1. Il "teorema di Pitagora" non è di Pitagora Su una tavoletta d'argilla, ritrovata tra le rovine di una città della Mesopotamia e risalente al periodo paleobabilonese della dinastia Hammurabi (1800 - 1600 a. C.), è disegnato un quadrato e le sue diagonali. Su un lato è riportato il numero 30 e su una diagonale i numeri 1,414213... e 42,42639..., tutti numeri espressi nel sistema sessagesimale, quello usato dai Babilonesi. Il primo dei due numeri, sulla diagonale, è un valore approssimato, ma già molto preciso, della radice di 2, l'altro è la diagonale del quadrato, cioè il prodotto di 30 per questo numero. Un calcolo che molti lettori sicuramente conoscono e che rivedremo poco più avanti. Un calcolo che prevede la conoscenza del teorema di Pitagora. Questa tavoletta (Fig. 1), che oggi è conservata negli Stati Uniti, all'Università di Yale, all'apparenza un ciottolo largo appena una decina di centimetri, storicamente è importantissima. George Gheverghese, lo storico Fig. 1 La tavoletta di argilla con il calcolo della diagonale di un quadrato indiano della matematica, la definisce "un capolavoro babilonese" e viene riportata in tutti i testi di storia della matematica, come prova del fatto che il teorema di Pitagora era già noto almeno mille anni prima di Pitagora. Vale a dire che il teorema di Pitagora ... non è di Pitagora. Se ne trovano tracce in molti altri documenti non solo babilonesi, ma di altre civiltà, ad esempio dell'Antica Cina o dell'India, ben prima della Fig. 2 Pitagora di Samo, 580-500 a.C. nascita di Pitagora. Se noi siamo portati a privilegiare e a mettere in primo piano la civiltà greca, è soltanto perché questa è alle radici del nostro pensiero, della civiltà occidentale. In generale possiamo dire che è molto difficile, sovente impossibile, risalire all'origine delle idee matematiche. Queste non sono patrimonio di un'unica civiltà e tantomeno di un solo uomo. Per fortuna, a nessuno, finora è venuto in mente di brevettare un teorema, come accade invece regolarmente per metodi e procedimenti che industrie chimiche, informatiche e di tanti altri settori si affrettano a brevettare, per garantirsi l'esclusiva di tutti i possibili sfruttamenti commerciali. Le idee della matematica appartengono a tutta l'umanità, nascono sovente nello stesso periodo, in ambienti diversi, e si precisano e si arricchiscono con il contributo di più persone, a dimostrazione Fig. 3 Pitagora su una moneta greca del fatto che la matematica è la vera scienza universale e sicuramente la più democratica. Ne abbiamo una prova proprio con il teorema di Pitagora. Furono soltanto i pitagorici ad attribuirlo a Pitagora, obbedendo alle loro regole, secondo le quali si doveva attribuire al maestro ogni scoperta, e questo anche dopo la sua morte, perché era sempre lui ad ispirare e guidare qualsiasi lavoro. Il suo merito o più probabilmente di qualcuno dei suoi discepoli, è stato quello di averne dato una dimostrazione rigorosa e più in generale di aver avviato un'analisi approfondita dei principi sui quali si fonda il pensiero matematico. 2. Pitagora e i pitagorici Pitagora (quando useremo questo nome, si tenga presente che non indicheremo soltanto Pitagora, ma la sua scuola poiché, come abbiamo detto, è impossibile distinguere i suoi lavori da quelli degli altri pitagorici) segna il momento di passaggio dalla matematica applicata alla matematica astratta, con l'introduzione di dimostrazioni fondate sul metodo deduttivo a partire da assiomi esplicitamente formulati. Afferma Bertrand Russell: Dal punto di vista intellettuale, Pitagora è uno degli uomini più notevoli che siano mai esistiti, sia per la sua sapienza sia per altri aspetti. La matematica, intendendo come tale le dimostrazioni e i ragionamenti deduttivi, comincia con Pitagora. Non conosco altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella sfera del pensiero. Pitagora nacque a Samo, un'isola della Ionia, nel 580 a. C. Quando aveva circa quarant'anni, dopo essere stato allievo di Talete e dopo aver visitato molti paesi, in particolare Egitto e Babilonia, abbandonò la sua patria per sfuggire alla dittatura di Policrate e si stabilì a Crotone, in Calabria, dove fondò una comunità filosofica e religiosa che si impegnò direttamente nell'attività politica della regione. Alla fine del sesto secolo, una sommossa, guidata dai nobili locali, cacciò i pitagorici da Crotone. Pitagora si rifugiò a Metaponto dove poco dopo morì. Sulla sua fuga da Crotone abbiamo una testimonianza di Porfirio, un filosofo greco discepolo di Plotino: Dopo la sua sconfitta si rifugiò nel porto di Caulonia e poi si diresse a Locri, dove gli furono mandati incontro, ai confini del territorio, alcuni anziani. Trovatolo, gli dissero: "Sappiamo, o Pitagora, che tu sei uomo saggio e intelligente, ma noi siamo contenti delle nostre leggi e vogliamo che restino così come sono, tu dunque se hai bisogno di qualcosa, prendila, ma vattene altrove". In questo modo fu allontanato da Locri; di lì passò a Taranto, dove ebbe la stessa sorte che aveva avuto a Locri e quindi passò a Metaponto. Fig. 4 Talete, circa 640 - 546 a. C. E' stato probabilmente uno dei maestri di Pitagora. Inizia con lui il processo di astrazione della matematica. I suoi seguaci crearono in seguito nuove comunità, nel nome del maestro, venerato come un dio. Le più celebri furono quella di Tebe, fondata da Filolao, e quella di Taranto, fondata da Archita. La vita di Pitagora, del quale non è rimasto alcun scritto, diventò ben presto leggenda e non è possibile avere notizie certe su di lui. Sappiamo che predicava l'astinenza e che imponeva ai discepoli una serie di regole e precetti dal valore simbolico e rituale, come la proibizione di mangiare fave, di spezzare il pane, di toccare galli bianchi, di attizzare il fuoco con il ferro o di accogliere rondini sotto il proprio tetto. Pitagora credeva nella metempsicosi, ovvero nella trasmigrazione delle anime con successive reincarnazioni dell'anima in specie diverse, fino alla loro eventuale purificazione e alla conseguente uscita dalla "ruota delle nascite". Lo studio della matematica era visto come lo strumento per raggiungere questa liberazione dell'anima dal corpo: numeri e forme della matematica, con la loro intrinseca bellezza e perfezione, sostenevano i pitagorici, possono guidare l'anima verso il cielo. In astronomia i pitagorici ritenevano che esistesse un grande fuoco centrale attorno al quale ruotavano dieci corpi: la Terra, L'Antiterra, per noi invisibile, la Luna, il Sole, i cinque pianeti allora conosciuti e il cielo delle stelle fisse. Questi corpi celesti nel loro movimento, secondo i pitagorici, producevano un'armonia meravigliosa che noi non riusciamo a percepire, perché è un suono continuo che corrisponde al nostro silenzio. Come dice Aristotele: Vi sono alcuni che ritengono che il moto di corpi così grandi debba Fig. 5 Pitagora e gli intervalli musicali espressi come rapporti numerici, in un'illustrazione di un libro di Boezio. necessariamente produrre un suono, dal momento che questo accade anche con i corpi che ci Fig. 6 Il cosmo secondo i pitagorici. circondano, i quali né hanno mole pari a quelli né si muovono con ugual velocità; e il sole e la luna, e poi le stelle, che sono in tal numero, e di tal grandezza, e si muovono con un moto di tale velocità, è impossibile, dicono, che non producano un suono di intensità straordinaria. Da queste premesse, e assumendo inoltre che le velocità, in virtù delle distanze fra i vari astri, hanno rapporti di accordi consonanti, essi affermano che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è armonico. Ma parendo assurdo che di questo suono non s’abbia noi percezione, causa di ciò dicono essere il fatto che questo suono ci accompagna già fin dalla nascita, per modo che esso non si lascia distinguere nel contrasto col silenzio: solo contrapposti infatti suono e silenzio si lasciano distinguere. Il rapporto fra numeri e musica, scoperto dai pitagorici, è un esempio del collegamento dei numeri con l'armonia del cosmo. Fig. 7 Pitagora che regge il cosmo. Scrive Teone di Smirne: Prendeva alcuni vasi tutti uguali e, mentre ne lasciava uno vuoto, riempiva il secondo d'acqua fino a metà, poi li percuoteva entrambi e otteneva il rapporto di un'ottava. Quindi, lasciando ancora vuoto uno dei vasi, riempiva l'altro per una quarta parte, e poi li percuoteva entrambi e otteneva il rapporto di quarta. L'accordo di quinta l'otteneva riempiendo il vaso per la sua terza parte. Il rapporto tra il vuoto di un vaso e quello dell'altro era dunque di 2 a 1 nell'accordo di ottava, di 3 a 2 nell'accordo di quinta e di 4 a 3 nell'accordo di quarta. I seguaci di Pitagora si dividevano in "acusmatici", ascoltatori, e "matematici", gli unici che avevano diritto a conoscere gli insegnamenti più profondi del maestro. Giamblico, il filosofo neoplatonico che scrisse una Vita di Pitagora, afferma che chi aspirava ad entrare nella comunità doveva osservare cinque anni di silenzio e in questo periodo di tempo doveva già affidare alla comunità tutti i suoi averi: Fig. 8 Francobollo delle poste greche, celebrativo di Pitagora. Dopo cinque anni di silenzio, se risultava degno di essere iniziato alla dottrina, diventava esoterico e poteva ascoltare e anche vedere Pitagora dentro la tenda. Prima, fuori della tenda, aveva potuto soltanto ascoltare le sue lezioni, senza mai vederlo. Fatto eccezionale, anche le donne erano ammesse alle lezioni di Pitagora. La vita dei pitagorici era per certi aspetti quasi monacale, in una comunione dei beni e nell'osservanza di riti e regole molto rigorose che contribuivano a creare attorno alla scuola un alone di rispetto e di mistero. Ecco, nella descrizione di Giamblico, come i pitagorici chiudevano la loro giornata: Nel tardo pomeriggio tornavano a passeggiare in gruppi di due o tre, per richiamare alla memoria le cognizioni apprese e per esercitarsi negli studi liberali. Dopo il passeggio facevano un bagno e andavano al banchetto comune. Al banchetto seguivano le libagioni e infine la lettura. Era consuetudine che leggesse il più giovane e che il più anziano stabilisse quello che si doveva leggere e come. 3. Numeri: matematica, misticismo e magia Per i pitagorici: "tutto è numero" ovvero ogni cosa può essere ridotta a una relazione numerica. E per i pitagorici i numeri erano soltanto i numeri interi e questi erano il principio di tutte le cose. Essi affermavano: Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo nulla sarebbe possibile pensare o conoscere. Essi applicarono la loro dottrina, fondata sui numeri, alla ricerca scientifica, suddivisa in quattro parti essenziali: aritmetica, musica, geometria e astronomia. L'idea di una realtà fondata sulle interazioni fra gli opposti, li portò a individuare dieci opposizioni fondamentali. Fig. 9 Le dieci "opposizioni" dei pitagorici. Queste opposizioni che riflettevano un assetto dualistico della realtà (... sicuramente "maschilista"), venivano applicate alle loro speculazioni sui numeri e questi assumevano un valore simbolico, oltre la matematica, magico e religioso. L'unità non era considerata propriamente un numero, 1 non era per i pitagorici né pari né dispari, e questa sua ambivalenza rifletteva la concezione dualistica dell'universo, che era rappresentato proprio dal numero 1. E questo era principio di tutti i numeri, come dice Dante (Paradiso, XV, 57): Raia da l'un, se si conosce, il cinque e il sei. Per i pitagorici il numero 4 era il simbolo della giustizia, essendo il primo numero uguale al prodotto di due numeri uguali, 2 x 2, e anche la giustizia doveva cercare di restituire "l'uguale all'uguale". Il numero 5 rappresentava il matrimonio, perché somma del primo numero pari (femminile), il 2, con il primo numero dispari (maschile), il 3. E così via, ogni numero con un significato trascendentale. Fig. 10 I pitagorici inventarono una singolare teoria, l' aritmogeometria, che collegava fra loro numeri e figure geometriche. Possiamo immaginare che conducessero le loro analisi insieme agli allievi, sulle spiagge di Crotone, usando sassolini bianchi e neri per "costruire" i numeri. Noi, se non abbiamo a disposizione una spiaggia ma soltanto un foglio di carta, useremo semplicemente dei punti. Dallo studio di queste figure e dei numeri ad esse collegati si possono ricavare diverse proprietà aritmetiche e geometriche. Ancora oggi usiamo l'espressione "tre al quadrato" o "due al cubo". Ma quanti sanno che queste espressioni derivano proprio dalla rappresentazione geometrica dei due numeri: un quadrato di 3 per 3 punti o un cubo di 2 x 2 x 2 punti? I numeri "al triangolo" sono triangoli equilateri con lati di 1, 2, 3, 4, 5, … punti. In tal modo il "triangolo" di 4 risulta 10: 1 + 2 + 3 + 4. I numeri "al pentagono" sono invece in forma di pentagono. Abbiamo quindi 2 "al pentagono" uguale a 5 o 3 "al pentagono" uguale a 12. Con un procedimento analogo si possono costruire numeri "all'esagono", "al tetraedro" e così via. 4. La Tetraktis e il Pentagramma Il numero più importante per i pitagorici era il 10, il numero che rappresentava per loro l'Universo. Dice Filolao: Il 10 è responsabile di tutte le cose, fondamento e guida sia della vita divina e celeste, sia di quella umana. Il 10 è "quattro al triangolo" ed è inoltre la somma dei primi quattro numeri, 1 + 2 + 3 + 4 = 10, gli stessi numeri si ritrovano nei rapporti degli intervalli musicali, come abbiamo appena visto. E il 10 rappresenta la somma di tutte le dimensioni: un punto, che non ha dimensioni, 2 punti, che generano una linea a una dimensione, 3 punti, che generano un triangolo in due dimensioni e 4 punti, che generano un tetraedro nelle tre dimensioni. Il 10 era la sacra Tetraktis, simbolo esoterico dei pitagorici. Riportiamo da Dantzig, la preghiera della Tetraktis che veniva recitata dai pitagorici: Benedici a noi, o numero divino, tu da cui derivano gli dei e gli uomini. O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgente dell'eterno flusso della creazione. Il numero divino si inizia coll'unità pura e profonda, e raggiunge il quattro sacro; poi produce la matrice di tutto, quella che tutto comprende, che tutto collega; il primo nato, quello che giammai devia, che non affatica, il sacro dieci, che ha in sé la chiave di tutte le cose. Anche Dante (Convivio 2, XIV, 3) aveva questa idea del dieci, come numero perfetto: Dal diece in su non si va se non esso diece alterando cogli altri nove e con sé stesso. Il 10 è anche considerato simbolo di pace e di fratellanza, infatti scambiandosi una stretta di mano, due persone uniscono fra loro le dieci dita. E che il 10 sia sempre un numero speciale lo conferma il fatto che i Comandamenti divini sono 10, o più semplicemente che 10 è il voto più bello che si può prendere a scuola. Un'altra figura sacra ai pitagorici era il pentagramma, la stella a cinque punte, racchiusa nel cerchio divino (fig. 11), segno di riconoscimento fra gli adepti. Racconta Giamblico, a proposito del pentagramma: Un pitagorico senza denaro si ammalò in un albergo. Sentendo la morte vicina invitò l'oste, che l'aveva curato, ad esporre il pentagramma fuori dell'albergo. Molto più tardi un altro pitagorico passando di là vide il simbolo, ne chiese spiegazione all'oste e lo ricompensò generosamente per l'aiuto che aveva dato al suo compagno. E il pentagramma è rimasto ancora oggi un simbolo sacro o magico, venduto persino come amuleto. Qualcuno ritiene che il pentagramma con la punta in basso acquisti un valore negativo, "diabolico", ma qui entriamo nel campo della superstizione e della stregoneria, che non ci interessa. Con questo intreccio di teoria e di magia dei numeri, di simboli esoterici, di setta religiosa e di comunità scientifica, la figura di Pitagora può essere vista come filosofo e matematico, ma anche come profeta e mago e la sua comunità come scuola, ma anche come setta segreta. Fig. 11 Il pentagramma Sono i due aspetti di Pitagora - scrive Bertrand Russell - il profeta religioso e il matematico puro. Da entrambi i punti di vista ebbe una incommensurabile influenza, e i due aspetti non si possono separare come potrebbe credere una mente moderna. L'influenza esercitata dai pitagorici risultò fondamentale per lo sviluppo della filosofia greca classica e del pensiero medioevale europeo. Nel Rinascimento alcune idee dei pitagorici, come la Tetraktis o le proporzioni armoniche vennero applicate anche in campo artistico. Nel Seicento, Copernico dichiarava che il suo sistema, con la Terra che gira attorno al Sole, era un sistema pitagorico e lo stesso Galileo veniva considerato "pitagorico", poiché Pitagora era visto come il padre delle scienze esatte. 5. Il teorema di Pitagora nell'antichità Si racconta, ma è leggenda, che Pitagora abbia scoperto il suo teorema mentre stava aspettando di essere ricevuto da Policrate. Seduto in un grande salone del palazzo del tiranno di Samo, Pitagora si mise ad osservare le piastrelle quadrate del pavimento. Se avesse tagliato in due una piastrella lungo una diagonale, avrebbe ottenuto due triangoli rettangoli uguali. Inoltre l'area del quadrato costruito sulla diagonale di uno dei due triangoli rettangoli risultava il doppio dell'area di una piastrella. Questo quadrato risultava infatti composto da quattro mezze piastrelle, cioè da due piastrelle. Ma i quadrati costruiti sugli altri lati del triangolo corrispondevano ognuno all'area di una piastrella. Fig. 12 Dalle piastrelle del pavimento al teorema di Pitagora. In altre parole il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti. Questo risultava evidente nel caso della piastrella quadrata, cioè di un triangolo rettangolo isoscele: Ma poteva essere vero, si chiese Pitagora, anche nel caso generale, con cateti di lunghezza diversa? Fig. 13 Dai triangoli rettangoli isosceli al caso generale. Studiando meglio la figura ottenuta dall'osservazione delle piastrelle, Pitagora si accorse che il quadrato formato da quattro piastrelle si poteva scomporre in quattro triangoli rettangoli equivalenti e in un quadrato il cui lato era uguale alla lunghezza dell'ipotenusa di uno dei triangoli. Non fu quindi difficile passare al caso generale di quattro triangoli rettangoli qualsiasi, non più isosceli per i quali, come vedremo, vale ancora il teorema. In realtà la storia del teorema è molto più complessa e le sue origini, come abbiamo già detto, risalgono almeno ad un migliaio di anni prima che Pitagora si dedicasse allo studio dei triangoli rettangoli. Per avviare la nostra indagine sul teorema partiamo dalla formulazione che ne diede Euclide: In ogni triangolo rettangolo il quadrato del lato opposto all'angolo retto è uguale ai quadrati dei lati che contengono l'angolo retto. Se lo riscriviamo in termini più moderni abbiamo l'enunciato riportato generalmente nei testi scolastici: In ogni triangolo rettangolo il quadrato dell'ipotenusa (oppure: l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa) è equivalente alla somma dei quadrati dei due cateti (oppure: alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui due cateti). Fig. 14 Il teorema di Pitagora. Se c indica la lunghezza dell'ipotenusa e a e b quelle dei due cateti possiamo scrivere il teorema in forma algebrica: Il teorema di Pitagora era noto un tempo come "il ponte degli asini", il ponte che riusciva a superare soltanto chi dimostrava di possedere sufficienti attitudini per il pensiero astratto e per un metodo deduttivo da applicare a procedimenti matematici quali erano quelli proposti dai pitagorici. Ecco come Einstein ricorda il suo primo incontro con il teorema: Avevo 12 anni quando un mio vecchio zio mi enunciò il teorema di Pitagora e dopo molti sforzi riuscii a dimostrarlo. E’ stata un’esperienza meravigliosa scoprire come l’uomo sia in grado di raggiungere un tale livello di certezza e di chiarezza nel puro pensiero. E sono stati i Greci per primi ad indicarcene la possibilità, con la geometria. Vediamo una delle dimostrazioni più semplici, quella che generalmente si trova sui testi scolastici e che riprende il ragionamento che Pitagora potrebbe aver fatto osservando le piastrelle quadrate nel palazzo di Policrate. Fig. 15 Una delle più semplici dimostrazioni di Pitagora, fondata sulle equivalenze fra aree. Dato il triangolo rettangolo ABC (Fig. 16), Fig. 16 di cateti a, b e ipotenusa c, costruiamo due quadrati equivalenti, che abbiano come lato la somma dei due cateti, a + b (Fig. 15). Scomponiamo il primo di questi quadrati nei due quadrati costruiti sui cateti e nei quattro triangoli di figura, equivalenti al triangolo dato. Scomponiamo poi il secondo quadrato nel quadrato costruito sull'ipotenusa e negli stessi quattro triangoli. Se ai due quadrati grandi togliamo i quattro triangoli uguali, otteniamo due parti equivalenti, con la stessa area: i quadrati costruiti sui cateti e il quadrato costruito sull'ipotenusa. Attenzione però: la dimostrazione non è ancora completa. E' necessario dimostrare ancora che le parti più scure sono realmente i quadrati dei cateti e dell'ipotenusa del triangolo dato. Per il primo quadrato a sinistra (Fig. 15) questo è evidente, dal modo in cui abbiamo eseguito la scomposizione, cioè, come si dice,per costruzione. Per il secondo quadrato a destra, sempre per costruzione, possiamo dire che i suoi lati sono uguali all'ipotenusa del triangolo. Resta da dimostrare che i suoi angoli sono retti. Consideriamo l'angolo a, che sommato agli altri due angoli aventi lo stesso vertice forma un angolo piatto. Ma anche la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a un angolo piatto, e quindi l'angolo a corrisponde al terzo angolo del triangolo, che è retto. Allo stesso modo si dimostra che anche gli altri angoli sono retti e quindi che la figura è un quadrato. Molte dimostrazioni si basano semplicemente Fig. 17 Il teorema kou ku o "di Pitagora" in sulla scomposizione di aree in parti uguali. Una di un'illustrazione originale del Chou Pei queste potrebbe provare che anche in Cina il teorema "di Pitagora" era già noto almeno mille anni prima della nascita di Pitagora. E' collegata a una figura, che si trova nel Chou Pei Suan Ching (Fig. 17) uno dei più antichi testi cinesi di matematica, Il libro classico dello gnomone e delle orbite circolari del cielo, scritto al tempo della dinastia Shang, 1500 - 1000 a. C.. Questa figura potrebbe essere una dimostrazione del teorema di Pitagora, chiamato dai cinesi kou ku. Nel disegno di figura 17 si vede infatti un triangolo rettangolo di lati 3, 4 e 5 e un quadrato grande di lato 7 = 3 + 4. Lo schema della figura 18 potrebbe aiutarci a ricostruire la dimostrazione originale che purtroppo è andata perduta. Come possibile percorso della dimostrazione possiamo partire dai quattro triangoli rettangoli, di cateti 3 e 4, collocati attorno al quadrato centrale di lato 1. Fig. 18 Schema del disegno del Chou Pei (in alto a sinistra) e dimostrazioni del teorema di Pitagora di Liu Hui, nella ricostruzione di D. B. Wagner, studioso danese dell’Antica Cina (in alto a sinistra) e in quella di Jöran Friberg, un matematico svedese (in basso). Se raddoppiamo i quattro triangoli, otteniamo il quadrato grande di lato 7. L'area di questo quadrato grande è di 49 unità al quadrato. Per avere l'area del quadrato piccolo e scuro, dobbiamo togliere l'area di quattro triangoli, ognuno dei quali ha area 6 x 4, cioè 49 - 24 = 25. Il lato di questo quadrato misura quindi 5 unità ed è l'ipotenusa del triangolo rettangolo di cateti 3 e 4. Sempre in Cina Liu Hui, un grande matematico del terzo secolo d. C., diede una dimostrazione del teorema "di Pitagora" che è stata ricostruita da alcuni matematici moderni seguendo le indicazioni che è stato possibile ricuperare. Dice Liu Hui: Siano il quadrato su kou [il cateto a] rosso e il quadrato su ku [il cateto b]blu. Usate il principio della mutua sottrazione e addizione di specie simili per inserire i resti, Fig. 19 Liu Hui, terzo secolo d.C.. in modo che non ci sia alcun cambiamento nell'area con l'aspetto di un quadrato sull'ipotenusa. Le dimostrazioni riportate in Fig. 18 sono graficamente molto belle e non hanno bisogno di spiegazioni. Risultano infatti evidenti le parti equivalenti in cui sono state scomposte le figure. Anche dall'India arriva un enunciato del teorema di Pitagora che ci autorizza a pensare come il teorema fosse già noto agli indiani in epoche precedenti alla nascita di Pitagora. Si legge infatti nei Sulbasutra, i testi che contenevano le istruzioni per la costruzione degli altari, riportati in forma scritta fra l'800 e il 600 a. C.: La fune tesa per la lunghezza della diagonale di un rettangolo forma un'area pari alla somma di quella formata dal lato verticale e da quello orizzontale. Si parla ancora di funi e di problemi pratici. Ma la strada è aperta verso la matematica astratta. Dall'Arabia (Fig. 21) arriva invece la dimostrazione di Thabit ibn Qurra Marwan al'Harrani (826 - 901): I triangoli ABC, CEH, CEM, BGD, EGL, AFL sono tutti equivalenti. Inoltre osserviamo che il poligono ABDEF può essere scomposto in due modi diversi: Fig. 20 Il teorema di Pitagora secondo Sulbasutra. e Dall'uguaglianza delle due relazioni e dall'equivalenza dei triangoli indicati, ricaviamo: Fig. 21 La dimostrazione araba di Thabit ibn Qurra Pappo di Alessandria, nel quinto secolo d. C. propose una costruzione che è una generalizzazione del teorema di Pitagora, valida anche nel caso in cui il triangolo non sia rettangolo. Fig. 22 La dimostrazione di Pappo. Dato un triangolo qualsiasi ABC, costruiamo sui suoi cateti i parallelogrammi BDEC e ACFG. Inoltre prendiamo il segmento IL uguale a HC e costruiamo il parallelogramma ABNM con i lati AM e BN paralleli e uguali a IL. Poiché due parallelogrammi con la stessa base e la stessa altezza sono equivalenti, abbiamo che BDEC è equivalente a BPHC e che quest'ultimo è equivalente a BILN. Quindi BDEC è equivalente a BILN. In modo analogo si dimostra che ACFG è equivalente a AMLI. La somma di BDEC e ACFG è dunque equivalente a AMNB. A questo punto possiamo rivedere, con l'aiuto di uno schema (Fig. 23), il collegamento tra il teorema di Pitagora e la famosa tavoletta babilonese di cui parlavamo all'inizio del capitolo. Fig. 23 Lo schema della tavoletta babilonese, nella ricostruzione di O. Neugebauer, con il calcolo della diagonale di un quadrato di lato 30. A destra nel sistema sessagesimale e a sinistra nel decimale. Il primo numero sulla diagonale è 1;24,51,10, dove il punto e virgola separa la parte intera dalla parte decimale ed è in notazione sessagesimale. Lo stesso numero nel sistema decimale è: che è un valore approssimato della radice di 2. Se il lato del quadrato è 1, la diagonale è la radice quadrata di 1^2 più 1^2, cioè di 2. Se il lato è 30, sarà naturalmente il prodotto di 30 per la radice quadrata di 2. Ma la dimostrazione per eccellenza per i matematici è sicuramente quella di Euclide, riportata nel primo libro degli Elementi, proposizione 47: Nei triangoli retti il quadrato del lato che sottende l'angolo retto è uguale alla somma dei quadrati dei lati che contengono l'angolo retto. Questa dimostrazione fa riferimento a una figura (Fig. 24) che è stata battezzata, per la sua forma particolare, mulino a vento, coda di pavone o sedia della sposa. Vediamola nei termini usuali per uno studente, come la ritrova sul suo libro di geometria, nel capitolo dedicato ai teoremi di Euclide. Fig. 24 La sedia della sposa di Euclide. Dato il triangolo rettangolo ABC, costruiamo i quadrati sui suoi lati e tracciamo CL parallelo ad AD. I triangoli FAB e CAD sono uguali per il primo criterio di uguaglianza. Hanno infatti AB = AD perché lati dello stesso quadrato ABDE, inoltre AF = AC, perché lati dello stesso quadrato ACGF e gli angoli FAB e CAD sono uguali perché somma di un angolo retto e di un angolo in comune, l'angolo CAB. Abbiamo perciò: e Inoltre i triangoli CAD e AMD hanno la stessa base AD e la stessa altezza AM, e sono quindi equivalenti: D'altra parte i triangoli FAB e FAC hanno anch'essi la stessa base AF e la stessa altezza AC, quindi sono equivalenti: Il rettangolo ADLM è perciò equivalente al quadrato ACGF. Allo stesso modo dimostriamo che il quadrato BKHC è equivalente al doppio del triangolo ABK e quest'ultimo a sua volta è equivalente al doppio del triangolo BCE, cioè al rettangolo BMLE: Fig. 25 Euclide, 325-265 a.C. circa. Ritratto da A, Thevet, Vite di uomini illustri, Parigi, 1584. Se sommiamo le due equivalenze abbiamo: Abbiamo così dimostrato che La dimostrazione di Euclide, oltre a far disperare ancora oggi tanti studenti, fece arrabbiare anche il celebre filosofo Arthur Schopenahuer, il quale accusò il grande matematico greco di aver costruito una figura che porta a una interminabile catena di passaggi e che sembra chiudersi su di noi come una “trappola per topi”. Schopenahuer presentò anche una sua dimostrazione, magnificandone, con la presunzione che lo contraddistingueva, la chiarezza e la semplicità. In realtà si tratta di una dimostrazione senza alcun valore, riguardante soltanto il caso particolare del triangolo rettangolo isoscele. Proprio quello che era stato il punto di partenza per Pitagora, lo studio delle piastrelle del palazzo di Policrate, ma soltanto un punto di partenza, per arrivare alla dimostrazione generale del teorema. 6. Le mille dimostrazioni del teorema di Pitagora Le dimostrazioni del celebre teorema non sono infinite, ma nel corso dei secoli ne sono state proposte diverse centinaia, con molte varianti, e il loro numero continua a crescere grazie a quelle che ancora oggi vengono scoperte da matematici professionisti o dilettanti, sempre affascinati da questo teorema. Se andiamo a curiosare fra le tante dimostrazioni, ne troviamo alcune veramente curiose. Sicuramente Schopenahuer più della dimostrazione di Euclide, avrebbe apprezzato quella proposta nel 1873 da Henry Perigal (Fig. 27), un agente di cambio inglese con la passione per la matematica. Egli divide il quadrato costruito sul cateto maggiore in quattro parti, con due segmenti passanti per il centro del quadrato stesso, uno dei quali parallelo e l'altro perpendicolare all'ipotenusa BC, e ricompone poi i quattro pezzi, insieme al quadrato costruito sull’altro cateto, nel quadrato dell’ipotenusa. Si tratta naturalmente di dimostrare l'equivalenza delle parti in cui sono stati divisi i quadrati dei cateti con quelle ricomposte sul quadrato dell'ipotenusa . Fig. 27 La dimostrazione dell'agente di cambio Perigal. Sempre con la scomposizione in parti equivalenti, sono riportate nelle figure delle due pagine seguenti alcune altre costruzioni e dimostrazioni del teorema di Pitagora. Sono state evidenziate soltanto le scomposizioni in parti equivalenti, lasciando al lettore il compito delle dimostrazioni. Fig. 28 Dimostrazione di Tempelhoff, 1769, riportata da I. Ghersi in Matematica dilettevole e curiosa. Dato il triangolo rettangolo ABC, si costruiscano i quadrati sui suoi tre lati e il triangolo DLE come indicato in figura. Si traccino poi i segmenti HG, IF e CL. Si può dimostrare che i quadrilateri FGHI, ABFI, ADLC e BCLE sono equivalenti. L'esagono ABFGHI è quindi equivalente all'esagono ADLEBC. Ma se togliamo ai due esagoni il triangolo in comune ABC e i triangoli equivalenti CGH e DLE, quanto rimane è ancora equivalente: AB²=AC²+BC². Fig. 29 Molto semplice e bella è anche la costruzione di Nassir - ed - Din che si trova nell'Edizione araba degli Elementi, Roma, 1594. In figura abbiamo ACMN equivalente sia ad AC² che a ADPO. E' quindi ADPO è equivalente ad AC². In modo analogo si vede che BOPE è equivalente a BC². Ricaviamo perciò: AB²= AC²+ BC² Resta da dimostrare, prima di tutto, che il segmento MP passa per i punti C ed O. Fig. 30 Una costruzione del 1778 di Ozanam, riportata da I. Ghersi in Matematica dilettevole e curiosa. Molto semplice ed elegante, da provare con "carta e forbici". Resta poi sempre la dimostrazione dell'equivalenza delle varie parti. Fig. 31 Una scomposizione simile alla precedente. I due quadrati sui cateti sono stati divisi prima con una diagonale e successivamente con due segmenti paralleli all'ipotenusa, uscenti dai vertici dell'altra diagonale. Le otto parti si ricompongono nel quadrato sull'ipotenusa. Fig. 32 Un'altra costruzione che mette in evidenza il teorema di Pitagora. A sinistra, un quadrato avente per lato la differenza dei due cateti di un triangolo rettangolo e quattro triangoli rettangoli equivalenti, di cateti a e b e di ipotenusa c, si compongono nei quadrati dei due cateti. A destra le stesse parti si compongono nel quadrato dell'ipotenusa. Nel Giardino di Archimede, Un museo per la matematica, alle pagine web dedicate a Pitagora, si trova una dimostrazione, simile alla precedente, ma in poesia, trovata pare, nel secolo scorso, da un astronomo dell'osservatorio di Greenwich, G. B. Airy. Fig. 33 La dimostrazione "poetica" di G. B. Airy. Se il lettore osserva la fig. 33, saprà ricavarne immediatamente la dimostrazione: i due triangoli gialli con la parte bianca formano il quadrato dell'ipotenusa, mentre la stessa parte bianca con i due triangoli verdi, equivalenti ai precedenti, formano i quadrati dei cateti, com'è facilmente verificabile. Airy presenta poeticamente la figura in questo modo: I am, as you can see, a² + b² - ab When two triangles on me stand, Square of hypothenuse is plann'd But if I stand on them instead The squares of both sides are read. Tentiamone una traduzione: Come potete veder, son qui: a² + b² - ab Se due triangoli sono sopra di me Il quadrato dell'ipotenusa c'è E se questi di sotto invece stanno I quadrati dei cateti si hanno. Vediamo ancora la dimostrazione trovata nel 1876 da James A. Garfield, ventesimo presidente degli Stati Uniti. Antischiavista, eroe della guerra civile, Garfield venne eletto presidente nel 1880 e avviò subito una campagna contro la corruzione politica, procurandosi per questo molti nemici. Pochi mesi dopo la sua elezione, venne ferito con alcuni colpi di pistola. Fig. 34 James Abram Garfield, 1831 - 1881. A. G. Bell, l'inventore del telefono, tentò di individuare la posizione della pallottola rimasta nel corpo di Garfield con un metal detector di sua invenzione. Ma non si accorse che il letto sul quale giaceva il presidente aveva una rete metallica che disturbava l'uso del suo apparecchio. Il suo intervento fu quindi inutile e il Presidente morì dopo alcuni giorni, anche per colpa dei medici che lo avevano visitato. I grandi medici chiamati a consulto erano riusciti soltanto ad aggravare le sue condizioni per le scarse condizioni igeniche in cui avevano operato. Garfield trovò una dimostrazione inedita del teorema insieme ad alcuni suoi colleghi del Congresso, in un "momento di passatempo matematico". "Pensiamo che su questa dimostrazione - disse - si possano trovare d'accordo tutti i deputati, indipendentemente dalle loro idee politiche". La dimostrazione di Garfield, molto bella, si fonda sul calcolo dell’area del trapezio. In questo caso non dobbiamo costruire alcun quadrato. Fig. 35 La dimostrazione di James A. Garfield, trovata nel 1876. Sull’ipotenusa del triangolo rettangolo ABC viene costruito il triangolo rettangolo isoscele CBE. Si prolunga la retta AC fino ad incontrare in D la perpendicolare tracciata da E. Il triangolo ABC è uguale al triangolo DCE, perciò: AB = DC e AC = DE. Sia l'altezza che la somma delle basi sono x + y e quindi l’area del trapezio ABDE è: Ma l’area dello stesso trapezio è anche uguale alla somma delle aree dei tre triangoli ABC, BCE e CDE: Abbiamo quindi: Se si semplifica, si ottiene la relazione del teorema di Pitagora: x2 + y2 = z2 7. Non solo triangoli Il teorema di Pitagora continua ad essere valido anche se si sostituiscono i triangoli rettangoli con altre figure, ad esempio, triangoli scaleni, pentagoni, esagoni o poligoni irregolari, purché siano sempre figure simili fra loro, conservino cioè la stessa forma e differiscano soltanto per le dimensioni. Fig. 36 Pitagora con i pentagoni. Fig. 37 Pitagora con i semicerchi. Ad esempio, per i pentagoni costruiti sui lati del triangolo rettangolo di figura 36, l'area del pentagono sull'ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei pentagoni sui cateti. In figura 37, per i tre semicerchi costruiti sui lati del triangolo rettangolo, l'area del semicerchio sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei semicerchi sui cateti. Da quest'ultima costruzione si arriva a un risultato molto interessante. Se ribaltiamo il semicerchio sull'ipotenusa (fig. 38) vale sempre naturalmente la relazione precedente: il semicerchio sull'ipotenusa (ribaltato) è equivalente alla somma dei semicerchi sui cateti. Togliamo poi le parti più scure, sia al semicerchio sull'ipotenusa che ai due semicerchi sui cateti. Rimarranno rispettivamente il triangolo e le due parti più chiare la cui somma risulta equivalente all'area del triangolo, perché differenze di aree uguali. Le due figure chiare a forma di luna, vengono chiamate lunule, piccole lune, dal latino lunulae. Nel caso di un triangolo rettangolo isoscele (fig. 39), una lunula è quindi equivalente alla metà del triangolo. In questo modo risulta che una figura rettilinea, il triangolo rettangolo, ha la stessa area di una figura curvilinea, la lunula. Il primo ad aver dato questa dimostrazione pare che sia stato Ippocrate di Chio, nel quarto secolo a. C. Fig. 38 Le lunule di Ippocrate. Fig. 39 Il caso del triangolo rettangolo isoscele. 8. Terne pitagoriche L'altra faccia del teorema di Pitagora. Finora abbiamo parlato dell'aspetto geometrico del teorema, di triangoli rettangoli. Vediamone ora l'aspetto aritmetico, cioè le particolari terne numeriche, chiamate terne pitagoriche, collegate al teorema stesso. Già sappiamo che in un triangolo rettangolo di cateti a, b e di ipotenusa c si ha: a² + b² = c². Esistono infinite terne con numeri interi che soddisfano a questa relazione. Una di queste è 3, 4 e 5. Infatti con questi tre numeri si ha: 3² + 4² = 5². Altre terne sono 5, 12 e 13, 7, 24 e 25, 8, 15 e 17, 20, 21 e 29. Per costruire Fig. 40 Il triangolo rettangolo 3, 4 e 5. un triangolo rettangolo è sufficiente costruire un triangolo con le misure dei lati corrispondenti ai numeri di una delle terne pitagoriche, ad esempio di 3, 4 e 5 unità. Lo possiamo verificare praticamente con una scatola di fiammiferi, costruendo un triangolo che abbia come lunghezza dei lati 3, 4 e 5 fiammiferi. Il triangolo ottenuto avrà sicuramente un angolo retto. C'è un'altra famosa tavoletta del periodo paleobabilonese, nota come Plimpton 322, che dimostra come il problema aritmetico, collegato a quello geometrico del teorema di Pitagora, fosse già noto ben prima dei greci. Questa tavoletta (fig. 41) era originariamente molto più grande, ma la parte conservata permette ancora di interpretare correttamente il significato delle colonne di numeri che presenta. Si tratta infatti di numeri collegati fra loro dalla relazione del teorema, cioè numeri per i quali il quadrato del numero più grande è uguale alla somma dei quadrati degli altri due numeri. A confermarci questa interpretazione sono anche i titoli di ciascuna colonna, in particolare della seconda e della terza: "numero risolvente Fig. 41 La tavoletta babilonese, Plimpton 322. della larghezza" e "numero risolvente della diagonale". I numeri di queste terne corrispondono, naturalmente nel sistema sessagesimale, alle lunghezze dell'ipotenusa e di un cateto di triangoli rettangoli. A questo punto, sembrerebbe logico supporre che il collegamento fra terne pitagoriche e triangoli rettangoli, cioè fra il problema aritmetico e il corrispondente problema geometrico, fosse già noto nell'antichità, ai babilonesi. In realtà la loro geometria era di tipo pratico, non esisteva un pensiero geometrico indipendente dalle più semplici e immediate applicazioni. Scrive in proposito O. Neugebauer nel suo prezioso saggio, Le scienze esatte nell’Antichità, in cui presenta un approfondito studio della tavoletta Plimpton 322: Soltanto in base alla nostra educazione, modellata sull’idea che i Greci avevano della Matematica, siamo portati a pensare immediatamente alla possibilità di una rappresentazione geometrica di rapporti aritmetici o algebrici. Il collegamento fra il problema aritmetico e il corrispondente problema geometrico, cioè fra e terne pitagoriche e triangolo rettangolo non fu probabilmente così immediato. E' difficile pensare che il teorema di Pitagora abbia potuto avere origine dalla conoscenza della terna pitagorica 3, 4 e 5. Una precisa dimostrazione di questo teorema, che possiamo definire l'inverso del Fig. 42 teorema di Pitagora si troverà soltanto in Euclide. Nel primo libro dei suoi Elementi, subito dopo il teorema di Pitagora, proposizione 47, si trova, alla proposizione 48, il teorema inverso: Se in un triangolo il quadrato di un lato è uguale alla somma dei quadrati dei due lati rimanenti, allora l'angolo contenuto dai due lati rimanenti è retto. Noi sappiamo che in un triangolo rettangolo di cateti a, b e di ipotenusa c si ha a² + b² = c². Ma vale anche l'inverso: se a, b e c sono i lati di un triangolo e vale la relazione a² + b² = c², allora il triangolo è rettangolo, a e b sono i cateti e c l'ipotenusa del triangolo. La dimostrazione di Euclide è molto semplice. Se il triangolo dato ABC non fosse rettangolo (fig. 41), costruiamo allora un triangolo rettangolo ACD con AD perpendicolare ad AC e uguale ad AB, di cateti a e b e di ipotenusa d. Applichiamo il teorema di Pitagora al triangolo rettangolo ACD e abbiamo a² + b² = d² ma per ipotesi abbiamo anche a² + b² = c². Ne consegue che c² = d² e quindi c = d. I due triangoli sono uguali per il terzo criterio di uguaglianza e di conseguenza l'angolo BAC dev'essere retto. Ma ritorniamo alle terne pitagoriche. Lo studio delle terne babilonesi sembrerebbe confermare la conoscenza da parte loro delle formule fondamentali per la costruzione delle terne stesse. Sono formule che Fig. 43 L'inverso di Pitagora. tradizionalmente vengono attribuite a Diofanto, un matematico greco vissuto nel terzo secolo dopo Cristo, autore di un'opera famosa, l'Arithmetica, in cui sono raccolti 189 problemi risolti applicando diversi metodi che rivelano la sua straordinaria abilità. Della sua vita non sappiamo nulla, ci è rimasto soltanto un problema di un antico libro greco del quinto secolo d. C.: Dio gli concesse di rimanere fanciullo per un sesto della sua vita, e trascorso un altro dodicesimo, Egli gli coperse le guance di peluria. Dopo un settimo della sua vita Egli gli accese la fiaccola del matrimonio e cinque anni dopo il matrimonio gli concesse un figlio che morì dopo aver raggiunto la metà della vita di suo padre. Dopo aver consolato il proprio dolore con la scienza dei numeri per quattro anni, pose termine alla sua vita. Quanti anni aveva Diofanto quando morì? La risposta alla fine del capitolo. Le formule delle terne pitagoriche, di cui si trova traccia già nella matematica babilonese e che furono riprese da Diofanto sono molto semplici. Dati due numeri interi qualsiasi m e n, con m > n, si ha: a = m² - n² b = 2mn c = m² + n² E' facile verificare che a² + b² = c² , infatti: a² + b² = (m² - n²)² + (2mn)² = m^4 + n^4 - 2m²n² + 4 m²n² = m^4 + n^4 + 2m²n² = (m² + n² )² = c² Le tre formule ci danno quindi tutte le possibili terne pitagoriche a, b e c, tali che a² + b² = c² . Si osservi che moltiplicando a, b e c per uno stesso numero, si ottiene ancora una terna pitagorica, infatti si ottiene ancora un triangolo rettangolo, simile al precedente. Ad esempio, dalla terna 3, 4 e 5 abbiamo 3 x 2, 4 x 2 e 5 x 2 = 6, 8 e 10 3 x 6, 4 x 6 e 5 x 6 = 18, 24 e 30 e queste sono ancora terne pitagoriche. Infatti 6² + 8² = 10² 18² + 24² = 30² Possiamo limitare la nostra ricerca a quelle che si chiamano terne primitive, cioè con a e b primi fra loro, partendo da valori di m e di n primi fra loro. Tutte le altre terne saranno semplicemente multiple di quelle trovate. Ci sono due casi particolari interessanti. Se n = m - 1 si ha b = c - 1 e quindi b e c risultano, in questo caso, numeri consecutivi, la differenza fra c e b sarà sempre uguale a 1. Ad esempio, con m = 2 e n = 1 la terna corrispondente è 3, 4 e 5. Con m = 3 e n = 2 si ha la terna 5, 12 e 13. Provi il lettore a dimostrare questa proprietà delle terne. Se invece si prende per m un valore qualsiasi e n costante, uguale a 1, si otterranno delle terne pitagoriche per le quali la differenza fra l'ipotenusa e il cateto maggiore sarà sempre uguale a 2. Ad esempio con muguale a 6 e n uguale a 1 si ha la terna 12, 35 e 37. Osserviamo ancora che, in generale, la differenza fra il numero più grande e quello più piccolo della terna è uguale al quadrato della differenza fra i due numeri generatori. Ad esempio, con m = 5 n = 2 abbiamo la terna 20, 21 e 29. La differenza fra i due numeri generatori, m e n, è 3 e la differenza fra i due numeri è 29 - 20 = 9. La somma fra il numero più grande della terna e quello più piccolo è invece uguale al quadrato della somma dei due numeri generatori. Nel nostro esempio precedente abbiamo m + n = 5 + 2 = 7 e la somma dei due numeri è 29 + 20 = 49. 9. Oltre le terne pitagoriche. E' logico estendere le terne pitagoriche alla terza dimensione. Per esempio, alla diagonale di un parallelepipedo le cui dimensioni siano a, b e c. In questo caso la diagonale d del parallelepipedo è d² = a² + b² + c². Dalle terne passiamo così alle quaterne pitagoriche. Abbiamo, ad esempio, la quaterna 3, 4, 12 e 13 per la quale si ha 3² + 4² + 12² = 13² Fig. 44 Le quaterne pitagoriche, nelle tre dimensioni. Proviamo ora a passare dalle terne alle cinquine pitagoriche, che definiamo come cinquine di numeri tali che la somma dei primi tre sia uguale alla somma degli ultimi due. Seguiamo per questo un lavoro fatto (... qualche anno fa) da una ragazzina di terza media, Luisa Lanfranco. Dobbiamo trovare una cinquina di numeri a, b, c, d ed e tali che: a² + b² + c² = d² + e² Per risolvere questo problema e trovare le nuove formule, partiamo dalle formule di Diofanto: a = m² + n² b = m² - n² c = 2mn dove m e n sono sempre due numeri qualsiasi, con m maggiore di n, e aggiungiamo due nuove formule: d=c+b e=c-b I cinque numeri calcolati in questo Ad esempio, prendiamo m = 5 e n = 4. modo formano proprio una cinquina pitagorica. a = 5² + 4² = 25 + 16 = 41 b = 5² - 4² = 25 - 16 = 9 c = 2 x 5 x 4 = 40 d = 40 + 9 = 49 e = 40 - 9 = 31 La cinquina 41, 9, 40, 49 e 31 è "pitagorica", infatti: 41² + 9² + 40² = 49² + 31² cioè: 1 681 + 81 + 1 600 = 2 401 + 961 = 3 362 A questo punto abbiamo soltanto accennato alla possibilità di avviare una curiosa e ricca ricerca, oltre le terne pitagoriche. Saprebbe, ad esempio, il lettore trovare le settuple pitagoriche? Dovrebbe cioè scoprire la regola che permette di costruire la settupla a, b, c, d, e, f e g tale che si abbia: a² + b² + c² + d² + e² = f² + g² dati due numeri m e n qualsiasi, con m maggiore di n. La risposta alla fine di questi appunti. 10. Il teorema di Fermat Dalle terne pitagoriche è naturale passare allo studio delle terne di numeri di potenza superiore al due. Come abbiamo visto, un numero quadrato, come ad esempio 25, può essere spezzato nella somma di due quadrati, in questo caso 9 e 16. Ci chiediamo: è possibile spezzare un cubo in due cubi oppure una quarta potenza nella somma di due numeri che siano entrambi quarte potenze? Ad esempio, 27, il cubo di 3, può essere diviso nella somma di due cubi? E' possibile trovare terne di numeri interi che soddisfino alla relazione x^3 + y^3 = z^3 e, in generale x^n + y^n = z^n ? Il protagonista di questa ricerca è stato Pierre de Fermat (1601 - 1665), di professione avvocato, con la passione della matematica. E' stato definito il "principe dei dilettanti", per i risultati straordinari che raggiunse non soltanto nella teoria dei numeri, ma anche in altri campi, come la geometria analitica e il calcolo infinitesimale. Fermat affermò che la scomposizione non è possibile né con i cubi né con qualsiasi altro numero di potenza superiore al due. Sul margine di un libro che stava leggendo, l'Arithmetica di Diofanto, scrisse: Cubem autem in duos cubos, aut quadratoquadratum in duos quadratoquadratos, et generaliter nullam in infinitum ultra quadratum potestatem in duos ejusdem nominis fas est dividere: cujus rei demonstrationem mirabilem sane detexi. Hanc marginis exiguitas non caperet. Non è invece possibile dividere un cubo in due cubi o un quadrato - quadrato in due quadrato - quadrati e in genere nessuna potenza superiore al due in due potenze dello stesso ordine. Di questo ho trovato una splendida dimostrazione, ma la ristrettezza del margine di questo libro non la può contenere. In realtà la sua dimostrazione non venne mai trovata e non siamo nemmeno sicuri che fosse realmente arrivato a scoprirla, ma l'affermazione di Fermat, data la sua autorevolezza, venne presa in seria considerazione da tutti i matematici. Molti si impegnarono nella ricerca di una dimostrazione di quello che venne battezzato l'"Ultimo teorema di Fermat", o meglio, non "teorema" ma "congettura", visto che della dimostrazione non c'era traccia. Fra le carte Fig. 45 Pierre de Fermat (1601 - 1665) di Fermat venne trovata la dimostrazione dell'impossibilità di soluzioni intere di x^n + y^n = z^n per n = 4 e, nel Settecento, Eulero, il celebre matematico svizzero, dimostrò l'impossibilità di soluzioni intere per n = 3. Nell'Ottocento altri matematici, come Legendre e Lejeune - Dirichlet, dimostrarono autonomamente il caso n = 5. Ma la soluzione generale del problema sembrava impossibile. Con l'avvento del computer si iniziò a calcolare pedestremente le terne per valori sempre più alti di n. Negli anni Ottanta del secolo scorso si arrivò a verificare tutti i valori di n fino a 25.000 e in tempi ancora più vicini ai nostri fino a n uguale a 4 milioni. Ma la verifica al computer era inutile, senza una dimostrazione generale non si poteva essere sicuri che il teorema fosse valido per un qualsiasi n. E il fascino per il problema posto da Fermat restava inalterato. Si racconta che, all’inizio del Novecento, un ricco Fig. 46 L'Arithmetica di Diofanto in una edizione industriale tedesco, Paul Wolfskehl, innamorato di francese del 1670, con l'annotazione di Fermat. una donna bellissima che lo aveva respinto, avesse deciso di suicidarsi. Ma qualche giorno prima di attuare il suo folle gesto, aveva iniziato a leggere un libro di matematica che parlava del grande teorema di Fermat. Wolfskehl restò catturato dal teorema e pensando di aver trovato la via della dimostrazione, si buttò a capofitto nello studio della teoria dei numeri, dimenticando la sua bella e i suoi tragici propositi. Anche se non riuscì nella sua impresa matematica, grato a Fermat e al teorema che gli aveva salvato la vita, decise di istituire un premio destinato a chi fosse riuscito a trovare la dimostrazione. Un premio consistente, pari a circa tre miliardi di lire attuali. Secondo un’altra versione, meno romantica, Wolfskehl, scapolo impenitente, all’età di 47 anni venne obbligato dalla sua famiglia a sposare una donna che non amava e che lo rese infelice. Per vendicarsi di lei, decise di lasciare per testamento le sue fortune all’uomo che fosse riuscito a dimostrare il teorema di Fermat, doveroso omaggio alla teoria dei numeri, unica sua consolazione nell’inferno domestico. Il premio venne annunciato nel 1908 e soltanto in quell’anno vennero presentate ben 621 dimostrazioni, tutte sbagliate. Nel 1995, finalmente il premio è stato ufficialmente consegnato ad Andrew Wiles, il matematico inglese che è riuscito nella storica impresa. L’Accademia delle Scienze di Gottinga, responsabile del premio e del controllo delle dimostrazioni, dopo due anni di attente e minuziose verifiche del risultato raggiunto da Wiles ha sciolto ogni riserva, decretando la validità della sua dimostrazione. La svalutazione ha ridotto il premio a trentamila marchi, ma "è molto più importante di un premio Nobel - ha sottolineato Heinz Fig. 47 Andrew Wiles, il matematico Wagner, il presidente dell’Accademia, durante la cerimonia di che ha risolto il teorema di Fermat. premiazione - perché i Nobel vengono assegnati ogni anno, mentre per il Premio Wolfskehl si è dovuto attendere novant'anni". E finalmente Fermat può riposare in pace. Quello che è stato il tormento dei matematici per 260 anni, dal momento in cui venne enunciato nel 1637, noto come l’Ultimo Teorema di Fermat, è risolto, anche se sono in molti a dubitare che Fermat avesse realmente trovato la dimostrazione. Wiles, nato nel 1950, scoprì questo teorema quando aveva soltanto dieci anni, leggendo un libro preso in prestito alla biblioteca. "Sembrava così semplice - ricorda - e tuttavia i grandi matematici del passato non erano riusciti a risolverlo. Era un problema che io, un ragazzo di dieci anni, potevo perfettamente capire. Mi resi conto in quel momento che non lo avrei più abbandonato. Dovevo risolverlo. E all’inizio lo affrontai pensando che Fermat, ai suoi tempi, non doveva certo conoscere più matematica di quella che conoscevo io". Dopo molti tentativi, solo nel 1986, quand’era già docente alla Princeton University, Wiles capì di essere sulla strada giusta. Decise allora di abbandonare ogni lavoro che non fosse collegato all’Ultimo Teorema. Per sette anni visse come un recluso, senza far parola ad alcuno della sua ricerca. Dobbiamo dire francamente che non è questo il modo di lavorare che apprezziamo in un matematico. Riteniamo che ci debba sempre essere collaborazione, scambio di informazioni, ricerche comuni invece di egoistiche chiusure, anche se possiamo comprendere l'ambizione di Wiles, il suo desiderio di raggiungere fama e successo attraverso la soluzione del problema. "Il teorema di Fermat - ricorda ancora Wiles - era l’unico mio pensiero. Il primo quando mi svegliavo al mattino, quello che avevo in mente per tutta la giornata e l’ultimo, al momento di andare a dormire". Unica distrazione i rari momenti dedicati alla moglie e ai tre figli. "Ogni volta che ricorda la sua avventura, quella che definisce l’ossessione della sua vita - dice Simon Singh, autore di un libro di Fig. 48 Andrew Wiles ad una presentazione successo, L'ultimo teorema di Fermat - la sua voce si della sua dimostrazione. affievolisce, diventa esitante, tradendo l’emozione che ancora prova a parlare del problema". Alla fine, convinto di aver trovato la soluzione, nel 1993, decise di renderla pubblica. Televisioni e giornali lo presentarono come "il più grande matematico del secolo", il genio che aveva vinto la grande sfida. Ma la sua odissea matematica non era ancora finita. Quando pensava ormai di potersi concedere un meritato riposo e di godersi il suo momento di gloria, due mesi dopo l’annuncio, venne scoperto un errore nella sua dimostrazione. "Un errore così astratto che non posso descriverlo in modo semplice. Anche se dovessi spiegarlo a un matematico - dice Wiles - dovrei chiedergli di avere la pazienza di studiare per due o tre mesi la parte della mia dimostrazione in cui compare l’errore". Possiamo immaginare lo stato d’animo di Wiles, costretto ad ammettere pubblicamente l’errore. Superata la crisi e sempre convinto della correttezza dei suoi ragionamenti, riprese il suo manoscritto e per due anni, dimostrando una caparbietà e una forza d'animo eccezionali, si ributtò a capofitto sul suo lavoro per cercare di correggere l’errore. Alla fine ripresentò la sua dimostrazione che, con il premio Wolfskehl, ha ricevuto la conferma definitiva. Questa dimostrazione è una relazione di duecento pagine ed è naturalmente escluso che possa essere quella originale di Fermat. Sono molti i matematici, in particolare i dilettanti, che continuano la ricerca per scoprire la prova più semplice che Fermat poteva avere in mente: la storia dell’Ultimo Teorema non è ancora finita.