LA STRUTTURA DELL’ATOMO – PARTE I La struttura della materia è oggetto d'analisi e di riflessione da oltre duemilacinquecento anni, ma l’esistenza degli atomi è entrata a far parte integrante delle teorie scientifiche solo nel XIX secolo. La scoperta delle particelle che costituiscono l’atomo e gli sforzi per chiarirne la natura ha permesso di comprendere il comportamento delle sostanze chimiche e di descriverne le proprietà “Per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo, per convenzione il colore, secondo verità gli atomi e il vuoto” – Democrito 460-371 a.C. I ragionamenti sulla composizione e struttura della materia e il concetto di atomo risalgono essenzialmente allo sviluppo del pensiero greco nel V secolo a.C., in particolare a Leucippo di Mileto, maestro di Democrito, quest’ultimo universalmente considerato il padre dell’atomismo, anche se molte delle idee sviluppate dai filosofi ellenici sulla materia avevano radici nelle civiltà più antiche sumera ed egiziana, ed erano state influenzate dalle culture sviluppatesi nell’estremo oriente. La concezione filosofica di Leucippo e di Democrito si basava su due argomenti fondamentali: primo, l’accettazione dell’esistenza dello spazio, che contiene in sé sia gli oggetti immobili che quelli in movimento, e perciò può essere sia pieno che completamente vuoto; il secondo che la divisione degli oggetti macroscopici deve avere un limite che si raggiunge quando si separano i componenti ultimi della materia, particelle estremamente piccole, solide, compatte, non ulteriormente divisibili, e perciò chiamate atomi (dal greco ἄτομος àtomos, indivisibile). Le sostanze differiscono fra loro proprio per la diversità degli atomi di cui sono composte, diversità dovute alla grandezza, alla forma e alla posizione. Gli atomi si muovono incessantemente, si urtano, si allontanano in uno spazio vuoto separandosi inalterati, ma, se forma, dimensione, direzione e contatto risultano appropriati, possono rimanere legati, dando luogo ad aggregati sempre più grandi, fino a costituire i diversi corpi macroscopici percepibili dai nostri sensi. Alla concezione atomistica si contrappose quella di Aristotele, per il quale lo spazio doveva essere pieno di materia per poter trasmettere gli effetti meccanici di movimento da un corpo all’altro. La natura - egli diceva - aborre il vuoto, perciò la materia deve avere una struttura continua, cioè può essere suddivisa all’infinito senza perdere le sue caratteristiche. La teoria della materia secondo Aristotele prevedeva l’esistenza di quattro elementi fondamentali e di quattro qualità. Ciascun elemento era caratterizzato da due qualità, così la terra è secca e fredda, l’acqua è fredda e umida, l’aria è umida e calda ed il fuoco è caldo e secco. Un elemento può cambiare se cambiano le sue qualità. Contrariamente agli atomi, che sono immutabili, gli elementi aristotelici non sono considerati immutabili, ma ciascuno può essere trasformato in qualsiasi altro attraverso il mutamento di una o di tutte e due le qualità. La trasformazione è più facile tra elementi con qualità in comune: la terra, fredda e secca, si trasforma in acqua quando il secco si trasforma in umido. Il pensiero di Democrito ebbe anche numerosi seguaci, fra i quali Epicuro, che introdusse nella concezione atomistica alcune novità, come ad esempio il peso degli atomi che li porta a cadere verso il basso. 1 Nel Medioevo, delle due ipotesi, quella aristotelica fu quella accettata dai chimici, e ciò accadde soprattutto perché questa si imponeva per la sua semplicità e completezza. L’esperienza mostrava che nelle operazioni chimiche una sostanza caratterizzata da una determinata composizione e proprietà si trasformava in un’altra di composizione e proprietà diverse da quella di prima, e questo era difficile da giustificare con l'esistenza di particelle che mantenevano immutate le proprie caratteristiche. Al principio del XVII secolo le tesi atomistiche acquistarono grande diffusione grazie all’attività del filosofo P. Gassendi il quale, rifacendosi a Epicuro, sosteneva che la materia è discontinua e quindi costituita da atomi che possiedono tre proprietà caratteristiche: la forma, il peso, la dimensione, proprietà che variano da atomo ad atomo. Per giustificare la concezione atomistica Gassendi utilizza la difficoltà di spiegare, ad esempio, i passaggi di stato se non si postula l’esistenza di qualcosa che permane, appunto gli atomi, che nessuna forza è in grado di dividere o alterare. Inoltre, sostiene che le proprietà dei corpi sono in rapporto con le forme degli atomi che li costituiscono: ad esempio, corpi dal gusto piccante o amaro sono costituiti da atomi appuntiti, corpi fluidi e dolci da atomi arrotondati e che la formazione dei corpi sia prima preceduta dall’associazione di atomi che indica con il nome di molecola. L’opera di Gassendi divenne patrimonio della fisica e della chimica nei lavori di R. Boyle e di I. Newton. Boyle, ad esempio, nel suo famoso libro The Sceptical Chymist, espresse l’idea che l’interazione chimica si realizzasse tra le particelle di ogni elemento, chiamati da lui “corpuscoli”, e che tutti gli elementi fossero formati da tali particelle. Per Boyle le reazioni chimiche potevano essere spiegate ammettendo che la materia fosse formata da atomi e aggregati di atomi in continuo movimento. Durante le reazioni si formano nuovi composti quando gli atomi con minore affinità vengono sostituiti da atomi di affinità maggiore. Newton ipotizzò che tutti i corpi macroscopici fossero formati da particelle primordiali tra i quali esistevano pori assolutamente vuoti e che questi atomi fossero minuscole sfere dominate da forze attrattive e repulsive. Unendosi tra loro queste particelle formano insiemi di diversa complessità che Newton chiama di primo, secondo .. ultimo ordine le quali alla fine danno forma alle sostanze comuni. Il passaggio dall’ipotesi filosofica sulla costituzione della materia ad una formulazione di una teoria scientifica si realizzò alla fine del XVIII secolo, grazie all’integrazione delle osservazioni qualitative dei fenomeni chimici con più accurate misure quantitative delle masse e dei volumi. Queste permisero di osservare le regolarità numeriche nella composizione delle sostanze e nei loro rapporti di reazione. J. Dalton effettuò numerosi studi sulle miscele gassose e sulla solubilità dei gas; per spiegare i risultati ottenuti egli riprese il modello particellare, secondo il quale ciascun corpo semplice era costituito da particelle microscopiche differenti. Gli studi sulla solubilità dei gas in acqua portarono lo scienziato alla conclusione che le differenti solubilità dei gas non potessero essere spiegate da un modello meccanicistico che ipotizzava un loro comportamento uniforme, ma che le proprietà macroscopiche di un gas fossero dovute alla forma e, soprattutto, al peso delle particelle di cui esso era costituito. Dalton utilizzò il termine atomo di Democrito per indicare le particelle costituenti la materia, ma a differenza di questi, egli aggiunse anche la caratteristica del peso, ritenuta invece poco importante dai filosofi greci. Quindi attribuì lo stesso peso alle particelle dello stesso elemento e pesi diversi a quello di elementi diversi, e 2 pertanto era il peso delle sue particelle ultime il fattore che differenziava un elemento dall’altro. Il lavoro di Dalton lo portò, nel 1808, alla formulazione di una teoria atomica basata su quattro postulati: 1. ogni elemento è composto da particelle estremamente piccole chiamate atomi; 2. tutti gli atomi di un elemento sono identici ma atomi di elementi diversi non possono trasformarsi in atomi di un altro elemento durante una reazione chimica; 3. gli atomi non sono né creati né distrutti e si trasferiscono interi formando nuovi composti; 4. atomi di elementi differenti si possono legare tra di loro secondo rapporti diversi ma sempre mediante numeri semplici e interi. La teoria di Dalton era quindi in grado di spiegare le diverse leggi delle combinazioni chimiche conosciute, compresa la legge di conservazione della massa di Lavoisier (postulato 3), cioè che la massa totale delle sostanze iniziali rimane costante dopo una reazione chimica e quella delle proporzioni definite di Proust (postulato 4), per la quale in un dato composto il rapporto di combinazione degli atomi che lo costituiscono è sempre costante. Inoltre, Dalton utilizzò questa teoria per dedurre la legge delle proporzioni multiple, la quale afferma che se due elementi A e B si combinano per formare più di un composto, le masse di B che si combinano con una data massa di A sono in rapporto di numeri piccoli ed interi. Le conclusioni di Dalton erano basate su osservazioni chimiche, ma per cento anni dalla pubblicazione dei suoi lavori non fu possibile avere evidenze dirette sulla reale esistenza degli atomi. Alla fine dell’ottocento i dati sperimentali che si andavano accumulando suggerivano l’idea che l’atomo non fosse il costituente ultimo della materia, ma che possedesse una struttura più complessa formata da particelle subatomiche. La scoperta delle particelle che costituiscono l’atomo e i Figura 1 - Schema del tubo di Crookes. Esso è formato da un tubo di vetro contenente un gas tentativi di chiarirne la natura ha rarefatto (pressione 10-5 atm). Alle sue pareti interne sono saldati due elettrodi metallici collegati permesso di comprendere il ad un generatore di tensione (15000 V). I raggi che partono dal catodo ( polo negativo ) vanno verso comportamento delle sostanze chimiche e l'anodo (polo positivo) e urtando la parete la di descriverne le proprietà. rendono fluorescente Gli studi riguardanti le proprietà elettriche delle soluzioni di S.A. Arrhenius e le leggi dell’elettrolisi di M. Faraday portarono alla conclusione dell’esistenza di unità discrete di elettricità, prima ancora che queste potessero essere effettivamente isolate. Nel 1891, G.J. Stoney propose di chiamare queste particelle portatrici di carica elettrica elettroni, dalla parola greca ήλεκτρον (electron) ambra, dal cui sfregamento erano nate le prime osservazioni dei fenomeni elettrici. La scoperta dell’elettrone avvenne grazie ad esperimenti condotti sulla conduzione elettrica attraverso i gas rarefatti. Utilizzando un dispositivo ideato da W. Crookes, 3 costituito da un tubo di vetro, al cui interno è presente un gas e alla ci estremità sono saldati due elettrodi metallici collegati ad un generatore di corrente continua con una d.d.p. intorno a 10000 V, si osserva che finché la pressione interna è superiore a 0,4 atm si generano tra due elettrodi delle scariche elettriche simili a piccoli fulmini. Quando la pressione interna è diminuita al di sotto di questo valore le scintille scompaiono e appare una luminosità diffusa che a pressioni di circa 10-6 atm interessa via via tutto il gas, mostrando una fluorescenza del vetro posto di fronte al catodo. Questo fenomeno fu messo in relazione alla possibilità che fossero emesse delle radiazioni dal catodo e che furono chiamati da E. Goldstein raggi catodici. La natura dei raggi catodici era incerta, in quanto alcuni scienziati ritenevano che essa fosse di tipo ondulatorio, mentre altri Figura 2 – Esperimenti con i raggi catodici. A) Un sostenevano che la radiazione prodotta oggetto posto nella traiettoria dei raggi catodici dalla scarica elettrica nella materia si trova proiettato sul vetro del tubo come rarefatta avesse natura corpuscolare. un'ombra. B) i raggi catodici fanno ruotare un mulinello a palette posto lungo il loro cammino. Diversi esperimenti mostravano che questi C) I raggi catodici vengono deflessi dalla raggi si trasmettevano in linea retta e che presenza di un campo elettrico erano dotati di carica elettrica negativa e che essi presentavano una natura corpuscolare in quanto erano in grado di mettere in movimento una minuscola ruota a pale posta sul loro cammino (fig. 2). Nel 1987, J.J. Thomson eseguì un esperimento in cui fu in grado, utilizzando un tubo di Crookes e applicando ai raggi catodici contemporaneamente un campo elettrico e magnetico, di determinare il rapporto tra carica/massa (q/m) delle particelle costituenti i raggi catodici, il quale non cambia sia variando il materiale che costituisce il catodo che il gas presente nel tubo. Per tale particella fu utilizzato il nome di “elettrone” che Stoney aveva coniato in precedenza. Il valore sperimentale del Figura 3 – Tra le due piastre metalliche vengono fatte cadere delle goccioline di rapporto carica /massa trovato da Thomson fu di olio ionizzate attraverso un piccolo foro 8 nella piastra superiore. Applicando un 1,7 10 C/g e tale valore risultò essere costante campo elettrico e regolandone l’intensità indipendentemente dal tipo di gas contenuto nel e il verso, la caduta delle goccioline può tubo e dal materiale di cui era costituito il catodo. essere fermata Per questa scoperta Thomson fu insignito del 4 premio Nobel per la fisica nel 1906. Il valore di q/m trovato risultava circa 1836 volte maggiore del corrispondente valore di q/m dello ione idrogeno misurato elettrochimicamente. Nel 1905 R. Millikan con un esperimento riuscì a determinare la carica elettrica dell’elettrone (1,602 10-19 C), e quindi fu possibile ricavare il valore della sua massa (fig.3). Questo esperimento, oltre a determinare con grande precisione la carica dell’elettrone, è importante perché è la prima prova sperimentale dell’esistenza di una carica elettrica elementare e della quantizzazione della carica elettrica di un corpo. Le conseguenze di questi risultati sono che l’atomo non è il componente ultimo della materia, ma come disse lo stesso Thomson: ”poiché gli elettroni possono essere prodotti da tutti gli elementi chimici, noi dobbiamo concludere che essi entrano nella costituzione di tutti gli atomi. Noi abbiamo quindi fatto il primo passo verso la comprensione della struttura dell’atomo” La presenza in un atomo neutro di particelle negative di massa piccola rispetto a quella dell’intero atomo richiedeva necessariamente la presenza di una controparte positiva di massa maggiore. Nel 1986 Goldstein, utilizzando un tubo a raggi catodici con catodo forato, rilevò la presenza dietro al catodo di una luminescenza provocata da raggi che provenivano in direzione opposta a quelli catodici (raggi canale). Egli dimostrò che si trattava di particelle positive e, dato che presentavano masse diverse a seconda del gas utilizzato, ipotizzò che gli elettroni, attraversando il gas accelerati e urtando gli atomi strappassero gli elettroni contenuti negli atomi di gas trasformandoli in ioni positivi attirati dal catodo. La scoperta dell'elettrone rappresentò un momento fondamentale nello sviluppo della struttura della materia. L'atomo indivisibile dei filosofi greci, la cui esistenza come componente ultimo della materia era stato al centro di dibattiti e controversie per tutto il XIX secolo, risultava ora composto di particelle di dimensioni minori di quella atomica cariche elettricamente. Anche l'elettricità, a lungo considerata un fluido continuo, acquistava una struttura particellare e l'attrazione tra cariche opposte diveniva l'interazione fondamentale per interpretare la struttura atomica. Nel 1904 Thomson propose un modello atomico, detto modello “a panettone”, nel quale gli elettroni venivano inglobati come “canditi” in una matrice sferica di carica positiva (fig.4). La semplicità del modello imponeva che gli elettroni fossero disposti a Figura 4 - Una rappresentazione intervalli regolari su anelli interni all’atomo e che la schematica del modello atomico di Thomson detto a panettone. Gli carica positiva fosse distribuita uniformemente in elettroni erano sistemati in maniera quest’ultimo. Inoltre Thomson riteneva che la massa non casuale, in anelli concentrici fosse dovuta principalmente agli elettroni e che, rotanti quindi, negli atomi vi fossero migliaia di queste particelle. Questo modello permetteva di giustificare la stabilità delle cariche elettriche all’interno dell’atomo secondo le leggi dell’elettromagnetismo classico. La possibilità di distribuire, in modo regolare, un gran numero di elettroni in anelli concentrici 5 sembrava anche costituire una chiave interpretativa della periodicità espressa dalla tavola di Mendeléev. La scoperta della radioattività fu il passaggio successivo per costruire un modello più accurato dell’atomo. Nel 1896 il chimico francese H. Becquerel, durante i suoi studi sulla fosforescenza, notò casualmente che un minerale ricco di uranio, la pechblenda, posto accanto a lastre fotografiche chiuse nei loro contenitori a prova di luce, ne provocava l'annerimento, e ne dedusse che tali minerali dovevano emettere dei raggi molto più penetranti di quelli luminosi. Nel 1898 i coniugi Curie scoprirono il radio, un nuovo elemento che emetteva dei raggi cinquecento più intensi di quelli dell'uranio. Questo elemento era in grado di emettere tre tipi di radiazioni: i raggi alfa, i raggi beta e i raggi gamma. I raggi gamma sono radiazioni elettromagnetiche come i raggi X; i raggi alfa e beta consistono invece in particelle di materia carichi positivamente i primi e negativamente i secondi. I raggi alfa hanno le stesse proprietà dei raggi canale: basso potere penetrante, carica positiva, velocità relativamente piccola, ma a differenza di quelli, hanno sempre la stessa massa che risulta quattro volte maggiore di quella dell’idrogeno. I raggi beta sono simili ai raggi catodici: identico potere penetrante, uguale massa, carica elettrica dello stesso segno e intensità. Infine, i raggi gamma che hanno natura ondulatoria e sono insensibili sia al campo elettrico che quello magnetico e sono simili ai raggi X (fig.5). Nel 1903 lo scienziato neozelandese E. Rutherford, eseguendo numerosi esperimenti su elementi radioattivi, riconobbe nella radioattività una Figura 5 – le sostanze radioattive emettono tre tipi di radiazioni che subiscono manifestazione della effetti diversi in presenza di un campo magnetico o elettrico. Un campo trasmutazione elettrico deflette le radiazioni α verso il polo negativo, le β verso il polo spontanea degli positivo, mentre non altera la traiettoria delle radiazioni γ elementi radioattivi, arrivando alla conclusione che essa è un processo caratteristico delle trasformazioni subatomiche ancora prima di proporre il suo modello di atomo che prevedeva l'esistenza del nucleo. Il fatto che un atomo, oltre ad espellere elettroni, fosse in grado di emettere anche particelle positive dimostrava che la sua struttura non era uniforme, come supposto da Thomson, ma doveva contenere tali particelle. Dato che la più piccola particella carica positivamente corrispondeva a quella dello ione idrogeno e poiché la carica elettrica di questo ione risultava uguale in valore assoluto a quella dell’elettrone, si pensò che lo ione idrogeno fosse la particella fondamentale di elettricità positiva, così come l’elettrone lo era per quella negativa. Rutherford battezzò questa particella protone, simbolo p, dal greco antico πρῶτον, proton, che significa "primo". Si poteva quindi concludere che un atomo fosse costituito da elettroni e protoni in egual numero 6 in modo da bilanciare le cariche elettriche, e che mentre gli elettroni potevano essere espulsi dall’atomo con relativa facilità, i protoni potevano allontanarsi dall’atomo soltanto in casi particolari, come nelle sostanze radioattive. Il numero di protoni, e quindi di elettroni posseduti da un atomo neutro viene definito numero atomico (Z). Nel 1911 Rutherford realizzò un celebre esperimento insieme ai suoi collaboratori H.W. Geiger e E. Marsden, in cui una sottilissima lamina di oro veniva bombardata con raggi alfa emessi da una sorgente radioattiva. L’osservazione delle scintillazioni prodotte su uno schermo fluorescente posto dietro alla lamina mostrò risultati sorprendenti e incompatibili con il modello atomico di Thomson. Infatti, se la carica positiva fosse stata distribuita uniformemente su tutto il volume atomico, le particelle alfa sarebbero sottoposte sempre ad una forza risultante nulla o quasi nulla, sia passando all’interno di un atomo che passando tra gli atomi e quindi non dovrebbero subire significative deflessioni. Invece, anche se la maggior parte delle particelle attraversavano come previsto la lamina senza subire deviazioni, in qualche caso esse venivano deflesse ad angoli molto grandi (superiori ai 90°) e, in un caso su 8000, respinte indietro (fig. 6). Sulla base dei risultati sperimentali Rutherford, elaborò un modello atomico detto modello planetario, secondo il quale l’atomo è formato Figura 6 – Apparato sperimentale dell’esperimento di Rutherford. Le particelle alfa emesse dalla sorgente radioattiva colpiscono la lamina da un nucleo positivo in d’oro. Sullo schermo fluorescente viene osservata la distribuzione cui è concentrata la angolare del fascio trasmesso. I dati ottenuti possono essere spiegati con maggior parte della un modello nucleare massa, attorno a cui ruotano, a grande distanza, gli elettroni negativi. Questo modello spiegava i dati sperimentali, infatti, poiché le particelle positive alfa nella maggior parte dei casi non incontravano alcun ostacolo, attraversavano la lamina d’oro senza subire deviazioni. Nei rari casi in cui le particelle passavano vicino al nucleo positivo subivano deflessioni tanto maggiori quanto più queste si avvicinavano al nucleo. I raggi atomici, considerati sferici risultavano essere dell’ordine di 10-10 m e quelli del nucleo di 1014 ÷10-15 m; pertanto lo spazio occupato dall’atomo praticamente vuoto. Il modello di Rutherford presenta diverse difficoltà che derivano dal fatto che questo modello dinamico è basato sulla meccanica newtoniana. La più importante è che il modello è in disaccordo con le leggi dell’ elettromagnetismo che prevedono per ogni particella carica in moto accelerato la perdita di energia per irraggiamento di onde elettromagnetiche. Di conseguenza, l’elettrone perdendo continuamente energia percorrerebbe orbite via via più strette cadendo sul nucleo in un tempo brevissimo ( 10-11 s). Questo modello non è quindi in grado di rendere conto della stabilità dell’atomo. 7 Altra questione, più legata al modello planetario, è che le orbite specifiche percorse dai pianeti, non possono essere determinate dalle leggi fondamentali del moto, ma solo dalle condizioni iniziali prevalenti nel momento in cui il sistema si è costituito. Condizioni iniziali leggermente diverse portano a orbite diverse. L’atomo, invece presenta proprietà che non possono essere presenti in un sistema planetario. Infatti tutti gli atomi di una stessa sostanza sono uguali e pertanto se l’atomo fosse come un sistema solare in miniatura sarebbe improbabile trovare atomi uguali. L’insuccesso del modello planetario, risiede nel fatto che l’interpretazione dei fenomeni atomici, a causa delle dimensioni infinitamente piccole, richiede un cambiamento radicale dei concetti che stanno alla base della fisica classica. 8