L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano
Damasio Antonio R. ; Adelphi
Prezzo di copertina € 26,00
Emozione e coscienza
Damasio Antonio R. ; Adelphi
€ 30,00
Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello
Damasio Antonio R. ; Adelphi
Prezzo di copertina € 30,00
Antonio Damasio riconduce le neuroscienze alle loro origini
filosofiche, ovvero al binomio spinoziano «mente-corpo» e –
sostiene Antonia S. Byatt – svela la «coscienza incarnata»
dell’arte.
Nel suo libro L’errore di Cartesio, Antonio Damasio
prendeva le distanze da due aspetti del pensiero
cartesiano: l’uso dell’orologio come metafora della
mente e la dichiarazione di priorità insita nel suo Cogito
ergo sum. Damasio capovolge quest’ultima, e dimostra
come la vita della mente emerga da quella del corpo.
Secondo lui, concepire la mente come processo di
programmazione informatica, o come cablaggio
nell'hardware, rappresenta una derivazione fuorviante
della metafora dell’orologio.
Egli si occupa delle componenti biologiche – wet stuff –
che costituiscono i tessuti viventi del corpo e del
cervello.
Nell’Errore di Cartesio, ci aveva illustrato l’idea,
plausibile e affascinante, di come il senso del sé e i
processi di pensiero emergano da una serie di mappe
del corpo costruite dal cervello: dalle informazioni
inconsce sullo stato viscerale, agli appetiti consci, fino
alla memoria e alla riflessione. In parte, lo fa
mostrandoci che cosa accade negli individui
cerebrolesi, compiendo una distinzione fra coloro che
vivono in uno stato vegetativo, coloro che hanno subìto
perdite ben precise (la consapevolezza del lato sinistro
del proprio corpo, la memoria a breve termine o il senso
di responsabilità) e coloro che pensano e sentono più o
meno come la maggior parte di noi.
In Alla ricerca di Spinoza, egli estende l’indagine,
studiando il contributo delle emozioni e dei sentimenti
alla strutturazione del nostro sé. Il mio unico reale
problema, nella lettura di questo libro, sta
nell’ambiguità con cui nel linguaggio corrente
utilizziamo due parole che invece Damasio usa con
molta precisione. Per lui, le «emozioni» (per esempio il
piacere, il dolore, il disgusto e la paura) sono risposte
involontarie, e in qualche caso innate, che compaiono
precocemente nella vita dell’organismo insieme agli
appetiti. I «sentimenti», invece, sono mappe e immagini
con le quali il cervello rappresenta le proprie risposte
agli stimoli emozionali e sensoriali, esterni e interni.
Tanto le emozioni quanto i sentimenti sono componenti
inseparabili del nostro modo di accogliere la realtà (ivi
compreso il modo in cui pensiamo). Damasio è molto
convincente quando sostiene che non potremmo
sopravvivere senza le emozioni sociali che si sono
evolute dentro di noi. Lo è ancor di più, tuttavia, nel
farci comprendere il processo mediante il quale, in ogni
singolo istante, il sistema nervoso costruisce nel
cervello le mappe del corpo, dell’ambiente che lo
circonda, della sua storia, delle sue esigenze e delle sue
decisioni. Egli si sbarazza elegantemente dell’idea di un
metaforico homunculus insediato nel cranio e intento a
offrire a una sorta di occhio interiore le rappresentazioni
immutabili delle cose, e lo sostituisce con un flusso di
segnali in continuo divenire: segnali che si rinforzano,
si correggono e confluiscono dando vita alle idee delle
cose e di noi stessi.
La mente, dice, è «piena di immagini provenienti dalla
carne e dalle sonde sensoriali speciali». È convinto che
la maggior parte delle idee si formi a partire dal «corpo
propriamente detto», e che l’idea del sé sia secondaria:
l’idea di un’idea, originariamente ricavata dalla
combinazione di due percezioni, quella di un oggetto e
quella del nostro stesso corpo.
Secondo Damasio, Spinoza fu il primo filosofo
moderno in quanto comprese l’indivisibilità di mente e
corpo. Per Spinoza il binomio «mente-corpo» fa parte
della natura, e tutta la natura è divina: una divinità
impersonale che possiamo contemplare con gioia,
pervasi dall’emozione e dal sentimento religioso.
Damasio ci racconta di essere tornato a leggere Spinoza
per controllare l’esattezza di una citazione che gli si era
impressa nella mente dai tempi della scuola: «Il
fondamento della virtù è lo stesso sforzo di conservare
il proprio essere, e ... la felicità consiste appunto nel
fatto che l’uomo può conservare il suo essere» – un
concetto di sopravvivenza biologica quale essenza
stessa dell’umanità; un concetto darwiniano anzitempo.
Tutto il libro è un’esplorazione del significato di questa
conservazione del sé e di questa idea di felicità. È anche
una biografia di Spinoza e, insieme, il racconto del
rapporto che l’autore ha con lui. È interessante come gli
scienziati che studiano la memoria e la coscienza
sembrino sentire in modo particolare l’esigenza di dar
corpo alle proprie idee in narrazioni personali – il che
equivale a descriverne i limiti nel tempo e nello spazio.
Sia Daniel Alkon che Steven Rose hanno incluso nella
propria autobiografia l’esposizione delle rispettive
ricerche sulla biologia della memoria.
Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632 – lo stesso
anno in cui Rembrandt dipinse La lezione di anatomia
del dottor Tulp – e morì ancora giovane all’Aia.
Conobbe Leibniz e Huygens. In un passo dagli accenti
toccanti, Damasio racconta che perfino nel tollerante
clima olandese Spinoza fu tacciato di eresia e quindi
espulso con una piena condanna dalla sua comunità
sefardita. Fabbricante di lenti, diede un contributo
concreto alla rivoluzione scientifica che andava
svelando nuovi aspetti del mondo visibile, mostrando
realtà invisibili che nessuno aveva immaginato.
Damasio – lui stesso, a quanto pare, bisognoso di
sentimenti ed emozioni religiosi – si unisce a Goethe
nell’ammirare la «libertà» e la «beatitudine»
dell’esperienza spinoziana dell’amor intellectualis Dei
– un amore intellettuale per Dio. Osserva inoltre che gli
strumenti ottici e meccanici del tempo di Spinoza
furono sviluppati «per consentire la scoperta scientifica,
e al tempo stesso per fare del processo di scoperta una
fonte di piacere». (Una domanda che non si pone,
sollevata invece da Richard Gregory nel suo Occhio e
cervello, è: che cosa ha comportato per noi trovarci ad
affrontare un mondo di esperienze e oggetti – come la
fisica quantistica, i prioni, il DNA – diversi da quelli
per i quali i nostri sensi si sono specificamente
evoluti?).
Damasio, poi, approfondisce l’influenza di Spinoza sui
pensatori delle epoche successive. William James
scrisse Le varie forme della coscienza religiosa in
seguito a una lettura di Spinoza effettuata nel 1888 per
un corso sulla filosofia della religione a Harvard. James
è un altro degli eroi di Damasio, secondo il quale ebbe
intuizioni sulla mente umana paragonabili solo a
«quelle di Shakespeare o di Freud». Damasio racconta
ironicamente di come – in privato – Freud ammettesse
sia la dipendenza del suo pensiero dagli insegnamenti di
Spinoza, sia il fatto di non averlo mai citato
direttamente, perché – sosteneva – a contare davvero,
per lui, erano la persona e l’atmosfera generale del suo
pensiero. Sarebbe interessante leggere le idee di
Damasio su conscio e inconscio corporeo, e stabilire
quale sia la loro relazione con quelle di Freud, citate
con ammirazione.
L’opposizione nei confronti di Spinoza, come pure il
cauto entusiasmo ispirato dalla sua visione delle cose, si
insinuano serpeggiando nella storia dell’arte e del
pensiero occidentali. I romantici tedeschi – Jacobi,
Novalis, Lessing e Goethe, il poeta scienziato che
studiò il modo in cui la visione si forma nel cervello –
furono recettivi nei confronti della sua filosofia e non
mancarono di citarlo. Wordsworth e Coleridge si
interessarono entrambi alla scienza dei «sentimenti» e
al rapporto di questi ultimi con il pensiero. Il poeta di
Wordsworth, un uomo che, dotato di «una sensibilità
organica superiore al comune, [abbia] … anche pensato
a lungo e profondamente» è più spinoziano che
cartesiano. Entrambi, Wordsworth e Coleridge,
esordirono da una posizione panteistica per poi
ripiegare su una più cauta cristianità trinitaria. In un
ottimo saggio contenuto in British Romanticism and the
Science of the Mind, Alan Richardson parla di Kubla
Khan come di un’immagine della «congiunzione dei
sogni e dell’inconscio, della mente incarnata e della
“Vita Gastrica”», e accenna alle recenti ricerche nelle
neuroscienze cognitive e al concetto di wetware come
sviluppo della scienza romantica sul tema del cervello.
Damasio menziona l’interesse di George Eliot per
Spinoza, ma non dice che la scrittrice passò una parte
considerevole della propria vita a tradurre l’Ethica e il
Tractatus. Queste traduzioni sono rimaste inedite,
tuttavia, a giudicare dalla genialità del lavoro di Eliot su
Feuerbach, la loro pubblicazione sarebbe un’operazione
interessante. Middlemarch è il grande romanzo
dell’esplorazione mente-corpo. Il sacerdote dell’antica
religione, Casaubon, si perde alla ricerca di una divinità
solare decaduta con una candela gocciolante in
sotterranei pieni di ragnatele. La candela è la ragione
cartesiana; l’occhio è, per citare Coleridge, l’organo
«soliforme» che percepisce la Luce. Quanto a Lydgate,
il medico e microscopista moderno, sta cercando il
tessuto originario che unifica tutto l’organismo. Egli sa
bene quale differenza comportò, ai fini della percezione
di noi stessi, la scoperta delle reti nervose compiuta da
Vesalius; e sa che esistono «passioni della mente».
Lydgate è al tempo stesso spinoziano e damasiano (ma
emozionalmente limitato). La scrittrice, una mente
incarnata, tesse la trama del suo romanzo con una gran
rete di metafore sensuali e culturali, una rete nella quale
si trovano, insieme ai ragni, le fila dei pettegolezzi del
villaggio e i drappi appesi in San Pietro a Roma – rossi
«come una malattia della retina».
In tempi recenti c’è stata la tendenza a trattare le
descrizioni della coscienza umana inclini a
«privilegiare» l’occhio e la «ragione sovrana» con una
sprezzante analogia politica, quasi che la visione
pretenda di essere aristocratica, o maschile, o di pelle
bianca – a seconda della gerarchia che si vuole
condannare. Ma questo non serve a nulla. Lo studio
della coscienza incarnata, invece, ci sta inducendo a
riconsiderare ogni tipo di problema e processo estetico.
Il libro di Svetlana Alpers sulla pittura olandese del
diciassettesimo secolo distoglie l’attenzione dai simboli
allegorici per concentrarla sull’ottica – ovvero sul
piacere che gli olandesi provavano nella scoperta del
mondo esterno, con l’ausilio delle lenti. L’autrice
osserva che, in qualche modo, l’artista olandese
percepisce la realtà con tutto il proprio corpo, e non con
l’occhio del pittore professionista che inquadra una
prospettiva in una cornice. Secondo gli scienziati che
scrivono di fisica, il mondo che essi vanno svelando è
più stupefacente – più splendido e capace di ispirare
una maggior reverenza – di qualsiasi narrazione
teologica del paradiso. Lo stesso vale anche per il
complesso mondo umano svelato dallo studio della
mente incarnata, al quale Damasio ha dato un così
brillante contributo.
(Traduzione di Isabella Blum)
© 2003 Antonia S. Byatt