Schopenhauer, Stirner, Nietzsche: tre risposte radicali alla domanda

Schopenhauer, Stirner, Nietzsche: tre risposte radicali alla domanda “Chi è davvero l’uomo?”
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Schopenhauer, Stirner, Nietzsche: tre risposte radicali
alla domanda “Chi è davvero l’uomo?”
Un tema antico
Non c’è tema dell’antropologia filosofica che sia tanto centrale quanto la domanda “chi
è davvero l’uomo?”. Tale domanda sottende la coscienza che forse non conosciamo la
risposta, o che le risposte tradizionali sono deboli, nel senso che attingono a uno strato
dell’essere non abbastanza profondo come si vorrebbe.
L’incertezza riguarda naturalmente per prima cosa la natura dell’io, perché tutti i
problemi che è possibile porre riguardo all’identità del corpo non sono specifici
dell’uomo, ma riguardano i temi generali dell’identità della natura e dell’universo fisico
di cui il corpo è parte e di cui segue le leggi. La specifica domanda sull’uomo riguarda
piuttosto ciò che è proprio dell’uomo, le radici della sua condizione esistenziale sul
fondamento della sua identità. Se l’uomo ha un corpo sottoposto alle stesse leggi della
natura universale e composto dalla stessa materia e dalla stessa energia, la domanda
specificamente antropologica è: Qual è la natura dell’io nell’ordine della natura universale?
Questo tema percorre la storia della filosofia e anzi la precede, essendo ereditato dal
mondo del mito. Antiche dottrine che per noi si esprimono storicamente nell’orfismo,
nel pitagorismo, in filosofie naturalistiche come quella di Empedocle, ma che probabilmente risalgono a strati culturali antichissimi della cultura orale, parlano dell’io come di
un demone di origine divina sottoposto al ciclo delle rinascite. A fronte di queste dottrine, altri filosofi naturalisti, come Eraclito, sottolineano l’identità tra la natura dell’io e il
Lógos che governa ogni cosa. Dopo queste prime dottrine non c’è posizione filosofica
che non abbia tentato una via per definire l’identità dell’io.
Quello che sorprende è l’estrema diversità delle risposte fornite nei secoli alla stessa
domanda e sintetizzabili così:
l’io come pura razionalità radicalmente individuale, elemento di un tutto che la tradizione greca platonica chiama psyché, anima, sottoposta alla forza di altri elementi,
come le passioni;
l’io come pura razionalità la cui individualità è solo la specificazione della ragione
universale, per esempio il Lógos stoico;
l’io come casuale aggregato di materia, la cui individualità è frutto del momentaneo
e non prevedibile unirsi di forze naturali, come nell’epicureismo;
l’io come fascio di percezioni, punto d’incrocio di una sfera della vita della quale
sappiamo pochissimo – fatto che porta a uno scetticismo profondo –, nella quale ciò
che conta è il momentaneo aggregarsi di esperienze intrise di emotività (così in Hume);
l’io come realtà di cui nulla sappiamo, se non che pensa (così in Kant).
La posizione di Kant, che riconosce un limite radicale alla conoscenza umana, unita alla
definizione di metodi filosofici nuovi, ha aperto la strada nel XIX secolo a nuove proposte di soluzione al problema. In questo percorso ne studieremo tre, a loro volta molto
radicali, anzi estreme: quelle di Schopenhauer, Stirner e Nietzsche.
Schopenhauer: l’uomo è una vana illusione
Se si vuole comprendere a fondo il significato del termine “illusione” che Schopenhauer utilizza per indicare quella che l’esperienza ci dice invece essere la realtà del
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mondo e dell’io (l’impersonale volontà), va ricordato che l’illusione non è un puro nulla, non è frutto di casualità né è senza leggi. Al contrario, ha un preciso statuto epistemologico, è il frutto di dinamiche che la filosofia può studiare nel dettaglio e segue leggi costanti e rigorose.
Lo scenario del mondo illusorio è, infatti, compiutamente descritto dalla Critica della
ragion pura di Kant: rispetto a essa Schopenhauer ha proposto alcune marginali correzioni, ma lo schema di fondo resta quello kantiano. È un mondo dominato da regole apriori che garantiscono regolarità ai fenomeni della natura e consentono la costruzione
di una scienza. Tale scienza ha sì per oggetto un’illusione, ma la descrive secondo dinamiche che le sono proprie (così come Platone aveva ricordato che gli schiavi incatenati possiedono una conoscenza anche molto approfondita e “corretta” delle ombre).
L’illusione consiste nel fatto che la vera realtà è totalmente diversa. Non c’è neppure
un elemento del mondo schopenhaueriano della rappresentazione che corrisponda al
“vero” mondo della volontà; il mondo non è affatto come appare ai nostri occhi e alla
nostra esperienza.
Questo ragionamento vale anche per l’io. Kant stesso ha sottolineato che non sappiamo che cos’è e che ne conosciamo solo la funzione: non a caso il termine tecnico che
utilizza per indicarlo è “Io penso”. Schopenhauer non ne trova traccia nella “vera” realtà
della volontà, che non possiede alcuna soggettività, neppure nei termini in cui
l’idealismo trascendentale negli stessi anni parlava dell’Io come principio assoluto (Fichte) o dello Spirito non come sostanza ma come soggetto (Hegel). Semplicemente, l’io
è il contraltare del fenomeno: entrambi sono il prodotto illusorio dello stesso meccanismo che consente la nascita della sfera della rappresentazione attraverso la distinzione
tra soggetto e oggetto, un meccanismo chiarito in sede teoretica da Kant e completato
con la teoria di Schopenhauer del principium individuationis.
La conclusione è che nulla che riguardi l’io ha consistenza reale, neppure ciò che più
lo tocca da vicino, come il piacere e il dolore, per la semplice e ben comprensibile ragione che non c’è alcun io. Bisogna rendersene conto, altrimenti si soffre, letteralmente
“per nulla”: l’io si deve rendere conto che quel che percepisce come sé è in realtà qualcosa di totalmente diverso e non ha carattere soggettivo. Ovviamente non è possibile
porre l’accento sull’io per acquisire una simile coscienza, perché più l’io acquisisce coscienza di sé, più cade nell’illusione, essendo proprio l’io uno degli elementi (nella relazione soggetto-oggetto) che determinano l’illusione.
Per non cadere nella trappola dell’illusione, Schopenhauer suggerisce la via
dell’ascetismo, un percorso di ascesi laico (anche se non disdegna le pratiche ascetiche
religiose): castità, povertà, abnegazione ecc. Tali pratiche si fondano su una morale della compassione, nel significato etimologico del termine cum-patio, patire con l’altro.
Attraverso l’annullamento degli impulsi egoistici di cui si serve la volontà di vivere per
ottenere i suoi scopi, si giungerà all’abolizione della distinzione tra l’io e l’altro da sé e
alla noluntas, la volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua catarsi, nonvolontà.
Stirner: l’uomo è un unico
La soluzione che Max Stirner propone per la domanda “chi è davvero l’uomo?” è altrettanto radicale ma opposta a quella di Schopenhauer: non esiste alcun uomo in generale
che possa essere definito mediante un’essenza comune a tutti. Esiste solo ciascun uomo,
tanto che il suo celebre saggio su L’unico e le sue proprietà è interamente scritto in
prima persona, perché Stirner ritiene di poter parlare solo del proprio io. Questo io è un
tutto, perché nulla di ciò che esiste all’esterno è per l’io qualcosa, se non si riflette in
lui. Cade quindi ogni distinzione di valore, perché non può esistere nessun bene e nes-
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sun male che abbia un significato oggettivo, perché nulla ha un significato se non in
rapporto all’io.
La radicalità e anche la coerenza di questa posizione è estrema:
«Dio e l’umanità non hanno riposto la loro causa che in se stessi. Perciò pongo
anch’io la mia causa in me, io che, al pari di Dio, sono nulla per ogni altra cosa, e per
me sono il mio tutto, sono l’unico.»
Che cosa significa che Dio è nulla per ogni altra cosa? Semplicemente che, qualunque Dio esista e qualunque siano i suoi caratteri, esso è un ente diverso da ciascun altro
io e per l’io ciò-che-è è tale solo per sé.
«Se Dio e l’umanità [che per Stirner è una pura astrazione], come assicurate, hanno
in sé contenuto sufficiente per rappresentare per se stessi il tutto nel tutto, io sento che
a me manca molto meno ancora, e che non dovrò lamentarmi della mia “vacuità”. Io
non sono il nulla nel senso della vacuità, ma sono il nulla creatore, il nulla da cui io
stesso, quale artefice, plasmo ogni cosa.»
Un nulla creatore che non crea le cose, naturalmente, ma il senso che esse hanno per
l’io. Torna nelle parole di Stirner l’antica dottrina protagorea, ma in quest’uomo della
sinistra hegeliana tornano anche i temi romantici tipicamente fichtiani della libertà
dell’io come posizione di sé sul non-io. Lo scenario però è molto diverso, per l’assoluta
individualità dell’io di cui si fa oggetto di discorso.
«Lungi da me quindi ogni causa che non sia interamente e assolutamente mia! Voi
pensate che la mia debba almeno esser la “buona causa”? Macché buono, macché cattivo! Io stesso sono la mia causa, e non sono né buono né cattivo. Sia l’una che l’altra
cosa non hanno senso per me. Il divino è cosa di Dio, l’umano è cosa dell’uomo. La
causa mia non è né il divino né l’umano, non è il vero, il buono, il giusto, la libertà, e
così via, ma soltanto ciò che è mio, e non è una causa universale, bensì unica, come unico sono io.»
Nietzsche: un ponte tra la scimmia e il superuomo
Nietzsche non ha nutrito un’alta opinione dei suoi simili, ha considerato l’umanità per
lo più come un gregge di deboli, dominato dal risentimento verso i forti.
Queste valutazioni non assumono però un significato decisivo di fronte alla domanda
su chi sia davvero l’uomo. D’altro canto, una dottrina sull’uomo compare in Nietzsche
soltanto nella fase più matura del suo pensiero, in relazione alla nozione di superuomo.
È in quel contesto che Nietzsche si convince che l’uomo in quanto tale è una sorta di
specie di passaggio: un ponte tra la scimmia e il superuomo, scrive nel Così parlò Zarathustra. La scimmia, certo, è animale simbolico e la natura del superuomo è stata oggetto di molte interpretazioni; va sottolineato che, negli anni in cui Nietzsche parla della
scimmia in riferimento all’uomo, era vivo il dibattito sulle teorie di Darwin.
Nietzsche, ovviamente, non è un darwiniano, ma considera l’uomo qualcosa di “sbagliato”. Legato a Schopenhauer sotto molti aspetti, non condivide però la sua convinzione metafisica che vi siano due livelli di realtà, uno illusorio, l’altro reale; condivide,
tuttavia, il sostanziale disprezzo per l’umanità. L’uomo non riesce a essere se stesso, ad
accogliere la vita nella sua pienezza, a desiderare l’eterno ritorno, ad accettare che la realtà sia come è. Per questo l’uomo va superato e, coerentemente con la sua visione di
una filosofia per il domani, Nietzsche preannuncia il superuomo, al punto che il Così
parlò Zarathustra si apparenta ai libri di profezia.