due anni. La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta
l’Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo che consentiva il controllo degli stretti.. nel novembre ’22
fu proclamata la repubblica. Nominato presidente con poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal si impegnò a fondo in una
politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello stato.
20.4 L’IMPERO BRITANNICO E L’INDIA
La Gran Bretagna fu quella che prima di tutte comprese la necessità di ridimensionare la sua posizione imperiale.
Questa tendenza si manifestò alla creazione dei regni arabi dell’Iraq e della Transgiordania; alla rinuncia al protettorato
sull’Egitto, che fu trasformato nel ’22 in regno autonomo e ottenne nel ’36 la piena indipendenza; alla conferenza
imperiale che si tenne a Londra nel 1926 in cui i dominions bianchi (Canada, Sud Africa e Australia) furono
riconosciuti come comunità autonome ed eguali in seno all’Impero, unite solo dal comune vincolo di fedeltà alla corona
d’Inghilterra e liberamente associate come membri del Commonwealth britannico.
Il paese in cui il processo di emancipazione fu più contrastato fu senza dubbio l’India. Durante il conflitto mondiale il
governo inglese aveva premiato il lealismo della classe dirigente locale promettendo una crescente associazione degli
indiani a ogni ramo dell’amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno. Queste promesse attuate in
modo lento e parziale, non bastarono a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. Quando nell’aprile del ’19 le
truppe inglesi sanguinosamente una manifestazione l’abisso fra colonizzatori e colonizzati divenne incolmabile.
In seno al movimento nazionalista indiano riscosse sempre maggiori consensi la predicazione di un nuovo e prestigioso
leader, Mohandas Karamchand Gandhi. Propagandando e attuando forme di lotta basate sulla resistenza passiva, sulla
non violenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori Gandhi acquistò un’immensa popolarità.
Alla crescita del movimento indipendentista gli inglesi risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni.
Questi provvedimenti non valsero però a fermare la marcia dell’India verso la piena indipendenza, cui si sarebbe giunti
solo dopo la fine della seconda guerra mondiale.
20.5 NAZIONALISTI E COMUNISTI IN CINA
Il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913, due anni dopo la proclamazione della repubblica, non
riuscì ad assicurare al paese tranquillità e unità. Il governo non aveva forza sufficiente per imporre la sua autorità alle
province; né opporsi alle mire egemoniche del Giappone. La decisione presa dal governo nel ’17 di far intervenire
anche la Cina nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa non servì a mutare la situazione. Alla conferenza della pace,
cui partecipò come stato vincitore, la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze che riconobbero al Giappone il diritto di
subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung.
Questa umiliazione ebbe l’effetto di risvegliare l’agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al
Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen. La lotta intrapresa contro il governo da Sun Yat-sen ebbe l’appoggio del
partito comunista cinese, fondato nel ’21 da un gruppo di intellettuali (tra cui Mao Tse-tung) passati attraverso
l’esperienza nazionalista e successivamente influenzati dall’esempio della rivoluzione russa. Anche l’Urss sostenne
attivamente Sun Yat-sen e indusse addirittura il partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang.
L’alleanza fra comunisti e nazionalisti non sopravvisse però alla morte, nel 1925, di Sun Yat-sen. Il suo successore
Chang Kai-shek era molto più diffidente nei riguardi dei comunisti. I contrasti cominciarono nel ’26, quando Chang
Kai-shek, alla testa di un nuovo esercito, iniziò la campagna per riunificate il paese e scacciare il governo legale di
Pechino. Nell’aprile del ’27 a Shangai, massimo centro industriale cinese, le milizie operaie che da sole avevano
liberato la città e non intendevano deporre le armi furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chang Kai-shek. In
dicembre un’insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue. Il partito comunista fu messo fuorilegge.
Dopo aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di Pechino, Chang Kai-shek cercò di
riorganizzare l’economia e l’apparato statale secondo modelli occidentalisti. Il suo progetto però si scontrava contro
l’obbiettiva difficoltà di controllare un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c’erano i comunisti che
cominciarono a organizzare basi rosse nelle campagne. Dall’altro sopravvivevano in alcune province le velleità
autonomiste dei signori della guerra, aiutati dal Giappone che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione.
Nel 1931 i giapponesi invasero la Manciuria e vi crearono uno stato fantoccio, il Manchi-kuo. L’inerzia manifestata
nell’occasione dal governo di Chang diede nuovo spazio all’azione dei comunisti, che sempre più potevano presentarsi
come i soli difensori degli interessi nazionali. Decisiva per il partito si rivelava la strategia contadina impostata da Mao
Tse-tung: una strategia che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario e rovesciava
la teoria marxista ortodossa. All’inizio degli anni ’30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini, allargarono
le loro basi in molte zone agricole e fondarono addirittura una repubblica sovietica cinese.
Costretto a combattere su due fronti, Chang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti e lanciò una
serie di campagne militari contro le zone da loro controllate. Investiti dall’offensiva e scarsamente appoggiati dall’Urss,
che non condivideva la strategia maoista, i comunisti dovettero abbandonare molte delle loro posizioni.
Nell’ottobre del ’34 circa 100.000 comunisti accerchiati nel sud del paese, decisero di evacuare quella zona e di
trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi. Giunsero a destinazione dopo una marcia durata un anno e lunga
10.000 km. Con quella che sarebbe passata alla storia come la lunga marcia Mao Tse-tung, ormai leader incontrastato
del partito, riuscì a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire la sua repubblica sovietica.
Quando nel ’36, Chang Kai-shek decise di lanciare una nuova campagna di annientamento contro i comunisti, dovette
scontrarsi con la dissidenza di una parte dell’esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l’unione di tutte le forze
nazionali contro l’aggressione giapponese. Si giunse così all’inizio del ’37 a un accordo con cui le parti si impegnavano
a costituire un fronte unito contro l’imperialismo straniero. Ma nell’estate di quello stesso 1937 i giapponesi sferrarono
un attacco in forze contro l’intero territorio cinese. La resistenza fu questa volta accanita, ma non bastò a impedire che i
giapponesi proseguissero la loro sistematica avanzata. Nell’estate del ’39 il Giappone controllava buona parte della
zona costiera, tutto il nord est industriale e quasi tutte le città più importanti.
21
La seconda guerra mondiale
21.1 LE ORIGINI E LE RESPONSABILITA’
Le democrazie occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei Sudati. In realtà
Hitler aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia. L’operazione scattò nel marzo del ’39:
mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di
Boemia e Moravia”.
Fra il marzo e il maggio del ’39, accantonata la politica dell’appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero vita a una
vera e propria offensiva diplomatica. Patti di assistenza militare furono stipulati con Belgio, Olanda, Grecia, Romania e
Turchia. Ma più importante di tutti fu quello con la Polonia (primo obbiettivo delle mire tedesche): già in marzo infatti
Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il corridoio.
Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale: l’occupazione
nell’aprile ’39 del Regno d’Albania. Un mese dopo Mussolini decise di accettare le pressanti richieste tedesche di
trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare, il Patto d’acciaio. Il
patto stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, l’altra
sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco.
Un’adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato i piani di Hitler. Ma le trattative con
l’Urss furono compromesse: i sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero a scaricare su di loro l’aggressività
della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche sull’Europa dell’est; inoltre i polacchi
non volevano concedere alle truppe dell’Urss il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco da parte
della Germania.
Il 23 agosto 1939, i ministri degli esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov, firmavano a Mosca un patto di non
aggressione fra i due paesi. L’Urss allontanava momentaneamente la minaccia tedesca ma otteneva anche un
riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli stati baltici, della Romania e della Polonia, di cui si
prevedeva la spartizione. Dal canto suo Hitler poteva risolvere la questione polacca senza correre il rischio della guerra
su due fronti.
Il primo settembre 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre la Gran Bretagna e la Francia
dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia si era affrettata a proclamare la sua “non belligeranza”.
21.2 LA DISTRUZIONE DELLA POLONIA E L’OFFENSIVA AL NORD
Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia. A metà settembre le armate
del Reich già assediavano Varsavia che, semidistrutta dai bombardamenti, capitolò alla fine del mese. Frattanto i russi,
in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop, si impadronivano delle regioni orientali del paese. La
repubblica polacca cessava così di esistere dopo appena 20 anni vita.
Per i successivi 7 mesi la guerra a occidente restò come congelata. Mentre il teatro di guerra si spostava
inaspettatamente nell’Europa del Nord . Questa volta fu l’Urss a prendere l’iniziativa, attaccando il 30 novembre la
Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. I finlandesi resistettero per più di 3 mesi. Nel marzo
del ’40 la Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza.
A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa lanciando il 9 aprile del ’40 un improvviso attacco
alla Danimarca e alla Norvegia. La Danimarca si arrese senza combattere. La Norvegia oppose una certa resistenza,
aiutata anche da un tardivo sbarco alleato nel Nord . ma ancora una volta l’azione tedesca si rivelò incontenibile. Nella
primavera del ’40, Hitler controllava buona parte dell’Europa centro-settentrionale.
21.3 L’ATTACCO A OCCIDENTE E LA CADUTA DELLA FRANCIA
L’offensiva tedesca sul fronte occidentale ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un
nuovo travolgente successo. Il successo fu tanto più clamoroso in quanto ottenuto a spese delle due maggiori potenze
occidentali coalizzate. A provocare la sconfitta degli alleati non fu un’inferiorità in uomini o mezzi, ma furono gli errori
dei comandi francesi ancora legati a una concezione statica della guerra e troppo fiduciosi nell’efficacia della famosa
linea Maginot.
Come nel 1914 i tedeschi iniziarono l’attacco violando la neutralità dei piccoli stati confinanti. Questa volta oltre al
Belgio furono invasi anche Olanda e Lussemburgo. Fra il 12 e il 15 maggio i reparti corazzati tedeschi sfondarono le
linee nemiche nei pressi di Sedan. Colpito nel suo punto più debole, lo schieramento alleato cedette di schianto. Le
truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il mare, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e
l’intero corpo di spedizione inglese. Solo un momentaneo rallentamento dell’offensiva consentì al grosso delle forze
britanniche, assieme a circa 100.000 fra begli e francesi, un difficile e drammatico reimbarco nel porto di Dunkerque.
Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi. Divenuto allora presidente del consiglio, il maresciallo Philippe Petain, da
tempo schierato su posizioni di destra, aprì immediatamente le trattative per l’armistizio. Invano il generale Charles
DeGaulle lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a continuare a combattere a fianco degli
alleati. L’armistizio fu firmato il 22 giugno. Il governo stabilì la sua sede nella cittadina di Vichy, conservava la sua
sovranità su una zona corrispondente grosso modo alla metà centro-meridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il
resto della Francia restava sotto l’occupazione tedesca.
Il crollo militare della Francia e l’avvento di Petain segnarono anche la fine della Terza repubblica. Il 9 luglio
l’Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri, affidando al presidente del consiglio il compito di
promulgare una nuova costituzione. La rivoluzione nazionale promossa da Petain si risolse così in un ritorno alle
tradizioni dell’ancien regime. Il regime di Vichy si ridusse al rango di stato satellite della Germania hitleriana. Ogni
rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che il 3 luglio la flotta francese, ancorata nella baia di Mers el Kebir in
Algeria, fu attaccata e distrutta da quella inglese per evitare che cadesse in mano dei tedeschi.
21.4 L’INTERVENTO DELL’ITALIA
Il crollo repentino della Francia valse a spazzar via le ultime esitazioni di Mussolini e a vincere le resistenze di quei
settori della classe dirigente che si erano mostrati meno favorevoli alla guerra. Il 10 giugno 1940, il duce annunciava
l’entrata in guerra dell’Italia.
L’offensiva sulle Alpi sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un avversario
praticamente già sconfitto (il 22 la Francia firmava l’armistizio con la Germania), si risolse però in una grossa prova di
inefficienza: la penetrazione in territorio francese fu limitatissima. L’armistizio subito richiesto dalla Francia e firmato
il 24 giugno prevedeva solo qualche minima rettifica di confine.
Le cose non andarono meglio contro gli inglesi. Nel Mediterraneo la flotta italiana subì in luglio due successive
sconfitte (sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta). In Africa l’attacco lanciato in settembre dal territorio libico
contro le forze inglesi in Egitto dovette arrestarsi ben presto. Un’offerta di aiuto da parte della Germania fu respinta da
Mussolini convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela a quella tedesca.
21.5 LA BATTAGLIA D’INGHILTERRA
Dal giugno 1940 la Gran Bretagna era rimasta da sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati. A questo punto
Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le sue conquiste. Ma ogni ipotesi di tregua trovò
un ostacolo insuperabile nella volontà della classe dirigente e del popolo britannico di continuare la lotta. Interprete e
ispiratore di questa volontà di lotta fu il primo ministro conservatore Winston Churchill, chiamato nel maggio del ’40 a
guidare il nuovo governo di coalizione nazionale.
All’inizio di luglio Hitler dava vita al progetto per l’invasione dell’Inghilterra, l’operazione Leone Marino. Premessa
essenziale per la riuscita del piano era il dominio dell’aria che avrebbe consentito ai tedeschi di fiaccare la resistenza
della Gran Bretagna colpendola nella capacità produttiva e nel morale. Per circa 3 mesi la Luftwaffe effettuò continue
incursioni in territorio britannico, prima contro obbiettivi militari, poi contro i principali centri industriali.
Gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air Force, che si
valeva fra l’altro di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento radar. All’inizio dell’autunno apparve chiaro
che l’Inghilterra non era stata piegata; e l’operazione Leone Marino fu rinviata a tempo indefinito.
La resistenza degli inglesi aveva ottenuto un successo determinante dal punto di vista psicologico, imponendo alla
Germania la prima battuta d’arresto.
21.6 IL FALLIMENTO DELLA GUERRA ITALIANA: I BALCANI E IL NORD AFRICA
Il 28 ottobre 1940 l’esercito italiano, muovendo dall’Albania, attaccava improvvisamente la Grecia con cui aveva fino
ad allora intrattenuto buoni rapporti. L’attacco fu dovuto soprattutto da ragioni di concorrenza con la Germania che
aveva appena iniziato la penetrazione in Romania. L’offensiva italiana si scontrò con una resistenza molto più dura del
previsto. Alla fine i greci passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio albanese.
L’esito fallimentare della campagna di Grecia determinò un terremoto nei vertici militari e Badaglio rassegnò le
dimissioni.
Nel dicembre ’40 gli inglesi erano passati al contrattacco in meno di due mesi avevano conquistato l’intera Cirenaica
(parte orientale della Libia). Per evitare la definitiva cacciata dalla Libia Mussolini fu costretto ad accettare l’aiuto della
Germania. In marzo, con l’arrivo dei primi reparti tedeschi, equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da
Erwin Rimmel, le truppe dell’Asse cominciavano una lunga controffensiva. Ma intanto l’Africa orientale italiana stava
cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba.
Fu un altro durissimo colpo per il prestigio italiano, ormai costretta a rinunciare a ogni sogno di una guerra parallela e
ridotta al ruolo dell’alleato subalterno. Nell’aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe
tedesche e italiane furono rapidamente travolte.
Nella primavera-estate del ’41 restava aperto il solo fronte nordafricano, dove gli inglesi erano avvantaggiati dalla
superiorità navale nel Mediterraneo, oltre che dall’ampio retroterra di cui disponeva in Africa e in Medio oriente. Ma
Hitler non aveva più rivali in Europa.
21.7 L’ATTACCO ALL’UNIONE SOVIETICA
Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, all’inizio dell’estate del ’41, la guerra entrò in una fase nuova. La Gran
Bretagna non fu più sola a combattere.
Stalin si era illuso che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima di aver chiuso la partita con gli inglesi. Così
quando il 22 giungo 1941 l’offensiva tedesca, denominata operazione Barbarossa, scattò su un fronte lungo 1600 km,
dal Baltico al Mar Nero, i russi furono colti impreparati.
In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri. L’offensiva continuò
per tutta l’estate e si sviluppò con successo su due direttrici principali: a nord, attraverso le regioni baltiche, e a sud,
attraverso l’Ucraina, con l’obbiettivo di raggiungere le zone petrolifere del Caucaso. Ma l’attacco decisivo verso Mosca
fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre, e fu bloccato anche per il sopraggiungere del maltempo.
In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. All’inizio
dell’inverno, i tedeschi erano ancora padroni di territori vastissimi, ma Hitler aveva mancato l’obbiettivo ed era
costretto a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un terribile inverno e con
una resistenza sempre più accanita.
Guidata personalmente da Stalin la resistenza dei sovietici risultò infatti più efficace del previsto. Attingendo ad un
serbatoio umano che sembrava inesauribile l’Urss riusciva infatti a compensare le spaventose perdite subite.
21.8 L’AGGRESSIONE GIAPPONESE E L’INTERVENTO DEGLI USA
Allo scoppio del conflitto, gli USA avevano ribadito la linea di non intervento. Ma, una volta rieletto per la terza volta
nel novembre 1940, Roosvelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna. Nel marzo
1941 fu approvata una legge, detta degli affitti e prestiti, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni
molto favorevoli a quegli stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani.
Questa politica ebbe il suo suggello ufficiale nell’incontro tra Roosvelt e Churchill avvenuto il 14 agosto 1941. frutto
dell’incontro fu la cosiddetta Carta Atlantica: un documento in 8 punti in cui si ribadiva la condanna dei regimi fascisti
e si fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita.
A trascinare gli USA in guerra fu l’aggressione improvvisa subita nel Pacifico dal Giappone. Il 7 dicembre 1941,
l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli USA ancora a Pearl Harbour e la
distrusse in buona parte. Nei mesi successivi profittando della netta superiorità navale così conquistata nel Pacifico, i
giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obbiettivi che si erano prefissati: nel maggio del ’42 controllavano la
Filippine, la Malesia, la Birmania e l’Indonesia olandese. Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbour, anche Germania
e Italia dichiaravano guerra agli USA.
21.10 1942-43: LA SVOLTA DELLA GUERRA E LA GRANDE ALLEANZA
Fra il ’42 e il ’43 l’andamento della guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti. I primi segni di inversione di
tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani.
Un mutamento dei rapporti di forza di ebbe anche nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fino ad allora una
efficace guerra sottomarina. Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite grazie a una serie di innovazioni
tecniche.
Ma l’episodio decisivo di questa fase della guerra si verificò in Russia. In agosto i tedeschi iniziarono l’assedio di
Stalingrado. Nel novembre ’42, dopo mesi di durissimi combattimenti, strda per strada, casa per casa, i sovietici
contrattaccarono efficacemente i fianchi dello schieramento nemico e chiusero i tedeschi in una morsa. Hitler ordinò la
resistenza a oltranza, sacrificando così un’intera armata. Per i tedeschi quella di Stalingrado rappresentò il più grave
rovescio subito dall’inizio della guerra.
Negli stessi mesi un’altra decisiva battaglia vedeva i britannci impegnati nel deserto del nordafrica contro il contingente
italo-tedesco del generale Rimmel, che era giunto a El Alamein, a soli 80 km da Alessandria. A fine ottobre il generale
Montgomery poteva lanciare la controffensiva. Ai primi di novembre gli italo-tedeschi avevano perso la battaglia e
iniziavano una lunga ritirata che li avrebbe portati fino alla Tunisia. Frattanto nel novembre ’42 , un contingente alleato
era sbarcato in Marocco e Algeria. Le truppe dell’Asse, prese tra due fuochi, dovettero arrendersi nel maggio ’43.
Per gli anglo-americani e i sovietici si faceva più urgente a questo punto la necessità di elaborare una strategia comune.
Già nella conferenza tenuta a Washington fra il dicembre ’41 e il gennaio ’42, tutte le 26 nazioni in guerra contro il
Tripartito si erano riunite per sottoscrivere il patto detto delle Nazioni unite: i contraenti si impegnavano a tener fede ai
principi della carta atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.
Nella conferenza di Casablanca del gennaio ’43 inglesi e americani decisero che, una volta chiuso il fronte africano, lo
sbarco sarebbe avvenuto in Italia, considerata l’obbiettivo più facile sia per motivi logistici sia per ragioni politcomilitari. Nella stessa conferenza gli anglo-americani si accordavano sul principio della resa incondizionata da imporre
agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale.
21.11 LA CADUTA DEL FASCISMO E L’8 SETTEMBRE
La campagna d’Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell’isola di Pantelleria. Un mese dopo, il
10 luglio, i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano facilmente
dell’isola. Neanche la popolazione locale oppose resistenza. Lo sbarco alleato rappresentò il colpo di grazia per il
regime fascista che vedeva già da tempo il moltiplicarsi al suo interno i segni di malcontento e di crisi.
A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le iniziative dei partiti antifascisti. Fu
invece una sorta di congiura che faceva capo alla corona. Il pretesto per l’intervento del re fu offerto da una riunione del
Gran consiglio del Fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l’approvazione di un
ordine del giorno che invitava il re a riassumere il comando delle forze armate. Il pomeriggio del 25 luglio, Vittorio
Emanuele III convocava Mussolini e lo invitava a rassegnare le dimissioni. Il duce fu subito arrestato dai carabinieri e il
maresciallo Pietro Badoglio fu nominato capo del governo.
L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibile gioia, soprattutto nella speranza di
una prossima fine della guerra. L’uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata tragica per l’Italia. I tedeschi si affrettarono
a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defezione. Il governo Badoglio dal
canto suo proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano. Ma intanto allacciò trattative con gli
alleati per giungere a una pace separata.
Quello che i negoziatori italiani dovettero sottoscrivere fu un atto resa senza nessuna garanzia per il futuro. Firmato il 3
settembre, l’armistizio fu reso noto solo l’8, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.
L’annuncio dell’armistizio gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per
riparare a Brindisi, i tedeschi procedevano a una sistematica occupazione di tutta la parte centro-settentrionale
dell’Italia. Le truppe si sbandarono senza poter opporre una resistenza organizzata ai tedeschi. Ben 600.000 furono i
militari arrestati e deportati in Germania.
Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta alla foce del Sangro e aveva il suo punto nodale
nella zona di cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino alla primavera dell’anno successivo.
21.12 RESISTENZA E LOTTA POLITICA IN ITALIA
Mentre nel sud il vecchio stato monarchico sopravviveva esercitando la sua sovranità sotto il controllo alleato,
nell’Italia settentrionale il fascismo risorgeva sotto la protezione degli occupanti nazisti.
Il 12 settembre, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso. Pochi
giorni dopo il duce annunciò la sua intenzione di dar vita, nell’Italia occopata dai tedeschi, a un nuovo stato fascista, la
Repubblica sociale italiana, a un nuovo partito fascista repubblicano e a un nuovo esercito che continuasse a
combattere. La Rsi stabilì la sua capitale a Salò. La repubblica di Mussolini non acquistò mai una vera credibilità per la
sua totale dipendenza dai tedeschi. La principale funzione svolta dal governo si Salò fu quella di reprimere e combattere
il movimento partigiano. Le regioni del centro nord diventavano così teatro di una guerra civile fra italiani.
Le prime formazioni armate si raccolsero sulle montagne dell’Italia entro-settentrionale subito dopo l’8 settembre e
nacquero dall’incontro fra i piccoli nuclei di militanti antifascisti e i gruppi di militari sbandati che non avevano voluto
consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano con attacchi improvvisi ai reparti tedeschi e con azioni di sabotaggio e
disturbo. In qualche caso i tedeschi risposero con spietate rappresaglie. Dopo una prima fase le bande partigiane si
andarono organizzando in base all’orientamento politico: le Brigate Garibaldi erano formate in maggioranza da
comunisti; le formazioni di Giustizia e Libertà si ricollegavano al nuovo Partito d’azione; le Brigate Matteotti erano
legate ai socialisti; vi erano anche formazioni cattoliche, liberali e di orientamento monarchico. Nei giorni
immediatamente successivi all’8 settembre i rappresentanti dei sei partiti (partito comunista, partito socialista di unità
proletaria, democrazia cristiana, partito liberale e partito d’azione) si riunirono a Roma e si costituirono in Comitato di
liberazione nazionale. I partiti antifascisti si proponevano così come guida dell’Italia democratica in contrapposizione
agli occupanti tedeschi, ai loro collaboratori fascisti, al sovrano e al governo Badoglio, di cui il Cln chiesa la
sostituzione.
I partiti del Cln non avevano però la forza per imporre il loro punto di vista, infatti, il governo Badoglio godeva della
fiducia degli alleati. Nell’ottobre ’43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di
cobelligerante. Il contrasto tra Cln e governo fu sbloccato nel marzo 1944. Palmiro Togliatti, giunti in Italia dall’esilio
in Urss, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità
nazionale capace di concentrare le sue energie sul problema prioritario della guerra e della lotta la fascismo.
La scelta togliattiana consentì di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale, presieduto sempre da
Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln. Da parte sua Vittorio Emanuele III si impegnò a lasciare
che ,a guerra finita, fosse il popolo italiano a decidere della questione istituzionale. Nel giugno 1944, dopo la
liberazione di Roma, Badoglio si dimise e lasciò il posto a un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Bonomi.
L’avvento del governo Bonomi significò un collegamento più stretto fra i poteri legali dell’Italia liberata e il movimento
di resistenza, che conobbe nell’estate del ’44 il suo momento di maggiore vitalità. Molte città, fra cui Firenze, furono
liberate prima dell’arrivo degli alleati. I limiti e le contraddizioni del movimento resistenziale vennero alla luce
nell’autunno ’44, quando l’offensiva alleata sul fronte italiano si bloccò lungo la linea gotica, fra Rimini e La Spezia.
Nonostante i sistematici rastrellamenti dei tedeschi e dei repubblichini il movimento partigiano riuscì a mantenersi
attivo. Nella primavera del ’45, con la ripresa dell’offensiva alleata, la resistenza, forte di 200.000 uomini armati,
sarebbe stata pronta a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata.
21. 13 LE VITTORIE SOVIETICHE E LO SBARCO IN NORMANDIA
Fra il ’43 e il ’44 i sovietici riprendevano l’iniziativa su tutto il fronte orientale. Nel luglio ’43 l’Armata rossa iniziò una
lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo nell’aprile-maggio ’45 con la conquista di Berlino.
Le vittorie sovietiche consentirono all’Urss di accrescere notevolmente il suo peso contrattuale in seno alla grande
alleanza. Nella conferenza interalleata di Teheran (novembre-dicembre 1943) Stalin ottenne dagli anglo-americani uno
sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del ’44.
L’operazione Overlord scattò all’alba del 6 giugno 1944, preparata da un’impressionante serie di bombardamenti e da
un nutrito lancio di paracadutisti. Gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive 4
settimane oltre un milione e mezzo di uomini. Dopo due mesi di combattimenti, gli alleati riuscirono a sfondare le
difese tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i reparti di DeGaulle entravano a
Parigi, già liberata dai partigiani.
21.14 LA FINE DEL TERZO REICH
Il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sotto posto a continui bombardamenti da
parte degli alleati. Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del Fuhrer. Hitler, da
un lato, era deciso a far si che l’intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Dall’altro
continuò a illudersi di poter rovesciare la situazione bellica per un’improvvisa rottura dell’alleanza fra l’Urss e le
democrazie occidentali. Queste ipotesi era in realtà del tutto infondata.
Nella conferenza di Mosca dell’ottobre ’44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza dei paesi
calcatici (Romania e Bulgaria all’Urss, Grecia alla Gran Bretagna, equilibrio in Jugoslavia e Ungheria).
I tre grandi tornarono ad incontrarsi a Yalta, in Crimea, nel febbraio 1945. in questa occasione fu stabilito che la
Germania sarebbe stata divisa in 4 zone d’occupazione (una delle quali riservata alla Francia) e che l’Urss doveva
impegnarsi a entrare in guerra contro il Giappone.
Mentre e i grandi discutevano a Yalta era scattata l’offensiva finale che avrebbe portato al crollo del Terzo Reich. I
sovietici dopo aver conquistato Varsavia, attraversarono tutto il restante territorio polacco. In febbraio erano già a poche
decine di km da Berlino. Frattanto gli anglo-americani attaccavano sul Reno e dilagavano nel cuore della Germania. Il
25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano con i sovietici che stavano accerchiando
Berlino.
In aprile crollava anche il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre il Cln lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il
nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini che tentava di fuggire fu catturato e fucilato dai
partigiani il 28. il 30 aprile mentre i russi stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker dove era stata
trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl Donitz, che chiese subito la resa
agli alleati. Il 7 maggio fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte
fra l’8 e il 9 maggio. La guerra europea si concludeva, ma il conflitto mondiale proseguiva in estremo oriente, dove il
Giappone continuava ostinatamente a combattere.
21.15 LA SCONFITTA DEL GIAPPONE E LA BOMBA ATOMICA
Il Giappone nell’estate del ’45 continuava a combattere con eccezionale accanimento, rifiutando di arrendersi anche
nelle condizioni più disperate e facendo ampio ricorso all’azione dei kamikaze. Fu a questo punto che il nuovo
presidente americano Harry Truman decise di impiegare contro il Giappone la nuova arma totale, la bomba atomica. La
decisioni di Truman serviva innanzi tutto ad abbreviare la durata della guerra, ma aveva anche lo scopo di offrire al
mondo, e soprattutto ai sovietici, la dimostrazione della potenza bellica americana. Il 6 agosto 1945, un bombardiere
americano sganciava la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo l’operazione era ripetuta a
Nagasaki.
Il 15 agosto l’imperatore Hiroito offrì agli alleati la resa senza condizioni. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre
1945, si concludeva così il secondo conflitto mondiale.
22
Il mondo diviso
22.1 LE CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
La guerra non solo segnò la liquidazione del nazifascismo e il trionfo delle democrazie, non solo cambiò la carta
territoriale del vecchio continente, ma portò al suo drammatico epilogo quella crisi dell’Europa delle grandi potenze già
iniziata col primo conflitto mondiale.
Due soli stati potevano ormai aspirare a quel ruolo: gli USA e l’URSS. Le due superpotenze erano entrambe entità
continentali molto diverse dai vecchi stati nazione. Ciascuna era portatrice di una propria cultura, di un proprio
messaggio globale, radicalmente contrapposto a quello dell’altra.
Proprio per effetto di questa contrapposizione globale fra USA e URSS, si giunse a un nuovo sistema mondiale
essenzialmente bipolare, con influenze determinanti sulla vita dei singoli stati: questo era evidente soprattutto in
Europa, dove la linea divisoria fra area socialista e area capitalistica rispecchiava, in larga misura, le posizioni raggiunte
alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti.
Il fatto che di lì a poco il mondo si sia ritrovato nella morsa di nuove tensioni non toglie nulla alla serietà dei tentativi,
che allora si fecero da parte delle grandi potenze, per porre riparo agli errori del passato ed evitarne il ripetersi: in
particolare fu importante il tentativo di dare nuova fisionomia e nuovi poteri all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Infine si intraprese un’opera di codificazione e di aggiornamento del diritto internazionale, includendovi per la prima
volta un vero e proprio settore penale, applicato nel processo di Norimberga contro i capi nazisti e poi in quello di
Tokyo contro i dirigenti giapponesi.
A farsi promotori e garanti del progetto di un nuovo sistema mondiale furono soprattutto gli USA che diventarono per
l’Europa occidentale il principale punto di riferimento non solo materiale, ma anche ideale e culturale in senso lato.
22.2 LE NAZIONI UNITE E IL NUOVO ORDINE ECONOMICO
Di matrice soprattutto americana fu l’ispirazione di base dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, creata nella
conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) al posto della vecchia e screditata Società delle nazioni.
Lo statuto dell’Onu reca l’impronta di due diverse concezioni: da un lato quella dell’utopia democratica wilsoniana;
dall’altro quella, più roosveltiana, della necessità di un direttorio delle grandi potenze. I principi dell’universalità e
dell’uguaglianza sono rispecchiati nell’Assemblea generale degli stati membri. Il meccanismo del direttorio è riflesso
invece nel Consiglio di sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere
decisioni vincolanti per gli stati. Il Consiglio di sicurezza si compone di 15 membri: le 5 maggiori potenze vincitrici –
USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina – sono membri permanenti di diritto, mentre gli altri 10 vengono eletti a
turno fra tutti gli stati. Ciascuno dei membri permanenti gode del diritto di veto.
Anche la rifondazione dei rapporti economici internazionali si attuò sotto l’impulso e la guida degli USA. Con gli
accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un
adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali e di assicurare la stabilità fra i cambi delle monete, ancorandoli non
soltanto all’oro, ma anche al dollaro.
22.3 LA FINE DELLA GRANDE ALLEANZA
Roosvelt si era convinto della possibilità di mantenere aperto il dialogo con l’URSS. Visto che la presenza sovietica nei
paesi danubiani e balcanica non poteva essere scalzata a meno di scatenare un’altra guerra, tanto valeva rinunciare ad
aprire un confronto con l’URSS nella sua sfera d’influenza e cercare di giungere a un ragionevole compromesso.
Questo grande disegno di cooperazione fra Est e Ovest morì con Roosvelt.
L’avvento di Harry Truman alla presidenza degli Stati Uniti, nell’aprile ’45, coincise con un brusco cambiamento del
clima e con un generale irrigidimento americano. Già alla conferenza di Potsdam (luglio-agosto ’45) emersero
chiaramente i nodi fondamentali del contrasto: il futuro della Germania sconfitta e gli sviluppi in Europa orientale.
Nel marzo 1946, Churchill pronunciò negli Stati Uniti un discorso in cui denunciò il comportamento dei sovietici in
Europa orientale:” da Stettino, sul Baltico, a Trieste, sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente. Questa
non è l’Europa per la quale abbiamo combattuto”. Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a
Hitler. La grande alleanza era ormai in frantumi.
Alla conferenza di Parigi che si tenne fra il luglio e l’ottobre del 1946, si giunse a un accordo relativamente ai trattati
con l’Italia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria e la Finlandia. Furono anche ratificati i nuovi confini fra URSS,
Polonia e Germania.
22.4 LA GUERRA FREDDA E LA DIVISIONE DELL’EUROPA
La conferenza di Parigi fu l’ultimo atto della cooperazione postbellica fra URSS e potenze occidentali. Mentre la
conferenza era ancora in corso una crisi fu innescata dal contrasto fra l’URSS e la Turchia a proposito dello stretto dei
Dardanelli. Convinto che un cedimento avrebbe consegnato all’influenza russa la Turchia, ma anche la Grecia, Truman
ingaggiò una drammatica prova di forza inviando la flotta americana nell’Egeo. Fu la prima attuazione della teoria del
containment (contenimento) dell’URSS facendole sentire l’unica voce che pareva fosse in grado di intendere: quella
della forza. In base alla dottrina Truman gli USA si impegnavano a intervenire per sostenere i popoli liberi nella
resistenza all’asservimento.
Nel giugno 1947 gli americani lanciarono un vasto programma di aiuti economici all’Europa, noto come Piano
Marshall. I sovietici convinti che l’aiuto fosse uno strumento per assoggettare l’Europa agli Stati Uniti, respinsero il
piano e imposero ai loro satelliti di fare altrettanto. L’effetto fu non solo di permettere la ricostruzione, ma anche di
avviare un forte rilancio delle economie dell’Europa occidentale. Ciò avvenne entro un quadro complessivo di
economia liberista e comportò un rafforzamento delle tendenze moderate in politica.
Un nuovo fattore di tensione fu rappresentato, nel settembre 1947, dalla costituzione di un ufficio d’informazione dei
partiti comunisti (Cominform). Il dialogò era ormai cessato. Al suo porto subentrò quella che il giornalista americano
Walter Lippmann battezzò guerra fredda. Le conseguenze si fecero sentire ovunque. In Grecia la resistenza comunista
fu debellata nel ’49. in Francia e in Italia i comunisti furono estromessi dai governi di coalizione nel 1947. Nei paesi del
blocco sovietico le residue parvenze di sovranità nazionale furono rapidamente soffocate.
Il più importante terreno di scontro fu però la questione della Germania, divisa in quattro zone di occupazione. La
capitale Berlino, che si trovava nella zona sovietica, era a sua volta divisa in 4 zone. Stati Uniti e Gran Bretagna
integrarono, all’inizio del ’47, le loro zone. Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948,
l’URSS chiuse gli accessi alla città impedendone il rifornimento. L’Europa sembrò nuovamente sull’orlo del conflitto.
Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio ’49, i sovietici si
risolsero a togliere il blocco. Nello stesso mese furono unificate tutte e 3 le zone occidentali della Germania e fu
proclamata la Repubblica federale tedesca con capitale Bonn. La risposta sovietica fu la creazione di una Repubblica
democratica tedesca, con capitale Pankow.
Nell’aprile ’49, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a Washington il Patto atlantico, alleanza
difensiva fra Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo, Italia,
Stati Uniti e Canada. Il patto prevedeva un dispositivo militare integrato composto da contingenti dei singoli stati
membri: la Nato (Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord). Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la
Turchia, nel 1955 anche la Germania federale. Sempre nel ’55 l’URSS rispose stringendo con i paesi satelliti
un’alleanza militare, il Patto di Varsavia.
22.5 L’UNIONE SOVIETICA E LE DEMOCRAZIE POPOLARI
La vittoria in guerra non portò in URSS ad alcun allentamento del dispotismo interno. Al contrario, lo stalinismo
rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l’occidente. L’intera vita nazionale fu
subordinata alle esigenze di una ricostruzione attuata senza aiuti esterni. In realtà gli apporti di capitale straniero ci
furono, ma sotto forme di riparazioni imposte ai paesi ex nemici controllati dall’Armata Rossa. Il prelievo di risorse fu
ingente e la ricostruzione economica sovietica fu molto rapida. Sacrificando il tenore di vita della sua popolazione,
l’Unione Sovietica era comunque diventata una grande potenza industriale nonché uno dei massimi produttori mondiali
di materie prime e di energia. Ed era anche diventata una grande potenza militare: nel 1949 fece esplodere la sua prima
bomba atomica. Sul terreno della politica estera, il maggior successo dell’URSS fu la trasformazione dei paesi occupati
in democrazie popolari: una formula che mascherava l’imposizione di un sistema politico e sociale simile a quello
vigente in URSS e la loro riduzione al ruolo di satelliti.
Gli inglesi consideravano la difesa dell’indipendenza della Polonia come un punto d’onore. Ma per Stalin la Polonia
rappresentava innanzitutto un problema di sicurezza, giacché era stata la via maestra attraverso cui eserciti invasori
erano entrati in Russia. Su questo Stalin fu irremovibile ed ebbe infine partita vinta. Nel giugno 1945 si insediò a
Varsavia un governo presieduto dal socialista Morawski, ma in realtà controllato dai comunisti. Questi in prossimità
delle elezioni del ’47 ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Le elezioni si svolsero sotto il controllo dei comunisti
e si risolsero in una loro schiacciante vittoria.
Non molto diverso fu il corso degli eventi in Romania e in Bulgaria. Particolarmente tenaci furono le resistenze opposte
dalle forze non comuniste in Ungheria. Fin dal ’46, tuttavia, i comunisti iniziarono una campagna di arresti e di
intimidazioni contro i loro avversari. Da allora il processo di sovietizzazione del paese accelerò, per culminare nel ’49
nelle elezioni a lista unica.
Ancora più drammatico fu il destino della Cecoslovacchia. Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal
leader comunista Gottwald e si fondava sull’alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe però nel ’48, quando
si trattò di decidere circa l’accettazione degli aiuti del piano Marshall che era osteggiata dai comunisti. Per imporre il
loro punto vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche. Sotto la minaccia di una
guerra civile, il presidente della repubblica affidò il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. Nel
1948 le elezioni si tennero col sistema della lista unica e la nuova costituzione sanzionava la trasformazione in
democrazia popolare.
La presa del potere da parte dei comunisti si compì invece senza problemi in Albania e in Jugoslavia, dove i comunisti
sotto la guida di Tito presero il potere senza l’appoggio dell’Armata rossa. La Jugoslavia fu però l’unico dei regimi
dell’est europeo che riuscì a sottrarsi all’egemonia sovietica. La rottura si consumò nel 1948: in seguito alle resistenze
di Tito ai piani staliniani di divisione del lavoro, l’URSS sospese dapprima ogni collaborazione economica, quindi
condannò i comunisti jugoslavi accusandoli di deviazionismo. Isolata dal mondo comunista la dirigenza jugoslava
cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi.
Nell’immediato lo scisma jugoslavo provocò per reazione una stretta repressiva estesa a tutto il mondo comunista. Per
evitare che l’eresia di Tito trovasse nuove adesioni furono attuate massicce purghe nei confronti dei dirigenti comunisti
sospettati di velleità autonomistiche.
22.6 GLI USA E L’EUROPA OCCIDENTALE NEGLI ANNI DELLA RICOSTRUZIONE
Gli USA si ritrovarono, alla fine della guerra, ad affrontare un problema non di ricostruzione, ma di riconversione; il
sistema economico americano doveva essere riorientato a scopi di pace. A guidare il paese in questa nuova fase fu
Harry Truman. Dotato di notevoli capacità decisionali, concreto, fiero della sua qualità di “uomo comune”, Truman non
ebbe però né l’ampiezza di visione né il carisma del suo predecessore. A partire dal ’49, in coincidenza con l’esplosione
dell’atomica sovietica, si scatenò negli USA una campagna anticomunista che ebbe il suo principale ispiratore nel
senatore repubblicano Joseph McCarty, presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le “attività
antiamericane”. Nel 1950, il congresso adottò l’International Security Act, che costituì lo strumento giuridico per
epurare o emarginare quanti fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Gli eccessi del maccartismo si
protrassero fino al ’55, quando le accuse indiscriminate del senatore si ritorsero contro di lui, costringendolo a uscire di
scena.
Se negli USA il progressismo degli anni ’30 appariva definitivamente tramontato, sull’altra sponda dell’Atlantico
spirava un vento di trasformazione. Il caso più emblematico fu quello dell’Inghilterra, dove nelle elezioni del luglio
1945 Churchill fu inaspettatamente sconfitto dai laburisti di Clement Attlee. In questi anni furono gettate le basi di un
Welfare State che aveva l’ambizione di essistere il cittadino “dalla culla alla tomba”. Queste riforme, che si ispiravano a
quelle realizzate in Svezia negli anni ’30, furono attuate però in un momento di difficile congiuntura economica e
comportarono per la popolazione anche dei notevoli sacrifici: il che favorì, nel ’51, il ritorno al potere dei conservatori.
In Francia nazionalizzazioni e programmi di sicurezza sociale furono varati dal governo provvisorio di DeGaulle fra il
’44 e il ’45 e dai successivi ministeri di coalizione fra i 3 partiti di massa: il partito comunista, la Sfio e il movimento
repubblicano popolare, di ispirazione democratico-cristiana. Nel ’46 un’assemblea costituente eletta in giugno elaborò
una nuova costituzione di stampo democratico-parlamentare. DeGaulle, che aveva lasciato il governo già dal gennaio
’46, avrebbe preferito un sistema presidenziale con un esecutivo forte; e per questo fondò nel ’47 un proprio
movimento, il Raggruppamento del popolo francese. In quello stesso anno l’alleanza dei 3 partiti si ruppe in seguito ai
contrasti fra i comunisti e le altre forze della coalizione. Da allora, estromessi i comunisti dal governo, si succedettero
numerosi esecutivi tutti caratterizzati da una notevole instabilità.
Fu invece proprio la Germania sconfitta a riprendersi più rapidamente dai traumi della guerra. Alla fine del conflitto il
paese si trovava in una situazione disastrosa da tutti i punti di vista. Nel ’49 la Germania aveva recuperato una teorica
sovranità nazionale, ma aveva contemporaneamente perso la sua unità ed era stata divisa in due stati: l’uno retto da una
costituzione democratico-parlamentare e federale redatta sotto il controllo degli occupanti e governata dai cristianodemocratici del cancelliere Konrad Adenauer; l’altro costruito sul modello delle democrazie popolari e in pratica
sottoposto a un regime a partito unico. L’economia tedesca diede ancora una volta prova di eccezionali capacità di
recupero. Ma, mentre nella zona orientale la ripresa fu frenata dal peso delle riparazioni imposte dall’URSS e dalla
forzata collettivizzazione dell’apparato produttivo, la Germania Ovest fu favorita dalla stretta integrazione nel blocco
occidentale. Gli USA intendevano fare della repubblica federale una sorta di vetrina del benessere capitalistico,
contrapposto al modello spartano dei paesi dell’Est. Rinunciarono perciò alle riparazioni di guerra.
22.7 LA RIPRESA DEL GIAPPONE
Non poche analogie legavano la situazione della Germania postbellica a quella del Giappone. Sottoposto
all’amministrazione del generale Mac Arthur, il paese si vide imporre nel ’46 una nuova costituzione redatta da
funzionari americani, che trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale e introduceva un sistema
parlamentare. L’azione di rinnovamento imposta dagli USA ebbe un effetto durevole, tuttavia essa incontrò un freno
nella necessità degli stessi occupanti di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui essi contavano per farne un
bastione del monda capitalistico.
La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica tutta fondata
sul contenimento dei consumi e sul rilancio produttivo, consentì nel corso degli anni ’50 un tasso d’investimento
elevatissimo. Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio ’50-’70 un tasso di sviluppo medio del
15%.
22.8 LA RIVOLUZIONE COMUNISTA IN CINA E LA GUERRA DI COREA
La precaria alleanza che i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chang avevano stretto nel ’37 entrò in crisi con lo
scoppio della guerra nel Pacifico. A partire dal ’41, profittando dell’impegno giapponese contro gli USA, il governo di
Chang cominciò a prepararsi per la resa dei conti coi comunisti. Tutto questo però non faceva che aumentare il
discredito di un regime che si era ridotto a espressione dei proprietari terrieri, che si mostrava incapace di fare la guerra
ai giapponesi e in cui la corruzione aveva raggiunto livelli incredibili. Al contrario, nei territori da loro controllati, i
comunisti non solo combatterono un’efficace guerriglia contro i giapponesi, ma seppero anche rafforzare i loro legami
con le masse contadine e con gli stessi ceti medi.
A guerra terminata Chang Kai-shek, che sapeva di poter contare sull’appoggio USA, lanciò contro i comunisti una
campagna militare in grande stile. In primo tempo i nazionalisti ebbero il sopravvento. Ma i comunisti, nonostante
fossero poco aiutati dall’URSS, riuscirono a riorganizzarsi e a contrattaccare. Nel corso del ’48, le sorti della guerra si
rovesciarono. Le forze di Chang cominciarono a sbandarsi o a disertare, mentre l’esercito di Mao si rafforzava anche sul
piano militare. Nel febbraio ’49, i comunisti entrarono a Pechino. Chang Kai-shek riparò sotto la protezione americana
nell’isola di Taiwan, da dove non cessò mai di sognare la riconquista.
Il primo ottobre 1949 fu proclamata la nascita della Repubblica popolare cinese, subito riconosciuta dall’URSS e dalla
Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di
Taiwan (che occupò, fino al 1971, il seggio della Cina all’Onu). Nel febbraio ‘50 la Cina stipulò con l’URSS un trattato
di amicizia e mutua assistenza.
La Corea in base agli accordi interalleati era stata divisa in due zone, delimitate dal trentottesimo parallelo. La Corea del
nord era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, mentre nella Corea del sud si era insediato un
governo nazionalista appoggiato dagli americani. Nel giugno 1950 le forze nordcoreane, armate dai sovietici, invasero il
sud. Gli USA reagirono inviando in Corea un forte contingente di truppe. Gli americani, che agivano sotto la bandiera
Onu che aveva autorizzato l’intervento, respinsero i nordcoreani e oltrepassarono a loro volta il 38esimo parallelo. A
questo punto fu però la Cina a intervenire in difesa dei comunisti che in poche settimane capovolsero la situazione
penetrando di nuovo nel sud. Nell’aprile ’51 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del nord. I negoziati si
conclusero nel ’53 con il ritorno alla situazione precedente.
22.9 DALLA GUERRA FREDDA ALLA COESISTENZA PACIFICA
Con la fine della presidenza Truman, novembre ’52, e con la morte di Stalin, marzo ’53, la guerra fredda perse i suoi
maggiori protagonisti. In un primo tempo, tuttavia, il cambio non comportò significativa correzioni di rotta. La
direzione collegiale succeduta a Stalin non fece alcun gesto di apertura né allentò il controllo sui paesi satelliti: quando,
nel 1953, gli operai di Berlino est scesero in piazza per protestare, le truppe sovietiche repressero sanguinosamente la
rivolta. Negli USA la nuova amministrazione repubblicana guidata dal generale Eisenhower pareva accentuare
l’atteggiamento di sfida globale.
Gli anni ’53-’54 segnarono uno dei periodi di più acuta tensione. Eppure venne maturando all’interno delle due
superpotenze un nuovo atteggiamento di accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto
ideologico, costituiva almeno la premessa per una coesistenza pacifica.
Nel corso del 1955, in coincidenza col declino del maccartismo e con l’ascesa di Kruscev, si ebbero da ambo le parti
alcuni significativi gesti di distensione. I sovietici decisero di ritirare le proprie truppe dall’Austria in cambio
dell’impegno a garantire la neutralità del paese. Nella conferenza di Ginevra, convocata per discutere il problema
tedesco, Eisenhower affermò di non volere rimettere in discussione l’assetto europeo. I drammatici eventi del ’56
confermarono questa situazione. La crisi di Suez dell’estate vide USA e URSS unite nel contrastare la sortita
dell’imperialismo franco-inglese. L’intervento sovietico in Ungheria non provocò alcuna reazione militare degli
occidentali.
22.10 IL 1956: LA DESTALINIZZAZIONE E LA CRISI UNGHERESE
La direzione collegiale che aveva raccolto l’eredità di Stalin durò solo pochi anni. Dopo una serie di scontri, Nikita
Kruscev si impose come leader. Questi si fece promotore di alcune significative aperture sia in politica estera che in
politica interna. Vanno ricordati il trattato di Vienna e l’incontro di Ginevra, ma anche la riconciliazione con i comunisti
jugoslavi e lo scioglimento del Cominform. In politica interna la svolta krusceviana non introdusse mutamenti nella
struttura autoritaria del potere ma segno la fine delle grandi purghe e comportò una maggiore attenzione alle condizioni
dei cittadini.
Per rendere irreversibile la svolta, Kruscev non esitò a compiere la demolizione della figura di Stalin attraverso una
sistematica denuncia degli errori e dei crimini commessi. Ma Kruscev non metteva in discussione la validità del
modello sovietico e della dottrina leniniana.
Le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell’Europa dell’est. Nacque l’illusione che l’egemonia
dell’URSS potesse assumere forme più blande. In Polonia furono soprattutto gli operai a rendersi interpreti delle
aspirazioni di cambiamento, dando vita, nel giugno ’56, al grande sciopero di Poznan. Lo sciopero fu stroncato con
l’intervento di truppe sovietiche, ma le agitazioni continuarono. Piuttosto che affrontare una difficile repressione
militare, i dirigenti dell’URSS preferirono puntare su un ricambio ai vertici del partito e del governo.
In Ungheria gli avvenimenti del ’56 seguirono all’inizio un corso analogo. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e
propria insurrezione. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell’ala liberale, già espulso dal partito.
Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono. A questo punto, però, il regime instauratosi nel paese aprì larghi
spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando il primo novembre Nagy
annunciò l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia reparti dell’Armata Rossa occuparono Budapest e stroncarono in
pochi giorni l’accanita resistenza delle milizie popolari. Pochi mesi dopo Nagy fu fucilato.
L’intervento sovietico provocò sdegno e proteste in Occidente e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di
tutto il mondo.
22.11 L’EUROPA OCCIDENTALE E IL MERCATO COMUNE
In Gran Bretagna la smobilitazione dell’Impero si attuò senza eccessivi traumi. Rimasti ininterrottamente al governo fra
il ’51 e il ’64, i conservatori non smantellarono l’edificio del Welfare State costruito dai laburisti. Ma non riuscirono a
impedire che il lento declino dell’economia britannica si trasformasse in un prolungato ristagno.
La ripresa più spettacolare fu realizzata dalla Germania federale. Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni ’50 al
ritmo del 6% annuo; il marco divenne la più forte fra le monete europee. Alla base del miracolo tedesco vi erano diversi
fattori: la disponibilità di numerosa manodopera fornita dai profughi; la moderazione dei sindacati; la notevole stabilità
politica. Questa stabilità era dovuta in parte agli interventi legislativi che misero fuorilegge il partito comunista e i
movimenti neonazisti. L’Unione cristiano-democratica mantenne ininterrottamente fino al ’63 la guida del governo con
Adenauer. Il partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, abbandonando l’antica base teorica
marxista. Dopo la metà degli anni ’50 la Germania federale riprendeva il suo posto fra le nazioni sovrane d’Europa.
Nazioni che per il fatto stesso di aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata, vedevano svanire i vecchi
motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità. L’ideale di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e
della cooperazione economica fu fatto proprio da autorevoli uomini politici: conservatori come Churchill, cattolici come
DeGasperi, Adenauer e il francese Schuman, socialisti come Leon Blum e il belga Paul-Henri Spaak.
La prima realizzazione concreta si ebbe nel ’51 con la creazione della Comunità europee del carbone e dell’acciaio
(Ceca) che aveva il compito di coordinarne produzione e prezzi. Nel marzo 1957 si giunse alla firma del trattato di
Roma fra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, che istituiva la
Comunità economica europea (Cee), il cui scopo era la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali. Organi
principali della Cee erano la Commissione, col compito di proporre piani di intervento; il Consiglio dei ministri, cui
spettano le decisioni finali; la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie fra stati; il Parlamento europeo,
con funzioni consultive.
21.12 LA FRANCIA DALLA QUARTA REPUBBLICA AL REGIME GAULLISTA
I governi instabili che si avvicendarono dopo la rottura, nel ’47, della coalizione, si trovarono ad affrontare il problema
della smobilitazione dell’impero, il cui abbandono era però osteggiato da un forte movimento di opinione pubblica. Nel
maggio ’58 giunse al culmine la crisi legata la problema algerino, con la minaccia di un colpo di stato da parte dei
militari di stanza in Algeria. Venne allora chiamato alla guida del governo, e incaricato di redigere una nuova
costituzione, il generale DeGaulle.
La nuova costituzione – con qui nasceva la V repubblica – lasciava intatte le strutture democratico-rappresentative, pur
introducendo alcuni elementi di rafforzamento dell’esecutivo. Il capo dello stato sarebbe stato eletto direttamente dai
cittadini, aveva il potere di nominare il capo del governo, che doveva però godere anche dell’appoggio del parlamento,
di sciogliere le camere e di sottoporre a referendum questioni importanti. La costituzione fu approvata nel ’58 dall’80%
dei francesi.
Eletto alla presidenza della repubblica nel dicembre dello stesso anno, DeGaulle deluse le aspettative della destra
colonialista e avviò alla sua logica conclusione l’affare algerino. D’altra parte cercò di risollevare il prestigio
internazionale della Francia, facendosi promotore di una politica che tendeva a svincolarsi dagli USA. Volle dunque che
il paese si dotasse di un suo potenziale atomico; ritirò le truppe francesi dalla NATO, pur restando fedele all’alleanza
atlantica; si oppose ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee.
23 La decolonizzazione e il terzo mondo
23.2 L’EMANCIPAZIONE DELL’ASIA
Il caso dell’India occupa un posto esemplare nella storia della decolonizzazione. Qui la crescita del movimento
nazionalista si era legata all’affermazione del Partito del congresso e soprattutto all’influenza politica e morale di
Gandhi che aveva ottenuto alcune importanti concessioni, come la costituzione federale del ’35. Nel corso del conflitto
mondiale Javaharlal Nehru, uno dei collaboratori di Gandhi, promosse un movimento di resistenza non violenta alla
guerra, strappando agli inglesi la promessa di concedere all’India lo status di dominions.
A guerra finita la Gran Bretagna aprì i negoziati. Gandhi si batteva per uno stato unitario laico dove potessero convivere
indù e musulmani, questi ultimi reclamarono la separazione, che fu infine accordata dagli inglesi. Nel ’47 videro la luce
due stati: l’Unione indiana e il Pakistan, geograficamente diviso in due tronconi situati alle opposte estremità della
penisola indiana.
La creazione dei due stati non impedì il moltiplicarsi degli scontri fra indù e musulmani per il controllo del Kashmir,
musulmano ma assegnato all’India. Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima: giudicato troppo arrendevole fu
assassinato da un estremista indù nel gennaio del ’48.
Il primo ministro Nehru rimase fino alla sua morte (1964) alla guida di un paese che si era guadagnato un notevole
prestigio internazionale, ma era gravato da immensi problemi interni: la povertà cronica; l’eccezionale sovraccarico
demografico; la permanenza di abiti mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste. Malgrado alcuni
aspetti autoritari e personalistici del potere esercitato prima da Nehru e poi da sua figlia Indira Gandhi, le istituzioni
democratico-parlamentari ressero complessivamente al confronto coi problemi del paese.
23.3 IL MEDIO ORIENTE E LA NASCITA DI ISRAELE
Il Medio Oriente aveva visto già dai primi decenni del secolo svilupparsi una movimento nazionalista arabo che, rivolto
inizialmente contro la dominazione ottomana, si era successivamente indirizzato contro le potenze europee. In questo
movimento confluivano due componenti: una tradizionalista, fautrice di una reislamizzazione della società mediante
l’applicazione integrale dei precetti coranici; e un’altra laica e nazionalista.
Anche qui la seconda guerra mondiale accelerò il processo di emancipazione. Nel ’46 la Gran Bretagna riconobbe
l’indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò le truppe dalla Siria e dal Libano. L’Iraq aveva ottenuto
l’indipendenza nel ’32. Insieme all’Egitto, l’Arabia Saudita e lo Yemen, questi paesi formarono nel 1945 la Lega degli
stati arabi.
Restava da sciogliere il nodo della Palestina che la Gran Bretagna si era impegnata a rendere indipendente, ma che era
ancora contesa fra arabi e ebrei. Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la creazione di uno
stato ebraico si fece sempre più forte. La causa sionista trovò un potente alleato negli USA ma fu ostacolata dalle
autorità inglesi, preoccupate di inimicarsi i vicini stati arabi.
Le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passarono alla lotta armata non solo contro gli arabi ma anche contro gli
inglesi. Trovatasi di fronte a una situazione incontrollabile la Gran Bretagna si tirò fuori dal conflitto: nel ’47 annunciò
che avrebbe ritirato le sue truppe dalla Palestina e rimise alle nazioni unite il compito di trovare una soluzione. L’Onu
approvò un piano di spartizione che venne però rifiutato dagli arabi.
All’atto della partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele e gli stati della Lega araba
reagirono subito attaccandolo militarmente. La prima guerra arabo-israeliana (maggio ’48 – gennaio ’49) si risolse però
con la sconfitta delle forze arabe.
Stato moderno, ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, dotato di strutture sociali e civili molto avanzate,
Israele dimostrò fin dai primi anni una forza inaspettata rispetto alle sue piccole dimensioni: una forza che gli derivava
non solo dalle risorse provenienti dall’estero, ma anche dalla preparazione e dall’intraprendenza dei suoi dirigenti.
23.4 LA RIVOLUZIONE NASSERIANA IN EGITTO E LA CRISI DI SUEZ
All’inizio degli anni ’50, il nazionalismo arabo trovò il suo centro e la sua guida indiscussa nell’Egitto. Nel paese
formalmente indipendente dal ’22, la spinta nazionalista sembrava essersi esaurita negli anni ’30 in un compromesso
con gli inglesi che avevano rinunciato al controllo sulla politica ma avevano mantenuto la loro presenza militare nella
zona del canale di Suez. Di fatto, la monarchia egiziana restava legata alla Gran Bretagna e teneva in piedi un sistema di
governo sempre più corrotto e inefficiente.
Nel luglio 1952, un comitato di ufficiali liberi guidato da Neguib e da Nasser assunse il potere rovesciando la
monarchia. Nel 1954, Nasser allontanò il più moderato Neguib e rimase arbitro della situazione. Il nuovo regime attuò
una serie di riforme in senso socialista e tentò di promuovere un processo di industrializzazione.
In politica estera, Nasser si mosse con decisione per affrancare il paese da ogni condizionamento da parte delle potenze
ex coloniali e rivelò subito l’ambizione di assumere la guida dei paesi arabi nella lotta contro Israele; ottenne lo
sgombero delle truppe inglesi dalla zona del Canale di Suez e stipulò accordi con l’URSS per aiuti economici e militari.
Gli USA bloccarono nel ’56 il finanziamento da parte della banca mondiale alla grande diga di Assuan. Nasser rispose
nazionalizzando la Compagnia del Canale di Suez.
Nell’ottobre 1956, d’intesa coi governi di Londra e Parigi, Israele attaccò l’Egitto e lo sconfisse, penetrando nella
penisola del Sinai, mentre truppe francesi e inglesi occupavano la zona del Canale. A far fallire questo tentativo fu
l’atteggiamento delle due superpotenze: gli USA lo condannarono apertamente; l’URSS inviò addirittura un ultimatum
a Francia, Gran Bretagna e Israele. Le due vecchie potenze dovettero cedere e Israele si ritirò dal Sinai.
Di ispirazione nasseriana, anche se con connotati particolari di ortodossia islamica, fu la rivoluzione che, nel 1969,
depose la monarchia in Libia e portò al potere i militari guidati dal giovane colonnello Muhammar Gheddafi.
23.5 L’INDIPENDENZA DEI PAESI DEL MAGHREB
In Marocco e in Tunisia dopo aver cercato di reprimere l’agitazione indipendentista alternando la repressione militare
con le proposte di parziale autogoverno, i francesi furono costretti a concedere, nel 1956, la piena indipendenza.
Più drammatica fu la lotta di liberazione in Algeria, dove la presenza di oltre un milione di francesi rendeva
particolarmente rigida la posizione dei governi e della stessa opinione pubblica in Francia. Con l’inizio degli anni ’50,
dopo il successo della rivoluzione nasseriana, il movimento nazionalista algerino si radicalizzò e si affermò il Fronte di
liberazione nazionale: un’organizzazione clandestina votata alla causa della piena indipendenza. Lo scontro culminò,
nel ’57, con la battaglia di Algeri, che durò quasi 9 mesi. I francesi riuscirono a piegare l’insurrezione con un massiccio
invio di reparti speciali.
Nel maggio 1958 i coloni più oltranzisti, con l’appoggio di elementi dell’esercito, costituirono ad Algeri un Comitato di
salute pubblica. Questa iniziativa spianò la strada al ritorno al potere di DeGaulle. Il generale capì che la causa
dell’Algeria francese era ormai perduta e agì con determinazione per far uscire il paese da una guerra sempre più
impopolare. Stabilì i primi contatti con l’FLN, stroncò un tentato colpo di stato militare ad Algeri e reagì con durezza
alla campagna terroristica condotta in Francia dagli oltranzisti di destra dell’Oas (organisation armeé secrète).
Nel marzo 1962 il governo francese e il governo rivoluzionario provvisorio si accordarono ad Evian su un progetto di
indipendenza da sottoporre tramite referendum al giudizio della popolazione algerina. L’esito del referendum fu
largamente favorevole all’indipendenza.
23.8 INSTABILITA’ POLITICA IN AMERICA LATINA
Di stampo populista e autoritario fu il regime instaurato nel 1946 in Argentina dal colonnello Juan Domingo Peròn. Il
riformismo sociale di Peron, condito da una forte dose di demagogia, si accompagnava a una prassi politica autoritaria,
che ricordava quella dei regimi fascisti. Sul piano economico, la politica peronista ebbe successo fino a che durò la
congiuntura favorevole del periodo postbellico. Dall’inizio degli anni ’50, si assisté a un continuo aumento
dell’inflazione. Peron fu rovesciato nel 1955 da un colpo di stato militare e costretto ad abbandonare l’Argentina. Nei
10 anni successivi, i militari lasciarono la guida del paese a governi civili. Nel 1966, profilandosi la minaccia di una
vittoria dei peronisti, i generali attuarono un nuovo colpo di stato, instaurando una ferrea dittatura di destra.
A Cuba la dittatura reazionaria di Fulgencio Batista fu rovesciata nel gennaio 1959, dopo una guerriglia iniziata da 3
anni da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Schierato inizialmente su posizioni democraticoriformiste, Castro avviò subito una riforma agraria che colpiva direttamente il monopolio esercitato dalla United Fruit.
Gli USA assunsero a questo punto un atteggiamento ostile. Castro si rivolse allora all’URSS sfidando il boicottaggio
economico americano e rompendo le relazioni diplomatiche con gli USA. Nel giro di pochi anni, il regime cubano si
orientò sempre più decisamente in senso socialista.
Per la prima volta, in un continente sotto tutela nordamericana e in un paese vicinissimo agli USA, si affermava un
regime che operava una netta scelta di campo in senso marxista e filosovietico e mirava apertamente a esportare il suo
modello rivoluzionario nel resto dell’America Latine e in tutto il terzo mondo.
Uno dei collaboratori di Castro, l’argentino Ernesto “Che” Guevara, si impegnò in prima persona nel tentativo di
suscitare fuochi di guerriglia in tutta l’America Latina e fu catturato e ucciso nel 1967 dai militari in Bolivia.
L’Italia dopo il fascismo
L’Italia esce dalla guerra con l’economia in condizioni gravissime: la produzione industriale è meno di un terzo di
quella dell’anteguerra, quella agricola è scesa al 40% rispetto al ’38; ciò rende drammatico il problema degli
approvvigionam alimentari, superato con gli aiuti alleati; il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato (strade e
ferrovie interrotte, ponti distrutti); specie nel Mezzogiorno fioriva il contrabbando e la borsa nera.
Ritorna la dialettica democratica; le forze politiche sono più o meno le stesse del prefascismo, ma non se ne conosce la
forza nel Paese; una crescita della partecipazione politica e negli iscritti ai partiti; si capisce che i protagonisti del
dopoguerra saranno i partiti organizzati su basi di massa. PSI (allora PSIUP), godeva della popolarità del leader Pietro
Nenni ma era diviso fra le ali riformista e rivoluzionaria; PCI, guidato da Togliatti, traeva forza e credibilità dal
contributo offerto alla lotta antifascista ed era autentico partito di massa; DC, con a capo De Gasperi si richiamava
direttamente al Partito Popolare di Sturzo e godeva di un esplicito appoggio della Chiesa; PLI, raccoglieva gran parte
della classe dirigente prefascista. Part. Repubblicano, Partito d’Azione, Neofascisti, Part. Monarchico, L’uomo
qualunque. Il sindacato era costituito dalla CGIL con le componenti socialista, comunista e cattolica.
Giugno ’45 si dimette il governo Bonomi per far posto ad un governo più rappresentativo dell’Italia liberata; gli succede
Parri, con un governo formato da tutti i partiti del CLN; viene messo all’ordine del giorno lo spinoso problema
dell’epurazione che avrebbe dovuto applicarsi non solo ai funzionari statali ma anche agli espon. del potere economico
più compromessi col fascismo; il gov. cade a fine ’45 e la DC riesce ad imporre De Gasperi; Togliatti, ministro della
Giustizia vara l’amnistia, che mette la parola fine all’epurazione, troppo difficile da condurre per l’ampiezza delle
adesioni di cui il fascismo aveva goduto; fissata al 2/6/46 l’elezione a suffr. univ. (anche le donne) dell’Assemblea
Costituente e il referendum per la scelta istituzionale; nel maggio ’46, V.E. III, per risollev. le sorti della corona abdica
a favore di Umberto II, dal ’44 luogotenente del Regno; la Repubblica vince comunque con largo margine; elezioni per
la Costituente: DC 35,2%, Psiup 20,7, PCI 19, liberali e loro alleati 6,8.
La crisi dell’unità antifascista Nei due anni che vanno dal 2 giugno ‘46 alle elezioni politiche del 18 aprile ‘48 per
l’elezione del primo Parlamento, l’Italia riesce a definire il nuovo assetto istituzionale dandosi una nuova Costituzione,
riorganizza l’economia secondo i modelli tipici dei sistemi capitalistici occid., si dà un equilibrio politico destinato a
riflettersi immediatamente sulla collocazione internazionale del Paese. E. De Nicola è eletto Capo provv.dello Stato.
Crescono i contrasti fra la Dc e le sinistre a causa dell’inasprirsi dello scontro sociale e dal profilarsi della guerra fredda;
a farne le spese è il PSIUP: nel corso del XXV Congresso, l’ala riformista di Saragat si separa formando il PSLI, poi
PSDI (scissione di Palazzo Barberini); la scissione fa buon gioco alla DC che riesce a formare un governo senza PSI e
PCI, con l’ingresso di tecnici liberali; si chiude con le sinistre all’opposzione, la fase di collaborazione al governo dei
tre partiti di massa. La Costituzione Repubblicana L’Ass. Costituente approva la Costituzione il 22/12/47, che entra in
vigore l’1/1/48. E’ ispirata ai modelli democratici ottocenteschi, con governo responsabile di fronte alle Camere, titolari
del potere legisl.; sono previsti Consiglio superiore della Magistratura, per garantire l’autonomia dell’ordine giudiziario,
la Corte Costituzionale, la possibilità di referendum abrogativo, il decentramento con l’Istituto delle Regioni (tutte cose
realizzate peraltro dopo anni). Le elezioni del ’48 La campagna elettorale vide una radicalizzazione dello scontro
anche per la decisione di PCI e PSI di presentare liste comuni (Fronte popolare); a sfavore delle sinistre giocò la stretta
adesione alla causa dell’URSS, quando questa avviava una politica antidemocratica nei Paesi dell’Est europeo mentre
erano a favore della DC l’aperto appoggio della Chiesa e le prospettive di sviluppo e benessere associate nella mentalità
popolare al legame con gli USA; stravinse la DC con il 48,5% contro il 31% del Fronte popolare. Il 14/7/48 uno
studente di destra spara a Togliatti all’uscita da Montecitorio, provocando agitazioni in tutte le principali città; la
condotta prudente dei capi comunisti e sindacali contribuì a non far degenerare la situazione; l’atmosfera di quei giorni
contributi alla rottura dell’unità sindacale: dalla CGIL si staccarono la componente cattolica (CISL) e quella socialista
(UIL).
Politica economica: le forze moderate (liberali) riuscirono a prendere il sopravvento bloccando i tentativi delle sinistre
di introdurre nel sistema forti elementi di trasformazione. Einaudi ministro del Bilancio attua una manovra econ. volta a
conseguire: fine dell’inflazione, ritorno alla stabilità della moneta e risanamento del bilancio statale; Piano Marshall :
gli USA finanziano acquisti, presso di loro, di macchinari, materie prime e derrate alimentari. Trattato di Pace con gli
alleati, firmato a Parigi nel ’47: l’Italia deve pagare riparazioni (contenute) ai Paesi che aveva invaso (Russia, Grecia,
Jugoslavia, Albania, Etiopia), deve ridurre le forze armate, perde le colonie, piccole cessioni territoriali alla Francia. Al
confine Est esplode il contrasto, acuito dalle politiche del fascismo, fra italiani e slavi nei territori della Venezia Giulia
che questi ultimi avevano occupato; migliaia di italiani gettati nelle foibe, centinaia di migliaia costretti a rifugiarsi in
Italia; la Venezia Giulia ceduta alla Jugoslavia.
La scelta di campo La scelta dell’Italia, in buona parte condizionata da fattori esterni (appartenenza alla zona di
occupazione anglo-americana, gli accordi fra le grandi potenze aulle aree di influenza) divenne esplicita dopo
l’estromissione delle sinistre dal governo. Non era però scontato che la questa scelta dovesse tradursi in un’alleanza
militare; quando nel ’48 si avvio la NATO fu De Gasperi a spingere per l’adesione con l’opposizione delle sinistre.
Gli anni del centrismo Nella prima legislatura (1948-53) sempre governi DC con i partiti laici minori (PLI, PRI, PSDI);
maggio ’48: Einaudi eletto primo Presidente della Repubblica. Riforma agraria (1950): per venire incontro soprattutto
alle attese delle masse rurali del Centro-Sud e per incrementare la piccola impresa agricola vengono espropriate e
frazionate una parte delle grandi proprietà terriere in ampie aree geografiche (delta del Po, Maremma, Sila, parte del
Molise, Campania, Sardegna e Puglie, l’intera Sicilia). Nel ’50 viene creata la Cassa per il Mezzogiorno allo scopo di
promuovere lo sviluppo economico e civile del Meridione tramite il finanziamento statale per le infrastrutture e il
credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. Legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari. Le
sinistre fanno un’opposizione dura al governo motivata anche dal permanere di elevata disoccupazione e bassi salari;
frequenti scioperi e manifestazioni con dura repressione poliziesca simbolizzata dal ministro degli interni, Scelba, in
carica dal ’47 al ’55. Si rafforzano i legami economici con i Paesi occidentali che sfocieranno nel ’57 nel MEC; nel ’56
costituito il Minstero delle Partecipazioni Statali per coordinare le attività delle aziende statali (IRI, ENI), preludio ad
un più incisivo intervento statale nell’economia. Nel ’56 avviata la Corte Costituzionale e il Consiglio superiore della
Magistratura. Nelle elezioni per la seconda legislatura (1953-58) la DC di De Gasperi ha un esito poco soddisfacente;
emerge nel partito una nuova classe dirigente formatasi nell’Azione cattolica degli anni ’20 e ’30 (Fanfani, Moro,
Taviani, Rumor), più sensibile all’intervento statale nell’economiae Fanfani è segretario Dc nel ’54; emerge nel partito
una maggior consapevolezza della fragilità della coalizione centrista e si incomincia a pensare ad una allargamento
della maggioranza ainistra, verso il PSI che nel frattempo aveva allentato notevolmente i legami con il PCI:
25 La società del benessere
25.1IL BOOM DELL’ECONOMIA
Negli anni ’50 e ’60 l’economia dei paesi industrializzati attraversò una fase di intenso sviluppo le cui cause furono:
_ la crescita della popolazione(che portò a una crescita della domanda)
_ l’innovazione tecnologica
_ una razionalizzazione produttiva
_ un’espansione del commercio mondiale
_ la politica statale in favore della crescita
25.2LE NUOVE FRONTIERE DELLA SCIENZA
L’applicazione delle scoperte scientifiche alla produzione divenne velocissima. Nel campo della chimica si
svilupparono le materie plastiche e quelle sintetiche. In medicina vennero scoperti gli antibiotici,gli ormoni, gli
psicofarmaci, gli anticoncezionali ecc…, ci furono anche grandi sviluppi della chirurgia.
Lo sviluppo tecnologico divenne importante soprattutto per i trasporti, come per l’aviazione civile, cambiando
profondamente le abitudini della gente.
Nel 1957 fu lanciato il primo satellite artificiale per opera dei sovietici mentre gli americani fecero sbarcare il primo
uomo sulla luna nel 1969. La conquista dello spazio cambiò completamente la tecnologia dei settori produttivi.
25.3IL TRIONFO DEI MASS MEDIA
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, tra cui il ruolo fondamentale è della televisione, ha rappresentato un
massiccio condizionamento dei modelli di comportamento delle società industrializzate.
25.4L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA
Gli anni che seguirono la seconda guerra mondale videro un forte incremento demografico concentrato però soprattutto
nel Terzo Mondo dove si è anche registrato un significativo calo della mortalità.
Nei paesi industrializzati l’aumento demografico è rimasto molto contenuto e in alcuni si è conquistata in breve tempo
la “crescita zero”
25.5LA CIVILTA’ DEI CONSUMI E I SUOI CRITICI
La società del benessere o del consumo è quella in cui l’espansione dei consumi superflui è ormai una caratteristica
fondamentale, nelle quali lo spreco è alla portata della maggior parte della popolazione. È da notare come le aree
industrializzate subiscano una standardizzazione o americanizzazione dei consumi.
Tutto ciò ha contribuito a fenomeni estesi di rifiuto ideologico e di forte critica da parte di alcune correnti intellettuali
(uno dei massimi esponenti di queste correnti di critica è Marcuse)
25.6 CONTESTAZIONE GIOVANILE E RIVOLTA STUDENTESCA
La contestazione della società del benessere fu più forte tra i giovani ovvero quelle generazioni nate dopo la fine della
seconda guerra mondiale. L’opposizione fu caratterizzata in un primo momento dal rifiuto delle convenzioni e dalla
fuga dalla società(ciò che succedeva nelle comunità di hippies nate negli USA all’inizio degli anni ’60).
In un secondo momento l’opposizione divenne sempre più politicizzata e trovò nelle università i suoi centri propulsori.
La prima occupazione fu all’università di Berkeley in California nel 1964. la protesta era fatta contro la guerra in
Vietnam e per la segregazione razziale. Le rivolte studentesche dall’America si espansero all’Europa e l’apice si
raggiunse nel 1968 “l’anno degli studenti”.
Gli elementi unificatori del movimento furono:
_ lotta contro l’autoritarismo
_ mobilitazione contro l’imperialismo americano
In Germania la rivolta studentesca si concentrò soprattutto contro le misure repressive del governo della grande
coalizione e la stampa controllata della destra.
In Francia ci furono movimenti di estrema sinistra e nel maggio del 1968 ci fu l’episodio più clamoroso di guerriglia
urbana tra manifestanti e forze della polizia. L’opposizione era più che altro rivolta alla politica di De Gaulle che
nonostante tutto vinse le elezioni grazie all’appoggio dei moderati.
In Italia invece la protesta ebbe caratteri diversi ma soprattutto durò molto più a lungo che nel resto dell’Europa.
25.7 ILNUOVO FEMMINISMO
È un nuovo femminismo perché ormai raggiunta la parità tra i sessi questo movimento criticava la divisione dei ruoli tra
uomo e donna nella famiglia e nel lavoro e ancor di più criticava e rifiutava i valori “maschilisti” dominanti nelle
società industriali.
25.8 LA CHIESA CATTOLICA E IL CONCILIO VATICANO II
La Chiesa,pur ribadendo la sua ostilità nei valori materialistici e contrari alla dottrina cattolica, tentò un proprio
rinnovamento interno e un’apertura ai problemi del mondo contemporaneo. Ciò ha inizio con il pontificato di Giovanni
XXIII(1958-63) e prosegue con il Concilio Vaticano II che portò a riforme nell’organizzazione interna, alla Messa in
volgare e affermata la necessità del dialogo con altre religioni.
26 distensione e confronto
26.1 MITO E REALTA’ DEGLI ANNI ‘60
Il ventennio che va dagli anni’50 agli anni’70 non spense i conflitti sociali e politici e i accompagnò col rilancio di
ideologie rivoluzionarie.
La coesistenza tra i due blocchi politico-militari che si consolidò attraverso momenti di duro scontro diplomatico, si
basava ancora sull’equilibrio degli armamenti nucleari posseduti dai 2 paesi instaurando il clima del terrore a causa
della potenza degli armamenti dei due blocchi.
26.2 KENNEDY E KRUSCEV: LA CRISI DEI MISSILI E LA DISTENSIONE
1960 negli USA è eletto presidente il democratico J. F. Kennedy che cercò consensi riallacciandosi alla tradizione
progressista di Roosevelt e Wilson aggiornata con la “nuova frontiera”(intesa in senso spirituale, culturale e scientifico).
La sua politica interna si caratterizzò per:
_ un incremento della spesa pubblica
_ il tentativo di imporre l’integrazione razziale
La politica estera invece fu caratterizzata per:
_ l’enfasi sulla pace e la distensione con i paesi dell’est
_ l’intransigenza sulle questioni ritenute essenziali tra cui la difesa
A giugno del 1961 Kennedy incontra Kruscev per discutere della situazione della Germania dell’ovest che gli americani
appoggiavano. L’incontro fu un fallimento e la risposta dei russi fu la costruzione del muro di Berlino per evitare
spostamenti in massa di tedeschi che già erano in atto.
Sempre nel 1951 Kennedy cercò di soffocare il regima socialista di Cuba sostenendo e appoggiando la spedizione di
gruppi anticastristi con l’intento di sbarcare nella Baia dei Porci ma esso un fallimento. L’URSS offrì ai cubani
assistenza economico e militare ma installò sull’isola basi per missili nucleari. Nel 1962 queste basi furono scoperte da
aerei spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale intorno a Cuba che durò dal 16 al 21 ottobre e con l’intento di
non fare arrivare i missili russi a Cuba. La Russia rinuncerà alle basi missilistiche in cambio ch gli americani non
facciano più nessuna azione contro Cuba.
Nel 1963 USA e URSS firmano un trattato per la messa al bando di esperimenti nucleari nell’atmosfera(non aderiscono
la Cina che nel 1964 fa esplodere la sua prima bomba nucleare e la Francia). Viene anche istallata la “linea rossa” fra
Casa Bianca e Cremlino per scongiurare al possibilità di una guerra per errore.
Il 22 novembre 1963 Kennedy è ucciso a Dallas ( è il primo di una serie irrisolta di omicidi politici coi quali saranno
uccisi anche il fratello di Kennedy e Martin Luther King). A Kennedy subentra Johnson.
Kruscev inizia a interpretare il confronto tra i due blocchi in chiave economica e il suo ottimismo sulla situazione della
Russia è una delle cause che lo portano a cadere nell’ottobre del 1964.
26.3 LA CINA DI MAO: IL CONTRASTO CON L’URSS E LA “RIVOLUZIONE CULTURALE”
Il contrasto tra Cina e Urss è dovuto al fatto che se la Russia si proponeva come garante di un equilibrio mondiale con
tutte le intenzioni di mantenere il suo posto a cui la destalinizzazione aveva lasciato un’apertura in senso liberale, la
Cina tendeva ad appoggiare i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a porsi come guida contro l’imperialismo e a
accentuare i suoi tratti radicali e collettivistici.
Negli anni ’50 la Cina compì una nazionalizzazione e il settore industriale e commerciale una riforma agraria con la
quale i contadini ottennero delle terre ma con l’obbligo di unirsi in cooperative fortemente controllate dallo stato.
Questa riforma agraria non ebbe molto successo e così nel 1958 fu proclamato il “grande balzo in avanti” che obbligava
le cooperative a unirsi nei comuni popolari il cui scopo era quello di ottenere la totale autosufficienza. Fallì anche
questa riforma e la Cina precipitò in una terribile carestia. L’URSS a causa dei contrasti richiamò i suoi tecnici, e a
causa di questi fallimenti Mao intuì correnti più moderate soprattutto tra i suoi collaboratori e gli intellettuali. Per
fronteggiarli e sconfiggerli ne 1966 annunciò la Rivoluzione Culturale attraverso la quale fomentò i giovani uniti nelle
guardie rosse condannare e catturare i possibili e visibili nemici del comunismo. Fu sempre Mao a porre un freno già
all’inizio del 1968 a questo evento che lo aveva ormai liberato da scomodi collaboratori.
26.4 LA GURRA DEL VITNAM
Durò dal 1964 al 1975. La Conferenza di Ginevra del 1954 aveva diviso il Vietnam in due:
_ il Vietnam dl nord retto da un regime comunista
_ il Vietnam del sud retto da un regime cattolico dittatoriale sostenuto dagli USA che avevano grandi contingenti
militari sul posto
Nel Vietnam del sud si sviluppò un movimento di guerriglia comunista, il Vietcong, sostenuto dal Vietnam del nord.
Dal ’64 il contingente USA sul posto continua ad aumentare e a febbraio del 1965 ci furono violenti bombardamenti a
scapito del Vietnam del nord ma la resistenza nord vietnamita è subito aiutata ad russi e cinesi. L’esercito americano va
in crisi e negli USA molte manifestazioni contra la guerra a cui si oppose anche tutta l’opinione pubblica di sinistra
dell’Europa occidentale.
Nel 1968 i vietcong diedero una svolta alla guerra con una grande offensiva e Nixon che succede a Johnson inizia le
trattative con il Vietnam del nord e a gennaio del 1973 è firmato l’armistizio a Parigi.
La guerra continuò ancora due anni e il 30-4-1975 i vietcong conquistano il sud, quando qualche tempo prima avevano
preso la Cambogia e poco dopo presero anche il Laos facendo diventare l’Indiocina comunista.
26.5 L’URSS E L’EUROPA ORIENTALE: LA CRISI CECOSLOVACCA
Dopo Kruscev divenne segretario del Pcus Breznev col quale si accentuò la repressione di ogni forma di dissenso e
vennero colpiti soprattutto gli intellettuali. In economia vennero lasciati più ampi margini di autonomia e l’URSS vide
in questo periodo accentuarsi il distacco rispetto ai paesi occidentali. In politica estera nessun miglioramento dei
rapporti con la Cina.
Solo la Romania guidata da Ceausescu aveva ottenuto un po’di autonomia.
Nel 1968 avvenne la così definita “primavera di Praga” che iniziò quando alla segreteria del partito arrivò Dubcek
leader dell’ala innovatrice e che spinse il processo riformatore a limiti impensabili fino ad allora, cercando di introdurre
elementi del pluralismo economico e politico e concedendo più libertà di stampa e opinione. Questa esperienza era una
minaccia intollerabile per l’URSS preoccupata di possibili contagi con il resto della zona. I sovietici tentarono prima di
indurrei dirigenti di Praga a bloccare il processo di liberalizzazione ma non ottenendo successo il 28-8-1968 le truppe
dell’URSS e degli alleati occuparono Praga e il resto del paese. I dirigenti cecoslovacchi non provarono neanche a
rispondere on le armi ma misero in atto una resistenza passiva che isolò politicamente gli occupanti.
A condannare l’intervento dell’URSS stavolta oltre gli intellettuali furono anche gli altri partiti comunisti occidentali
(anche quello italiano).
26.6 L’EUROPA OCCIDENTALE NEGLI ANNI DEL BENESSERE
Per le democrazie dell’Europa occidentale gli anni ’60 e primi anni ’70 furono un periodo di stabilità economica ma di
mutamenti politici. Infatti nei governi, ad esempio di Italia, Germania e Francia, entrarono i socialisti.
In Germania il socialdemocratico Brandt inaugurò una politica estera di conciliazione con i paesi dell’est.
Nel 1972 la CEE si allargò con l’ingresso dell’Inghilterra, dell’Irlanda e della Danimarca.
26.7 IL MEDIO ORIENTE E LE GUERRE ARABO ISRAELIANE
Nel 1967 Nasser, leader egiziano, proclamò la chiusura del Golfo di Aquba, vitale per gli approvvigionamenti israeliani
e strinse un patto con la Giordania.
Gli israeliani attaccarono il 5giugno a sorprese e preventivamente e con una guerra di 6 giorni fecero perdere all’Egitto
il Sinai, la Giordania e tutti i territori della riva occidentale del Giordano. Gli arabi subirono molte perdite e migrarono
in Giordani.
L’Olp si staccò dalla tutela dei regimi arabi sotto la guida di Arafat e nel 1970 il re di Giordania attacca arabi e profughi
arabi in Giordania (che si rifugiano in Libano) per paura che i loro attacchi terroristici facciano partire una
controffensiva israeliana anche sul suo territorio.
Nel 1970 muore Nasser e l’Egitto sotto Sadat cerca di riprendere il Sinai e nel 1973 attacca a sorpresa gli israeliani che
però riprendono subito il sopravvento sul conflitto anche grazie agli aiuti americani.
26.8 LA CRISI PETROLIFERA
All’inizio degli anni ’70 ci furono 2 crisi che sconvolsero il coro dell’economia mondiale.
Nel 1971 gli USA sospesero la convertibilità del dollaro in oro, convertibilità che era il pilastro del sistema monetari
mondiale di Bretton Woods del 1944 (gli USA avevano un grave disagio economico a causa della guerra del Vietnam).
Fu l’inizio di un’instabilità e disordine monetario.
A novembre del 1973 i produttori di petrolio, a causa di una guerra arabo-israeliana, quadruplicarono il prezzo del
petrolio. La shock petrolifero colpì tutti i paesi industrializzati ma in particolare quelli che dipendevano interamente
dall’estero per il sostentamento energetico (come Italia e Giappone).
Ovunque tra il ’74 e il’75 si registrarono cali industriali, che si ripresero dopo il 1976. La recessione produttiva si
accompagnò a una tendenza infalazionistica, inedita anche perché dovuta in parte all’inflazione esterna. I lavoratori in
realtà furono tutelati e la conseguenza sociale più grave fu la disoccupazione.
La crisi fu talmente grave che addirittura pose dei dubbi sulla fragilità e il fondamento stesso delle società capitaliste.
27 apogeo e crisi del bipolarismo
27.1IL TEMPO DEL RIFLUSSO
A metà degli anni ’70 ci fu una crisi delle ideologie della sinistra che fino ad allora avevano egemonizzato la politica
occidentale. Questa fu causata dal venir meno dei fondamenti su cui fino ad allora si era poggiata:
_ illimitata capacità espansiva del sistema economico
_ la possibilità di controllare i processi sociali con gli strumenti della politica
I fattori più determinanti per la crisi furono:
_ la progressiva incapacità dei regimi comunisti o a ispirazione comunista: l’immagine della Russia si stava sgretolando
progressivamente, la rivoluzione culturale cinese aveva lasciato un riflusso negativo, i massacri in Cambogia, i caratteri
autoritari del regime istaurato in Vietnam, le continue lotte e guerre tra i paesi comunisti
_ la crescita dei costi che costringeva i governi a forti pressioni fiscali induceva la popolazione contro la statalizzazione
e il ritorno a dottrine liberali
Ciò che veniva messo in discussione era la capacità dei grandi sistemi ideologici di fornire risposte alle esigenze reali
della gente. Questa caduta della tensione politica portò a isolare le punte estreme dei movimenti rivoluzionari che
causarono l’esplosione del terrorismo politico. Anche se esso fallì sia politicamente (non riuscì a coinvolgere le masse
popolari) ch fisicamente (la maggior parte dei membri fu arrestata entro gli anni ’80) il terrorismo si radicò nelle società
moderne.
27.2 LA DIFFICILE UNITA’ DELL’EUROPA OCCIDENTALE
Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973-75 furono di grandi cambiamenti politici. Tutti i paesi della CEE
dovettero affrontare problemi legati al declino di vari settori industriali e affrontare le tensioni sociali. Nel 1979 venne
istituita la Sme, ma l’Europa lo sesso perse terreno rispetto all’America o al Giappone.
Sul piano delle politiche interne furono in crisi soprattutto le socialdemocrazie dell’Europa settentrionale:
In Inghilterra: il potere passò ai conservatori con M. Tatcher che attaccò le Trade Unions, mise in discussione i valori
del Welfarestate e privatizzò settori importanti dell’industria pubblica.
Nei Paesi Scandinavi le socialdemocrazie entrarono in crisi dopo 20anni ininterrotti di supremazia
In Francia: nel 1974 vince alle elezioni l’unione delle sinistre con Mitterrand, anche se prestò ci fu una rottura tra
socialisti e alcuni comunisti, la sinistra rimase al potere ininterrottamente fino al 1993.
In Germania l’indirizzo politico si spostò dalla socialdemocrazia a governi guidati da cattolici democratici.
Portogallo, Grecia e Spagna divennero democrazie proprio negli anni ’70 ed entrarono negli anni ’80 a far parte della
Comunità Europea (Grecia nell’81, Spagna e Portogallo nell’86).
In Portogallo nell’1970 muore il dittatore Salazar e nel 1974 i militari realizzarono un colpo di stato al cui vertice salì
prima l’ala moderata dell’esercito e poi ufficiali di sinistra appoggiati dal partito comunista. Nel 1975 il paese divenne
un normale regime parlamentare, pluripartitico con un governo socialista guidato da Soares.
In Grecia, la dittatura militare cominciata nel 1964 subì un duro colpo con il disastroso tentativo di annettere Cipro al
paese. Nel 1974 i militari sono costretti a lasciare il governo in mano a partiti democratici e con un referendum venne
abolita la monarchia.
In Spagna muore, nel 1974, Franco e re seppe ben pilotare il passaggio alla democrazia di un paese che ormai non si
riconosceva più nelle strutture del regime clerical-autoritario. Chiamò al governo Suarez che subito legalizzò i parii
politici e i sindacati e fece approvare una costituzione democratica. A lui succedettero i socialisti di Gonzales
27.3 GLI STATI UNITI DA NIXON A BUSH
Le difficoltà degli Usa negli anni ’70 consistevano in:
_ la cauta del dollaro nel 1971
_ la sconfitta politico-militare in Vietnam
_ una crisi interna
Nel 1974, Nixon accusato di coprire comportamenti illegali di suoi collaboratori (caso Watergate), fu costretto a la
presidenza a Ford, un repubblicano che mantenne il governo fino al 1976 quando fu eletto Carter, un democratico che si
spinse su una linea più wilsoniana, conto l’URSS e i nemici della democrazia, ma che non riuscì nella realtà troppo
contraddittoria.
Nel 1980 fu eletto Regan, repubblicano, con un programma liberista in economia e duro con l’URSS e i nemici degli
USA. L’economia prosperò e migliorò in fretta. Regan fortificò La difesa americana sia per mostrare la supremazia
sull’URSS che per far sentire la presenza USA in tutto il mondo (infatti ci furono molti interventi americani:1986 in
Libia contro Gheddafi, nel 1987 nel Golfo Persico per proteggere le rotte petrolifere,ecc..).
Nel 1988 venne eletto Bush, appartenente all’ala moderata dei repubblicani, che continuò la politica di Regan e
intervenne nella guerra del Golfo. Spettò a lui vedere la disfatta dell’URSS tra il 1991 e il 1992.
27.4 L’URSS DA BREZNEV A GORBACIOV
Negli anni ’70 la Russia approfitta dello smarrimento USA per avanzare con gli armamenti e farsi sentire sulla scena
internazionale (interventi n America Latina, Africa, Medi Oriente).
L’Afghanistan era un tipico stato cuscinetto nell’Asia musulmana importante per l controllo del Golfo Persico. La
Russia vi invia, alla fine del 1979, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare per quasi una decina di anni
con la forte resistenza dei gruppi guerriglieri islamici. Un’esperienza simile a quella del Vietnam.
Per ciò che invece riguarda la politica interna, si inasprì la repressione nei confronti degli intellettuali dissidenti,
nonostante la Russia avesse, nel 1975, partecipato alla conferenza di Helsinki firmando accordi che garantissero i diritti
dell’uomo e la libertà politica.
Una svolta radicale, sia per l’unione sovietica che per il mondo intero, si ebbe nel 1985, quando la segreteria del partito
comunista fu assunta da Gorbaciov, il quale subito si mostrò innovatore sia per la politica interna che quella esterna. In
politica economica i suoi interventi furono nel segno della liberalizzazione e si fece invece promotore, nel 1988, di una
nuova costituzione che lasciasse un minimo di pluralità. Nel 1990 il congresso elesse Gorbaciov presidente dell’URSS.
Le riforme in economia però suscitarono dissensi e malumori a causa comunque dell’inefficienza dl sistema. Gravi
erano anche i nuovi movimenti autonomisti e indipendentisti delle popolazioni russe, prime fra tutte le repubbliche
baltiche, poi le repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e le regioni musulmane dell’Asia cntrale. La
stessa repubblica russa, nel 1990, rivendicò la propria autonomia ed elesse una sua presidenza.
Nel 1988 l’URSS si impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afghanistan e il dialogo con l’occidente divenne molto più
vivo (3 furono i vertici tra Regan e Gorbaciov). Nel 1990 partecipando alla conferenza di Parigi, sulla sicurezza e
cooperazione in Europa, firmò insieme agli altri paesi un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti
convenzionali.
27.5 LA CRISI DELL’EUROPA COMUNISTA, LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO E LA RIUNIFICAZIONE
TEDESCA
La crisi del comunismo sovietico produsse il crollo dei regimi comunisti imposti all’Europa dell’est e la conseguente
perdita del dominio che la Russia esercitava in quelle zone.
La Polonia era stata già tra il 1980-81 sede di riforme, ovvero era nato un sindacato con l’appoggio e il controllo della
Chiesa cattolica. Il movimento fu in un primo tempo tollerato, ma nel dicembre del 1981, il segretario del partito
operaio polacco aveva attuato un colpo di stato mettendo il sindacato fuori legge. Nel 1988 furono firmati gli accordi di
Danzica per una riforma costituzionale che avrebbe previsto lo svolgersi di elezioni democratiche e la formazione di
una coalizione. Gli eventi polacchi erano prodotto di fattori specifici (primo fra tutti il papato di Wojtyla) e conseguenza
diretta della nuova politica sovietica. Erano l’inizio di una reazione a catena che avrebbe rovesciato gli equilibri di tutta
l’Europa dell’est.
In Ungheria, nel 1989 viene deposto il governo e i nuovi dirigenti comunisti legalizzarono i partiti e indissero libere
elezioni per l’anno successivo. A la decisione più importante fu quella di rimuovere i controlli di polizia e delle barriere
di filo spinato che la separavano dall’Austria, prima vera breccia nella cortina di ferro.
Si assistette così quasi a una diaspora degli abitanti della Germania orientale che passando prima per l’Ungheria e poi
per l’Austria, si riversavano nella Germania occidentale. Il 9 novembre 1989 furono aperti i confini tra le 2 Germanie,
compresi i passaggi attraverso il muro (evento epocale che si assunse a simbolo della fine delle divisioni che avevano
spaccato in 2 l’Europa e il mondo dopo la seconda guerra mondiale). Nella Germania dell’est le elezioni dell’1990
punirono tutti i partiti i sinistra decretando la vittoria dei cattolici democratici e il governo Kohl fu importante nella
gestione della riunificazione tedesca perché riuscì in pochi mesi a preparare l’assorbimento della Germania est nelle
istituzioni e strutture di quella ovest e a far accettare ai Russi l’idea di una Germania unita e indipendente. A maggio del
1990 i due governi tedeschi firmarono l’unificazione monetaria ed economica, mentre il 3 ottobre entrò in vigore il vero
e proprio trattato di unificazione.
In Cecoslovacchia le manifestazioni popolari alla fine degli anni ’80 determinarono la caduta del gruppo dirigente
comunista.
In Romania invece si riuscì ad abbattere la dittatura di Ceausescu nel 1989 grazie ad un’insurrezione popolare che non
si è riusciti a reprimere nel sangue.
Alla fine dell’89 anche in Bulgaria fu avviato un processo di liberalizzazione mentre nel 1990 toccò al’Albania.
In Jugoslavia invece i problemi erano dovuti al fatto che dalla morte di Tito (1980), il paese attraversava una crisi
economica e istituzionale. Mentre in Slovenia e Croazia la vittoria andò a partiti autonomisti in Serbia prevaleva il
neocomunismo di Milosevic.
27.6 DITTATURE E DEMOCRAZIE IN AMERICA LATINA
Gli anni che vanno dal 1973 al 1989 son per l’America Latina e gli stati dell’America centrale, anni di profonde
trasformazioni soprattutto politiche.
Nella prima metà degli anni ’70 i militari assunsero il potere anche in Uruguay.
In Cile aveva vinto alle elezioni del 1970 il socialista Salvador Allende che però trovò molta difficoltà nell’attuare il suo
programma di nazionalizzazione e riforme sociali in quanto contrastato da:
_ una forte opposizione con gli USA
_ l’economia ai limiti del dissesto
_ la forte opposizione dei borghesi
_ le intemperanze estremiste di parte dei sui seguaci
Nel 1973 Allende è deposto dai militari con un colpo di stato e il potere viene assunto da Pinochet che sarà sconfitto
solo nel 1988 con delle elezioni indette dallo stesso dittatore e conclusesi con la vittoria dei democristiani.
In Argentina invece i militari, al potere dal ’66, nel 1972 non riuscirono a fronteggiare i problemi economici e di
disordine sociale. Si accordarono con il vecchio dittatore Peròn che fu eletto presidente nel 1973. Non riuscì né sul
piano economico, né su quello sociale e dopo la sua morte il potere fu assunto dalla moglie, che nel ’76 fu deposta da un
nuovo colpo di stato militare. I militai questa volta decisero di reprimere bruscamente ogni possibile ribellione o
opposizione. Caddero poi nel 1982 dopo un fallimento militare nelle isole Folkland. Le elezioni del 1973 portarono al
governo i democristiani. Ma a causa della fortissima inflazione le elezioni del 1989 portarono al potere un peronista.
Nel 1989 fu rovesciata la dittatura in Paraguay. In Colombia,Venezuela e Equador resistettero anche se pieni di
contraddizioni le istituzioni liberal-democratiche. In Colombia invece la più grande minaccia è rappresentata dallo
strapotere dei narcotrafficanti che corrompono sia con la violenza che col denaro.
Nell’America Centrale invece anche la caduta delle dittature non porta ad affermare la democrazia.
In Nicaragua viene rovesciata la dittatura (che era appoggiata dagli USA) nel 1979. Quando il nuovo regime accentuò i
suoi tratti socialisti gli USA cominciarono ad appoggiare e finanziare il gruppo di guerriglia che si arrende nel 1989 in
cambio di libere elezioni, vinte dall’opposizione del regime.
27.7 ISRAELE E I PAESI ARABI
Sadat, presidente egiziano si rese conto negli anni ’70 di dover risolvere la situazione con Israele. Fece un rapido
cambio di alleanze, espellendo tutti i tecnici sovietici imponendo una politica estera filo-occidentale. Nel 1977
pronuncia a Gerusalemme la sua offerta di pace aiutato dalla mediazione di Carter. Con gli accordi di Camp David del
1978 l’Egitto riprende i Sinai, mentre i trattato di pace è del 1979. Gli accordi di Camp David prevedevano anche
negoziati per risolvere tra Israele e i Paesi Arabi ma non furono mai applicati. Fino alla metà degli anni ’80 l’Olp si
rifiutò di trattare con Israele e quando furono disposti a riconoscere lo stato di Israele in cambio della liberazione delle
terre occupate(Cisgiordania e striscia di Gaza) furono gli Israeliani a rifiutarsi di collaborare. Nei territori occupati
cominciò l’intifada(1987) della popolazione araba, sostenuta e finanziata comunque dall’Olp.
L’Olp aveva dagli anni ’70 spostato le sue basi guerriglia in Libano provocando la rottura del fragile equilibrio delle
fazioni Libanesi che dall’1975 entrano in una perenne guerra civile. La situazione precipitò quando nel 1982 l’esercito
israeliano invase il paese per cacciare le basi dell’Olp. USA e altri paesi inviarono un contingente di forza per calmare
la situazione ma furono costretti a ritirarlo dopo poco a causa degli attentati.
27.8 IL MONDO ISLAMICO E LA RIVOLUZIONE IRANIANA
In Iran nel 1979, una rivoluzione portò alla caduta del regime dello scià e alla nascita di un regime integralista islamico
e fortemente antioccidentale. Entrò subito in contrasto con Usa e cominciò una violenta guerra con l’Iraq che andò dal
1980 al 1988
27.9 I CONFLITTI NELL’ASIA COMUNISTA
La Cambogia fu per opera dei Khemer rossi uno tra il 1976 e il1978 lo scenario di uno tra i più terribili esperimenti di
rivoluzione sociale nel tentativo di uno assoluto comunismo agrario. Dopodiché fu conquistata dal Vietnam e solo nei
primi anni ’90 con difficili negoziati e una massiccia presenza dell’Onu si riesce a unire tutte le fazioni e reinstaurare la
monarchia.
27.10 LA CINA DOPO MAO
Con la presidenza di Den Xiaoping cambiarono molte cose. Soprattutto si compì una massiccia modernizzazione
dell’economia a cui vennero applicate elementi dell’economia di mercato. Tutto ciò provocò notevoli cambiamenti nella
stratificazione della popolazione, ma la modernizzazione dell’economia affiancata dalla tradizionale struttura
burocratica-autoritaria fu la causa di nuove proteste. Protagonisti furono i giovani che a fine anni ’80 organizzarono
manifestazioni di piazza. La repressione fu durissima e sfociò in massacra (1989 piazza Tienanmen). Questi episodi
ebbero ripercussioni negative anche nei rapporti tra Cina tra Cina e occidente diventati comunque ormai essenziali.
27.11 IL MIRACOLO GIAPPONESE
Sebbene fosse un paese povero di materie prime, avesse la densità più alta del mondo di popolazione e fosse uscito in
ginocchio dalla guerra, il Giappone negli anni ’60 era già la terza potenza economica mondiale. È possibile ricondurre
le radici di questo sviluppo alle tradizioni e alla mentalità del popolo giapponese (disciplina ferrea) e a questioni di
natura politica (la stabilità garantita dal Partito liberal-democratico). La crisi petrolifera del 73-74 rappresentò la prima
battuta d’arresto di questa potenza che seppe riprendersi grazie al tasso di sviluppo degli ’80. Travolto da scandali
finanziari, nel 92 il Partito liberal-democratico per la maggioranza assoluta. Venuta meno poi la premessa bipolarista,
non ha più potuto godere della protezione incondizionata degli USA e ha dovuto cominciare a spendere in difesa
militare risorse prima destinate alla ricerca.
28 L’Italia del miracolo economico alla crisi della prima repubblica
28.1 IL MIRACOLO ECONOMICO
Lo sviluppo economico italiano si fece particolarmente intenso nel lustro 1958-63 , culmine di un processo che aveva
interessato tutti gli anni Cinquanta. Si definisce miracolo economico il lasso di tempo in cui l’Italia divenne pienamente
un paese industrializzato: si assistette a uno straordinario sviluppo dell’industria manifatturiera e alla crescita
significativa nei settori siderurgico, meccanico e chimico confermati dall’aumento massiccio delle esportazioni. A
favorire questa ascesa furono anzitutto la congiuntura internazionale favorevole, la politica di libero scambio sancita
con l’adesione alla CEE, lo scarto tra l’aumento della produttività e il basso livello dei salari (possibile data la larga
disponibilità di manodopera a basso costo), ma anche dal successo organizzativo delle Olimpiadi di Roma del 60 o dalle
celebrazioni del centenario dell’unità nazionale svoltesi l’anno successivo che diffusero un clima di ottimismo
generalizzato. Dalla fine degli anni ’50 quindi lo sviluppo economico portò ad una crescita dei consumi (conseguente
all’aumento delle retribuzioni) e al calo della disoccupazione: accrebbe così la capacità contrattuale dei lavoratori che,
attraverso i sindacati, ottennero miglioramenti salariali (nel 58-63 il costo del lavoro nell’industria aumentò del 60%),
riducendo in questo modo i margini di profitto e innescando un processo inflazionistico che portò a una battuta d’arresto
del boom nel biennio 63-64.
28.2 LE TRASFORMAZIONI SOCIALI
Con il boom economico l’Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della civiltà contadina per entrare nella civiltà
dei consumi. Anzitutto si verificò un massiccio esodo dal Sud verso il Nord del Paese e dalle campagne alle città,
incrementando l’occupazione nei settori del commercio e dell’edilizia. Queste migrazioni sintomo del progresso ebbero
anche notevoli costi umani e sociali: l’espansione delle città spesso avveniva in maniera caotica senza piani regolatori e
il processo di integrazione fu tutt’altro che rapido ed indolore evidenziando dapprima le disparità culturali e mitigandole
poi. I simboli di questa nuova era furono la televisione (in corrispondenza dell’inizio della trasmissione regolare da
parte della Rai divenne nel giro di poco tempo veicolo attraverso il quale imporre la lingua nazionale sui dialetti e nuovi
modelli culturali di massa) e l’automobile, simbolo della pacificazione economica e sociale, di indipendenza e di libertà
di movimento, con la conseguente crescita dell’industria automobilistica e la costruzione della rete autostradale.
28.3 IL CENTRO-SINISTRA
I mutamenti politici e sociali si accompagnarono all’allargamento delle basi del sistema politico con l’ingresso dei
socialisti dell’area di governo senza particolari clamori, dal momento che non si trattò di un capovolgimento dei
rapporti di forza, ma di una scelta operata a livello di gruppi dirigenti dei partiti interessati. Questa apertura a sinistra
incontrò non poche opposizioni in sede vaticana e da parte statunitense, prima dell’avvento dei Kennedy.
Nonostante buona parte del partito la pensasse diversamente, nel 1960 il democristiano Tambroni provò a formare un
governo appoggiandosi al Msi. Questo tentativo fallì primo perché non godeva della fiducia di buona parte degli
esponenti del partito stesso e secondo perché non poté far fronte al clima di sollevazione popolare iniziato con gli
scontri tra polizia e manifestanti (militanti antifascisti e di sinistra) a cavallo tra giugno e luglio in occasione del
congresso del Msi a Genova.
Nell’agosto ’60 fu così formato un nuovo governo monocolore presieduto da Fanfani che ottenne l’astensionismo dei
socialisti in Parlamento. La nuova alleanza fu sancita dal congresso Dc nel gennaio ’62 guidato dal segretario Aldo
Moro che convinse buona parte del partito.
Nel marzo ’62 il nuovo governo Fanfani era composto da Dc, Pri e Psdi con un programma concordato col Psi. Si
conseguirono diversi risultati: la realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ordinamento regionale
previsto dalla Costituzione, l’imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari e la nazionalizzazione dell’industria
elettrica (Enel). Questi ultimi due provvedimenti volevano essere un correttivo al capitalismo italiano e dare vita a una
sorta di pianificazione economica per attenuare il divario tra le due aree del Paese, senza però incontrare i necessari
consensi per la propria attuazione. L’esito delle elezioni dell’aprile del ’63 suggerì la formazione, sotto la presidenza di
Moro, di un governo “organico” (con ministri) di centro-sinistra. Si bloccarono le riforme a causa delle diverse
opposizioni: destra economica, presidente della repubblica, alte gerarchie militari (si parla di un progetto di colpo di
stato nel 64) e resistenze interne alla maggioranza, oltre alla concomitante crisi economica. La mediazione effettuata da
moro portò alla scissione del Psi ne gennaio ’64: da una parte con la formazione del Partito socialista di unità proletaria,
dall’altra con la formazione di due correnti impersonate da Lombardi, sostenitore di riforme strutturali in un’ottica di
medicazione economico-sociale, e da Nenni, che mirava alla riunificazione col Psdi. Nel ’64 la morte di Togliatti, che
con il memoriale di Yalta ribadiva l’ originalità della “via italiana al socialismo”, e l’elezione del socialdemocratico
Saragat a presidente della repubblica non bastarono al Pci di uscire dalla propria posizione di marcato isolamento.
Nonostante le difficoltà l’assetto del centro-sinistra resse per una decina di anni e vida alla propria presidenza fino al
’68 Aldo Moro.
28.4 IL ’68 E L’AUTUNNO CALDO
La contestazione giovanile in Italia, che aveva come cavalli di battaglia gli stessi dei movimenti studenteschi occidentali
(anti-imperialismo, guerra in Vietnam, antiautoritarismo e avversione alla società dei consumi), ebbe una particolare
ispirazione in senso marxista e rivoluzionario: l’avversione alla cultura borghese si tradusse in ambito universitario
nella ricerca di un nuovo modo assembleare di fare democrazia in maniera egualitaria e spontanea. Furono anche
promotori di una rivoluzione nei rapporti personali, sia in ambito familiare sia in quanto a relazione tra i sessi. Forti
spinte operaiste portarono alla ricerca di un collegamento con la classe operaia e con i movimenti “extraparlamentari”,
quali Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia. Di natura diversa l’Unione dei marxisti-leninisti ispirata
all’esperienza di Mao in Cina e del Manifesto, gruppo costituitosi attorno all’omonima rivista. La riscoperta da parte
degli studenti della centralità operaia corrispose a un’intensa stagione di lotte dei lavoratori dell’industria nel cosiddetto
autunno caldo (’69), che i tre maggiori movimenti sindacali seppero abilmente orchestrare per il raggiungimento di
importanti traguardi nazionali. Avviarono così un processo di parziale unificazione, rinnovarono le proprie strutture
organizzative creando nuove forme dirette di rappresentanza (i consigli di fabbrica). Questo nuovo rilievo fu
politicamente avallato dalla ratifica parlamentare dello Statuto dei lavoratori (primavera ’70). Il movimento non ottenne
altri grandi risultati di liberalizzare l’accesso all’università, mentre profonde innovazioni sociali, oltre a quelle già dette,
furono portate sulla legge Fortuna-Baslini che nel giugno del 1970 introduceva in Italia l’istituto del divorzio.
28.5 LA CRISI DEL CENTRO-SINISTRA
Nei primi anni ’70 si mostrò la debolezza dell’esecutivo nel far fronte alle tensioni sociali: la risposta dell’estrema
destra all’autunno caldo fu l’inaugurazione della strategia della tensione con la strage di piazza Fontana (17 morti e più
di 100 feriti) il 12 dicembre 1969 o la sommossa popolare capeggiata dal Msi a Reggio Calabria per la mancata
designazione a capoluogo di provincia. A poco servirono le elezioni anticipate del ’72 e i governi Andreotti e Rumor
che non risolsero i contrasti interni alla maggioranza (Dc e Psdi portatori della maggioranza silenziosa, Psi alla ricerca
di equilibri più avanzati coinvolgendo il Pci negli equilibri di governo). La situazione fu aggravata dal conflitto araboisraeliano del Kippur (’73): l’aumento del costo del petrolio blocco le produzioni e aumentò l’inflazione. Il disagio
morale fu accresciuto, oltre che dalla difficile situazione economica da alcuni scandali politico-finanziari (’74 legge sul
finanziamento dei partiti per far fronte a meccanismi di corruzione da parte di gruppi di pressione). Nonostante la
pesante frattura fra società politica e società civile, non scemò la partecipazione elettorale in materia di diritti sociali:
nel 74 vinse il no al referendum abrogativo, promosso da Dc e Msi, della legge sul divorzio, nel 75 la riforma dello stato
di famiglia prevedeva tra l’altro la parità dei coniugi e abbassava la maggiore età (estendendo il diritto di voto), nel ’78
il Parlamento approvò la legge sull’Interruzione volontaria di gravidanza. La mobilitazione dell’opinione pubblica fu
facilitata da movimenti laici, quali i radicali.
A raccogliere consensi fu il Pci, che facendosi carico dei malumori popolari giunse al compromesso storico con cattolici
e socialisti (’73) e condannando l’intervento sovietico in Cecoslovacchia diede vita a un eurocomunismo collaborando
con francesi e spagnoli sotto la segreteria di Berlinguer. Questo portò a uno spostamento dell’elettorato verso sinistra
consegnando molte regioni del Centro-Nord a giunte di sinistra e accentuando i contrasti tra Dc e Psi (’75). Dichiarata
finita l’esperienza del centro-sinistra si ricorse a elezioni anticipate nel ’76 che registrarono il massimo storico del Pci
(33,4%), la Dc recuperò i consensi persi alle regionali, mentre il Psi sconfitto si preparava l’ascesa del leader della
frazione autonomista Bettino Craxi.
28.6 IL TERRORISMO E LA SOCIETA’ NAZIONALE
Dal momento che il Psi non era più disposto a una riedizione del centro-sinistra, non esistevano altri margini di
governabilità alternativi al coinvolgimento del Pci nella maggioranza, così si mise a capo di un governo monocolore
Andreotti che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti i Partiti tranne Msi e radicali. Non era il governo di emergenza
terroristica con la partecipazione di tutti i partiti costituzionali richiesto dalle sinistre, ma era pur sempre una risposta
alla crisi economica e al terrorismo diventato ormai bipartisan.
Il terrorismo nero adottava come strategia con attacchi dinamitardi in luoghi pubblici provocando stragi indiscriminate e
il conseguente panico, terreno fertile per una svolta autoritaria. Di qui le stradi di piazza della Loggia, Brescia
maggio’74, il treno Italicus, agosto ’74, stazione di Bologna, agosto ’80. La magistratura non ha ancora confermato
l’opinione diffusa dietro a questi movimenti ci fosse la spinta dei servizi segreti – eccetto per Bologna. Certa è la
responsabilità del potere politico nel non aver indirizzato in senso corretto la ricerca della responsabilità di questi atti.
L’immagine di uno Stato debole e corrotto, la presenza del terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di stato
contribuirono alla nascita del terrorismo rosso, ipotesi non aliena ai moti estremisti. Sulla scorta della guerriglia latinoamericana e il terrorismo palestinese si formarono i primi gruppi organizzati pronti ad attuare questa prospettiva teorica
diventando per molti una scelta di vita totale. L’azione armata per questi gruppi rappresentava un momento esemplare,
destinato a mobilitare la classe operaia per rovesciare il sistema capitalistico e lo Stato borghese. Dapprima atti
incendiari isolati, poi sequestri sistematici di dirigenti industriali e magistrati (’73-75: nel ’74 giudice Sossi). Dal ’76
assassinio programmato con l’uccisione del procuratore generale di Genova Coco e di due uomini della scorta. A fianco
delle Brigate rosse (attive fino all’88) operavano i Nuclei armati proletari e Prima linea. Nel frattempo si era nel pieno
della crisi economica: elevato costo della vita, inflazione alle stelle dovuta al prezzo del petrolio, alla dilatazione dei
consumi e alla crescita della spesa pubblica. Per porre una soluzione a questa soluzione si varò la cosiddetta scala
mobile, ovvero un accordo tra Confindustria e sindacati atto ad adeguare i salari al costo della vita. Problema sociale di
primo piano era poi quello della disoccupazione giovanile: in parte dovuta alla crisi, in parte al tasso di scolarizzazione i
giovani faticavano a trovare sbocchi adeguati al proprio titolo di studio. Così nel ’77 prese vita il cosiddetto movimento
del ’77 che raccoglieva i malumori di studenti universitari e medi che diedero vita a occupazioni e violenti scontri di
piazza ricorrendo non di rado alle armi, i cui protagonisti erano i membri di Autonomia operaia. Rispetto al ’68
mancava quella spinta ottimista compensata da un’esasperazione radicalizzata e una sfiducia nei confronti degli istituti
tradizionali (Pci e Cgil nella persona di Lama) che divennero spesso bersaglio di aggressioni. L’incapacità di
raggiungere risultati gettò molti giovani nella rassegnazione, dirottò altri verso movimenti appartenenti al terrorismo
rosso. Gli anni a seguire furono caratterizzati da una crescita esponenziale di episodi ti terrorismo al punto che all’alba
degli anni Ottanta sembrava impossibile contenere il fenomeno. Il 16 marzo del ’78, giorno in cui veniva presentato il
governo Andreotti, fu sequestrato Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e dopo 55 giorni di detenzione fu ritrovato il
suo cadavere il 9 maggio in una strada al centro di Roma. Questo fatto segnò una sorta di spartiacque anzitutto per la
sua gravità in sé e perché portò alla presa di distanza da questi estremismi da parte di coloro che nutrivano una
solidarietà ambigua verso questi movimenti. Ciò, assieme a un potenziamento delle forze dell’ordine, avrebbe portato a
partire dall’80 alle prime sconfitte del terrorismo rosso. A seguire, il governo di solidarietà nazionale poté concentrarsi
sul risanamento della situazione economica grazie alla collaborazione del Pci che moderò le richieste sindacali. Inoltre
si vedevano i primi frutti della riforma fiscale del ’74 che mirava a razionalizzare il sistema di tassazione diretta. La
difficile mediazione portò a effetti disastrosi in materia di riforme: nel ’78 l’equo canone sugli affitti produsse effetti
disastrosi, mentre la riforma sanitaria si sarebbe rivelata fonte di inefficienza e sprechi. L’opinione pubblica rimase
delusa dall’incapacità di imprimere una svolta da parte del Pc e la pratica della lottizzazione, gli scandali che
investirono il capo di stato Leone, la mancata partecipazione a pieno titolo del Pci e la sua fuoriuscita dalla maggioranza
per contrasti in materia di politica estera portarono alle elezioni anticipate nel ‘79. I nuovi soggetti che si presentarono
nel panorama politico italiano furono Pertini, eletto nel ’78 Presidente della Repubblica, e Craxi.
28.7 POLITICA, ECONOMIA E SOCIETA’ NEGLI ANNI ‘80
Nelle elezioni del ’79 e dell’83 Pci e Dc persero ulteriori consensi, mentre il Psi di Craxi non riuscì a fare il salto di
qualità. Si tornò così all’unica via praticabile, ovvero il centro-sinistra. La novità non consistette tanto nella formula
pentapartitica (Dc, Psi, Pri, Psdi, Partito Liberale), quanto nel fatto che per la prima volta la presidenza fu ceduta al
repubblicano Spadolini nell’81-82 e nell’83 a Craxi, che promosse un rafforzamento dell’esecutivo e mirò a rafforzare i
rapporti internazionali (’84 revisione del Concordato con la Santa Sede). I due maggiori partiti attraversarono un m
omento di crisi e ripensamento: persa la presidenza del Consiglio la Dc cercò di riacquistare credibilità dopo gli
scandali che la investirono affidandosi a Ciriaco De Mita, il Pci puntò sull’immagine di partito pulito e sul carisma di
Berlinguer. In occasione della sua morte nell’84 all’elezioni europee per la prima volta il Pci superò la Dc, mentre
l’estensione del pentapartito anche alle amministrative dell’anno successivo fece perdere molte città e regioni
conquistate nel ’75. Dopo la prima sconfitta nell’80 in occasione di una vertenza con la Fiat sulla razionalizzazione
della produzione, i sindacati vennero significativamente ridimensionati. Rimaneva comunque il problema del costo del
lavoro, in particolare del sistema di scala mobile messo in atto nel ’75 che non soddisfaceva gli imprenditori e il
governo, che in quel momento era impegnato nella lotta all’inflazione. Un decreto-legge dell’84, a seguito della
radicalizzazione del conflitto, portò alla revoca di alcuni punti di questo accordo e il referendum abrogativo promosso
dal Pci non riuscì vincere. Tuttavia parte di questo accordo venne reintegrata in seguito a una successiva trattativa tra le
parti senza tuttavia risolvere il problema. L’annosa questione della spesa pubblica e di un deficit spaventoso non era
altresì facilmente risolvibile e a poco valse il dibattito che muoveva dalla denuncia di un eccesso di assistenzialismo.
Una buona gestione industriale sia privata (automobilistica) che pubblica (siderurgica, meccanica e chimica) garantì una
certa ripresa a partire dall’84, anche se gravò sulla collettività in termini di disoccupazione e di cassa integrazione
guadagni. Nel decennio ’80-‘90 una vitalità notevole al sistema economico italiano fu portata dall’economia sommersa,
ovvero da tutte quelle piccole aziende caratterizzate da alta produttività, bassi costi e notevole flessibilità. Sintomo di
dinamismo fu anche l’espansione del terziario, sintomo di vitalità sociale che comporto ottimismo sulla crescita
economica e civile del Paese. Tuttavia si presentarono gravi fattori degenerativi: lo scandalo della corruzione assumeva
altre forme grazie alla Loggia P2, una branca della massoneria, che sebbene fosse stata sciolta da Spadolini nell’81 era
ancora un’immagine molto impressa negli occhi degli italiani, e il dilagare della malavita organizzata. La diffusione
delle mafie si accompagnò a episodi drammatici: nell’82 l’omicidio del generale Dalla Chiesa inviato a Palermo per
arginare il fenomeno mafioso, nell’84 l’attentato su un treno nella galleria “direttissima” tra Bologna e Firenze
provocando 15 morti. Area di interesse mafiosa è quella del narcotraffico in costante espansione. Se i risultati nella lotta
alla mafia non se ne videro, il terrorismo rosso fu arginato grazie al fatto che diversi militanti abiurarono la lotta armata
denunciarono i compagni in libertà. Forti sconti di pena garantirono un grande aumento dei “pentiti”.
28.8 LE DIFFICOLTA’ DEL SISTEMA POLITICO
Se l’affievolirsi delle ideologie e dei valori fondanti la partecipazione politica scongiurava ipotesi eversive, aumentò il
distacco tra classe politica e società civile rafforzando la diffidenza verso i partiti e polemizzando contro le disfunzioni
del sistema: la lentezza delle procedure parlamentari, l’instabilità di una maggioranza troppo composita e la mancanza
di alternative alla maggioranza di governo. L’elezione di comun accordo alla presidenza della Repubblica di Cossiga
non evitò il riproporsi di contrasti interni al pentapartito: politica internazionale, interna ed energetica. Vi era inoltre una
rivalità intestina tra i due partiti di maggioranza, Psi e Dc. Così nell’87 si ricorse alle elezioni anticipate e per la prima
volta si affacciarono sulla scena politica italiana nuovi soggetti come i Verdi e le Leghe regionali che facevano leva su
una propaganda di tipo anticentralista. Con molta difficoltà si riuscì a ricostituire il pentapartito, ma i governi Goria e
De Mita non conseguirono altri risultati se non la riforma dei regolamenti parlamentari nell’88. La conflittualità interna
alla Dc portò De Mita a lasciare la guida del governo nel maggio ’89 aprendo una crisi di governo che si risolse in
luglio sotto la guida di Andreotti. L’uscita del Pri dalla coalizione mostrò completamente inadeguata la coalizione di
governo.
Alla fine degli anni ’80 si può sensatamente parlare di crisi della prima repubblica dal momento che la domanda di
riforme era da troppo tempo disattesa e reiterati impegni si scontravano con gli interessi di un ceto politico
autoreferenziale poggiante su una rete fatta di corruzione. Inoltre le critiche si estero al meccanismo elettorale
marcatamente proporzionale, alla debolezza dell’esecutivo, all’impossibilità dell’alternanza dei governi. Tuttavia solo
elementi esterni al sistema riuscirono ad accelerare questo processo di crisi latente a cui i partiti non avevano posto
rimedio.
30
il mondo contemporaneo
30.1 NUOVI EQUILIBRI E NUOVI CONFLITTI
Il biennio 1989-1991 sconvolse gli equilibri politici e strategici dell’intero pianeta abituato ormai al bipolarismo.
Nessuna delle nuove potenze emergenti riuscì a prendere il posto dell’Unione Sovietica e la Russia rimasta sola non era
più in grado di contrastare gli USA. Il vuoto che lasciò la caduta dell’URSS e la fine della contrapposizione mondiale
tra comunismo e “mondo libero” fece emergere nuove contrapposizioni mondiali come quella del nord ricco e il sud
povero o un occidente riunificato nel segno della democrazia e del mercato libero e un mondo islamica animato da un
aggressivo spirito di rivalsa. Emersero inoltre tendenze politiche e religiose a lungo rimaste soffocate e vecchi e nuovi
nazionalismi. A farsi carico dell’ordine mondiale non potevano essere neanche gli USA ma una responsabilità sempre
maggiore avrebbe potuto avere l’Onu che però rimase bloccato dalle rivalità tra i suoi stati membri.
30.2 LA FINE DELL’UNIONE SOVIETICA
La crisi dell’Unione Sovietica si acutizzò tra il ’90 e il ’91 in concomitanza dell’aggravarsi della situazione economica.
Gorbaciov tentò di mediare tra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell’ala dura e repressiva del partito. Nell’agosto
del 1991 venne tentato un colpo di stato che però fallì di fronte a un’inattesa protesta popolare e il mancato sostegno
dell’esercito. Questo fallimento acutizzò la crisi dell’autorità centrale anche perché la riforma economica non partì e il
pluralismo politico non si tradusse in vera democratizzazione.
Dopo le varie dichiarazioni di indipendenza Gorbaciov tentò di proporre una nuova unione con più autonomia ma che
permettesse la sopravvivenza dell’URSS. La sua proposta fu scavalcata da un’altra che vedeva l’unione di stati sovrani.
Il 22 dicembre del 1991, ad Alma Ata, in Kazakistan. I rappresentanti di 11 repubbliche (su 15 che formavano l’URSS)
diedero vita alla nuova Comunità di Stati Indipendenti sancendo la fine dell’Unione Sovietica. Il 25 dicembre
Gorbaciov si dimette.
30.3 LA NUOVA RUSSIA
La Russi presieduta da Eltsin cercò di accreditarsi come l’erede dell’URSS e per questo fu appoggiata da USA . Ma la
sua posizione egemonica era contestata da ex repubbliche sovietiche come l’Ucraina che non voleva ridurre gli
armamenti. La Comunità degli Stati Indipendenti si rilevò abbastanza inutile anche ne contrastare le ricorrenti guerre fra
le varie repubbliche.
La Russia dovette affrontare una drammatica crisi economica, sociale e politica che la portò sull’orlo di una guerra
civile. Il processo di privatizzazione dell’industria non riusciva a decollare e l’inflazione era insostenibile. Ciò fece
emergere correnti di tendenza contrastanti al nuovo corso e nostalgiche del regime. Questo fu fondamentale negli
scontri tra presidente e parlamento ancora ignari delle loro competenze precise (occupazione del parlamento repressa
nel sangue nel 1993). Nel 1993 data una nuova costituzione che rafforzasse i poteri del presidente, ma le elezioni
politiche segnarono una crescita dei gruppi nazionalisti e ex comunisti. Nel 1994 frenare il troppo nazionalismo e
evitare uno sgretolamento della federazione russa ci fu un primo intervento in Cecenia che non fece altro che dimostrare
l?impreparazione e la crisi statale russa.
L’economia continuava a non decollare e il passaggio a privati di grossi gruppi industriali e finanziarie decretò la
nascita di un capitalismo speculativo che avantaggiava solo gruppi ristretti.
Nel 1999 riprese la guerra in Cecenia accusata di ospitare gruppi di integralisti islamici.
Nel 2000 venne eletto Putin e finalmente un minimo l’economia russa si riprese come anche la diplomazia.
30.4 L’EUROPA ORIENTALE E LA CRISI IUGOSLAVA
La crisi jugoslava fu dovuta soprattutto alle tendenze egemoniche di Milosevic e la voglia di indipendenza di Slovenia,
Croazia più sviluppate economicamente e più vicine al centro europa. Tra il 1990 e il1991 dichiararono l’indipendenza
la Slovenia, la Croazia e la Macedonia. Milosevic non accetto l’indipendenza della Croazia e ne seguì un conflitto che
nel 1992 si espanse alla Bosnia. Venne messo un embargo sulla Serbia ma né quello né gli interventi dell’ONU
riuscirono a risolvere la situazione fino al 1995 quando venne firmata la pace di Dayton.
Nel 1998 fu la volta del Kosovo attaccato dopo la nascita di un movimento di guerriglia indipendentista albanese.
Milosevic cadde nel 2000 e fu poi processato per crimini contro l’umanità. Frattanto s aprì un focolaio di tensione
etnica in Macedonia e infine la crisi Albanese, dovuta al fallimento di una serie di finanziarie che provocarono
sommosse popolari.
30.5 GUERRA E PACE IN MEDIO ORIENTE
Nell’agosto del 1990, il dittatore dell’Iraq Saddam Hussein invase i Kuwait, affacciato sul Golfo persico, uno dei
maggiori produttori di petrolio, e ne dichiarò l’annessione all’Iraq. Questa invasione mirava al controllo dell’intera
penisola arabica e fu condannata dalle nazioni unite che dichiararono l’embargo (sospensione rapporti commerciali). Gli
USA inviarono in Arabia Saudita un corpo di spedizione a cui non si oppose neanche la Russia occupata dalle sue crisi
interne. Saddam cercò di giustificarsi ponendosi come il difensore dei popoli arabi ricollegandosi alla questione
israeliano-palestinese e trovò grande eco nell’Olp. A novembre l’Onu diede l’ultimatum all’Iraq di lasciare i territori
occupati entro il 15 gennaio del 1991. La notte tra il 16 e il 17 gennaio venne scatenato un pesante attacco all’Iraq e al
Kuwait occupato. Saddam rispose sulle città dell’Arabia Saudita e su Israele. Solo a fine febbraio con attacchi via terra
furono sconfitti gli iracheni costretti a lasciare il Kuwait.
La sconfitta irachena fu utilizzata per un tentativo di pace nell’area mediorientale. Nel 1992 il primo ministro israeliano
è Rabin più propenso a negoziare una pace dei suoi predecessori. Nel ’93 è disposto a negoziare anche con l’Olp
approfittando della disponibilità di Arafat. Gli accordi prevedevano il riconoscimento dei 2 stati il progressivo
abbandono dei territori occupati da parte degli israeliani. I punti deboli della pace duratura sono:
_ il destino degli insediamenti ebraici nei territori occupati
_ la sorte di Gerusalemme capitale “eterna e indivisibile” di Israele
_ l’atteggiamento della Siria e di altri stati come la Libia e l’Iran
_ l’opposizione dell’ala intransigente dell’Olp e della destra nazionalista israeliana
_ la minaccia di movimenti integralisti come Hamas
Ed infatti l’attività terroristica dei gruppi integralisti si intensificò in una spirale di fanatismo che il 4 novembre 1995
portò all’assassinio di Rabin. Dopo Rabin il partito laburista non ha la forza di vincere le elezioni del 1996 e negli anni
a seguire la politica promossa dal Likud segna una battuta d’arresto nei trattati di pace. Solo l’elezione di Ehud Barak
nel maggio 1999 rivitalizza le trattative, in particolare nell’estate dell’anno successivo a Camp David sotto la
supervisione di Clinton. Dalla prospettiva di un accordo epocale si passò in un brevissimo periodo ad una sommossa
popolare in seguito alla visita di Sharon, leader della destra israeliana alle moschee di Gerusalemme, viene presa come
una provocazione scatenando la seconda intifada e il conflitto divenne cronico ovunque e non solo più a Gaza e in
Cisgiordania
31 La seconda repubblica italiana
31.1 LA CRISI DEL SISTEMA POLITICO
Pubblicistica e mass media chiamano comunemente il nuovo assetto venuto a delinearsi a partire dal ’92-94 seconda
repubblica a causa del crollo del sistema dei partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria, il rinnovamento della classe
politica e la nascita di un bipolarismo. Aperto dal grandi mutamenti sul piano internazionali, l’ultimo decennio del
secolo attraversava una fase di passaggio: la crescita produttiva si interrompeva a partire dal 1990 con i casi esemplari
della Fiat e dell’Olivetti che perdevano competitività in campo internazionale anche per l’onerosità delle inefficienze
della pubblica amministrazione (infrastrutture e oneri previdenziali), inflazione e debito pubblico in costante aumento
costringevano lo stato a emettere continuativamente titoli (Bot, Btp..) che attirano il risparmi a discapito degli
investimenti, consistente era l’offensiva della criminalità organizzata sostenuta da reti diffuse, nel ’91 Occhetto
traghetta il Pci al Pds (Partito democratico di sinistra) per riunire la sinistra italiana sotto lo stesso partito ma naviga a
vista tra la nascente Rifondazione Comunista (ala dell’ex Pci tradizionalista) e Psi, sull’opposto versante politico si
diffondono invece movimenti regionalisti, in particolare la Lega Lombarda e più in generale la proliferazione di nuovi
piccoli movimenti, la polemica sul sistema elettorale fu portata avanti nel giugno ’91 da Mario Segni, Dc, con un
referendum abrogativo, faceva invece sentire la sua voce il presidente della Repubblica Cossiga che dopo i primi 5 anni
di silenzio richiamava all’ordine tutte le forze politiche. Quest’ultimo nel febbraio 1992 scioglie le camere e le elezioni
dei successivi 5-6 aprile videro la sconfitta della Dc e Pds, in flessione anche Psi, veri vincitori sono i partiti
“antisistema”: la Lega Nord di Bossi è consacrata quarta potenza nazionale, Verdi e la Rete (formazione promossa
dall’ex sindaco di Palermo Orlando) han successi minori. Dimessosi due mesi prima della fine del mandato perché certo
che gli aspetti istituzionali della crisi politica avrebbe dovuto affrontarli un nuovo presidente, a Cossiga seguì Oscar
Luigi Scalfaro, figura dal rigore morale in contrapposizione all’immagine scaduta della politica italiana.
Da pochi mesi un’inchiesta avviata dalla magistratura milanese stava smascherando l’endemica diffusione di un sistema
di finanziamento illegale dei partiti e di autofinanziamento dei politici battezzato Tangentopoli.
In questo clima incandescente s’inseriva l’escandescenza dell’offensiva mafiosa: il 23 maggio un attentano dinamitardo
uccise il magistrato Giovanni Falcone direttore degli affari penali del ministero della Giustizia, candidato a dirigere la
superprocura antimafia, e meno di due mesi dopo Paolo Borsellino, candidato allo stesso posto dopo la morte del primo,
e cinque agenti della scorta furono uccisi da un’autobomba (19 luglio). La frustrazione di quelli impegnati e l’onda
emotiva spinsero ad approfondire le indagini tra mafia e politica. Da non dimenticare la concomitante crisi produttiva e
il debito dello Stato. Travolto dagli scandali, Craxi non fu scelto come presidente del Consiglio a beneficio di Giuliano
Amato. Il nuovo governo quadripartito affrontò da subito le questioni fiscali: tassazione dei beni mobiliari e
immobiliari, riduzione delle spese per la sanità, privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche (provvedimento
necessario dopo che la lira era stata svalutata di oltre il 20% ed era stata costretta ad uscire dal sistema monetario
europeo.
31.2 UNA DIFFICILE TRANSIZIONE
Nonostante fosse stata nominata un’apposita commissione bicamerale non si riusciva a risolvere il nodo delle riforme
istituzionali. La riforma elettorale, necessaria riformare e moralizzare la politica, era pensata in senso maggioritario
uninominale, ma rimanevano sostenitori del sistema proporzionali. Il disaccordo tra le forze politiche spianò la strada a
un referendum abrogativo (18 aprile ’93) che approvò non solo il sistema maggioritario per il Senato, ma abolì il
finanziamento dei partiti istituito nel ’74 e furono abolite le pene per i consumatori di droga previste da una legge del
’90. Avvisi di garanzia nel frattempo avevano raggiunto tutti i segretari di partito (Psi Craxi, Pri La Malfa, Pli Renato
Altissimo), anche l’ex segretario Dc Forlani, mentre Andreotti era accusato da pentiti di collusioni con la mafia (accuse
da cui si è scagionato nel 2004). Anche tre ministri del governo Amato rassegnarono le dimissioni per il medesimo
motivo. All’indomani del referendum, convinto della fine di un’epoca, Amato presentò le dimissioni in Parlamento. Il
presidente della Repubblica assegnò allora a Ciampi, governatore della Banca d’Italia, l’incarico di formare il nuovo
governo. Questi agì al di fuori delle logiche di partito richiamando ministri del precedente gabinetto, tecnici e membri
di altre aree politiche. In seguito alla mancata autorizzazione di procedere nei confronti di Craxi, il 29 aprile quattro
ministri (tre Pds e un verde) si dimisero per protesta contro la Camera. Nonostante queste prime difficoltà riuscì a
varare un governo con l’appoggio della vecchia maggioranza quadripartita (Dc-Psi-Psdi-Pli) e l’astensione di Pds, Lega,
Verdi e Pri. L’impegno era volto anzitutto a promulgare una nuova legge elettorale, continuare con le privatizzazioni,
ridurre la spesa pubblica e promuovere riforme fiscali e contenere la disoccupazione, per quanto possibile in recessione
economica. Le comunali di giugno consacrarono al Nord la Lega, decretarono il tracollo di Dc e Psi, al Centro-Sud
ritagliava i propri spazi il Pds. Ai primi di agosto venivano approvate le leggi elettorali dal sistema maggioritario
uninominale con un 25% assegnato secondo il sistema proporzionale. Trattandosi di un governo tecnico, Ciampi non
godeva di una solida base elettorale e i consensi nel Parlamento erano dovuti alla mancanza di alternative. Difficoltà
aggiuntiva era dovuta al ripresentarsi del terrorismo: in seguito ad importanti arresti, venivano fatte esplodere cinque
autobombe, due a maggio a Roma e Firenze, tre contemporaneamente a luglio, una a Milano e due a Roma. La
recessione economica diffusa in tutto l’occidente vanificava parte dei provvedimenti che avevano portato la
diminuzione del costo del denaro in quanto non venivano effettuati investimenti.
Anni
USA
RUSSIA
ITALIA
1945
Truman
Stalin
Parri (PA) De Gasperi (DC)
referendum; De Nicola Pres.
1946
1947
1948
1949
1950
1951
1952
1953
1954
De Gasperi + Einaudi Pres
Einsenhower
Collegio
DC modificata
CHIESA
Pio XII (Pacelli) dal
'36
1955
1956
1957
1958
1959
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Kruscev
Gronchi Pres.
Giovanni XIII
(Roncalli)
Kennedy
fine Tambroni, inizio Fanfani
Segni (DC);gov Moro;Saragat
Pres
Johnson
Paolo VI (Montini)
Breznev
Nixon
Leone Pres.
Andreotti
Ford
Carter
Pertini Pres.
Giov. Paolo I (Luciani)
Giov. Paolo II
(Woytila)
Regan
Spadolini (Pri)
Andropov
Cernenko
Craxi
Gorbacev
Cossiga Pres.
Goria
De Mita
Andreotti
Bush
Eltsin
Clinton
Scalfaro Pres.; Amato (PSI)
Ciampi
Berlusconi e 7 mesi dopo Dini
Prodi
Bush Jr.
Putin
D'Alema; Ciampi Pres.
Amato
Berlusconi
Benedetto XVI (Ratz.)
Prodi; Napolitano Pres.
EVENTI
1846
1847
1848
1849
1850
1851
1852
1853
1854
1855
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1857
1858
1859
1860
1861
1862
1863
1864
1865
1866
1867
1868
1869
1870
1871
1872
1873
1874
1875
1876
1877
1878
1879
1880
1881
1882
1883
1884
1885
1886
1887
1888
1889
1890
1891
1892
1893
1894
1895
1896
1897
1898
1899
1900
1901
1902
1903
crisi economica anche poi nel '47
moti in Fr, Ita, Impero Asburg, Germ; 03 Piemonte Vs Austria (Custoza) (Novara '49) e V.Em II
Fr evoluzione in senso conservatore
Cavour; Connubio Rattazzi (spostamento a sx); linea liberoscambista
Bonaparte colpo Stato e imperatore
Guerra in Crimea: Fr, Engl e Ita contro Russia che voleva impero Ottomano
Successo x guerra in Crimea e conf. Parigi allora guerra a Austria con aiuto Napo ma Villafra
e ottenimento Lombard, Emilia, Romagna, Toscana
Sapri fallisce
Dal '56 a '60 (e prima '39-'42) guerre dell'oppio in Cina (Engl impone apertura commercio)
Penetrazione di occidentali in Jap
Garibaldi in Sicilia e verso Napoli, mentre esercito verso sud
17/03 Vitt. Ema II re d'Italia; morte Cavour; abolizione servitù gleba da Ale II
Garibaldi contro esercito su Aspro; Da '61 a '65 guerra di secessione stati del Sud e Lincoln
I Internazionale; Sillabo di Chiesa contr borghes e atten a lavor e ass. catt; Firenze capitale
Guerra Aut-Prus vinta da Prus e dualismo Aut-Unghe; Veneto nonostante Custoza e Lissa
Restaurazione Meiji di modernizzazione Jap
Apertura Canale Suez e penetrazione EU in Asia
Guerra Fr-Prus:Fr perde a Sedan e perde Alsazia e Lorena;Presa di Roma da Garib (PortPia)
Comune di Parigi
Crisi di sovrapproduzione
Non Expedit di Pio IX
Costituzione repubblicana francese
Gov battuto su statizzazione ferrovia allora gov Depretis (stop dx al potere)
Guerra Rus-turca
Protezionismo italiano x industrializzazione; Leone XII aperto a problemi e impegno soc catt
Fr: Indocina e Tunisia; Russ: Siberia; Jap: terr. Cina
Triplice Alleanza;Engl: Egitto
Belgio: Congo
Eccidio di Dogali (Etiopia); muore Depretis allora Crispi (repressivo) e guerra doganale
II Internazionale
Allontanamento Bismarck e nuovo corso Guglielmo II
Rerum Novarum (condizione operaia e condanna socialismo)
Partito dei Lavoratori italiani (poi PSI) di Turati; gov Giolitti (equo fiscalismo)
Fine gov Giolitti xke scandal Banca Romana e no misure ecc Vs Fasci sicil (allora Crispi)
Alleanza Fr-Rus; caso Dreyfus
Sconfitta Adua e allora fine Crispi
Spain Vs USA x indipend Cuba; tension Sudan tra Fr e GB; Ita moti x pane repres da Pelloux
Ucciso Umberto I e allora Vitt. Emanuele III; Questi anni guerra anglo-boera vinta da GB
Fino al 1903 governo Zanardelli-Giolitti con riforme
1904
1905
1906
1907
1908
1909
1910
1911
1912
1913
1914
1915
1916
1917
1918
1919
1920
1921
1922
1923
1924
1925
1926
1927
1928
1929
1930
1931
1932
1933
1934
1935
1936
1937
1938
1939
1940
1941
1942
1943
1944
1945
1946
1947
1948
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Intesa Cordiale Fr-Engl; Guerra rus-Jap per Manciuria (e vinse Jap)
I rivoluzione russa di gennaio; crisi marocchina e anche nell'11
Engl successo liberal e riduzione potere a camera dei Lords; fondata CGL
Scomuinica Pio X del modernismo; accordo anglo-russo su questioni asiatiche; crisi ec ita
Triplice Intesa da 3 intese precedenti; Annessione Bosnia da Aut; Giovani Turchi
Riv Messicana che finisce nel '21 con vittoria democratici
Guerra Italo-Turca (Libia) e pol est verso Fr; Cina Sun Yat-Sen e mov nazion rovescia Manciù
I Guerra balcanica; Wilson succede a Roosvelt; Ita, suffr uni maschile
II Guerra Balcanica; Patto Gentiloni
26/06 assassinio a Sarajevo Fr. Ferd
05 Ita entra
Battaglia Jutland
10 Caporetto; 3 rivolta Pietrogrado= caduta zar (febbraio); 7/11 colpo bolscevico (ottobre)
11 Vittoria intesa con dissoluzione aut-ungheria; 3 Brest-Litovsk; biennio rosso inizia
1 Versaille;Comintern;Weimar;Horthy autorit in Unghe;P.Pop (Sturzo);D'annunzio a Fiume
crisi x espans ec artific; moti (già '19) contro caro-viveri e fabbr; Giol al gov; Trattato Rapallo
Stato liber d'Ireland; varat Nep dopo com di guerra; Sciss Livorno; 5 fascis in blocks nazionali
Nasce URSS; 4 ascesa Stalin; marcia su Roma; scioperi soc x arginare fasc; Rep Ataturk
Occupazione Ruhr da Fr e Belg: inflazione; putsch di Monaco fallito da Hitler
Muore Lenin; piano Dawes; Matteotti; dal '20 mov Gandhi; '26 Commonwealth
Accordi di Locarno tra Fr-Germ; discorso Muss a Camera; Muss da liberista a protezionista
Fine Stato liberale: fascistizzazione e monopartitismo; quota 90 e da '25 battaglia del grano
Fine Nep e industrializzazione
I Piano Quinquennale
Crisi borsa NY; Patti Lateranensi
Per 2 anni primi successsi elettorali Hitler
anni '30 contagio autoritario (Ungh, Port, Spain, Polon, Bulg, Jug, Grec, Roman); IMI
Roosvelt Pres (New Deal: intervento statale, Keynes)
Hindenburg chiama Hitler a guidare gov; ritiro Germ da Società Nazioni; IRI
eliminazione SA; Hindenburg muore: Hitler Capo Stato; Grandi Purghe
Leggi Norimberga (ebrei); aggressione Etiopia; '36 indipendenza Egitto
Fronti Pop Sp (guerra Civile ke finisce nel '39 con vittoria Franco) e Fr; Asse Roma-Berlino
Accordo com di Mao e nazion del Kuomintang (Chang Kai Schek); Jap prende parte Cina
Hitler annette Austria (Anschluss); Conf Monaco Hitler annette Sudeti
Patto Acciaio; 3 distr Cec; 5 Fr-GB-Pol; 8 Ribben-Molotov; 9 attac Pol: guer GB e Fr, Ita no
6 Parigi tedesca; paesi nordici; 7 Leone marino fallisce; Patto Tripartito IT-JAP-GER; 10 Muss
6 Germania attacca Russia ma bloccata; 7/12 Pearl Harbor;
Sconfitte Jap nel Pacifico
Stalingrado; El Alamein; 7 Usa in sicily; 7 cade Muss; 9 armistizio; nasce CLN contrapp a Bad
Svolta Salerno (Togli); sbarco Normandia; Confer Mosca; Gov unità naz Bonomi e V.E.III
Yalta; capitol tedesca; 30/4 muore Hitler; Russi a Berlino; 8 Hiros e Naga; 9 armistizio Hiroito
regime Péron
Palazzo Barberini: a)saragat (PSDI) b)Nenni (PSI; esclusione sx da Governo dopo Salerno
Rep. Federale[ingl, Franc, americ.] VS Rep. Democratica + Patto Atlantico+ Rep.Pop.Mao
Corea Del Nord (com aiutati da Cina) Vs Sud (aiutat da americani)
Fin qui circa laburisti in Engl e De Gaulle in FR
Stop Truman (Einsenhower: sfida URSS); muore Stalin
Ho Chi Min sconfigge FR a Dien Bien Phu (vietnam)
Patto Varsavia; Kruscev (distensione denunciando Stalin)
Crisi Suez; Polonia e Ungheria (repres da Armata Rossa)
Crisi Algeria; Cina <<Grande balzo in avanti>> e allontanamento da URSS; 5 anni boom Ita
Riv. Cubana (Castro VS Batista) e rottura con USA + Che Guevara
Crisi Tambroni e allora Fanfani (DC) con astensione socialisti
Indipendenza Algeria; Crisi Cuba
Trattato su esper. Nucleari USA-URSS; gov Moro centro-sx (infatti nazionalizzazione
elettricità)
1964
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2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
Riv.Culturale Cinese
Guerra dei 6 gg (Arafat, Al Fatah)
Primavera di Praga (Dubcek arrestato xke troppo riformista benchè com); contestatio studenti
<<Autunno caldo>> in Ita con agitazioni operaie
Muoiono Franco e Salazar
Avvicinamento Cina a USA
(Nixon)
Ritiro da Vietnam; Guerra Kippur (Nasser); blocco petrol e Suez; compromesso storico(Berl)
Referendum sul divorzio; Craxi (segr PSI)
Sconfitto Vietnam del sud
Deng Xiaping liberalizzazioni in Cina
Polo Pot in Cambogia (Khmer Rossi riforme violente)
Accordo Begin-Sadat (Camp David con Carter); rapito Moro e gov. Solidarietà nazionale
Thatcher conservatrice (privatizzazioni); URSS in Afghanistan; regime teocratico Khomeini
Socialista Mitterand; governi non DC Spadolini (Pri), poi Craxi
Fine gov socialdem di Brandt e Schimdt e crist-dem Kohl
Gorbacev: perestrojka (liberalizzazioni e elem. Economia di mercato) + glasnost
Crisi gov. Craxi e 3 gov DC (Goria, De Mita, Andreotti)
Comunisti travolti in Polonia (Solidarnosc), Cecos, Unghe, Germ est, Bulg, Rom
Caduta muro Berlino
Riun.Germanie; elezioni libere Jug (Milosevic serbo; Slo e Cro cercano auton); Golfo
Colpo di Stato in URSS con dimissioni Gorbacev; questione cecena; CSI; guerra Bosnia
Clinton democratico; 2a repubblica
Passaggio a sistema maggioritario uninominale
Berlusconi premier; 7 mesi dopo Dini Premier
Fine guerra Bosnia
Prodi Premier
Albania crisi interna; risanamento bilancio italiano x Maastricht
Crisi Kosovo; D'Alema premier
Putin; Bush; Amato Premier
Crisi argentina; Twin Towers, Afghanistan (ora Karzai); Berlusconi premier
Iraq (ora Al Jaffari e Talabani)
Cambio da maggioritario a proporzionale con premio (non funge al senato); Prodi Premier