Dalla prima Guerra Mondiale all`Italia Repubblicana (a

LEZIONI PER UN LIBRO ELETTRONICO1
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Testo a cura del prof. Vito Sibilio e degli alunni della classe V sez. A del Liceo Classico Federico II di
Apricena e risultante dalla realizzazione del progetto omonimo presentato dallo stesso professor Sibilio e
debitamente approvato. I diritti degli autori dei singoli contributi sono tutelati a norma di legge. Il
coordinatore del progetto e gli autori dei contributi riconoscono e rispettano i diritti di proprietà intellettuale
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ogni sforzo per identificare l’autore e il titolare dei diritti sulle immagini pubblicate riportandone l’origine
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referenze fotografiche). La veste grafica dei contributi a cura degli studenti e la loro struttura sono state
scelte da loro stessi.
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LA PRIMA GUERRA MONDIALE
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LA GRANDE GUERRA
Vito Sibilio
1. L’ANTEFATTO
L’ATTENTATO DI SARAJEVO
Nel giugno 1914 scoppiò la scintilla che portò alla grande deflagrazione della Prima Guerra
Mondiale, quella che lo storico greco Polibio avrebbe chiamato profasis. Il tutto accadde a
Sarajevo, che oggi è la capitale della confederazione della Bosnia ed Erzegovina e che allora
era capoluogo delle medesime regioni, da pochi anni annesse all’Impero Austro-Ungarico,
dopo un periodo di amministrazione asburgica fatta in nome del Sultano. La Bosnia
Erzegovina era popolata da tre etnie: i Croati, cattolici e filo austriaci; i Serbi, ortodossi; i
Bosniaci propriamente detti, ossia Serbi o Croati convertiti all’Islam ai tempi del dominio
ottomano. Di queste etnie, la seconda desiderava di essere unita alla Serbia, retta dalla
dinastia dei Karageorgevitch, la quale coltivava il grande sogno di unificare in un solo
grande Stato tutti gli Slavi del sud, la Jugoslavia.
Al servizio di questo progetto era nata l’organizzazione terroristica denominata Mano Nera
o Unione o Morte, la cui base era in Serbia e i cui agenti operavano entro i confini
dell’Impero asburgico. Nel giugno 1914 si tennero in Bosnia le manovre militari;
contemporaneamente entrarono in essa due terroristi, Gavrillo Princip (1894-1918) e
Nedeljko Cabrinovic (1895-1916), il cui compito era quello di assassinare l’erede al trono
imperiale, l’arciduca Francesco Ferdinando (1863-1914), che sarebbe arrivato in visita a
Sarajevo con la moglie Sofia (1868-1914). Era costui un obiettivo politico importante:
nipote dell’anziano imperatore Francesco Giuseppe I (1848-1916), qualora fosse salito al
trono avrebbe rinsaldato il suo traballante Impero elevando al rango di Stato associato la
Croazia, e creando così la Triplice Monarchia (Impero d’Austria, Regno di Ungheria e
Regno di Croazia). In questo modo le nazioni slave del sud non avrebbero avuto motivo di
desiderare di unirsi alla Serbia e il progetto jugoslavo sarebbe stato colpito a morte. I due
attentatori predisposero il piano non senza che il governo serbo di Pietro I (1903-1921) ne
fosse al corrente; esso aveva proibito il loro espatrio, ma dinanzi alla loro disobbedienza, si
limitò ad avvisare l’Austria di un pericolo generico.
Il 28 giugno, alle ore 8, Francesco Ferdinando arrivò in città e si accinse a recarsi in
municipio per un ricevimento. Alle ore 9 la macchina subì un primo assalto da parte di
Cabrinovic che lanciò una bomba che ferì alcuni membri del seguito dell’Arciduca e alcuni
astanti; l’attentatore fu arrestato e l’Arciduca ordinò di procedere con il programma della
visita. Alle 10 si tenne il ricevimento, che terminò alle 11.15; Francesco Ferdinando decise
allora di visitare i feriti all’ospedale militare, senza che i servizi di sicurezza obiettassero
alcunché. Alle 11,28 la macchina ripartì. Per errore il percorso stabilito è abbandonato e
l’autista, titubante, rallentò notevolmente nel prendere una curva. Tra le ali della folla in
quel luogo vi era Princip, scampato all’arresto, che non si fece sfuggire l’occasione e che,
alle 11,30, esplose dei colpi assassinando sia l’Arciduca che la moglie. Si era consumata
una tragedia dinastica e umana, destinata a diventare rapidamente mondiale.
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LO SCOPPIO DEL CONFLITTO
Pochi piansero l’Arciduca scomparso: non Francesco Giuseppe, che non lo amava; non il
ceto dirigente magiaro, che avversava il progetto del Trialismo che avrebbe ridotto i domini
ungheresi. Solo il kaiser tedesco Guglielmo II (1888-1918), che era uno dei pochi amici
dello scomparso, provò un sincero dolore per la sua scomparsa. Eppure l’imperial-regio
governo asburgico si servì dell’omicidio per avanzare delle precise richieste a quello serbo,
ad un mese di distanza dall’evento, quando l’indignazione dell’opinione pubblica si era
quasi esaurita in tutta Europa. Il 23 luglio Vienna inviò un duro ultimatum a Belgrado,
sicura dell’appoggio di Berlino. Il 25 la Serbia accettò tutte le clausole, tranne due che erano
lesive della sua sovranità, implicando il diritto della polizia austriaca sia di dirigere le
indagini che di svolgerle sul territorio serbo; iniziò perciò subito la mobilitazione. Alle
spalle aveva la Russia dello zar Nicola II (1894-1917), che a sua volta contava sull’alleanza
con la Francia del presidente Poincaré (1913-1920), in quei giorni in visita a Mosca col
primo ministro Viviani (1914; 1915).
Lo stesso giorno l’Austria ruppe i rapporti con la Serbia e il 28 le dichiarò guerra.
Probabilmente sperava di concludere rapidamente il conflitto castigando il vicino
meridionale, ma la Russia ordinò la mobilitazione generale il 30, imitata dalla stessa Austria
il 31. Lo stesso giorno la Germania ingiunse alla Russia di smobilitare e chiese alla Francia
una dichiarazione di neutralità; non ottenendo ovviamente né l’una ne’ l’altra cosa, il 1
agosto dichiarò guerra allo Zar e il 3 alla Republique. Il piano tedesco era di una guerra
veloce nel cuore dell’Europa, che non trovasse la Germania sulla difensiva e che giocasse
d’attacco, per cui il 3 agosto l’esercito germanico invase il neutrale Belgio, onde invadere la
Francia da un lato sguarnito; questa violazione del diritto internazionale causò l’ingresso in
guerra della Gran Bretagna di Giorgio V (1910-1936), garante dell’integrità belga sin dal
1831: Londra dichiarò guerra alla Germania il 4 agosto. Il 23 fu il remoto Giappone a
dichiarare guerra alla Germania per impadronirsi delle sue colonie in Cina e in Papua Nuova
Guinea. In ottobre infine l’Impero Ottomano compì atti di ostilità verso la Russia e il 5
novembre quest’ultima assieme a Francia e Inghilterra le dichiararono guerra. Il mondo era
così diviso in due campi: gli Imperi Centrali (germanico e austro-ungarico) con la Turchia e
ad un certo punto anche la Bulgaria e le potenze della cosiddetta Intesa (Francia Inghilterra
e Russia) accanto alla Serbia e al Belgio a cui si sarebbero unite Italia, San Marino,
Portogallo, Romania, Grecia, USA, Cuba, Siam, Panama, Liberia, Cina, Brasile, Guatemala,
Nicaragua, Costa Rica, Haiti e Honduras, oltre ovviamente ai Dominion britannici. Per
molti di questi Stati, la partecipazione fu appena nominale. Ma il dilagare del conflitto
implicava delle cause ben più profonde del semplice attentato.
LE CAUSE DEL CONFLITTO
Polibio avrebbe parlato di aitia della Guerra Mondiale. Le rivalità tra le nazioni erano molto
radicate. Lo scacchiere più intricato era quello balcanico. La Questione d’Oriente era
diventata incandescente con il processo di indipendenza delle nazioni della Penisola. Tra
l’ottobre del 1912 e il maggio del 1913 si era combattuta la Prima Guerra Balcanica, in cui
la Bulgaria, la Grecia e la Serbia avevano sconfitto la Turchia relegandola nella sola Tracia,
dando l’indipendenza all’Albania e accrescendo i loro territori. L’eccessivo rafforzamento
della Bulgaria spinse tuttavia alla Seconda Guerra Balcanica (giugno-agosto 1913), in cui
Serbia, Grecia, Montenegro, Romania e la stessa Turchia attaccarono Sofia costringendola a
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cedere la Macedonia alla Serbia stessa, che divenne la nazione più potente dell’area. La
Serbia poteva contare sull’appoggio russo, che proteggeva le nazioni slave ed ortodosse e
che mirava ad avere uno sbocco al Mediterraneo e a raggiungere gli Stretti, in mano al
Sultano. Ma anche l’Austria-Ungheria mirava ad estendere i suoi domini nei Balcani dove
per secoli aveva combattuto i Turchi e dove ora le sue regioni meridionali erano minacciate
dall’irredentismo serbo e quelle orientali (Transilvania) da quello rumeno. Vienna avrebbe
voluto estendere il suo dominio sulla Serbia e sull’Albania, che le avrebbe permesso di
controllare l’imbocco dell’Adriatico. Questo però la metteva in contrasto con l’Italia, che
aveva le stesse mire e che, sebbene alleata all’Austria e alla Germania nella Triplice
Alleanza dal 1882 (cui aveva aderito per uscire dall’isolamento in cui era precipitata dopo il
contrasto con la Francia per la Tunisia che Parigi aveva conquistato prima di Roma),
desiderava completare l’unità nazionale con il Trentino Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia
e l’Istria, ancora appartenenti agli Asburgo. L’Italia infatti aveva avuto una parte nel
processo di dissoluzione del dominio turco nei Balcani, in quanto proprio dopo la Guerra in
Libia (1911-1912) da essa combattuta contro la Turchia e culminata con delle azioni nel
Mar Egeo e alle porte di Costantinopoli, era scoppiata la Prima Guerra Balcanica. Anche lo
scacchiere adriatico era dunque piuttosto insicuro per l’Europa.
I grandi contrasti però si giocavano nel cuore del continente. La Germania di Guglielmo II
aveva abbandonato la saggia politica di Ottone di Bismarck: il Kaiser aveva preso sotto
tutela l’Austria mirando alla realizzazione del progetto pan germanico, ma la conseguenza
fu che Berlino si mise al servizio delle ambizioni asburgiche nei Balcani, a loro volta
fomentate più dagli Ungheresi che dagli Austriaci. Guglielmo II aveva stracciato il Trattato
di Controassicurazione (1887-1890) che il suo ex Cancelliere aveva firmato con la Russia
per garantirsi la neutralità dello Zar in caso di aggressione da parte della Francia offrendo in
cambio la medesima cosa in caso di attacco austriaco a Mosca. I tedeschi già vagheggiavano
una drang nach osten che mettesse a loro disposizione la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia,
i Paesi Baltici e la Finlandia. In questo modo la Germania aveva spinto la Russia, allora
ancora monarchia assoluta e feudale, ad allearsi con la laicissima e repubblicana Francia,
l’antica rivale irreconciliabile umiliata a Sedan e isolata da Bismarck, così da trovarsi
accerchiata tra due nazioni (Duplice Intesa: 1891-1892). Ma l’errore maggiore della
Germania guglielmina fu la politica di emulazione nei confronti della pur ammiratissima
Gran Bretagna: il varo di una grande flotta, la competizione economica, il dinamismo
impresso alla politica coloniale nei pur modesti e frammentari domini tedeschi d’Africa,
Asia e Oceania spinsero Londra ad avvicinarsi alla Francia mettendo da parte i dissidi
coloniali per il Sudan (Intesa Cordiale del 1904) e poi alla stessa Russia, dalla quale era
divisa da questioni di analogo genere in Asia Centrale (Afghanistan, Tibet) e Medio Oriente
(Iran). Era nata così la Triplice Intesa (1907). L’Europa era dunque divisa in due grandi
blocchi. Alla periferia di essi, l’Impero Turco di Maometto V (1909-1918), retto dal partito
nazionalista dei Giovani Turchi, mirava a recuperare le posizioni perdute nel corso
dell’Ottocento in Medio Oriente a vantaggio degli Inglesi e a vendicare le sconfitte
inflittegli dall’Italia e dagli Stati balcani, nonché ad avanzare nel Caucaso a danno della
Russia. Nell’Africa, completamente spartita tra le grandi potenze, i domini tedeschi
facevano gola alle grandi potenze: il Togo, incastrato tra il Ghana inglese e il Benin
francese; il Camerun, incuneato tra la Nigeria inglese e il Gabon francese; la Namibia, a
ridosso del Sudafrica dominion inglese; la Tanzania col Rwanda e Burundi, che spezzavano
la continuità dell’Impero britannico inserendosi tra Kenya e Malawi. In Estremo Oriente, il
Giappone appena entrato nel novero delle grandi potenze industriali, dopo aver umiliato la
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Russia (Guerra Russo-Giapponese 1905) ed essersi impossessato della Corea e di mezza
isola di Sakhalin, cercava pretesti per mettere piede in Cina, nazione che sarebbe precipitata
in una profonda decadenza dopo la Caduta dell’Impero nel 1911. Tokyo guardava, come
dicevamo, agli avamposti tedeschi in quel Paese, proprio per crearsi una testa di ponte.
Il mondo era stato più volte sulla soglia del conflitto prima del 1914: nel 1905 la Germania
aveva ostacolato le mire francesi sul Marocco (Prima Crisi Marocchina), ma la Conferenza
di Algeciras aveva confermato il protettorato di Parigi su Rabat e quello di Londra
sull’Egitto; nel 1911 una Seconda Crisi Marocchina aveva riproposto il contrasto francotedesco e si era conclusa con la cessione alla Germania di una fetta dell’Africa Equatoriale
Francese, unita al Camerun, senza che però Berlino potesse mettere piede nel Mediterraneo.
Sarebbero state le crisi balcaniche ad offrire, come abbiamo visto, al mondo il pretesto della
guerra.
LA SITUAZIONE DELL’ITALIA
L’Italia era in una situazione particolare; la sua adesione alla Triplice Alleanza era stata di
necessità, ma Roma interpretava in modo restrittivo le clausole, meramente difensive, del
trattato e non si sarebbe mai schierata con Vienna in una guerra offensiva. Quando l’Austria
attaccò la Serbia, l’Italia si dichiarò neutrale e iniziò sondaggi presso il governo di Vienna
per una cessione pacifica delle terre irredente (inizio 1915). Ma Francesco Giuseppe rifiutò
la cessione immediata del Trentino, la correzione dei confini orientali, la cessione di alcune
isole dalmate e la creazione di uno Stato libero a Trieste, dichiarandosi disponibile alla mera
cessione del solo Trentino ma non in tempi immediati, rimandando il resto delle pendenze
alla fine del conflitto. Allora il Governo presieduto da Antonio Salandra (1914-1916),
tramite il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, prese contatti segreti con l’Intesa per un
rovesciamento di fronte, che portarono al Patto di Londra (26 aprile 1915). In esso venivano
promessi all’Italia le terre irredente, la Dalmazia, l’Albania con la città di Valona, la
sovranità sul Dodecaneso occupato dopo la Guerra di Libia, il Bacino carbonifero di Adalya
in Anatolia e una parte delle colonie tedesche in caso di loro spartizione. In cambio l’Italia
doveva entrare nel conflitto aggredendo i suoi alleati. Ciò avvenne il 23 maggio, quando fu
dichiarata guerra all’Austria, ma non alla Germania. Il patto fu concluso sotto gli auspici del
re Vittorio Emanuele III (1900-1946), vero ispiratore della politica estera. Il Parlamento,
una volta messo dinanzi al fatto compiuto, non volle sconfessare il governo proprio per
rispetto del Re. L’opinione pubblica, ostile al conflitto, fu anestetizzata, intimidita e
galvanizzata dalle manifestazioni degli interventisti, nelle quali svolse un ruolo tribunizio
Gabriele d’Annunzio (1863-1939) - col Discorso di Quarto il 5 maggio - e che furono
amplificate e sostenute dalla stampa. Fu questa la prima comparsa in Italia della
maggioranza silenziosa, ossia di una opinione pubblica piegata ad una opinione minoritaria.
In realtà motivi validi e nomi autorevoli contro l’ingresso in guerra ce n’erano a sufficienza.
Contrario era soprattutto Giovanni Giolitti (1842-1928): l’anziano statista sapeva che l’Italia
era troppo debole economicamente e fragile socialmente per affrontare il conflitto – e infatti
dopo di esso il Paese vide l’ascesa del Fascismo proprio per la crisi che ne era derivata –
temeva l’impreparazione delle forze armate e l’inadeguatezza della classe politica; valutava
la lunghezza del conflitto venturo e l’asprezza della regione dove si sarebbe tracciato il
fronte; temeva la potenza dell’Austria. Se fosse stato al governo avrebbe potuto opporsi al
partito nazionalista imperniato sulla Corte e le forze armate e supportato da nazionalisti e
irredentisti, ma siccome si era dimesso per far decantare la crisi economica innescata dalla
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Guerra di Libia, non potè più ottenere l’incarico di formare l’esecutivo proprio per lo
scoppio del conflitto. Egli, duramente attaccato da d’Annunzio, non volle tuttavia opporsi al
Re e fece votare la guerra ai suoi deputati. Ostili alla guerra erano anche i socialisti, che
consideravano tutta la faccenda come funzionale agli interessi borghesi e dannosa per le
rivendicazioni degli operai, che sarebbero stati militarizzati e mandati al fronte. Anche la
Chiesa era ostile all’ingresso in guerra dell’Italia: Benedetto XV (Giacomo Paolo Giovanni
Battista della Chiesa, 1914-1922) ovviamente teneva fermi i principi evangelici della
mitezza e della pace; aveva peraltro a cuore il rischio della rovina dell’ultima potenza
cattolica europea, ossia l’Austria; paventava il trionfo della Russia ortodossa,
dell’Inghilterra protestante e della Francia laicista; temeva la vittoria dell’Italia massonica e
anticlericale che aveva spogliato il Papato del potere temporale e lo ignorava in ogni
maniera; sapeva che l’ingresso nel conflitto dell’Italia lo avrebbe isolato dal resto del
mondo (infatti quando avvenne gli ambasciatori stranieri presso la Santa Sede,a dispetto
della Legge delle Guarentigie e del diritto internazionale, furono espulsi dal governo
italiano e costretti a riparare in Isvizzera). Tuttavia Benedetto XV non si lasciò coinvolgere
nel gioco delle parti, rifiutò la proposta tedesca di una restaurazione del potere temporale in
seguito ad una alleanza morale tra il Papato e gli Imperi centrali e mantenne una strettissima
neutralità che gli permise di svolgere una intensa anche se sfortunata opera di mediazione
diplomatica e una costante dispensazione di aiuti umanitari. I cattolici italiani, dal canto
loro, privi di un proprio partito, erano ostili alle scelte del governo anticlericale e
preoccupati dalle ricadute sociali del conflitto.
Proprio per la sua eterogeneità, questo ampio fronte antinterventista fu soverchiato dal più
piccolo ma compatto schieramento interventista: gli irredentisti che volevano Trento e
Trieste; i nazionalisti che volevano l’espansione del Regno; un socialista eretico che
avrebbe fatto parlare di sé, Benito Mussolini, che espulso dal partito per le sue posizioni,
caldeggiava il conflitto come strumento di riscatto dell’Italia proletaria contro le nazioni
ricche; i liberali conservatori ostili all’Austria e filo francesi; la Corte e il Re legati alla
tradizione risorgimentale antiasburgica e al tradizionale opportunismo politico dei Savoia.
IL CONTESTO CULTURALE
Ma l’affresco delle cause della Guerra sarebbe incompleto se non facessimo riferimento al
contesto culturale. In quest’epoca l’opinione pubblica è mentalmente predisposta in larga
misura all’idea della “guerra come igiene del mondo”. E’ una frase, questa, di Filippo
Tommaso Marinetti (1876-1944), nel Manifesto del Futurismo, ma che anche altri
intellettuali di matrice decadente avrebbero sottoscritto. Persino l’umbratile Pascoli aveva
cantato le gesta della Guerra di Libia. E il lato oscuro del Decadentismo europeo, ossia
l’irrazionalismo, rigurgitava di intellettuali piccoli e grandi che inneggiavano alla forza, alla
violenza, al sangue e alla razza, miti fondativi di una moderna epopea di distruzione. La
filosofia di Nietszche con i concetti di volontà di potenza, di superuomo, di trasmutazione
dei valori, alimentava forme svariate, rozze o sofisticate, di conflittualità esacerbata e di
disprezzo dei tradizionali valori cristiani e liberali dell’Europa. Ciò avveniva sotto traccia,
per cui il veleno della violenza, quando oramai aveva tanto intossicato l’organismo da
causare la guerra, non poteva più essere mitridatizzato. Alla suggestione irrazionalistica
infatti si era affiancata quella del Positivismo e della selezione naturale teorizzata da Charles
Darwin (1809-1882), opportunamente volgarizzata e trasformata in un mezzo che
legittimasse la lotta non solo tra specie animali, ma anche tra uomini e nazioni. In questo
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stesso milieu si era venuta a formare una teoria razzista che dapprima giustificò
l’imperialismo europeo verso le nazioni degli altri continenti e poi la lotta tra le stesse
potenze del Vecchio Mondo tra loro. Se l’ineguaglianza tra le razze umane, a cui Gobineau
(1816-1882) aveva dedicato un celebre saggio, era considerato un dato acquisito dai più
influenti circoli culturali e politici dell’epoca sulla base di considerazioni biologiche e
antropiche, molto controversa era la questione delle relazioni delle nazioni europee tra loro.
La Russia si considerava nazione eletta da Dio e guida per tutti i popoli slavi, che voleva
porre sotto la sua egemonia (panslavismo). La Germania manteneva alta la tradizione
militarista prussiana e vagheggiava la riunificazione dei popoli tedeschi sotto la sua guida
(pangermanesimo). La Gran Bretagna era convinta della propria missione imperiale
concretizzata dal più grande impero coloniale del mondo. La Francia esaltava la propria
missione civilizzatrice e il suo impero coloniale che era il secondo del pianeta. L’Impero
d’Austria conservava gelosamente la sua tradizione di dominio multinazionale e
universalistica. Quello turco si andava evolvendo in forme nazionalistiche miranti ad
assimilare tutti i popoli soggetti. Il Giappone si affacciava alla ribalta del mondo con la
spocchia della nazione che si reputava di origine divina. Gli Stati Uniti si consideravano i
custodi dei valori democratici e i padroni delle Americhe. Persino l’Italia voleva rinverdire i
fasti della romanità e agitava le bandiere dell’irredentismo.
Un cenno particolare merita la questione della concorrenza economica tra gli Stati. La
Guerra mondiale non trovò, come si crede di solito, alimento nel capitalismo, che invece per
la libera concorrenza ha bisogno di pace e unificazione dei mercati. Fu invece la politica
mercantilistica, protezionistica e imperialistica delle nazioni, ossia fu l’idea che i governi
avevano dell’economia ma che non corrispondeva alle leggi classiche enunciate da Adam
Smith a fomentare le ragioni di conflitto. Se le grandi economie – francese ed inglese,
americana e russa – si alimentavano di immensi retroterra coloniali o delle risorse di territori
nazionali senz’altro smisurati e quindi potevano coesistere, peraltro in una articolata
gerarchia sulla quale svettavano i sistemi industriali di Londra e Parigi mentre le faceva da
fanalino di coda quello agricolo di Pietroburgo, il problema che si poneva era quello di
ritagliare un eventuale spazio per potenze emergenti. Era quello che rivendicavano le
nazioni più giovani o più recentemente modernizzate: Italia, Giappone, Turchia e soprattutto
la Germania. Per esse la competizione economica era uno strumento di lotta politica a sua
volta alimentata da una precisa concezione culturale. Fu proprio, in ultima analisi, il
prepotente bisogno di spazio della Germania in seno all’Europa e al mondo a creare gli
squilibri che poi portarono al conflitto. Ragion per cui proprio l’unificazione tedesca del
1870 costituì la ragione remota della Prima Guerra Mondiale, il suo archè.
2. LE VICENDE BELLICHE
IL PRIMO ANNO DI GUERRA: 1914.
La guerra si scatenò nei modi descritti e la Germania applicò il Piano Schlieffen, che
prevedeva di liquidare rapidamente la Francia, redatto già dal 1905-06 e modificato dal capo
di stato maggiore von Moltke (1848-1916): ad occidente l’esercito tedesco lanciò la sua
blitzkrieg o guerra lampo per piegare rapidamente la Francia, perciò invase il Belgio che gli
dava la possibilità di penetrare in Francia tramite pianura e si precipitò fino a 25 km da
Parigi, oltre Senlis, dove i francesi, sotto la guida del generale Joffre (1852-1931), lo
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bloccarono sulla Marna in una violenta battaglia (6-12 settembre). Un mese dopo,
avanzando dalla Somme parallelamente alla Manica, i tedeschi ripresero il piano di separare
i francesi dai rifornimenti inglesi, ma si fermarono ad Ostenda. Iniziò così la guerra di
posizione o di trincea, lungo un fronte di 780 km dal Mare del Nord ai Vosgi in cui si
seppellirono milioni di soldati. Von Moltke fu perciò sostituito da von Falkenhayn (18611922).
Ad oriente invece la guerra fu di movimento e i russi sfondarono le linee austro-tedesche
penetrando in Prussia orientale e in Galizia, per poi essere fermato dal generale Hindenburg
(1847-1943) che passò all’offensiva a Tannenberg e ai Laghi Masuri, scacciando gli
invasori dal Reich (agosto-settembre 1914). Nel novembre, anche la Turchia, come
dicevamo, entrò in guerra a fianco degli Imperi centrali.
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IL SECONDO ANNO DI GUERRA: 1915
L’Inghilterra mandò sul fronte occidentale 80000 uomini e iniziò il blocco economico
navale degli Imperi centrali. La flotta commerciale tedesca sparì dai mari e quella militare
si vide pochissimo, ma i sommergibili U-Boote comparvero silenziosamente silurando le
navi avversarie e quelle, anche di paesi neutrali, che commerciavano con Londra. Si
succedono due offensive francesi e una tedesca senza risultati, mentre nella Battaglia di
Ypres (22.4-25.5) vengono usati per la prima volta i gas venefici.
Sul fronte orientale la Russia fu sbaragliata e respinta dalla Polonia e fino al Golfo di Riga
da due eserciti tedeschi (aprile-maggio); l’ingresso in guerra dell’Italia tuttavia costrinse gli
austriaci a spostare molti uomini sul nuovo fronte alleggerendo la situazione russa. Il 5
ottobre la Bulgaria dichiarò guerra alla Serbia e le sue truppe, con quelle austro-tedesche, la
invasero completamente. Un tentativo franco-inglese di forzare i Dardanelli (25 aprile 1915)
fu sventato dai Turchi in Medio Oriente.
Sul fronte italiano, entrati in guerra che fummo il 23 maggio, tra quella data e il 24 maggio
il nostro esercito, schierato lungo il confine dallo Stelvio all’Adriatico (800 km), marciò
verso gli austriaci sotto la guida di Luigi Cadorna (1850-1928). Furono occupati però pochi
territori (sull’Isonzo, nel Friuli, in Val d’Adige, in Val Sugana, Cortina d’Ampezzo, Grado,
Aquileia, Cervignano, i monti del Sabotino, del Podgora, del Carso, della Bainsizza,
dell’Hermada) fermandosi a qualche km da Monfalcone e Gorizia. Ciò immobilizzò tre
armate austriache sul nostro fronte.
IL TERZO ANNO DI GUERRA: 1916.
Germania e Austria, convinte di avere la vittoria in pugno ad oriente, cercarono di liquidare
l’Intesa ad occidente. Tuttavia non trovarono accordo su quale fronte sferrare l’offensiva
decisiva, per cui i tedeschi attaccarono la Francia a Verdun sulla Mosa il 21 febbraio, dove
si combattè una apocalittica battaglia in cui perirono 700000 uomini senza che gli invasori
potessero prevalere; gli austriaci invece attaccarono l’Italia. Dopo il nulla di fatto di Verdun
i tedeschi scelsero Hindenburg e Ludendorff (1865-1937) come nuovi comandanti in capo e
i francesi nominarono Nivelle (1857-1924). Il 1 luglio gli inglesi sferrrarono una
controffensiva sulla Somme e liberarono la Francia a prezzo di una nuova carneficina di
700000 anglo-francesi e 500000 tedeschi. Dopo questa battaglia i franco-inglesi
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conquistano la superiorità aerea, anche se essa non sarà decisiva per le sorti della guerra. Tra
il 31 maggio e il 1 giugno avvenne l’unica grande battaglia navale anglo-tedesca allo
Jütland, che si concluse senza che i tedeschi, pure in ritirata, venissero sconfitti.
In oriente la Russia col generale Brussilov (1853-1926) invase tra giugno e luglio la Galizia
e penetrò per 130 km in territorio nemico facendo 300000 prigionieri. Incoraggiata dal
successo russo entrò in guerra la Romania contro l’Austria per il possesso della
Transilvania, ma fu rapidamente sconfitta e invasa dalle truppe degli Imperi centrali, che
poterono disporre del petrolio locale (agosto-dicembre). Un secondo tentativo dell’Intesa di
impossessarsi dei Dardanelli fallisce per la resistenza turca (9 gennaio), mentre Suez rimane
in mano inglese nonostante gli attacchi ottomani e i russi penetrano in Armenia e in Persia,
congiungendosi con gli inglesi in Mesopotamia.
Anche sul fronte italiano iniziò in quest’anno la guerra di trincea. Nel maggio, come
dicevamo, l’Austria sferrò la sua strafexpedition o spedizione punitiva contro l’infido ex
alleato per mano del generale Conrad (1852-1925). Il 14 e il 15 maggio vi fu un tremendo
bombardamento sulle nostre linee che preluse allo sfondamento delle stesse da parte degli
austriaci, che volevano prendere alle spalle le armate italiane dislocate sull’Isonzo e sul
Carso, ma il Coni Zugna e il Pasubio, su cui si imperniava la difesa, non caddero e i nemici
furono fermati. Il 6 agosto l’Italia passò all’offensiva e dopo un ennesimo bombardamento
contro gli austriaci scatenò una grande offensiva sull’Isonzo; dopo una sanguinosa serie di
battaglie il 9 agosto Gorizia fu occupata dagli Italiani. Il 28 l’Italia dichiarò guerra anche
alla Germania. In seguito fino all’inverno gli Italiani attaccarono sempre le linee avversarie
sul Carso facendole arretrare. Gli austriaci tuttavia cominciarono ad usare l’aviazione
bombardando Schio, Monza, Milano e Padova.
Nel corso dell’anno si presero da più parti iniziative di pace, in particolare da parte del
presidente americano Thomas Woodrow Wilson (1913-1921), ma senza successo. Gli USA
tuttavia sostenevano economicamente l’Intesa, per cui per essi una sua sconfitta poteva
essere drammatica.
Tra il 1914 e il 1916 la Germania perse tutte le sue colonie in Africa e Oceania invase da
francesi, inglesi e giapponesi. Solo in Tanzania resistette fino alla fine della guerra.
IL QUARTO ANNO DI GUERRA: 1917.
Dopo un così lungo conflitto la Russia era allo stremo e la situazione interna la portò alla
Rivoluzione di Febbraio, che abbattè lo Zar, e a quella di Ottobre, che portò al potere Lenin
(Vladimir Il’ ‘ich Ul’janov 1870-1924) il quale fece uscire la Russia dalla guerra.
Simultaneamente però gli USA entrarono in guerra con l’Intesa: la caduta della Russia
giustificava il loro ingresso come una sorta di santa alleanza delle democrazie contro le
vecchie monarchie dell’Europa e gli interessi economici comuni lo rendevano opportuno.
L’affondamento delle navi neutrali americane (Lusitania e Arabic) da parte dei tedeschi nel
1915 diede il motivo della guerra a Washington. I francesi, in attesa dell’arrivo in forze
degli americani, sferrarono una offensiva ad Arras (9 aprile) ma senza successo. In questa
battaglia gli inglesi adoperarono per la prima volta i carri armati. In quest’anno entrò in
guerra contro gli Imperi centrali anche la Grecia (30 giugno).
Sul fronte italiano il nostro esercito attaccò in massa, con gli alpini in testa, sull’altipiano di
Asiago, sull’Ortigiara e sull’Isonzo da Tolmino al mare. Su di esso 500000 italiani si
abbatterono sugli austriaci con una violenza inaudita ed enormi perdite da entrambi i fronti,
ma con pochissimi risultati. Ciò da maggio a settembre. Esaurita la nostra offensiva, fu
10
l’Austria, con l’aiuto della Germania, che con 200000 uomini il 24 ottobre, dopo il consueto
bombardamento previo, sfondò le linee italiane a Caporetto, dilagando oltre Udine, Belluno
e il Tagliamento. La ritirata italiana fu caotica e i resti dell’esercito si attestarono sul Piave
per ordine del Re. Sul Piave, sull’Asiago e sul Monte Grappa l’esercito italiano fermò gli
invasori entro la metà del mese di dicembre. La sconfitta di Caporetto provocò la caduta del
governo di Paolo Boselli, subentrato a Salandra nel maggio 1916, e sostituito dalla larga
coalizione di Vittorio Emanuele Orlando (1917-1919). Cadorna fu invece rimpiazzato con
Armando Diaz (1861-1928). In generale lo sforzo bellico causò una reazione politica
unitaria in ogni paese, dove si formarono governi di emergenza. La situazione interna era
molto pesante ovunque: le donne lavoravano in fabbrica al posto degli uomini, i viveri erano
razionati, il lavoro congentizzato, gli oppositori zittiti, i disertori puniti severamente e
l’economia orientata allo sforzo bellico. In Francia, dopo l’ammutinamento dei soldati,
Nivelle è sostituito da Pétain (1856-1951), che reprime la rivolta con severità. Il nuovo
governo (1917-1920), retto da Clemenceau, stroncò il disfattismo nel paese. La Gran
Bretagna si era già data un Gabinetto di guerra retto da Lloyd George (1916-1922). In
Germania il cancelliere Michaelis (1917) si scontra con la volontà bellicosa dell’esercito per
cercare accordi con gli avversari. Nella stessa scia si mosse il governo austriaco, che pure
aveva retto con pugno di ferro l’Impero fino alla morte di Francesco Giuseppe avvenuta il
21 novembre del 1916.
Anche in questo anno, infatti, furono fatte proposte di pace, in particolare da Benedetto XV,
in due diversi momenti (26-6 e 1-8), nel secondo dei quali una celebre Nota, che definiva la
guerra “inutile strage”- conteneva sette punti per una pace equa, poi ripresi da Wilson, ma
che nessuno accettò. Il Papa fu in ogni caso attivissimo nell’opera di aiuto alle popolazioni
civili colpite dalla guerra.
IL QUINTO ANNO DI GUERRA: 1918.
L’anno si aprì con alcuni eventi politici di rilievo. Wilson l’8 gennaio pubblicò Quattordici
Punti sulla base dei quali concludere la pace; essi prevedevano l’abolizione dei trattati
segreti, la libertà di navigazione sui mari, la liberalizzazione degli scambi marittimi, la
limitazione degli armamenti, gli accordi in materia coloniale, l’indipendenza del Belgio, la
restituzione alla Francia dell’Alsazia Lorena, la rettifica del confine nazionale italiano,
l’autodeterminazione dei popoli dell’Impero asburgico, di quello zarista e di quello
ottomano, lo sgombero delle nazioni occupate e la nascita di una Società delle Nazioni che
assicurasse la pace mondiale. Era il preludio ad un massiccio impegno USA in guerra.
Gli Imperi centrali tuttavia ottennero un gran successo ad oriente: Lenin sottoscrisse la Pace
di Brest Litowsk (3 marzo) con cui avrebbe ceduto agli Imperi centrali Polonia, Bielorussia,
Ucraina, Estonia, Lettonia, Lituania e Finlandia, e il Caucaso alla Turchia.
I tedeschi avevano fretta e tra la fine di marzo e la metà di luglio scatenarono quattro
offensive sul fronte francese che li portarono a 120 km da Parigi che bombardarono con un
cannone gigantesco. Ma a fine agosto l’Intesa passò ovunque all’offensiva: greci, inglesi e
serbi fuoriusciti costrinsero alla capitolazione la Bulgaria il 30 settembre; inglesi e francesi
fecero lo stesso con l’Impero turco il 31 ottobre. Tutte le forze dell’Intesa sostenute da un
milione di americani sul fronte occidentale attaccarono la Germania i cui eserciti
ripiegarono ordinatamente. Il 9 novembre Guglielmo II abdicò e si rifugiò in Olanda. L’11
novembre lo fece Carlo I d’Asburgo (1916-1918) che si rifugiò in Ungheria. Tra il 10 e l’11
11
novembre, di notte, nel villaggio di Rethondes, il generale Foch (1851-1929), generalissimo
dell’Intesa, e i delegati germanici firmarono l’armistizio in un vagone ferroviario.
Sul fronte italiano la marina silurò e affondò la corazzata Wien ancorata a Trieste il 10
dicembre. Il 10 giugno fu colata a picco la Santo Stefano a Premuda. Una terza offensiva
austriaca si scatenò il 15 giugno sull’Asiago e sul Grappa, per aggirare l’esercito italiano sul
Piave (Battaglia del Piave). Gli austriaci arrivarono al Montello ma il 21 furono ricacciati
dall’agguerrita difesa italiana. L’Austria, travagliata dalla crisi interna, era oramai allo
stremo. Armando Diaz attaccò il 24 ottobre con 500000 uomini sul Grappa e sul Piave. Gli
austriaci resistettero con eroismo fino al 28, quando fu ordinato l’ultimo sforzo dal comando
italiano a Vittorio Veneto, e le linee asburgiche furono sfondate ovunque. Tutto il Veneto fu
riconquistato e il 3 novembre furono occupate Trento e Trieste. l’Italia vinse così la guerra.
L’armistizio fu firmato, assieme alla resa, a Villa Giusti, dagli austriaci con gli italiani.
IL GENOCIDIO ARMENO
La Prima Guerra Mondiale apre drammaticamente il Novecento con una serie di efferatezze
e crudeltà. Di solito si ricorda la durezza e la natura misera della vita di trincea dei soldati,
esposti al logoramento fisico e morale, alle intemperie, all’esaurimento psichico, alle
restrizioni, allo stravolgimento delle leggi morali e civili e naturalmente alla morte. In effetti
essa segnò la vita di milioni di superstiti e fu la tomba a cielo aperto di altrettanti sventurati
che in esse trovarono morti senza senso e spesso senza nemmeno il conforto della sepoltura.
Ma la più mostruosa delle violenze che si perpetrarono durante la Guerra, detta appunto
Grande per la vastità delle sue distruzioni che fino ad allora non avevano eguali, fu il
genocidio degli Armeni, il primo di quelli del XX sec., caratterizzati da una atroce
sistematicità. Il governo ottomano, retto dai Giovani Turchi sin dal 1908 e animato da quel
nazionalismo di cui abbiamo detto, quando scoppiò il conflitto temette che la popolazione
armena, di antichissima origine (VII sec.a.C.) e di veneranda cristianizzazione (I sec.),
potesse schierarsi con i russi e concepì l’atroce disegno di deportare e sterminare in massa
tutti gli armeni, la cui terra era divisa all’epoca tra il Sultano e lo Zar.
Già Abdul Hamid II (1876-1909), detto il Sultano rosso o sanguinario, tra il 1894 e il 1896,
inviò dei reggimenti curdi denominati “Hamidiè” a sterminare la minoranza armena, troppo
consapevole della sua identità nazionale e troppo legata al Cristianesimo. Il missionario
tedesco Johannes Lepsius (1858-1926), testimone oculare, attesta: “2493 villaggi
saccheggiati e distrutti; medesima sorte per 568 chiese e 77 conventi; 646 villaggi convertiti
all’Islam; 191 chierici uccisi barbaramente; 55 sacerdoti convertiti all’Islam; 328 chiese
trasformate in moschee; 546000 persone ridotte alla miseria e alla fame più totali”. Vi
furono poi 300000 morti, 50000 orfani e 100000 rifugiati in Transcaucasia. Queste violenze
continuarono con l’avvento dei Giovani Turchi e del loro triumvirato - composto dai pascià
Talaat (1874-1921), Djemale (1872-1922) ed Enver (1881-1922) - che, pur avendo deposto
il Sultano rimpiazzandolo col fratello, ne continuarono la politica sterminatrice trucidando
nel 1909 30000 armeni di Cilicia. Nella Prima Guerra Mondiale il governo armò i curdi, i
circassi e i ceceni contro gli armeni e creò una struttura centrale, l’Organizzazione Speciale,
che doveva coordinare l’attuazione del massacro. 250000 soldati armeni vennero indirizzati
in “battaglioni di lavoro”.
Nel novembre 1914 venne dichiarata la Guerra Santa. Il 24 aprile 1915 vennero chiuse
scuole, chiese, organizzazioni religiose e le persecuzioni colpirono tutti gli artisti, scrittori,
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giornalisti, liberi pensatori. Nella sola notte del 24 aprile morirono 600 persone: man mano
poi sparirono il clero e la classe politica armena. Molti cristiani, come il vescovo Ignazio
Maloyan, affrontarono il martirio con sereno eroismo. A macchia di leopardo, in tutto il
territorio turco, la popolazione esortata alla Jihad compì violenze atroci sugli armeni sparsi
qua e là. I 250000 soldati armeni smobilitati scavarono le fosse comuni dove furono
seppelliti essi stessi. I Giovani Turchi decisero di legalizzare il “momentaneo trasferimento”
(ossia la deportazione) con la scusa della sicurezza nazionale messa a repentaglio dai
presunti insurrezionalisti armeni. Tutti i beni dei “trasferiti momentaneamente” vennero
incamerati dallo Stato; avvennero violenze inaudite contro donne e bambini. Iniziò poi la
deportazione verso i deserti della Siria e della Mesopotamia settentrionale, in particolare
verso il deserto siriano di Der el Zor. La marcia verso la città di Aleppo (dove avveniva lo
smistamento per il deserto) era orrenda: cadaveri abbandonati e messi l’uno sopra l’altro ai
bordi della strada, uomini impiccati ai pali del telegrafo e agli alberi, bambini gettati in
acque profonde che diventano bersagli per i tiri di fucile e pistole. Il “momentaneo
trasferimento” era segnato dalla denutrizione più totale, dalla disidratazione,
dall’ibernazione, dalle epidemie, dalle vessazioni dei predoni assunti dall’esecutivo turco.
Vi era una sola speranza di salvarsi: convertirsi all’Islam. Convogli di 1000 – 3000 persone,
già privati dei maschi al di sopra dei 15 anni che venivano passati immediatamente all’arma
bianca, si assottigliavano lungo il cammino, da affrontare senza acqua né cibo. I pochi che
arrivavano alla meta erano cosparsi di carburante e bruciati vivi. Nella mattanza generale, lo
sterminio si estese a 125000 assiro-caldei, cristiani di Mesopotamia, deportati e fatti morire
di fame nel nord del Paese, e ai cristiani del Libano, decimati dalla fame.
Il 10 settembre 1915 si levò l’unica voce che chiese pietà per gli innocenti, quella di papa
Benedetto XV, il quale scrisse a Maometto V supplicandolo di porre fine alle violenze, di
punire solo i veri traditori e assicurandolo della fedeltà dei cristiani suoi sudditi. Ma il
Sultano il 10 novembre sostenne la validità della politica del governo, non potendosi
distinguere i traditori veri da quelli potenziali o presunti. Il Pontefice allora fece pressione
sui governi tedesco e austro-ungarico perché persuadessero il Sultano. Ma la violenza potè
essere solo contenuta, non fermata.
Nel 1916 erano morte 1500000 persone, in un’orgia di violenza dissennata: ad esempio
Djevdet Bey, detto anche il maniscalco di Bashkalè, governatore di Van, fece ad esempio
inchiodare i ferri da cavallo ai piedi delle vittime. Chi scampò si rifugiò nell’Armenia
orientale protetta dai russi; erano guerriglieri o bambini e donne aiutati da alcune tribù
curde, arabe o turche dal cuore magnanimo. Una grande avanzata turca, aiutata dalla ritirata
russa causata dal colpo di Stato leninista, venne fermata da una mobilitazione generale
presso Erevan. Alla fine della guerra Mustafà Kemal (1881-1938), giunto al potere, sebbene
avesse deposto il Sultano e si proclamasse laico, si prefisse pubblicamente di cancellare la
presenza armena il 23 aprile 1919. Il massacro a fil di spada o di machete o di arma da
fuoco di 400000 persone fu fermato dall’intervento della Russia sovietica che riprese a
conquistare i territori caucasici. La minoranza armena sopravvissuta emigrò in Cilicia ma
anche lì viene sterminata dalle truppe kemaliste, cosi da doversi spostare poi in Siria e
Libano. In queste circostanze, vagoni ferroviari riempiti di donne e bambini, vennero
ricoperti di carbone ed incendiati. L’ultimo massacro fu del 1922: a Smirne vengono
massacrati greci ed armeni. Le vittime del genocidio armeno furono almeno 2000000.
Nel 1919 i principali responsabili del genocidio vennero condannati in contumacia
(essendosi rifugiati per lo più in Germania). La responsabilità politica del genocidio è stata
accertata dalla Conferenza di pace di Parigi nel 1920. Sebbene ad oggi ancora la Turchia
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non riconosca la propria responsabilità storica, fu questo genocidio ad ispirare Hitler in
quello contro gli Ebrei, sia nelle modalità – oltre a quanto descritto che drammaticamente
anticipa la persecuzione antisemita nazista, gli armeni furono usati anche come cavie umane
di vari esperimenti atroci- sia nella presunta convinzione dell’impunità.
3. L’EUROPA E IL MONDO DOPO LA GRANDE GUERRA
I TRATTATI DI VERSAILLES
L’assetto dell’Europa e del mondo fu deciso in una serie di trattati di pace, conclusi a
Versailles e in altre località poste quasi tutte nelle sue vicinanze, per cui sono conosciuti
genericamente con la denominazione di Trattati di Versailles. La conferenza di pace si aprì
il 18 gennaio 1919 con i delegati delle nazioni vincitrici, sotto la guida di Clemenceau. Il
presidente Wilson aveva tracciato le coordinate morali della pace ma gli interessi delle
potenze vincitrici furono determinanti, sia nella prima fase in cui la direzione delle trattative
fu nelle mani del Consiglio dei Dieci Grandi (ossia capi di governo e ministri degli esteri di
USA, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone) sia quando esse furono gestite dai Quattro
Grandi, ossia Wilson, Lloyd George, Clemenceau e Orlando. Con la Germania fu concluso
il Trattato di Versailles propriamente detto. Ai tedeschi non fu nemmeno concesso di
formulare delle richieste per cui essi considerarono la pace come un diktat, ossia una
imposizione, che sottoscrissero il 28 giugno del 1919.
Il Trattato di Versailles prevedeva condizioni molto dure per la Germania, sebbene fosse il
frutto della conciliazione tra la volontà francese di distruggere il nemico e quella inglese di
indebolirlo solamente, onde salvaguardare in Europa un certo equilibrio. La Germania
dovette restituire l’Alsazia Lorena alla Francia, cederle per quindici anni la regione
carbonifera della Saar – in attesa di un plebiscito che avrebbe deciso la sua sorte definitiva –
evacuare il Belgio e cedergli i distretti di Eupen e Malmédy, restituire alla Danimarca lo
Schleswig –Höllstein, trasferire alla restaurata Polonia la Prussia Occidentale e la Posnania
con parte della Slesia, concedere l’indipendenza alla Città Libera di Danzica (sebbene essa
fosse tedesca, perché doveva fungere di fatto da porto polacco sul Baltico) e consegnare la
città di Memel alla Lituania. In questo modo la Prussia orientale fu separata dal corpo della
Germania, i cui confini orientali furono talmente ritagliati da trasferire milioni di tedeschi
negli Stati vicini così da giustificare poi il revanchismo hitleriano. I tedeschi persero il loro
impero coloniale: in Africa Togo e Camerun andarono alla Francia, Tanzania e Namibia alla
Gran Bretagna, Rwanda e Burundi al Belgio; in Asia lo Shantung passò alla Cina e in
Oceania i possedimenti a Papua e nel Pacifico furono ceduti alla Gran Bretagna. Inoltre la
Germania, che pure non era stata sconfitta in nessuna battaglia, dovette smilitarizzare la riva
sinistra del Reno, che sarebbe stata occupata in tre diverse zone per lassi di tempo di 5, 10 e
15 anni; dovette ridurre l’esercito a 100000 uomini, consegnare la flotta e il materiale
bellico pesante, smantellare le fortezze sulla destra del Reno per 50 km, sciogliere il suo
quartier generale e internazionalizzare la navigazione sui grandi fiumi interni (Reno,
Danubio, Elba, Oder). La Germania fu riconosciuta colpevole di aver scatenato il conflitto e
costretta ad un indennizzo di 269 miliardi di marchi oro da pagarsi in quarantanove anni,
con una conseguente inflazione che atterrò l’economia tedesca, causò l’insolvenza del
debito e diede pretesto all’occupazione della Ruhr da parte di Belgio e Francia in attesa del
pagamento. Dovette altresì consegnare la maggior parte del naviglio mercantile. Il paese,
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pur mantenendo la denominazione di Reich, divenne una repubblica, mentre l’ex kaiser e i
suoi collaboratori dovettero subire l’onta del processo per crimini di guerra.
Con l’Austria fu firmato il Trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919) e con
l’Ungheria quello del Trianon (4 giugno 1919). Con essi l’antico e glorioso Impero
asburgico, modello di convivenza multietnica e baluardo dell’ordine nella mitteleuropa, fu
smantellato impietosamente. L’Austria, divenuta repubblica, fu ridotta ad un piccolo stato
tedesco a cui però fu vietato di unirsi alla Germania, formato dall’Austria propriamente
detta, dalla Stiria, dalla Carinzia e dal Tirolo settentrionale; fu privata di sbocco al mare e
mantenne una capitale, Vienna, ipertrofica rispetto al corpo del paese; le fu poi imposta una
forte riduzione degli effettivi dell’esercito. La stessa sorte fu assegnata all’Ungheria, che
perse l’accesso al mare, mantenne una capitale troppo grande – Budapest -, ridusse
drasticamente le forze armate, dovette cedere la Transilvania e la Voivodina, con forti
minoranze magiare, rispettivamente alla Romania e alla Jugoslavia. Quest’ultima e la
Cecoslovacchia furono le principali e ibride creazioni del dopoguerra. La prima fu costituita
unendo alla Serbia la Bosnia Erzegovina, la Croazia e la Slovenia, più il Montenegro che fu
abolito. Lo stato fu sempre instabile per i contrasti tra serbi e croati. La seconda nacque con
l’unione della Boemia Moravia con la Slovacchia, così da far convivere cechi e slovacchi,
più una forte minoranza tedesca nei Sudeti. Il paese fu stabile per i suoi ordinamenti
democratici. Il resto dell’Impero asburgico fu ceduto alla Polonia (Galizia) e all’Italia
(Trentino, Alto Adige o Tirolo meridionale, Friuli Venezia Giulia e Istria).
Con la Bulgaria fu siglato il Trattato di Neuilly (27 novembre), per cui essa cedette la Tracia
alla Grecia, perdendo l’accesso all’Egeo, mentre ridusse il numero dei suoi effettivi nelle
forze armate. I trattati crearono quindi alcuni stati che avrebbero cercato la rivincita nella
Seconda Guerra Mondiale, oltre che una grande instabilità nei Balcani.
La Conferenza di pace riconobbe anche gli stati indipendenti sorti sulle rovine dell’Impero
russo: Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia, Finlandia. La prima ebbe al suo interno forti
minoranze (piccoli russi e ucraini ad oriente, tedeschi ad occidente) che patirono alcune
discriminazioni a causa del nazionalismo polacco. Tutte queste nazioni, assieme a
Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Turchia, costituirono un cordone sanitario di stati
antibolscevichi che doveva isolare la Russia e impedire il contagio rivoluzionario agli altri
Stati.
Con la Turchia fu concluso il Trattato di Sèvres il 10 agosto 1920. Esso impose
l’internazionalizzazione degli Stretti; la cessione della Tracia delle Isole egee e di Smirne
alla Grecia; della Siria, del Libano e della Cilicia alla Francia; dell’Iraq della Palestina e
della Transgiordania di Cipro alla Gran Bretagna; delle coste arabe all’Arabia Saudita; del
Dodecaneso all’Italia; l’indipendenza dell’Armenia e la riduzione dell’esercito a pochi
effettivi. L’Impero Ottomano veniva smantellato ma le aspirazioni unitarie della nazione
araba non vennero soddisfatte, mentre Siria, Libano, Iraq, Palestina e Transgiordania furono
eretti in mandati, ossia in territori concessi in amministrazione alle potenze europee,
travestendo così una ennesima loro espansione coloniale.
Considerando troppo onerosa questa Pace, dopo la rivoluzione di Mustafà Kemal che
abbattè il Sultanato la nuova Repubblica turca combattè e vinse la Guerra greco-turca
(1920-22), recuperò la Tracia e siglò la Pace di Losanna (1923), con cui riebbe l’Armenia,
la Cilicia e gli Stretti. In seguito a questo, centinaia di migliaia di profughi ai confini
cambiarono forzatamente nazione.
Una menzione particolare meritano le vicende dell’Italia. Essa aveva ottenuto i territori
irredenti, ma rivendicava anche Fiume, che non le era stata concessa nel Patto di Londra pur
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essendo una città italiana. Wilson avrebbe voluto che l’Italia rinunciasse alla parte interna
dell’Istria, popolata da croati e sloveni, per avere la città ma Orlando voleva l’una e l’altra.
Il risultato fu l’abbandono per protesta della Conferenza da parte di Orlando e Sonnino. Essi
speravano che l’Intesa si sarebbe piegata, e invece i Grandi si spartirono in assenza
dell’Italia le colonie tedesche, mentre le pretese di Roma sull’Albania e sulla Dalmazia non
furono tenute in conto; anche il bacino di Adalya in Anatolia le fu negato. Quando Orlando
e Sonnino, resisi conto dell’errore, ritornarono ai lavori, la situazione si era cristallizzata.
Nel Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) l’Italia, dopo diverse vicende, riconobbe Fiume
come città libera, esattamente come era stato deciso a Versailles, per non assegnarla né a
Roma ne’ alla Jugoslavia. Anche l’Italia fu così arruolata nell’esercito degli scontenti e si
cominciò a parlare di vittoria mutilata, creando i presupposti del nazionalismo fascista.
Anche il Giappone fu deluso dall’esito del conflitto, perché dovette cedere lo Shantung
tedesco alla Cina, di cui faceva parte storicamente.
La più grande e nel contempo fallimentare realizzazione di Versailles fu la Società delle
Nazioni (24 aprile 1919): essa riuniva molti stati allo scopo di scongiurare i conflitti e aveva
la sua sede a Ginevra. Ma in essa ebbero da subito un gran peso Francia e Gran Bretagna,
mentre gli USA, che pure l’avevano promossa, non vi aderirono, perché il successore di
Wilson, Harding (1921-1923) capovolse la politica del predecessore. Perciò la Società ebbe
poca influenza e modesto prestigio, dando sempre scarsa prova di sé – ad essa non fu
ammessa subito nemmeno la Germania.
4.CRONOLOGIA
1914
28 giugno L'Arciduca d'Austria Francesco Ferdinando è assassinato a Sarajevo (Bosnia).
1 luglio Il generale Luigi Cadorna diventa Capo di Stato Maggiore Italiano.
23 luglio Ultimatum austriaco alla Serbia.
28 luglio L'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.
1 agosto La Germania dichiara guerra alla Russia.
2 agosto L’Italia dichiara la propria neutralità.
3 agosto La Germania dichiara guerra alla Francia e invade il Belgio.
4 agosto La Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania.
5 agosto L'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Russia e il Montenegro dichiara guerra all'AustriaUngheria.
6 agosto La Serbia dichiara guerra alla Germania.
12 agosto La Gran Bretagna dichiara guerra all'Austria-Ungheria.
23 agosto Il Giappone dichiara guerra alla Germania.
5 settembre Gran Bretagna, Francia, Russia si impegnano a Londra a non concludere patti separati con gli
Imperi centrali.
6-12 settembre Nella battaglia della Marna i tedeschi devono ritirarsi.
29 ottobre La Turchia attacca la Russia.
2 novembre La Russia dichiara guerra alla Turchia.
2 novembre Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra alla Turchia.
8 dicembre Battaglia navale alle Falkland tra tedeschi ed inglesi.
1915
6-8 gennaio Volontari garibaldini italiani combattono nelle Argonne a fianco dell'Intesa.
21 febbraio In varie città italiane scontri tra interventisti e neutralisti.
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9 marzo Promessa austriaca all'Italia di cessione del Trentino.
26 aprile Patto di Londra con cui l'Italia si impegna ad entrare in guerra a fianco dell'Intesa entro un mese.
3 maggio Denuncia da parte dell'Italia del trattato della Triplice Alleanza firmato con Austria e Germania.
23 maggio L'Italia dichiara guerra all'Austria.
24 maggio Inizio delle operazioni belliche sul fronte italiano.
23 giugno-7 luglio Prima battaglia dell'Isonzo.
18 luglio-4 agosto Seconda battaglia dell'Isonzo.
21 agosto L'Italia dichiara guerra alla Turchia.
6 settembre La Bulgaria si allea con gli Imperi Centrali e la Turchia.
6 ottobre La Serbia viene invasa da forze austriache, tedesche e bulgare.
14 ottobre La Bulgaria entra in guerra a fianco degli Imperi Centrali.
18 ottobre-4 novembre Terza battaglia dell'Isonzo.
19 ottobre L'Italia dichiara guerra alla Bulgaria.
10 novembre-5 dicembre Quarta battaglia dell'Isonzo.
30 novembre Accordo di Londra tra Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Russia a non concludere pace
separata con gli Imperi Centrali.
6 dicembre Riunione delle forze dell'Intesa a Parigi.
1916
11 gennaio Offensiva austriaca nel Montenegro.
21 febbraio-24 giugno Battaglia di Verdun.
23 febbraio Gli italiani abbandonano Durazzo.
9 marzo La Germania dichiara guerra al Portogallo.
11-19 marzo Quinta battaglia dell'Isonzo.
27-29 aprile Conferenza interalleata a Parigi.
15 maggio Offensiva austriaca sull'altopiano di Tonezza e Asiago.
31 maggio Battaglia navale dello Jutland tra inglesi e tedeschi.
10 giugno In Italia, dimissioni del governo Salandra, nuovo governo presieduto da Paolo Boselli.
16 giugno Inizio della controffensiva italiana sugli altipiani.
12 luglio A Trento, Cesare Battisti e Fabio Filzi sono impiccati dagli austriaci.
4-17 agosto Sesta battaglia dell'Isonzo. Gorizia è conquistata dagli italiani l'8 agosto.
10 agosto Nazario Sauro viene impiccato dagli austriaci a Pola.
27 agosto La Romania dichiara guerra all'Austria-Ungheria. L’Italia dichiara guerra alla Germania.
29 agosto Von Hindenburg subentra a von Falkenhayn nella carica di Capo di Stato Maggiore Generale
tedesco.
1 settembre La Bulgaria dichiara guerra alla Romania.
14-17 settembre Settima battaglia dell'Isonzo.
9-12 Ottobre Ottava battaglia dell'Isonzo.
1 novembre Nona battaglia dell'Isonzo.
7 novembre Wilson è rieletto presidente degli Stati Uniti.
15-16 novembre Conferenza interalleata a Chantilly (Francia).
22 novembre A Vienna muore l'Imperatore Francesco Giuseppe. Gli succede il pronipote Carlo I.
6 dicembre Lloyd George diventa primo ministro britannico. I tedeschi occupano Bucarest.
1917
6-8 gennaio Conferenza interalleata a Roma.
1 febbraio La Germania dichiara guerra sottomarina ad oltranza.
3 febbraio Rottura delle relazioni diplomatiche fra Stati Uniti e Germania.
3 marzo Arz von Straussenburg sostituisce Conrad von Hotzendorff nella carica di capo di stato maggiore
dell'esercito austro-ungarico.
8 marzo Iniziano movimenti rivoluzionari in Russia (23 febbraio secondo il calendario russo).
15 marzo Abdicazione dello zar Nicola II di Russia. Formazione di un governo provvisorio.
6 aprile Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania.
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12 maggio-6 giugno Decima battaglia dell'Isonzo.
29 aprile Pétain diventa capo di stato maggiore dell'esercito francese.
3 giugno L'Albania si proclama indipendente, sotto la protezione dell'Italia.
10-29 giugno Battaglia dell'Ortigara.
26 giugno Sbarca in Francia il primo contingente statunitense.
27 giugno La Grecia entra in guerra a fianco dell'Intesa.
25 luglio Conferenza interalleata a Parigi.
1 agosto Appello del papa Benedetto XV contro «l'inutile strage».
7-8 agosto Conferenza interalleata a Londra.
18 agosto-12 settembre Undicesima battaglia dell'Isonzo. Conquista dell'altopiano della Bainsizza.
24 ottobre Dodicesima battaglia dell'Isonzo. Gli italiani sono travolti tra Plezzo e Tolmino a Caporetto.
8 novembre Armando Diaz sostituisce Luigi Cadorna nella carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito
italiano.
27-31 ottobre Attacchi austro-tedeschi sull'altopiano di Asiago, sul Grappa e sul Piave.
26 novembre ll governo provvisorio russo chiede agli Imperi Centrali l'apertura di negoziati di pace.
7 dicembre Gli Stati Uniti dichiarano guerra all'Austria-Ungheria.
9 dicembre La Romania firma l’armistizio con Austria e Germania.
15 dicembre Armistizio di Brest-Litovsk tra Russia e Germania.
1918
8 gennaio Il presidente degli Stati Uniti Wilson enuncia i suoi "14 punti" per la pace mondiale. 27-29
gennaio Controffensiva italiana sugli altopiani.
3 marzo Trattato di Brest-Litovsk tra Russia e Imperi Centrali.
21 marzo Offensiva tedesca in Francia.
26 marzo Il generale francese Foch è nominato comandante supremo delle forze alleate.
8 maggio Trattato di pace di Bucarest tra Romania e Imperi Centrali.
15-23 giugno Battaglia del Piave o del Solstizio. Gli austriaci sono respinti.
15-26 luglio Seconda battaglia della Marna.
16 luglio Lo zar Nicola II è ucciso con la sua famiglia a Ekaterimburg dai rivoluzionari.
9 agosto Gabriele d'Annunzio, con una formazione di sette aerei SVA, vola su Vienna lanciando manifestini
di propaganda.
14 settembre Gli austriaci cercano di aprire trattative di pace.
26 settembre Offensiva generale alleata sul fronte occidentale.
29 settembre Armistizio di Salonicco tra Bulgaria e l'Intesa.
3 ottobre In Germania il principe Max di Baden è nominato cancelliere.
4 ottobre Vittoria alleata sulla linea Hindemburg.
24-30 ottobre Battaglia di Vittorio Veneto.
29 ottobre Ammutinamenti nella flotta tedesca. L'Austria offre la resa incondizionata.
30 ottobre La Turchia firma l'armistizio con l'Intesa a Mudhros. Tumulti rivoluzionari a Vienna, viene creato
un Consiglio Nazionale Provvisorio per trattare la pace con l'Intesa.
2 novembre La corazzata austriaca Viribus Unitis è affondata nel porto di Pola da nuotatori d'assalto della
marina italiana.
3 novembre Reparti italiani entrano a Trento e Trieste. Armistizio tra Italia e Austria-Ungheria a Villa Giusti,
presso Padova.
4 novembre Movimenti rivoluzionari in Germania.
6 novembre Proclamazione della repubblica Polacca.
9 novembre ll Kaiser Guglielmo II abdica. Nasce a Berlino la Repubblica tedesca.
11 novembre A Rethondes armistizio tra l'Intesa e la Germania. Carlo I d'Austria rinuncia al trono.
12 novembre Proclamazione della Repubblica austriaca.
14 novembre Proclamazione della Repubblica cecoslovacca.
16 novembre proclamazione della Repubblica ungherese.
21 novembre La flotta d'alto mare tedesca si consegna agli inglesi a Scapa Flow.
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APPROFONDIMENTO
Matteo d’Avena
Battaglia di Caporetto
La “Battaglia di Caporetto” o “Dodicesima battaglia dell’Isonzo” venne combattuta tra
l’Esercito Italiano e l’Esercito Austro-Ungarico e Tedesco.
La battaglia iniziò il 24 Ottobre 1917 e rappresenta la disfatta più grave della storia
dell’Esercito Italiano.
DATA: 24 ottobre – 12 Novembre 1917
LUOGO: Valle del fiume Isonzo, nei pressi di Caporetto, oggi in Slovenia
ESITO: Vittoria Austro - Ungarico - Tedesca. Ritirata delle truppe italiane fino al Piave
Schieramenti
Regno D’Italia
Comandanti
Luigi Cadorna
Luigi Capello
Effettivi
257400 Soldati
1342 Cannoni
Perdite
Dai 10000 ai 13000 Morti
30000 Feriti
265000 Prigionieri
Oltre 1 milione di profughi civili.
Ordini di Battaglia
Austria – Ungheria
Germania
Otto Von Below
Svetozar Borojevi von Bojna
Ferdinand Kosak
353000 Soldati
2518 Cannoni
50000 tra morti e feriti
Germania e Impero austro-ungarico
14ª Armata
Di seguito l'ordine di battaglia della 14ª Armata austro-ungarico-tedesca:
Per quanto riguarda la 14ª Armata e le divisioni tedesche che vi militavano, tre (la 1ª, la 50ª
e la 55ª) già si trovavano nella zona delle operazioni, mentre la 3ª Edelweiss e la 22ª
Schützen vennero fatte arrivare dal Trentino; queste unità, assieme all'Alpenkorps, erano già
avvezze alla guerra in montagna in quanto avevano combattuto nei Vosgi, in Macedonia e
nei Carpazi. La 12ª slesiana e la 26ª dovettero invece essere addestrate a combattere nel
nuovo tipo di terreno, mentre la 4ª, la 5ª, la 13ª, la 33ª, la 117ª e la 200ª provenivano dal
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fronte orientale. A guardare solo gli elementi che entrarono in azione il 24 ottobre (escluse
le riserve e la divisione Jäger, che per molti giorni non partecipò ai combattimenti), la forza
complessiva degli austro-ungarici-tedeschi era di 353.000 uomini, 2.147 cannoni e 371
bombarde.
Comandante in capo: “Generale di Fanteria” Otto Von Below
Capo di Stato Maggiore: “Tenente Generale” Konrad Krafft Von Dellmensingen
Comandante D’Artiglieria: “Maggior Generale” Richard Von Berendt
Schieramento: Dal monte Rombon a Gorenji Log
In prima linea:
-I Corpo Austro-Ungarico (Gruppo KRAUSS – Generale di Fanteria Alfred Krauß)
-Li Corpo Bavarese (Gruppo STEIN – Tenente Generale Hermann Freiherr von Stein)
-XV Corpo Tedesco (Gruppo BERRER – Tenente Generale Albert von Berrer)
-Riserve d’Armata ed altre unità furono assegnato successivamente alla 14ª Armata.
Forza stimata totale (solo compagnie fucilieri, escluse le compagnie mitragliatrici e i
servizi):
98.400
unità
Battaglioni:
164
(di
cui
65
tedeschi)
Artiglieria: 1.759 pezzi di cui 1.250 piccoli calibri, 396 medi calibri, 32 grossi calibri, 81 in
posizione fissa oltre a 44 compagnie lanciamine. Erano disponibili anche 4.000
mitragliatrici circa.
2ª Armata dell'Isonzo
Di seguito l'ordine di battaglia della 2ª Armata dell'Isonzo (Gruppo Kosak):
Comandante in capo: “Luogotenente Maresciallo” Ferdinando Kosak
Capo di Stato maggiore: “Tenente Colonnello” Walter Slameczka
Schieramento: Da Gorenji Log a rni Kal
Forza stimata totale (solo compagnie fucilieri, escluse le compagnie mitragliatrici e i
servizi):
21.600
unità
Battaglioni:
36
Artiglieria: 424 pezzi di cui 320 piccoli calibri, 96 medi calibri, 8 grossi calibri, oltre a 23
compagnie lanciabombe.
Italia
20
Sul fronte dell'Isonzo Cadorna aveva a sud (destra) la 3ª Armata comandata dal duca
d’Aosta costituita da quattro corpi d'armata, e a nord (sinistra) la 2ª Armata, comandata dal
generale Luigi Capello e costituita da ben otto corpi d'armata. Lo sfondamento avvenne sul
fianco sinistro della 2ª Armata tra Tolmino e Plezzo. Tale parte di fronte era presidiata a sud
tra Tolmino e l'alta valle dello Judrio, dalla 19ª Divisione del maggior generale Giovanni
Villani, dalla brigata “Puglie” e dal X Gruppo alpini del XXVII Corpo d'armata di Pietro
Badoglio, mentre a nord da Gabria fino a Plezzo dal IV Corpo d'armata del tenente generale
Alberto Cavaciocchi. Incuneato tra i due corpi d'armata e in posizione più arretrata era stato
disposto molto frettolosamente anche il debole VII Corpo d'armata comandato dal maggior
generale Luigi Bongiovanni.Se si prendono in considerazione i soli reparti interessati
dall'offensiva di von Below e di Kosak, si trattava di 257.400 uomini appoggiati da 997
cannoni e 345 bombarde.
2ª Armata
Di seguito l'ordine di battaglia della 2ª Armata italiana:
Comandante in capo: “Tenente Generale” Luigi Capello
Capo di Stato maggiore: “Colonnello Brigadiere” Silvio Egidi
Schieramento: Dal monte Rombon al fiume Vipacco
In prima linea:
-IV Corpo d’Armata (“Tenente Generale” Alberto Cavaciocchi)
-XXVII Corpo d’Armata (“Tenente Generale” Pietro Badoglio)
-XXIV Corpo d’Armata (“Tenente Generale” Enrico Caviglia)
-II Corpo d’Armata (“Maggior Generale”Alberto Albricci)
-VI Corpo d’Armata (“Tenente Generale” Luigi Lombardi)
-VIII Corpo d’Armata (“Maggior Generale” Francesco Saverio Grazioli)
In seconda linea:
-VII Corpo d’Armata (“Maggior Generale” Luigi Bongiovanni)
-XIV Corpo d’Armata (“Tenente Generale” Pier Luigi Sagramoso)
-XXVIII Corpo d’Armata (“Maggior Generale” Alessandro Saporiti)
-Riserve del Comando Supremo
21
Forza stimata totale (servizi compresi): 667.017 uomini di cui 20.222 ufficiali e 646.795
uomini
di
truppa
Battaglioni:
353
(dei
quali
17
alpini,
24
bersaglieri)
Artiglieria: 2.430 pezzi di cui 1.066 piccoli calibri, 1.296 medi calibri, 68 grossi calibri.
Fasi preparatorie
Quando gli austro-ungarici chiesero aiuto, il capo di Stato Maggiore tedesco, Paul von
Hindenburg e il suo vice Erich Ludendorff, acconsentirono a inviare al fronte italiano il
generale Konrad Krafft von Dellmensingen per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6
settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria,
Dellmensingen tornò in Germania per approvare l'invio degli aiuti. Già l'11 settembre Otto
von Below fu posto a capo della nuova 14ª Armata e fu nominato suo capo di Stato
Maggiore lo stesso Dellmensingen. Venne chiarita con l'alleato austriaco la strategia da
adottare: un primo sfondamento sarebbe dovuto avvenire a Plezzo, con direzione Saga e
Caporetto, per conquistare monte Stol e puntare verso l'alto Tagliamento;
contemporaneamente da Tolmino si sarebbe dovuto risalire l'Isonzo fino a Caporetto, per
imboccare la valle del Natisone fino a Cividale del Friuli; un altro attacco frontale sarebbe
partito invece contro il massiccio dello Iessa per impossessarsi successivamente di tutta la
catena del Colovrat, da cui era possibile dominare la valle dello Judrio, accerchiando
l'altopiano della Bainsizza e spingendosi fino al monte Corada. Gli spostamenti di truppa
dovevano essere effettuati con la massima segretezza e l'inizio delle operazioni era previsto
per il 22 ottobre, ma alcuni ritardi di approvvigionamento posticiparono la data alle 2:00 del
24. L'Ufficio I (il servizio di intelligence italiana del periodo) intanto monitorava
l'accrescersi degli eserciti avversari, e ne teneva informato costantemente Cadorna, anche se
non riuscì a stabilire con certezza il luogo dell'offensiva, ipotizzando però che sarebbe
partita tra Plezzo e Tolmino, come effettivamente fu. Il 20 ottobre un tenente boemo si
presentò al comando del IV Corpo d'armata con informazioni dettagliate sul piano d'attacco
di von Below, che per lui sarebbe iniziato, forse, sei giorni dopo. Il 21 ottobre due disertori
rumeni informarono gli italiani che i loro ex camerati avrebbero attaccato presto prima a
Caporetto e poi a Cividale del Friuli, specificando anche la preparazione di artiglieria che
avrebbe preceduto l'attacco, ma i comandi italiani non ritennero affidabili le loro
informazioni. Il giorno successivo Cavaciocchi emanò disposizioni per demolire i ponti
sull'Isonzo facendo inoltre spostare il comando a Bergogna; venne bombardato il comando
della 2ª Armata a Cormons, che si trasferì a Cividale del Friuli dovendo ricollegare da zero
tutte le linee telefoniche, e lo stesso fece Badoglio stabilendosi a Cosi, da dove iniziò a
trasmettere ordini alle sue divisioni. Non era a conoscenza però che i tedeschi avevano di
nuovo individuato la sua posizione grazie alle intercettazioni telefoniche, e avevano già
puntato, senza sparare, i cannoni sulle nuove coordinate. Alle 13:00 venne intercettata una
comunicazione tedesca in cui si fissava l'avvio dell'offensiva per le ore 2:00 del giorno
dopo; così alle 14:00 Cadorna, Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi e Caviglia
(XXIV Corpo d'armata) si riunirono per chiarire la situazione, ma l'atmosfera fu positiva in
quanto il brutto tempo fece sperare in un rinvio dell'attacco nemico.
Sfondamento delle Linee Italiane
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Alle ore 02:00 del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-ungariche-tedesche iniziarono a
colpire le stazioni italiane dal monte Rombon, alternando lanci di gas a granate
convenzionali. Alle ore 06:00 il tiro cessò, riprendendo dopo mezz’ora, ma contrastato dai
cannoni del IV Corpo d’Armata, mentre il tiro di quelli del XXVII, a causa della distruzione
delle linee di collegamento non riuscirono ad attaccare in modo ordinato e preciso. Alle ore
08:00, i fanti di von Below si avvicinarono alle posizioni italiane protetti dalla nebbia molto
fitta, andando all’assalto salvo sul Passo Della Moistrocca e sul monte Vrata dove, a causa
di una bufera di neve che imperversava, l’attacco fu rimandato di circa un’ora e mezza.
Metà della 3ª Edelweiss si scontrò con gli alpini del gruppo Rombon che la respinsero,
mentre l'altra metà, assieme alla 22ª Schützen, riuscì a superare gli ostacoli nel punto dove
era stato lanciato il gas sconosciuto, ma vennero fermate dopo circa 5 km dall'estrema linea
difensiva italiana posta a protezione di Saga, dove stazionava la 50ª Divisione del generale
Giovanni Arrighi. Alle 18:00 questi, evacuò Saga ripiegando sulla linea monte Guarda monte Prvi Hum - monte Stol, lasciando sguarnito anche il ponte di Tarnova da dove
avrebbero potuto ritirare le truppe, le quali saranno accerchiate sul monte Nero. Nella
mattina intanto non ebbero successo la 55ª e la 50ª Divisione austro-ungarica, arrestate fra
l'Isonzo e il monte Sleme. Non riuscirono invece a tenere le posizioni la 46ª Divisione
italiana e la brigata Alessandria poste all'immediata sinistra della 50ª Divisione austroungarica, e ne approfittò un battaglione bosniaco che subito diresse per Gabria.
L'avanzata decisiva che provocò il crollo delle difese italiane fu effettuata dalla 12ª
divisione slesiana del generale Arnold Lequis che progredì in poche ore lungo la valle
dell'Isonzo praticamente senza essere vista dalle posizione italiane in quota sulle montagne,
sbaragliando durante la marcia lungo le due sponde del fiume una serie di reparti italiani
colti completamente di sorpresa. L'avanzata dei tedeschi ebbe inizio a San Daniele del
Carso, dove cinque battaglioni della 12ª slesiana ebbero facilmente la meglio sui reparti
italiani scossi dal bombardamento, e subito iniziò la loro progressione in profondità: alle
10:30 si trovavano a Idresca d'Isonzo dove incontrarono un'inaspettata ma debole resistenza,
cinque ore dopo fu raggiunta Caporetto, alle 18:00 Staro Selo e alle 22:30 Robi e Creda.
Nel frattempo, più a sud, l'Alpenkorps diventò padrone alle 17:30 del monte Podclabuz/Na
Gradu-Klabuk, mentre del massiccio dello Jeza si occupò la 200ª Divisione, che conquistò
la vetta alle 18:00 dopo aspri scontri con gli italiani, terminati del tutto solo a mezzanotte. I
tre battaglioni del X Gruppo alpini, aiutati anche dal tiro efficace dell'artiglieria italiana,
resistettero fino alle 16:00 agli undici battaglioni della 1ª Divisione austro-ungarica, ma alla
fine dovettero arrendersi e cedere il monte Krad Vhr. Nell'alta Bainsizza, dove fu
combattuta una guerra con i metodi "antiquati" (cioè non applicando le novità tattiche
introdotte dai tedeschi), il Gruppo Kosak non ottenne alcun risultato, e la situazione andò
quasi subito in stallo.
Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero all'incirca, tra morti e feriti, 40.000
soldati e altrettanti si ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari 6.000
o 7.000. Nella mattina del 25 ottobre Alfred Krauß lanciò l'attacco contro la 50ª Divisione
ritiratasi il giorno precedente attorno al monte Stol. Esauste e con poche munizioni, le
truppe italiane iniziarono a cedere alle 12:30 asserragliandosi sullo Stol, e qui il generale
Arrighi ordinò loro di ritirarsi, ma improvvisamente giunse la notizia dalla 34ª Divisione di
23
Luigi Basso che il comando del IV Corpo d'armata aveva vietato ogni forma di
ripiegamento da lui non espressamente autorizzato.
I fanti della 50ª ritornarono quindi sui loro passi ma nel frattempo la 22ª Schützen aveva
preso possesso della cima dello Stol, da dove respinsero ogni attacco dei fanti italiani, che
ricevettero l'ordine definitivo di ritirata da Cavaciocchi alle ore 21:00. Tra Caporetto e
Tolmino nel frattempo la brigata "Arno", arrivata in zona tre giorni prima, stava difendendo
il monte Colovrat e le creste circostanti quando contro di loro mosse il battaglione da
montagna del Württemberg, assegnato di rinforzo all'Alpenkorps; il tenente Erwin Rommel
guidava uno dei tre distaccamenti in cui era stato diviso il suo battaglione. Insieme a 500
uomini, il futuro feldmaresciallo iniziò a scalare le pendici del Colovrat catturando in
silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista, mentre per errore la Arno, anziché contro
il monte Piatto, venne lanciata verso il Na Gradu-Klabuk, già dal giorno prima saldamente
in mano all'Alpenkorps che dovette sostenere gli assalti italiani fino a sera. Tornando a
Rommel, i suoi uomini conquistarono senza troppe fatiche il monte Nagnoj, dove presero
posizione i cannoni tedeschi che inizieranno a prendere di mira il monte Cucco di Luico,
aggirato da Rommel per non perdere tempo e preso nel pomeriggio da truppe
dell'Alpenkorps congiunte a elementi della 26ª Divisione tedesca.
Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel puntò contro il Matajur dove stazionava la
brigata "Salerno" del generale Zoppi, inquadrata nella 62ª Divisione del generale Giuseppe
Viora, rimasto ferito e quindi sostituito proprio da Zoppi, che lasciò il suo posto al
colonnello Antonicelli. All'alba del 26 ottobre ad Antonicelli giunse l'ordine da un tenente
di abbandonare la posizione entro la mattina del 27. Sorpreso per una ritirata ordinata ben
un giorno prima, il nuovo capo della Salerno chiese informazioni al portaordini il quale
disse che probabilmente si trattava di un errore del comando di divisione, ma Antonicelli
volle essere sicuro e obbligò il tenente a ritornare con l'ordine corretto, ma quando questo
arrivò a destinazione Rommel nel frattempo aveva circondato il Matajur. Dopo duri scontri,
la Salerno si arrese e Rommel chiuse la giornata dopo aver avuto solo sei morti e trenta
feriti a fronte dei 9.150 soldati e 81 cannoni italiani catturati.
Dall’Isonzo al Tagliamento
A questo punto Otto von Below, anziché arrestare la sua offensiva, la prolungò in direzione
del fiume Torre, Cividale del Friuli, Udine e la Carnia. Contrariamente alle previsioni del
generale tedesco però, l'esercito italiano, anche se in preda al caos, non era in completo
sfacelo, e oppose in alcuni punti una valida resistenza; inoltre la situazione delle artiglierie
si era parzialmente livellata tra i due schieramenti, in quanto gli italiani le avevano perse nei
primi giorni dell'offensiva, e gli austro-tedeschi non riuscirono a farle stare al passo della
rapida avanzata delle loro fanterie. A detta del Generale Caviglia, alla guida del XXIV
Corpo d'armata, il successo di quel disordinato ma cruciale ripiegamento oltre l'Isonzo era
nelle mani di alcune unità chiamate dalla riserva ad arginare la caduta. Cadorna, sin dalla
mattina del 25 ottobre, passò al vaglio l'idea di ordinare una ritirata generale, e ne discusse
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nel pomeriggio stesso con Montuori, succeduto definitivamente a Capello a causa dei
continui malori di quest'ultimo. Avendo constatato l'impossibilità di riprendere l'iniziativa, i
due alti ufficiali diramarono l'ordine di ritirata nella serata, ma dopo poco tempo Cadorna
ebbe un ripensamento e propose a Montuori di tentare una resistenza sulla linea monte Kuk
- monte Vodice – Sella di Dol - monte Santo - Salcano. Il nuovo capo della 2ª Armata fu in
totale disaccordo con il suo superiore ma Cadorna pochi minuti dopo la mezzanotte fece
sapere alle truppe di disporsi sulla difensiva nelle posizioni da lui indicate. La maggioranza
delle postazioni comunque non tennero e già il 27 ottobre il comandante supremo del Regio
Esercito diede disposizioni alla 2ª e 3ª Armata di riparare dietro il Tagliamento, mentre alla
4ª Armata, in linea sul Cadore, disse di spostarsi sulla linea di difesa a oltranza del Piave.
Senza troppi ostacoli davanti, i tedeschi occuparono Cividale del Friuli il 27 ottobre e Udine
il giorno dopo (abbandonata in favore di Treviso da Cadorna) marciando su un ponte che
non era stato fatto saltare dai genieri italiani, e misero in serio pericolo da nord-ovest la 3ª
Armata, che era rimasta troppo a Oriente. I tedeschi comunque si accorsero qualche ora
troppo tardi della possibilità di accerchiamento, e così, grazie anche all'inaspettata resistenza
di alcune unità italiane, il duca d'Aosta e le sue truppe riuscirono a mettersi in salvo. In
generale la ritirata avvenne in una situazione caotica, caratterizzata da diserzioni e fughe che
sfoceranno in alcune fucilazioni, mista a episodi di valore e disciplina durante i quali molti
ufficiali inferiori, rimasti isolati dai comandi, acquisirono notevole esperienza di un nuovo
modo di fare la guerra, ora più rapida. Un episodio tragico per i soldati italiani si verificò
nei ponti vicino a Casarsa Della Delizia il 30 ottobre, quando soldati tedeschi della 200ª
Divisione piombarono sulle colonne di mezzi e uomini che intasavano le strade facendo
60.000 prigionieri e catturando 300 cannoni. Più difficile fu invece infrangere le posizioni
italiane, sempre il 30 ottobre, a Mortegliano, Pozzuolo del Friuli, Basiliano e alla frazione di
Galleriano (in quest'ultima località per l'inaspettata resistenza durata un giorno e mezzo
della Brigata Venezia del colonnello Raffaello Reghini), che consentirono il ripiegamento in
corso.
L'ultimo episodio di resistenza italiana sul Tagliamento iniziò, anch'esso, il 30 ottobre
presso il comune di Ragogna: gli austro-ungarici, temporaneamente bloccati dal fuoco
avversario, non riuscirono a impadronirsi dell'importante ponte di Pinzano al Tagliamento,
ma si riscattarono il 3 novembre quando attraversarono il ponte di Cornino (una
frazione di Forgaria nel Friuli) poco più a nord, rimasto solamente danneggiato, e non
distrutto del tutto, dalle cariche esplosive dei genieri italiani.
La ritirata del Regio Esercito fino al fiume Piave
Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò
all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti
significativi passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva proprio grazie agli episodi
di resistenza sul Tagliamento.
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A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di ritornare a una guerra di
posizione, sia perché era cosciente che i francesi e gli inglesi avrebbero inviato aiuti militari.
I suoi generali sfruttarono tutte le occasioni possibili per accerchiare le truppe italiane in
ritirata: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni
appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant, e in un'altra occasione la
33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall'accerchiamento,
20.000 uomini.
In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero analogo successo e molte unità italiane si
riorganizzarono per raggiungere il Piave, l'ultima delle quali vi si posizionò il 12 novembre.
Dall'inizio delle operazioni il 24 ottobre all'8 novembre i bollettini di guerra tedeschi
avevano contato un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni.
Principali cause della sconfitta italiana
Le principali cause della sconfitta italiana sono identificabili in due fattori importanti:
l’inettitudine dei vertici militari e il mancato uso dell’artiglieria.
Di seguito sono riportati i fatti in modo più approfondito:
-Gli errori degli alti ufficiali: le colpe maggiori di ordine strategico e tattico non possono
che essere attribuite in ordine al comando supremo (Cadorna), al comando d'armata
interessato (Capello), e ai tre comandanti dei corpi d'armata coinvolti (Cavaciocchi,
Badoglio e Bongiovanni).
Sul piano generale, Cadorna ha la colpa di non aver sviluppato una dottrina militare meglio
aderente alle necessità della guerra di posizione, con una propensione all'evitare le riunioni
congiunte con i comandi d'armata. Sul piano riguardante la battaglia di Caporetto invece,
egli aveva disposto con un ordine del 18 settembre, a seguito di informazioni più o meno
attendibili sulle intenzioni nemiche e sul fallito colpo di stato in Russia di Kornilov, che le
sue armate sull'Isonzo si apprestassero in una disposizione difensiva nelle migliori
condizioni possibili.
Luigi Capello, avendo una visione più offensiva, credeva che in caso d'attacco occorresse
lanciare subito un'energica controffensiva, non solo a fini tattici, come raccomandava
Cadorna, ma anche a fini strategici. Eseguì quindi solo parzialmente e in ritardo gli
arretramenti del grosso delle truppe e delle artiglierie pesanti sulla destra dell'Isonzo,
richiesti dal suo superiore. Bisogna però osservare che tutte le disposizioni date da Capello
furono trasmesse, per conoscenza, anche al comando supremo e che Cadorna non ebbe nulla
da obiettare. A questo si aggiunge il fatto che Capello, già costretto a letto da
una nefrite agli inizi di ottobre, nei giorni antecedenti l'attacco nemico dovette ricoverarsi in
ospedale, lasciando il comando interinale della 2ª Armata al generale Luca Montuori,
riprendendolo solo alle 22:30 del 22 ottobre. Il cambio al comando generò confusione in
particolare lungo la linea di congiunzione tra il XXVII e il IV Corpo d'armata, i cui reparti
furono continuamente spostati. Lo stesso Cadorna si allontanò per 15 giorni, poco convinto
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che il nemico avrebbe effettivamente sviluppato un'offensiva di vasta portata, rientrando al
comando generale di Udine solo il 19 ottobre, dove si trovava ancora nella sera del 24,
convinto che l'azione nemica a Tolmino fosse solo un diversivo per sviare l'attenzione dalla
vera offensiva che sarebbe partita più a sud, complice anche il caos e la mancanza di
collegamenti che regnava al fronte.
Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d'armata, non godeva della stima di Cadorna per le
sue scarse qualità di comandante, e non era molto presente tra i suoi uomini; giudicò le sue
linee forti e migliorate, ma sarebbero state sfondate in tre ore, complice anche il fatto che
durante la notte i soldati di von Below strisciarono vicino alle sue posizioni senza essere
visti. Egli ammassò le sue truppe attorno al monte Nero anche a battaglia in corso,
trovandosi all'improvviso senza riserve. Cavaciocchi cadde in questo errore anche "grazie"
ai comandanti delle sue divisioni: Farisoglio (43ª Divisione) credette di essere attaccato da
un numero di forze enormemente superiore a quello reale; Amadei (a capo della 46ª
Divisione), nonostante disponesse di truppe sufficienti, alle 10:00 chiese rinforzi che
intasarono i ponti di Caporetto e Idresca d'Isonzo, per poi ordinare la ritirata quattro ore
dopo; anche il generale al comando della 50ª Divisione, Arrighi, fece richiesta per ricevere
rinforzi, ma poco dopo fece "dietrofront" giudicando di riuscire a gestire la situazione con le
truppe disponibili. In seguito, raggiunto da voci riguardanti uno sfondamento austriaco
vicino alle sue posizioni, per evitare di essere accerchiato fece ritirare i suoi uomini dietro la
stretta di Saga, perdendo gran parte delle artiglierie e abbandonando anche Tarnova.
Il XXVII Corpo d'armata era invece guidato da Badoglio, anche lui sicurissimo della
preparazione delle sue truppe. Fu proprio da lui che partì l'errore tattico più sconcertante
compiuto sul suo fianco sinistro, ovvero sulla riva destra dell'Isonzo, tra la testa di ponte
austriaca davanti a Tolmino e Caporetto: questa linea, lunga pochi chilometri, costituiva il
confine tra la zona di competenza del suo reparto e quello di Cavaciocchi (riva sinistra) e,
nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell'attacco
nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con piccoli reparti a presidiarla
mentre il grosso della 19ª Divisione e della brigata "Napoli" era arroccato sui monti
sovrastanti. Probabilmente in una giornata di tempo sereno (con buona visibilità) la
posizione in quota avrebbe consentito alla 19ª Divisione di dominare tutta la riva destra
rendendo il corridoio impercorribile ma, al contrario, il 24 in presenza di nebbia fitta e
pioggia, le truppe italiane non si accorsero minimamente del passaggio dei tedeschi a
fondovalle che catturarono senza combattere le scarsissime unità italiane lì presenti. In
quota comunque, la 19ª Divisione resistette tenacemente per un giorno bloccando varie
volte gli attacchi delle truppe nemiche, ma alla fine fu costretta ad arrendersi, e il suo
comandante, generale Villani, si suicidò.
Bongiovanni, capo del VII Corpo d'armata posto alle spalle del IV e del XXVII e anche lui
fiducioso di tener testa al nemico, avrebbe dovuto sorreggere le difese avanzate, presidiare
in seconda linea il Colovrat e il Matajur, e condurre controffensive al momento più
27
opportuno. Nei fatti però lo sfondamento a nord del IV Corpo d'armata, e l'arrivo da sud dei
tedeschi a Caporetto, rese nulla la sua efficacia.
-Uso
improprio dell’artiglieria: L'artiglieria italiana, sebbene numerosa e ben rifornita, non
aveva ricevuto un addestramento sufficiente, e nessuna differenza si faceva sul suo uso
offensivo e difensivo, infatti si chiedeva semplicemente di disporre i cannoni il più avanti
possibile per aumentarne la gittata utile. Cadorna comunque, quando il 18 settembre 1917
ordinò ai suoi generali di predisporre le linee di difesa, disse anche di arretrare in posizioni
sicure le artiglierie, ma il 10 ottobre cambiò idea e ordinò a Capello di lasciare i piccoli
calibri nelle trincee e i medi sulla Bainsizza, alterando di fatto in misura irrilevante lo
schieramento complessivo. È da aggiungere anche che molti artiglieri non erano provvisti di
fucili, e non si era pensato a delle fanterie da porre a protezione delle batterie di cannoni.
L'attacco delle formazioni nemiche cominciò intorno alle ore 8:00 con uno sfondamento
immediato sull'ala sinistra del XXVII Corpo d'armata, occupato dalla 19ª Divisione, e
sull'ala destra del IV Corpo d'armata tra Tolmino e Caporetto. Le artiglierie italiane del
XXVII Corpo d'armata non risposero, per ordine esplicito, al tiro di preparazione nemico.
Poi, alle 6:00, quando cominciò il tiro di distruzione, la risposta fu del tutto inefficace. La
debole e intempestiva risposta delle artiglierie italiane sul fronte del XXVII Corpo d'armata
è una delle ragioni accertate dello sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è tutt'oggi
fonte di disquisizioni. Tra le cause ipotizzate, vi sono:
Ignoranza dei comandi italiani sull'uso difensivo delle artiglierie, in particolare nella
fase di risposta al fuoco nemico. L'avere ordinato più o meno esplicitamente di non
rispondere al tiro avversario (ore 2:00 - 6:00 del 24 ottobre) fu un grave errore anche se
a parziale discapito dei protagonisti è utile osservare che fino ad allora questa era la
regola di utilizzo delle artiglierie nell'esercito italiano. Secondo le direttive di Cadorna le
artiglierie medie e pesanti avrebbero dovuto effettuare un tiro efficace sulle batterie
nemiche e sui punti di raccolta delle fanterie dall'inizio del bombardamento nemico.
Capello interpretò, in sintonia o meno con il volere di Cadorna, per "inizio del tiro
nemico" l'inizio del tiro di distruzione, quello cioè che iniziò alle ore 6:00;
Le condizioni meteo avverse (nebbia, pioggia battente al mattino del 24 a valle e
nevicate in quota) impedirono alle prime e alle seconde linee italiane di scorgere in
tempo l'avanzata delle fanterie nemiche e di conseguenza di ordinare il tiro
controffensivo con i piccoli e medi calibri, mortai e bombarde divisionali. Bisogna
osservare che i tedeschi agirono esplicitamente con l'intento di fare meno rumore
possibile e in effetti la maggior parte dei soldati italiani di prima linea vennero catturati
senza sparare. Le testimonianze dei comandanti di batteria divisionali riportano che il
tiro automatico di sbarramento (senza ordine esplicito) non fu effettuato in quanto non si
udirono scariche di fucilerie o mitraglia dalle prime linee, che in effetti cedettero
immediatamente quasi senza combattere;
28
Il tiro di preparazione, ma più ancora quello di distruzione (ore 6:00) nemico fece
saltare i collegamenti telefonici tra i reparti combattenti e i comandi. Lo stesso Badoglio
riferì che fino a quell'ora erano ancora in funzione alcune linee telefoniche, mentre alle
8:00 era completamente isolato nel suo comando. Nel contempo le pessime condizioni
meteo impedirono l'uso dei segnali ottici e acustici per la comunicazione. Fu necessario
ricorrere in extremis alle staffette, con tutti i ritardi implicati. Per risolvere questi
problemi, il nemico comunicò più efficacemente mediante razzi luminosi. Badoglio
aveva disposto alle sue artiglierie che l'inizio del tiro controffensivo sarebbe dovuto
iniziare solo dietro suo ordine esplicito, ma al momento giusto, causa mancanza totale di
comunicazioni, non fu in grado di darlo. Tra l'altro Badoglio, individuato dalle artiglierie
nemiche, spostò varie volte il suo comando trasmettendo ogni volta la sua nuova
posizione, e così gli operatori tedeschi addetti alle intercettazioni telefoniche furono in
grado di passare sempre le giuste coordinate da colpire all'artiglieria, che impedì così al
capo del XXVII Corpo d'armata italiano di prendere stabilmente contatto con i suoi
uomini.
APPRONDIMENTO STORIOGRAFICO
a cura di Gennaro Calvo e Alessandra Grimaldi
Il sistema delle alleanze di Bismarck.
29
Alla fine del 1871 si era concluso il periodo della politica delle nazionalità con la nascita
dell’Impero germanico e del Regno d’Italia. La problematica europea si identificava con la
volontà di porre fine ai gravi contrasti che negli ultimi anni erano sorti tra le grandi potenze:
tra Francia e Germania per l’Alsazia-Lorena; tra Austria e Russia per la questione balcanica;
tra Inghilterra e Francia per le colonie in Africa; tra Russia ed Inghilterra per il
Mediterraneo Orientale; tra Italia ed Austria per le terre irredente. A tutti questi problemi
Bismark cercò di dare una soluzione, cercando di assicurare alla Germania il bottino delle
tre precedenti guerre.
“Bismarck voleva proteggersi dall’eventuali rivendicazioni degli altri, la più terribile delle
quali, perché la più probabile, era quella francese dell’Alsazia-Lorena… Obiettivo specifico
della sua politica estera fu l’isolamento della Francia, al quale ne aggiunse un altro, più
grande: impedire la formazione dell’Europa di qualsiasi intesa generale e permanente a cui
fosse estranea la Germania, perché essa poteva divenire una coalizione antitedesca e
rinforzarsi con il consenso sicuro, fatale, della Francia. Inoltre egli non desiderava neppure
guerre tra le altre grandi potenze europee poiché una guerra austro-russia e franco-inglese
avrebbe rischiato di costringere la Germania a un intervento, e di favorire conseguentemente
la formazione di coalizioni anti-germaniche.”
(L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, Torino, 1946)
Egli si propose di raggiungere questi obiettivi facendo capo alla politica d’equilibro
mediante il sistema dell’alleanze: considerava non solo la pace germanica ma anche
europea.
“Bismarck rispendeva l’equilibro stabile precedente, perché si poteva facilmente in
cristallizzazioni antitedesche, e preferiva l’equilibro instabile, che equivaleva a una politica
opportunistica che cercava, non le soluzioni intrinseche dei problemi, ma di volta in volta, la
loro sistemazione provvisoria più opportuna per la Germania e accettabile per le altre grandi
potenze, dei cui interessi immediati Bismarck teneva sempre conto.”
(L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, Torino, cit.)
Per isolare la Francia e mantenere il controllo sull’Alsazia e sulla Lorena, il cancelliere
reputò necessaria l’alleanza con la Russia e con l’Austria: egli non poteva accontentarsi
della sola Russia perché questa non era disposta ad abbandonare la Francia alla Germania,
nella Germania potè abbandonare l’Austria alla Russia; inoltre se si fosse alleato
esclusivamente con la Russia, si sarebbe trovato di fronte coalizzare Austria, Inghilterra e
Francia; ma per ottenere l’alleanza dell’Austria e della Russia Bismarck doveva risolvere i
contrasti balcanici che le dividevano. Egli affrontò questo ostacolo ma senza successo: il
cancelliere non propose di dare i Balcani ai balcanici e di rinviare la Turchia in Asia (che
sarebbe stata la soluzione più efficiente, ma non lo fece per inimicarsi tutte e due le
potenze), bensì pensò in un primo momento di dividere la penisola in due zone, russa ed
austriaca, poi di convincere Austria ed Inghilterra che la Russia a Costantinopoli non
sarebbe stato pericolo; nel momento in cui si rese conto dell’impossibilità di arrivare ad un
accordo, tentò la via dell’equilibro con patti bilaterali; dopo il fallimento dell’accordo dei tre
imperatori, si alleò con l’Austria (1879) ma in funzione difensiva, riconoscendo però gli
interessi dei russi nei Balcani; quando si rese conto del nuovo fallimento del ricostituito
30
accordo dei tre imperatori, formò la Triplice Alleanza (1882), con la quale otteneva
l’isolamento della Francia e garantiva l’Austria contro ogni attacco russo; alcuni anni dopo,
nel 1889 conseguì la neutralità russa.
Il principale obiettivo di tutte queste alleanze era il mantenimento dello status quo, evitare
ad ogni costo la guerra, dalla quale avrebbe certamente approfittato la Francia per tentare la
rivincita. Nel 1887, anno della pace di Santo Stefano, imposta dalla Russia alla Turchia,
l’Europa fu alla vigilia di una guerra e Bismarck, con il congresso di Berlino, evitò il
conflitto e mise le basi alle future alleanze.
La decisione più grave del congresso fu la concessione della Bosnia e della Erzegovina
all’Austria: essa fu la causa dei primi risentimenti serbi, russi e italiani, in quanto divise
artificialmente i popoli balcanici portando all’irredentismo slavo che culminò nella prima
guerra mondiale. Al congresso di Berlino si deve anche il contrasto franco-italiano per
Tunisi, suscitato abilmente da Bismarck per costringere l’Italia ad allearsi con l’Austria e la
Germania.
Solo più tardi si intuirono le gravi conseguenze che sarebbero potute nascere da questa
complicata situazione. Si fecero allora alcuni tentativi costruttivi: l’Italia, da parte sua, nel
1887 credette di fermare l’avanzata balcanica dell’Austria costringendola a preventive
consultazioni e compensi; Russia e Austria nel 1887 frenarono la tensione con un accordo
sulla Macedonia. Non furono certamente soluzioni significative, ma modesti compromessi
che ritardarono di pochi anni la guerra.
Le reazioni all’espansionismo austro-tedesco.
Nel 1890 il Kaiser Guglielmo II attuò il progetto di Bismarck del 1879 a favore dell’Austria,
trascurando tutte le accortezze del suo cancelliere per neutralizzare la Russia: il sistema
delle alleanze bismarckiane era complicato ed esigeva un’eccezionale abilità diplomatica
che
né
il
Kaiser
né
i
suoi
ministri
avevano.
Il cancelliere tedesco, consapevole della grande forza dell’Inghilterra, l’aveva guadagnata
alla sua politica, favorendone a Berlino le pretese su Cipro. L’Inghilterra, senza legarsi al
trattato austro-tedesco e alla Triplice Alleanza, trovò conveniente appoggiare la politica di
Bismarck, ritenuta valido strumento per l’equilibro europeo, essendo in contrasto con la
Russia per i Balcani e per l’Estremo Oriente, e con la Francia per il Mediterraneo e per
l’Africa.
L. Salvatorelli pensava che il merito del cancelliere tedesco fosse solo quello di aver
guadagnato tempo alla pace, ma non di averla resa duratura: egli non seppe risolvere i
problemi balcanici, semplicemente li rimandò.
Il mancato rinnovo del patto di contrassicurazione, dopo il ritiro di Bismarck, è il punto di
partenza della politica di internazionale tra il 1890 e il 1914: si ebbe l’alleanza antitedesca
franco-russa (Duplice Intesa del 1891-93), l’avvicinamento antigermanico anglo-francese
(Intesa cordiale del 1904), il graduale distacco dell’Italia dalla Triplice tedesca e il suo
avvicinamento all’Inghilterra, alla Francia e alla Russia (accordi del 1898, 1900, 1902,
1909), il trattato della Triplice Intesa del 1907 tra l’Inghilterra, Francia e Russia contro gli
Imperi centrali. Con la costituzione dei due blocchi si pensava di aver raggiunto un certo
equilibro per l’Europa; in realtà non seppero trovare una soluzione per risolvere i contrasti
austro-serbi e austro-russi.
“L’unico mezzo per prevenire la guerra balcanica sarebbe stato un intervento collettivo
europeo, capace di prendere in mano la sistemazione balcanica […]. La mancanza di un
31
simile intervento mostrò i suoi effetti nelle due guerre balcaniche del 1912 e 1913,
specialmente quando tra i vincitori della Turchia scoppiò il conflitto per la divisione del
bottino […]. Così la seconda guerra balcanica annullò in gran parte quel che c’era stato di
beneficio nella prima; alla liquidazione, opportuna anzi necessaria della Turchia Europea,
fece seguire il conflitto degli Stati e dei popoli successori, e, sciogliendo l’unione che
avrebbe fatto da antemurale all’Austria, permise a questa l’iniziativa del luglio 1914, donde
uscì la guerra europea.”
(L. Salvatorelli, La politica internazionale dal 1871 ad oggi, Torino, cit. )
La politica estera italiana dal 1861 al 1914
La politica estera italiana aveva come obiettivo il completamento dell’unità nazionale con la
conquista del Veneto e di Roma: i governi della Destra cercarono di risolvere i due problemi
diplomatici, o con alleanze internazionali o con trattative, ma sempre con l’appoggio
politico della Francia. Nella terza guerra l’Italia, nonostante alleata della Prussia, ebbe il
Veneto attraverso Napoleone III, e per la subordinazione alla Francia non potè risolvere la
questione di Roma né con Garibaldi né con trattative. L’Italia, nel 1870, ruppe la sua
dipendenza dalla Francia e, approfittandone della guerra franco-prussiana, conquistò Roma.
“Il 20 settembre 1870 non vuol dire soltanto che Roma diventa capitale del Regno d’Italia,
ma significa qualcos’altro non meno importante: il non intervento a fianco di Napoleone III
nella guerra franco- prussiana vuol dire che la politica italiana si stacca da quella francese,
che l’Italia non è uno Stato vassallo, necessariamente trascinato in tutte le avventure del suo
signore. […] L’Italia col 1870 dimostrò di essere una potenza moralmente autonoma e
indipendente nel concerto europeo.”
(F.Chabod, Sulla politica estera italiana, in Orientamenti per la storia d’Italia nel
Risorgimento, Bari, 1952)
L’Italia, ottenuta l’indipendenza dalla Francia, si trovò molto incerta nella scelta delle nuove
alleanze internazionali: c’era chi sosteneva la necessaria alleanza immediata con la
Germania per frenare le minacce del partito clericale francese di restaurare il potere
temporale, e c’era chi guardare con realismo la situazione, non credendo al pericolo francese
e reputando vantaggioso per l’Italia rimanere al di fuori di ogni alleanza. Questa via si
affermò con l’avvento al potere nel 1876 della Sinistra. Ivanoe Bonomi spiega così le
ragioni:
“Agostino Depretis, il maggiore rappresentante della Sinistra, non reputava conveniente per
l’Italia, appena uscita dallo sforzo della sua unità e ancora debole per le sciagure militari di
dieci anni prima, di avventurarsi nella grande politica internazionale per corrervi i rischi di
un gioco, dove certamente avremmo fatto il vantaggio non nostro ma dei più forti, che si
sarebbero serviti di noi per le rivalità di loro. […] Solo più tardi, solo quando, con qualche
decennio di silenzioso lavoro, l’Italia avesse superata la sua adolescenza e si fosse avviata
all’età matura, essa avrebbe potuto fare, con il vigore di un organismo saldo e forte, una
politica estera; per intanto giovava mantenersi amica con tutti; evitare di essere coinvolta
nelle altrui gare, e beneficiare della pace, suprema esigenza di ogni paese giovane nel
travaglio del suo sviluppo. ”
(I.Bonomi, la politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, Vol. I, Torino, 1946)
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Al congresso di Berlino del 1878 l’Italia non solo non ottenne un palmo di terra ma si vide
gravemente danneggiata dalle concezioni all’Austria nei Balcani, sperimentando le
conseguenze dell’isolamento. Ma dopo il 1881 l’Italia offesa nei suoi interessi nel
Mediterraneo con la conquista di Tunisi e minacciata dalla Francia nel suo stesso territorio
nazionale, accettò, per disperazione, di entrare a far parte della Triplice Alleanza (1882). I
motivi che spinsero le tre potenze ad allearsi non coincidevano tra loro: l’Austria aveva
bisogno di assicurarsi i confini italiani nel 1866, di difendersi dalle ambizioni russe nei
Balcani e di creare un fronte monarchico conservatore contro l’avanzante socialismo; la
Germania puntava all’isolamento della Francia e ad impedire che in una probabile crisi
balcanica l’Italia appoggiasse la Russia contro l’Austria. In quanto all’Italia il giudizio degli
storici è controverso.
Le successive edizioni della Triplice Alleanza (specialmente quella del 1887) fecero
ricredere molti italiani, i quali iniziarono ad essere orgogliosi di essere alla pari con gli altri
Stati più forti e di essere risaliti dall’abisso da cui erano caduti per l’offesa di Tunisi.
Bonomi pensò che l’Italia, aderendo alla Triplice, non solo fece i suoi interessi ma rese un
grande servigio alla pace europea.
“Alleandosi con la Germania e con l’Austria, l’Italia contribuì a formare un organismo così
solido e formidabile che scoraggiò qualsiasi velleità russa o francese di sconvolgere
l’assetto europeo. L’alleanza pertanto fu uno strumento di pace, e se le maggiori nazioni
europee poterono assicurarsi, dopo la stipulazione, ben trentadue anni di tranquilla
convivenza, lo si deve in molta parte alla Triplice, accampata come un’enorme fortezza nel
centro del nostro continente.”
I.Bonomi, la politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, Vol. I, Torino, 1946
L’alleanza per l’Italia, però, fu considerata sempre un matrimonio di convivenza che
soffocava affetti profondamente sentiti dall’italiani (come dimostrò la protesta di Guglielmo
Oberdan) e fu interpretata in senso esclusivamente difensivo, la cui cosa diede all’Austria e
alla Germania la possibilità di non appoggiare minimamente le iniziative italiane sul piano
coloniale. L’Italia allora capì di non poter limitare la sua politica estera nella Triplice
Alleanza e iniziò approcci con l’Inghilterra e con la Francia nell’intento di salvaguardare i
suoi interessi mediterranei e coloniali. Liquidando la politica anti-francese di Crispi,
affermò energicamente l’indipendenza italiana da ogni subordinazione austro-tedesca: a
differenza degli alleati, appoggiò la Grecia contro la Turchia e si oppose al militarismo
tedesco nella pace dell’Asia; nel 1900 sottoscrisse il celebre accordo secondo il quale la
Francia riconosceva i diritti italiani in Libia e l’Italia gli interessi francesi nel Marocco.
Nel 1902, constatando di poter consolidare di più i rapporti con il territorio francese, dopo
aver rinnovato la Triplice Alleanza, dichiarò esplicitamente che il Trattato non aveva
carattere aggressivo nei confronti della Francia e nello stesso anno firmò con Barrère una
convenzione con la quale non solo venivano riconfermati gli accordi del 1900 circa il
Marocco e la Libia ma impegnava l’Italia alla più stretta neutralità nel caso in cui la Francia
fosse stata aggredita o nel caso che, in seguito a provocazioni, per difendere il suo onore,
fosse stata costretta a dichiarare guerra. Bonomi difende l’Italia dalle accuse di doppiezza e
slealtà:
“La posizione dell’Italia era impeccabile; il Trattato della Triplice aveva un terreno libero, e
sul quel terreno essa aveva manovrato. Nessun rimprovero di slealtà poteva essere mosso
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all’Italia, la quale tutelava i propri interessi così come i nostri alleati avevano liberamente,
in più occasioni, tutelati i loro. Ma la Germania era stata abituata, troppo abituata, a
considerare l’Italia come un’alleata che non ha possibilità di scelta e deve gravitarle attorno,
per non essere ferita da quella nuova libertà che essa veniva acquistando e che poteva
mettere in valore. Per molti anni la Germania aveva fomentato il dissidio franco-italiano, sia
agitando le velleità temporalistiche dei clericali francesi, sia ricordando l’espansioni
mediterranee della Francia. Ora quell’abile gioco non era più possibile. Francia e Italia,
riconciliate, si erano accordate su ciò che restava ancora delle coste settentrionali dell’Africa
mediterranea.”
I.Bonomi, la politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, Vol. I, Torino, 1946
In realtà la Triplice si svuotava sempre più: il riaccendersi funeste del movimento
irredentista, l’appoggio italiano alla Francia nella conferenza di Algesiras del 1906 in
opposizione alla Germania, il Trattato italo-russo di Racconigi del 1909 contro l’Austria,
l’atteggiamento ostile dell’Austria e della Germania in occasione della guerra italo-turca,
erano dimostrazioni che la Triplice Alleanza non aveva più un valore sostanziale per
nessuno dei partecipanti.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’Italia si credette in diritto di proclamare la sua
neutralità in quanto la guerra che l’Austria aveva dichiarato alla Serbia era offensiva.
L’età dell’imperialismo.
Per “età d’imperalismo” si intende quel periodoo della storia mondiale compreso tra la
guerra franco-prussiana (1870) e lo scoppio della prima guerra mondiale (1914). Fu un
periodo di pace, contrassegnata dall’espansione politica ed economica senza precedenti
delle potenze europee (insieme al Giappone e agli Stati Uniti) che portò all’unificazione del
mercato mondiale e all’estensione del dominio e della cultura europea. Per quanto le radici
dell’imperialismo vanno ricercate in avvenimenti di alcuni decenni precedenti, il fenomeno
si affermò senza dubbio in modo dirompente soprattutto a partire dall’ultimo scorcio del
secolo. Ha scritto Wolfgang J. Mommsen:
“Alcuni Stati europei, soprattutto l’Inghilterra e la Francia, avevano già da tempo avviato
con successo una politica coloniale nei paesi d’oltremare. Ma verso il 1895 questo processo
di espansione della civiltà europea in tutto il mondo assunse improvvisamente un ritmo
vertiginoso; e nel giro di pochi anni si trasformò in una vera e propria gara delle potenze
europee per appropriarsi dei territori d’oltremare ancora liberi; e a questa gara
parteciparono, dal 1894, anche il Giappone e gli Stati Uniti. Nello stesso tempo mutò il
carattere del dominio coloniale europeo, che da un giorno all’altro si trasformò in
imperialismo. Finora le potenze europee avevano lasciato di regola l’iniziativa a singoli
gradi colonizzatori o a imprese colonizzatrici, spesso non avevano esitato a far seguire al
commercio anche la bandiera. In ogni caso ogni Paese aveva cercato di ridurre a minimo il
proprio impegno politico e militare. Ora questa situazione di capovolse. Spinte da un
nazionalismo esasperato fino all’imperialismo, le potenze europee cominciarono a
perseguire liberatamente una politica coloniale di nuovi conquiste territoriali, e a sostenere
con propri mezzi finanziari e a proprie imprese economiche la conquista e la penetrazione
economica dei paesi sottosviluppati; […] inoltre la crescente rivalità tra le grandi potenze le
costringeva all’abbandono delle forme tradizionali di controllo dei territori coloniali
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mediante poche basi in prossimità delle coste. Ebbe allora inizio una lotta accanita per il
possesso anche dell’entroterra, e i vari Paesi si sforzarono di definire con precisione i
confini dei rispettivi confini coloniali. La stipulazione di trattati di protettorato con i capi di
numerosi tribù indigene, trattati il cui valore giuridico era per lo più di carattere alquanto
dubbio, non era più sufficiente per poter fondare o ingrandire imperi coloniali.
W. J. Mommsen, L’età dell’imperalismo, Milano Feltrinelli 1970, pp. 173-174
Sin dagli inizi si è incentrata la discussione riguardante il ruolo da attribuire al fattore
economico nel favorire l’affermazione dell’imperialismo. Secondo D.K. Fieldhouse:
“I fattori economici furono presenti e in varia misura influenti in quasi tutte le situazioni al
di fuori dell’Europa che portarono come risultato ultimo alla colonizzazione; e il valore
specifico di molti di questi territori per gli europei stava nelle opportunità commerciali e
d’investimento o in altre forme di attività economica. Ma i fattori economici non portarono
necessariamente e neppure comunemente, da soli, all’esigenza o al desiderio di creare delle
colonie. Il vero imperialismo economico dei mercanti e dei finanzieri europei fu spesso
sordo ai fattori politici. Il dominio formale sul territorio fu raramente essenziale o
addirittura opportuno per l’attività economica e in alcuni luoghi avrebbe potuto avere
conseguenze decisamente negative per commercianti, piantatori, speculatori terrieri e altri.
Gli ambienti ufficiali europei invece ritennero a lungo che gli interessi economici avrebbero
dovuto curarsi da soli senza interventi diretti dello Stato. Il legame vitale tra economia e
colonizzazione non fu dunque né la necessità economica di colonie da parte della metropoli
né degli interessi economici privati, ma la conseguenza secondaria dei problemi creati alla
periferia dall’attività economica ed extraeconomica europea e per i quali non esisteva una
semplice soluzione economica. A un estremo questi problemi influenzavano direttamente
interessi nazionali che gli ambienti europei consideravano preminenti. All’altro causavano
difficoltà politiche marginali, come l’instabilità di un regime politico indigeno o gli ostacoli
frapposti da altri europei a un soddisfacente svolgimento dell’attività commerciale o di
investimento. Ma in quasi tutti i casi la spiegazione ultima dell’annessione fu che il
problema economico originale si era in certa misura politicizzato e quindi richiedeva una
soluzione politica.
D.K. Fieldhouse, L’età dell’imperialismo, 1830-1914, Bari, Laterza, 1975, pp. 556-557
Anche se la conclusione dello storico inglese può essere considerata valida e quindi di
essere essenzialmente condivisa, bisogna constatare che nell’imperialismo il rapporto tra
economia e politica è dialettico e il suo risultato è rappresentato dalla potenza, che si
manifesta innanzitutto in politica estera. Detto questo, Carocci dice:
“Sarebbe però sbagliato ridurre l’imperialismo a politica estera intesa nella sua accezione
tradizionale. L’imperialismo è, sì, politica estera, ma solo nella misura in cui questa è
legata, oltre che alla situazione internazionale, a quella interna (economica, sociale, politica,
culturale) dei singoli stati e paesi e ai loro reciproci rapporti. […] L’imperialismo è
l’insieme di rapporti che viene a stabilirsi nel mondo fra le potenze e fra queste e i paesi
dipendenti; è un insieme di squilibri a livello mondiale, generatore alla lunga di conflitti tra
le potenze e di conflitti o tensioni fra queste e i paesi dipendenti.
G. Carocci, L’età dell’Imperialismo, cit., p.9
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Neutralisti e interventisti.
Scoppiate le ostilità tra Austria e Serbia, l’Italia, dichiarandosi neutrale, decise di non
partecipare alla guerra. Tale decisione ebbe notevoli conseguenze sull’ andamento della
guerra: la Germania non ebbe i soldati che avrebbe dovuto mandare alla Germania sul fronte
del Reno e, permettendo alla Francia il trasferimento delle sue armate dal fronte alpino sul
Reno e di far fluire le truppe coloniali via mare, rese possibile la sua resistenza ai tedeschi.
L’Italia si divise al suo interno tra interventisti e neutralisti: il popolo, preferendo la pace, si
schierò per la neutralità.
“Il neutralismo è il più spontaneo atteggiamento del popolo italiano, il quale rifuggiva dallo
schierarsi accanto all’Austria-Ungheria per gli antichi ricordi […]. Inoltre la nazione capiva
che non poteva schierarsi contro la Gran Bretagna, dominatrice dei mari, la quale oltre a
poter portare offesa gravissima contro le nostre città costiere, ci avrebbe potuto affamare.”
L. Segato, L’Italia nella guerra mondiale, Milano, 1935.
Il partito popolare e il partito socialista si dichiararono neutrali, anche se per motivi
differenti. Il dichiararsi neutrale dei cattolici, sebbene fosse di principio, era condizionato,
poiché, secondo Ivanoe Bonomi, non volevano ancora apparire contrari all’unità nazionale.
I socialisti, essendo di indole internazionale e pacifista, si dichiararono contrari alla guerra.
Gran parte del Parlamento si dichiarò neutrale, influenzato da Giovanni Giolitti,
profondamente convinto che all’Italia convenisse un neutralismo contratto,cioè
condizionato al cedere le terre irredente da parte dell’Austria.
Furono invece favorevoli alla guerra, ma per obiettivi differenti, i conservatori, i riformisti, i
nazionalisti, i democratici, i repubblicani e i rivoluzionari. Democratici, repubblicani e
radicali volevano partecipare alla guerra affinché venissero rispettati i principi
risorgimentali (rispetto delle nazionalità, dell’indipendenza e della liberazione dei popoli
oppressi).
“L’Austria teneva sottomesse genti italiane, e il grido di dolore di quei nostri fratelli
ricordava che l’opera del Risorgimento non era compiuta.”
I. Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, cit.
L’interventismo dei nazionalisti Federzoni, Corradini, Papini e D’Annunzio parteggiava per
la guerra <<per fare una tempera al fiacco metallo italiano e per operare una redenzione
imperiale della nazione>>. Anche Benito Mussolini, ex socialista, era passato da una forte
opposizione alla guerra alla sua massima esaltazione, affinché l’Italia potesse godere del
prestigio che meritava.
Il governo volle l’intervento dell’Italia in guerra senza riuscire a prospettarsene quali
sarebbero state le inevitabili conseguenze. Secondo Chabod, i ministri Sonnino e Salandra
interpretarono l’entrata in guerra solo come un mezzo per ottenere Trento e Trieste.
La polemica sui trattati di pace.
I contrasti tra interventisti e neutralisti risorsero in modo violento nel 1918 per la
rivendicazione dei diritti dell’Italia alla conferenza della pace. L’Italia, secondo i
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democratici, doveva limitarsi a raggiungere i confini etnici e doveva rispettare i diritti di
nazionalità dei popoli emersi dalla scomparsa dell’ impero asburgico .
Secondo i nazionalisti all’Italia spettavano tutti i territori promessi nel patto di Londra e
altri oltre il confine. Pretendevano l’intero dominio sull’ Adriatico, usurpando in un certo
senso i diritti della Iugoslavia. Gabriele D’Annunzio, per esempio, considerava gli slavi
“schiavi degli italiani” e affermava che la Dalmazia apparteneva per diritto divino e umano
all’Italia.
La stampa nazionalistica infuriava sempre più l’opinione pubblica con slogan come “vittoria
mutilata”, “pace perduta”, “tradimento degli alleati”, “vile rinunzia dei nostri ministri” e
“ineluttabilità della rivincita”. Del malcontento generale italiano ne approfittò Mussolini per
fondare il fascismo, al fine di abbattere il regime democratico, ritenuto responsabile della
rovina dell’Italia.
Al contrario dei nazionalisti, Gaetano Salvemini affermò che all’Italia conveniva avere
rapporti d’amicizia con gli slavi per usufruire degli sbocchi commerciali dell’Europa sudorientale: occupare la Dalmazia sarebbe stato un atto politicamente sbagliato, mettendo le
due nazioni in discordia.
Sidney Sonnino, ministro degli esteri, voleva sia l’espansionismo italiano a spese
dell’Austria sia il rafforzamento degli Asburgo, necessario, secondo lui, alla difesa
dell’istituto monarchico europeo. Nel 1919 l’impero asburgico non esisteva più,poiché
sostituito da un debole Stato iugoslavo che non poteva rappresentare nessun pericolo per
l’Italia: anzi, permetteva di avere larghi sbocchi per la sua esportazione industriale.
Sonnino, non ascoltando i consigli degli interventisi democratici che puntavano ad una
intesa con gli slavi, chiese a tutti i costi l’attuazione del patto di Londra, reputato oramai
superato e dannoso all’Italia stessa: non solo chiese le terre irredente, ma anche l’Alto
Adige, etnicamente tedesco, la parte interna dell’Istria, etnicamente croata, la Dalmazia,
territorio slavizzato, a eccezione di Zara. Le decisioni di Sonnino ebbero gravi conseguenze
per l’Italia, portando l’America, l’Inghilterra e la Francia a disapprovare le sue scelte:
l’Italia così venne esclusa dalla spartizione delle colonie tedesche ed entrò in contrasto con
gli slavi. LO storico inglese D. Mack Smith mise in evidenza gli errori della politica assuta
da Sonnino al congresso della pace:
“Il punto di vista italiano alla conferenza della pace fu presentato in maniera confusa e
inabile […]. Se gli italiani avessero rinunziato generosamente nel 1919 a quello che furono
costretti a cedere alla Jugoslavia nel 1920, tali concessioni li avrebbero messi in grado poi di
trattare per ottenere dei vantaggi economici meno illusori. Dato che Sonnino non faceva che
parlare di acquisti territoriali, gli Alleati non ebbero modo di capire che le esigenze più
vitali dell’Italia in quel momento erano di carattere economico, e neppure Sonnino del resto
si rese mai, neppure lontanamente, conto di ciò. Nel 1915 l’idea fissa dell’Italia di ottenere
ingrandimenti territoriali l’aveva portata a trascurare nel trattato gli aiuti economici di cui
aveva bisogno; e nel 1919, sempre per le medesime ragioni, i problemi delle materie prime
e dei più ampi interessi economici italiani nel Mediterraneo furono ancora una volta del
tutto negletti. Nella strana atmosfera di esasperato nazionalismo sentimentale che lo
circondava, Sonnino riteneva che non fosse decoroso chiedere un prestito.”
D. Mack Smith, Storia d’Italia, cit.
37
Secondo gli storici marxisti e democratici, a Versailles Sonnino non diede la necessaria
importanza ai veri problemi italiani, di tipo economico: così l’Italia non ottenne nessun
vantaggio per quanto riguarda gli interessi economici del Mediterraneo.
Il risentimento italiano per la così definita <<vittoria mutilata>> venne giudicata piena di
risentimento. Nessuno può affermare che a Versailles fu fatta completamente giustizia per
quanto riguarda l’Italia, ma nemmeno si può parlare di pace perduta o di vittoria mutilata.
Il problema delle responsabilità
Diplomatici, storici e pubblicisti hanno cercato ogni specie di fonti, archivi, memorie e
corrispondenze per far luce sul difficile problema delle cause e delle responsabilità della
prima guerra mondiale. Circa la responsabilità, abbondano gli accusatori della Germania; il
Durckheim e il Denis affermano che la volontà di guerra della Germania e dell’Austria è
comprovata da argomenti irrefutabili: 1) che l’ultimatum austriaco alla Serbia conteneva
condizioni inaccettabili, presentate proprio per provocare il rifiuto serbo; 2) che la Germania
aveva volutamente respinto ogni proposta conciliante dell’Inghilterra per un’azione
moderatrice delle quattro potenze estranee al conflitto, chiudendo la porta a qualsiasi
tentativo di conciliazione; 4) che l’Austria aveva rotto i rapporto diplomatici, nonostante la
Serbia avesse accolto tutti i punti dell’ultimatum stesso. Ne hanno perciò concluso che la
colpa ricade in parte sull’Austria, che aveva avviato la crisi diplomatica, ma soprattutto
sulla Germania, la quale con l’invio alla Russia dell’ultimatum prima, della dichiarazione di
guerra poi, aveva impedito che il reviment austriaco, dopo aver preso conoscenza
dell’ordine russo di mobilitazione, giungesse in porto e si avesse una pacifica soluzione
della crisi. Contro tali tesi, i tedeschi hanno reagito vivacemente. Il capo della delegazione
tedesca alla Conferenza della Pace dichiarò pubblicamente:
“Lungi da noi il pensiero di scagionare la Germania di ogni responsabilità per la guerra
mondiale e per il modo con cui fu condotta… ma noi contestiamo energicamente che sulla
sola Germania, il cui popolo aveva la convinzione di fare una guerra difensiva, venga
scaricata questa colpa. Nessuno di noi vorrà pretendere che la catastrofe sia cominciata solo
nell’istante fatale in cui l’erede al trono di Austria – Ungheria fu vittima di mano omicida.
Durante gli ultimi cinquant’anni l’imperialismo di tutti gli Stati europei ha avvelenato
cronicamente la situazione internazionale.”
In F.Curato, La storiografia delle origini della prima guerra mondiale, cit.
Fischer per contro non esita a parlare di precisa responsabilità tedesca nella durata e
soprattutto nello scoppio della guerra mondiale. “Non solo il Kaiser era reazionario,
megalomane, impulsivo e convinto di dover difendere l’ordine prussiano contro le
democrazie degli avvocati, certo della missione tedesca nel mondo: Berlino doveva divenire
la capitale politico – economica dell’Europa e la Germania la prima potenza mondiale.”
F. Fisher, Assalto al potere mondiale: la Germania nella guerra 1914 – 18, Torino, 1965.
Il francese Bloch ribadì che “al conflitto si giunse unicamente perché Austria e Germania
vollero la guerra contro la Serbia, anche a costo di una conflagrazione più vasta, e che
l’Austria, nella sua aspirazione di fare la parte del leone nell’imminente liquidazione
dell’Impero turco, incontrando l’opposizione della Serbia sentì la necessità di abbatterla. La
38
decisione era logica conseguenza di quella politica d’inorientamento che l’Austria aveva
iniziata con l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina”
C. Bloch, Les causes de la guerre mondiale, Paris, 1933.
Torre precisa che il contrasto austro – serbo era soltanto una delle cause della guerra ma vi
erano anche altre problematiche minacciose: la rivincita francese, il contrasto commerciale
anglo – tedesco, l’aspirazione russa agli Stretti, la politica dell’Intesa, che, intorno la
Germania, vedeva con molta chiarezza gli scopi della futura guerra, ossia la distruzione
dell’impero tedesco e l’indebolimento totale della potenza militare e politica germanica.
Secondo Torre, le responsabilità della Serbia e della Russia sono evidenti negli avvenimenti
del luglio del 1914: 1) il governo serbo fu complice del complotto di Sarajevo, sebbene a
conoscenza delle intenzioni dei congiurati, non fece nulla per impedirne l’attuazione; 2) Il
24 luglio, la Russia, conosciuto l’ultimatum austriaco alla Serbia ed assicuratasi dell’aiuto
francese, s’avvio alla mobilitazione generale, che fu l’atto decisivo che troncò ogni trattativa
diplomatica e costrinse la Germania ad entrare in guerra.
Non pochi storici hanno attribuito parte della responsabilità all’Inghilterra per il fatto che
non prese una decisione tempestiva: se essa si fosse subito pronunciata apertamente
neutrale, Russia e Francia non sarebbero entrate facilmente nella guerra; se invece si fosse
subito schierata con la Russia, Germania ed Austria sarebbero state più concilianti e
prudenti. Ma anche l’Inghilterra non aveva possibilità di scelta, per i suoi interessi era
obbligata a intervenire contro la Germania, in quanto se l’Inghilterra non fosse intervenuta,
la Germania rapidamente avrebbe conquistato Belgio e Francia, facilmente avrebbe
schiacciato la Russia e regnato sovrana in tutta l’Europa e l’Asia Minore. C’erano poi altre
questioni irrisolvibili: il contrasto franco – tedesco per l’Alsazia e Lorena, sul quale la
Francia non ammetteva alcun compromesso; la questione degli Stretti del Bosforo e dei
Dardanelli, sulla quale si scontravano Turchia, Inghilterra e Germania.
Il problema delle cause fondamentali.
Per non pochi storici, la prima guerra mondiale fu causata dalla ricerca affannosa di grandi
mercati di sbocco.
“La Germania superpopolata e scarsamente dotata di colonie, fu costretta ancor più degli
altri paesi a cercare privilegi monopolistici e a desiderare la roba altrui, soprattutto le
colonie nord – africane della Francia. D’altronde la superpopolazione tedesca fu favorita
dall’esistenza dei maggiorascati che, impedendo il frazionamento della piccola proprietà
terriera, agevolava da un lato la formazione di un proletariato industriale, dall’altro
l’esistenza di un regime militare burocratico, i cui quadri erano formati dai cadetti delle
famiglie ricche. Latifondismo e industrialismo alleatisi, dopo il 1908, spinsero il paese alla
politica della dominazione mondiale: donde la gara di armamenti cui la Germania sottopose
il mondo; provocando il vivo malcontento delle altre potenze.”
E. Fueter, Weltgeschichte der letzen hundert Jahre, Zurich, 1921.
Questa spiegazione non ha convinto il francese Elie Halévy, il quale ha osservato che se
fosse vero che la guerra fu provocata dalla ricerca di nuovi mercati, necessari alla
sovrapproduzione industriale, non troverebbero spiegazione plausibile gli atteggiamenti
nettamente pacifisti della borghesia delle grandi potenze.
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“Quel che determinò il governo tedesco a considerare l’eventualità di una guerra europea fu
la crisi che si preparava non nell’Occidente industriale e capitalista, ma nelle comunità
ancora primitive dell’Europa sud – orientale. La guerra si comunicò da Est ad Ovest; fu
l’Oriente ad imporla all’Occidente.”
E. Halévy, L’ère des tyrannies, cit.
Quelle idee di liberalismo militare e di nazionalismo democratico, che nell’800 erano state a
base della storia d’Europa, al principio del secolo XX cominciaro a scuotere il mondo
asiatico.
Il Croce riconosce la responsabilità del pangermanesimo, agitato e diffuso apertamente dalla
cultura tedesca, il quale provocò l’urto con l’Inghilterra.
“Contrasto di assai maggiore portata di tutti gli altri, perché riguardava non più particolari
accrescimenti di domini e di potenza, ma addirittura l’egemonia in Europa e nel mondo.”
B. Croce, Storia d’Europa, cit.
La stampa tedesca del tempo scriveva con disinvoltura ch’era arrivato il momento in cui
l’Inghilterra <<doveva rinunziare alla supremazia mondiale e lasciare mano libera alla
Germania>> in modo che questa potesse farsi centro di un’unione di tutta l’Europa media,
<<battere la Francia, toglierle le colonie, ingrandirsi nel Belgio e nell’Olanda, nell’Africa e
nell’Asia>>.
Il problema delle cause immediate
Riguardo le origini immediate del conflitto, oggi trovano consenso le conclusioni dello
storico francese Pierre Renouvin.
“Austria e Germania, protese a espandersi rispettivamente nei Balcani e nel mondo,
approfittarono dell’assassinio di Sarajevo per attuare i loro piani, per questo redassero
l’ultimatum alla Serbia in termini inaccettabili. Gli imperi centrali, pur sapendo che la
guerra alla Serbia avrebbe determinato un conflitto europeo, decisero di correre il rischio,
convinti ch’era preferibile che la guerra scoppiasse nel 1914, quando le potenze dell’Intesa
erano poco preparate, piuttosto che dopo, per questo elusero qualsiasi compromesso. La
mobilitazione russa, considerata una delle cause dello sciogliersi della guerra austro- serba
in guerra europea, sebbene un fatto grave, è la conseguenza della politica aggressiva
austriaca nei Balcani e del passo tedesco d’impedire anche la mobilitazione parziale. Le
iniziative moderatrici tedesche tendevano soltanto a far ricadere la responsabilità del
conflitto sulla Russia e a ottenere la neutralità britannica. La situazione internazionale nel
1914 era tesa e grave ma fu l’azione diplomatica austro – tedesca a fare precipitare gli
eventi.”
P. Renouvin, Les origines immédiates de la guerre, Paris, 1927, in F. Curato, La
Storiografia delle origini della prima guerra mondiale, cit.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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(in ordine di rilevanza a giudizio della curatrice)
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G.PIEROPAN,Ortigara 1917 ,Il sacrificio della 6ª armata. Ugo Mursia Editore Milano
2007
APPARATO ICONOGRAFICO
42
Fig. 1. Vittorio Emanuele III
Fig. 2. Guglielmo II
Fig.3. Nicola II (1894-1914)
43
Fig. 4. Cabrinovic
Fig.5. Giovanni Giolitti.
44
Fig.6. Maometto V
Fig.7. Sidney Sonnino
A cura di Arianna Tricarico
45
Fig.8.
Francesco Ferdinando (1863-1914)
Fig.9. Francesco Giuseppe
..
46
Fig.10.
Carlo I
Fig.11. Zita di Borbone
Fig.12. Ferdinando I di Bulgaria
47
Fig.13.
Antonio Salandra
Fig.14. Prigionieri di guerra tedeschi
48
Fig.15.Maresciallo Foch
Fig.16. Maresciallo D. Haig
49
Fig.17. Generale Ludendorff
Fig.18. Maresciallo Von Hindenburg
50
Fig.19. Gen. Aleksey Brusilov
+
Fig. 20. Generale
Luigi Cadorna
A cura di Ilenia Savino
51
Fig. 21. Mar. Armando Diaz
a cura di Ilenia Savino
52
REPERTORIO VIDEOGRAFICO
1) Vero filmato sulla prima guerra mondiale:
https://www.youtube.com/watch?v=zlu7ZLqWlt4 ( Il video contiene descrizioni del
conflitto in lingua inglese che raccontano, man mano, ciò che accadeva sul campo di
battaglia). *
2)Top 10 - 10 fatti incredibili sulla Prima guerra mondiale:
https://www.youtube.com/watch?v=8xX5uBz-Zcs
3)Caporetto 1917 dall'Isonzo al Piave:
https://www.youtube.com/watch?v=mUG2W0OLV4c
4)PRIMA GUERRA MONDIALE: I GAS :
https://www.youtube.com/watch?v=z4LfQrWFRHU
5)Le nuove armi della Prima Guerra Mondiale (Parte 1) :
https://www.youtube.com/watch?v=2NRkF-2DFiE
6)Le nuove armi della Prima Guerra Mondiale (Parte 2) :
https://www.youtube.com/watch?v=EJjxI4ehCbw
7)Scemi di guerra. La follia nelle trincee:
https://www.youtube.com/watch?v=3cswA3XXMck ( Nonostante il titolo inadeguato, il
filmato ci mostra scene di vita dei soldati nelle trincee).
8)La Guerra Mondiale 15-18, 9M. soldati morti, 20M. uomini invalidi/impazziti.
[documentario] : https://www.youtube.com/watch?v=UzrEJMl2RVY
9)La Grande Guerra in Alta quota ! filmati originali (ww1 war in the alps ) :
https://www.youtube.com/watch?v=O26m5zKJbho
10)Epic History: World War One – 1914:
https://www.youtube.com/watch?v=PbwH1ZBnYds (Video esplicativo sulle cause, i
personaggi, i luoghi e fatti della prima guerra mondiale attraverso cartine geografiche in
lingua inglese)
11)Carlo Orelli: l'ultimo fante della Grande Guerra:
https://www.youtube.com/watch?v=gaOwy3x4g5o (Il video contiene la testimonianza di
un soldato reduce dalla Grande Guerra)
12) da vedere !!LA GRANDE GUERRA La Rai:
https://www.youtube.com/watch?v=ufQj8HUjURU
53
13) Dal Patto di Londra alla Stafexpedition: L’Italia nella prima guerra mondiale:
http://www.oilproject.org/lezione/grande-guerra-italia-interventisti-neutralististrafexpedition-7503.html
14)La Prima Guerra Mondiale: https://www.youtube.com/watch?v=QbvoplzmASM
* Ecco le frasi presenti nel video tradotte in lingua italiana:
-
-
Uno sbarramento di artiglieria del fronte tedesco. Somme, Francia 1916.
Di questo tipo è una delle scene più notevoli mai filmate.
I soldati attraversano lo sbarramento di luce.
Loro si imbattono in camminamenti (Fossati, scoperti o con blindamento, che serve a
collegare elementi di fortificazione campale o permanente, e a sottrarre il movimento
degli uomini all’osservazione e al fuoco del nemico) mentre cercano di sfuggire al
fuoco di fila.
I gas inghiottivano coloro che scappavano nelle trincee.
Granate pesanti cominciarono a piovere sui soldati in ritirata.
Molti vengono abbattuti dalle schegge.
I soldati vengono scaraventati come bambole di pezza da proiettili che cadono.
La prima linea è bombardata per superare il filo metallico e la fanteria trincerata.
Le granate mutilano terra e soldati nello stesso modo.
Le granate continuano a piovere sui morti e sui feriti.
L’artiglieria è stata la causa principale delle morti nella prima guerra mondiale su
entrambi i versanti.
a cura di Morena Vidone e Michela Petracca
54
FILMOGRAFIA PRIMA GUERRA MONDIALE
La Guerra e Il Sogno di Momi
Regia: Segunto de Chomòn
Paese di produzione: Italia
Anno : 1917
Charlot Soldato
Titolo originale: Shoulder Arms
Regia: Charlie Chaplin
Paese di produzione: USA
Anno: 1918
55
All’ Ovest Niente di Nuovo
Titolo d’origine :All Quiet on the Western Front
Regia :Lewis Milestone
Paese di produzione: USA
Anno: 1930
Montagne in Fiamme
Titolo originale : Berge in Flammen
Regia : Luis Trenker
Paese di produzione: Germania,Francia
Anno: 1931
56
Il Compagno B
Titolo originale : Pack up your Troubles
Regia: George Marshall
Paese di produzione : USA
Anno: 1932
La Grande Illusione
Titolo originale: La Grande Illusion
Regia : Jean Renoir
Paese di produzione : Francia
Anno: 1937
57
La Spia in Nero
Titolo originale: The Spy in Black
Regia:Michael Powell
Paese di produzione: Gran Bretagna
Anno: 1939
Il Sergente York
Titolo originale: Sergeant York
Regia : Howard Hawks
Paese di produzione: USA
Anno: 1940
58
Il caimano del Piave
Titolo originale: Il caimano del Piave
Regia: Giorgio Bianchi
Paese di produzione: Italia
Anno: 1951
Orizzonti di gloria
Titolo originale: Paths of glory
Regia: Stanley Kubrick
Paese di produzione: USA
Anno: 1957
59
La grande guerra
Titolo originale: La grande guerra
Regia: Mario Monicelli
Paese di produzione: Italia, Francia
Anno: 1959
Le avventure di un giovane
Titolo originale: Hemingway’s Adventures of a Young Man
Regia: Martin Ritt
Paese di produzione: USA
Anno: 1962
60
Per il re e per la patria
Titolo originale: King and Country
Regia: Joseph Losey
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 1964
La caduta delle aquile
Titolo originale: The Blue Max
Regia: John Guillermin
Paese di produzione: USA
Anno: 1966
61
Il barone rosso
Titolo originale: Von Richthofen and Brown
Regia: Roger Corman
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 1971
Il battaglione perduto
Titolo originale: The lost battalion
Regia: Russel Mulcahy
Paese di produzione: USA, Lussemburgo
Anno: 2001
62
Torneranno i prati
Titolo originale: Torneranno i prati
Regia: Ermanno Olmi
Paese di produzione: Italia
Anno: 2014
a cura di Annalisa Centonza e Nancy Bevilacqua
63
LA PRIMA GUERRA MONDIALE NELLA LETTERATURA INGLESE ED
EUROPEA...
“L'uomo deve essere addestrato alla guerra. La donna al riposo del guerriero. Tutto il resto è
stupidità.”
- Nietzsche
In campo letterario, non esiste tema che abbia generato più opere della guerra stessa: infatti
è da sempre una delle più grandi matrici narrative. Sulle battaglie, sugli eroi, sulle
conquiste e sulle sconfitte si è costruita, nel corso degli anni, una buona fetta della nostra
immaginazione.
Nel 1916 fu pubblicato “Le Feu” (Il Fuoco) di Henry Barbusse, un romanzo autobiografico
in cui l'autore narra la sua esperienza come soldato nell'esercito francese sul fronte
occidentale.
Al 1920 appartiene “Nelle tempeste d'acciaio”, libro di memorie di Ernst Jünger. In cui
viene narrata l'esperienza dello scrittore tedesco nella Grande guerra sul fronte occidentale
ambientata tra 1915 e il 1918.
Di uno scrittore statunitense, John Dos Passos è “Three Soldiers” del 1921. Il
protagonista è un musicista che, stanco della propria libertà, decide di trovare se
stesso andando a combattere in guerra.
“Il buon soldato Sc’vèik” di Jaroslav Hasek, è un romanzo ispirato al personaggio
comparso per la prima volta nel 1912 nel “Il bravo soldato Švejk e altre strane storie”.
Questo romanzo è rimasto interrotto per la morte dell’autore nel 1923 e fu pubblicato in
quattro tomi dal 1921 al 1923.
Scritto tra il 1924 e il 1928 è “Parade’s end” di Ford Madox Ford, che descrive un mondo
alla fine dell’esistenza tramite la vicenda di un uomo e della perdita delle sue illusioni.
Del 1929 è “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Enrich Marie Remarque, uno tra i
più noti inni al pacifismo scritti nel Novecento.
“Avevamo diciotto anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti
a spararle contro.”
“Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella
dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi,
tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.”
Dello stesso anno, altro capolavoro è “Addio alle armi”, scritto da Ernest Hemingway
ispirandosi alla sua esperienza di paramedico presso il fronte italiano nel 1917. Dello stesso
autore conosciamo anche “Il ritorno del soldato”. Questo racconto riflette l’esperienza del
primo dopoguerra: un reduce ritorna a casa dopo aver perduto ogni illusione e ogni
speranza, rassegnato però a una vita tranquilla e ripetitiva.
“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine.”
Ancora del 1929 è “Morte di un eroe” di Richard Aldington, uno dei più famosi esponenti
dell’imagismo.
“Good-Bye to All That” è un'autobiografia scritta dallo scrittore inglese Robert Graves,
uscita in una prima edizione nel 1929, in una seconda riveduta dall'autore nel 1958. La
maggior parte del contenuto riguarda la sua esperienza come ufficiale durante la guerra.
Scritto nel 1936 è “Un anno sull’altopiano” di Emilio Lussu, grande soldato italiano.
“Blasting and Bombardiering” è invece l'autobiografia del pittore inglese e autore satirico
Percy Wyndham Lewis pubblicato nel 1937.
64
Di Agnes Cardinal è “Women’s writing on the First World War”, del 1999.
Questa antologia raccoglie la scrittura femminile pensando al periodo 1914-1930 della
guerra: lettere , pagine di diario e saggi offrono un interessante collegamento con romanzi e
racconti attraverso i quali le donne hanno cercato di comprendere gli estremi della vita in
tempo di guerra .
Più recentemente, nel 2002, viene pubblicato “Il mio secolo” di Günter Grass: una raccolta
di circa 100 brevi racconti che ripercorrono gli avvenimenti principali che hanno
caratterizzato la storia tedesca e mondiale del XX secolo, dalle due guerre mondiali agli
anni del Muro di Berlino e della divisione della Germania, fino alle prime elezioni libere
tedesche e così via.
a cura di Maria Grazia Manduzio
65
IL SECONDO DOPOGUERRA
Tra USA e URSS
66
USA E URSS DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA
DEL MURO DI BERLINO
Vito Sibilio
Il Secondo Dopoguerra (1945-1989) è caratterizzato dalla formazione e dalla durata del
sistema politico scaturito dalla II Guerra Mondiale. In esso l’Europa perde la sua antica
centralità e l’egemonia viene esercitata dagli USA e dall’URSS2. Attorno agli USA si
radunarono le nazioni democratiche d’Europa, America e Oceania (Primo Mondo); gli Stati
socialisti europei, asiatici e africani si strinsero attorno all’URSS (Secondo Mondo3); i Paesi
ex-coloniali, che ottennero l’indipendenza tra gli anni ‘50 e ‘60 in Africa e Asia, tentarono
un velleitario terzo schieramento, dei non allineati, costituendo un Terzo Mondo che si
differenziò più per le drammatiche condizioni di sottosviluppo che per una reale autonomia
politica. USA e URSS si combatterono nella guerra fredda, ossia in una competizione totale
o in conflitti indiretti, non potendo confrontarsi direttamente a causa della pericolosità dei
loro armamenti termonucleari.
Nonostante la tensione tra Washington e Mosca sia durata per tutto il dopoguerra, esso è
divisibile in fasi, in cui più o meno il contrasto si accentuò. Abbiamo:
1.
La guerra fredda vera e propria (1945-1953)
2.
La coesistenza pacifica (1953-1963), che pure ebbe gravi momenti di tensione
3.
La distensione (1963-1979), che pure coincide con le fasi più drammatiche della
Guerra del Vietnam
4.
La cosiddetta seconda guerra fredda (1979-1985)
5.
La nuova distensione (1985-1989)
6.
La crisi e la dissoluzione del sistema sovietico (1989-1991), che segna il trapasso dal
Dopoguerra all’Età presente.
LA GUERRA FREDDA
Nella prima fase, la guerra fredda vera e propria (1945-1953) protagonisti principali sono H.
Truman e Stalin, e gli eventi salienti l’enunciazione della “Dottrina Truman”, il varo del
“Piano Marshall” (1947-1948), il cosiddetto “Colpo di Praga” (1948), la Rivoluzione
Cinese (1949), e la Guerra di Corea (1950-1953).
Il presidente americano Henry Truman (1945-1953), energico rappresentante del Partito
Democratico, dovette rendersi conto dell’errore di Roosevelt, che aveva concesso troppo ai
sovietici. Essi andavano imponendo con la forza il loro regime nei vari paesi dell’Est,
processando e condannando gli oppositori politici interni ed esterni al partito in spettacolari
2
Le sigle significano: United States of America (Stati Uniti d’America), Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche. L’URSS era detta anche Unione Sovietica. Gli USA comprendono 50 Stati, l’URSS ne aveva 15.
3
Come vedremo, anche il blocco comunista aveva le sue divisioni, giocate sul contrasto URSS – Cina. Ma la
Cina non ha mai svolto una funzione egemonica sugli altri Stati comunisti. In ogni caso, le caratteristiche socioeconomico-politiche erano le stesse in tutti i paesi socialisti. Oggi sopravvivono solo la Cina, il Vietnam, il Laos, la
Corea del Nord e Cuba.
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processi pubblici, che erano la prosecuzione naturale delle istruttorie politiche del Terrore
staliniano degli Anni ’30, e in cui agli imputati venivano estorte le confessioni di crimini
mai commessi con raffinate torture psicologiche e con brutali violenze fisiche. L’acme si
toccò nel 1948, quando gli stalinisti compirono il colpo di stato in Cecoslovacchia (Colpo
di Praga). Già l’anno precedente Truman aveva enunciato la sua dottrina in politica estera,
per cui bisognava assolutamente evitare che il bolscevismo russo si espandesse
ulteriormente (Dottrina Truman), e aveva varato il Piano Marshall per legare a sé le sorti
economico-sociali del mondo libero. Una falla sembrò aprirsi nel sistema comunista con lo
strappo tra Stalin e la Iugoslavia di Tito (1948), che, pur essendo comunista, non voleva
piegarsi alle direttive economiche di Stalin. Belgrado si avvicinò moderatamente
all’Occidente. Ma già l’anno dopo il comunismo otteneva una nuova, importantissima
affermazione: Mao Tse-Tung prendeva il potere in Cina, dopo una lunga guerriglia contro
il regime nazionalista di Ciang Kai-Shek. Nasceva così la Repubblica Popolare Cinese
(1949). Quando perciò i comunisti passarono all’offensiva anche in Corea, Truman
s’impegnò nella guerra aperta. La Corea, ex-dominio giapponese, era stato occupato a nord
dai sovietici, che avevano imposto il regime terribile di Kim Il-Sung (1912-1994), e a sud
dagli USA, che avevano insediato il regime conservatore di Syngman Rhee (1875-1965). Il
confine correva lungo il 38° parallelo. Nel 1950 Kim Il-Sung, sostenuto da Mao, sferrò
l’attacco contro il Sud, e subito gli USA, con mandato ONU, intervennero per respingerlo.
L’URSS, temporaneamente ritiratasi dalle Nazioni Unite, stette a guardare. Se gli USA
avessero condotto a fondo l’attacco, avrebbero dovuto attaccare anche la Cina con le armi
nucleari, in quanto le basi dei “volontari” cinesi che combattevano in Corea si trovavano in
Manciuria. Ma questo avrebbe portato all’olocausto atomico e alla guerra mondiale. Truman
si accontentò di mantenere la divisione al 38° parallelo, con un armistizio che dura ancor
oggi. La morte di Stalin (1953), avvenuta alla vigilia di un’ennesima, feroce purga nei
confronti di ebrei e stretti collaboratori del dittatore, aprì lo spiraglio della distensione
politica.
LA COESISTENZA PACIFICA
Nella fase della coesistenza pacifica (1953-1963), protagonisti principali sono J.F.Kennedy
e N.Kruscev, e gli eventi più importanti la Rivoluzione Ungherese (1956), la Crisi di
Berlino (1958-1961) e la Crisi di Cuba (1962).
Il motore degli eventi fu in URSS. La morte di Stalin aprì una fase di direzione politica
collegiale, mancando una forte personalità che s’imponesse tra i successori del despota. Tra
essi scoppiò una lotta sorda ma sommersa per il potere, in cui il potentissimo e crudele
ministro degli Interni di Stalin, Lavrentij Berija, fu ucciso (1953), e da cui emerse l’astro di
Nikita Kruscev (1953), già stalinista di ferro, ma ora convinto della necessità di una
coesistenza pacifica tra i due blocchi, per evitare la distruzione del mondo. Egli enunciò
questa convinzione nel 1956 al XX Congresso del PCUS (partito comunista dell’URSS), in
cui peraltro, in un celebre “Rapporto segreto” – che invece fu subito conosciuto –
denunciò gli eccessi del culto della personalità di Stalin e le sue violenze contro i comunisti
stessi. Questo avviò una parziale liberalizzazione del sistema sovietico, ma non modificò la
natura illiberale del regime comunista, pretendendo di scaricarne le colpe sulla sola
personalità deviata di Stalin. Infatti, quando in Ungheria, nello stesso anno, il primo
ministro Imre Nàgy tentò di introdurre riforme democratiche, perché anche lui nauseato
dallo stalinismo, Kruscev, chiamato in aiuto dal segretario del Pc Yanosh Kadar, inviò le
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truppe del Patto di Varsavia – nato l’anno prima – a restaurare il comunismo, nonostante la
popolazione magiara sostenesse Nàgy, che fu giustiziato. Questo intervento suscitò aspre
reazioni nel mondo libero. E nonostante questi limiti, le modeste aperture di Kruscev
suscitarono l’indignazione di Mao. Questi, dopo aver tentato una modesta forma di
rinnovamento politico che però si era ritorto contro il Pc – linea dei “Cento Fiori”, 1956- era
ritornato al sistema stalinista, entrando in polemica con Mosca (1957).
Tuttavia, il presidente americano Dwight D. Eisenhower (1953-1961), repubblicano, cercò
di assecondare il riformismo krusceviano, e il movimento di riavvicinamento politico tra
USA e URSS raggiunse l’apice con la presidenza Kennedy (1961-1963). La collaborazione
– più ideale che reale – tra lui e Kruscev, coincisa con il pontificato di Giovanni XXIII
(1958-1963) segnò le speranze di rinnovamento e pace di un’intera generazione, poi
crudelmente frustrate.
John Fitzgerald Kennedy, democratico, si presentò alle elezioni col programma di una
“nuova frontiera”, da raggiungersi mediante la piena integrazione delle minoranze etnicoculturali – era lui stesso cattolico e di origini irlandesi – in particolare dei neri, il cui
movimento di emancipazione, iniziato sotto Eisenhower, sarebbe stato guidato da Martin
Luther King (1929-1968) pastore battista, nobel per la pace nel ’64, e assassinato nel ‘68.
Kennedy mirava a riassorbire la disoccupazione, e a rendere più attento lo Stato ai problemi
sociali, ampliando la linea già seguita dai predecessori. In politica estera, mirava a sostenere
i paesi del Terzo Mondo, in particolare latinoamericani, specie per sottrarli all’influenza
sovietica, e a raggiungere una pacifica convivenza con l’URSS. Questo non significa però
che fosse arrendevole con l’espansionismo rosso, ma solo che intendeva adattarsi con
duttilità alle varie situazioni politiche in cui si fosse trovato (dottrina della “risposta
flessibile”). Infatti fu solidale con la Germania Occidentale quando Kruscev fece alzare il
Muro di Berlino (1961) che divideva in due la città, per evitare la fuga verso i quartieri
della parte Ovest. La tensione si stemperò quando gli USA assicurarono l’URSS che non
avrebbero acconsentito all’armamento atomico della Repubblica Federale Tedesca,
progettato da Eisenhower. Nel 1962 inoltre Kennedy reagì con decisione al progetto di
Kruscev di installare a Cuba, di fronte alla Florida, dei missili nucleari. A Cuba infatti nel
1959 Fidel Castro aveva guidato un’insurrezione contro il governo militare e aveva
instaurato il comunismo. Kennedy, che aveva inutilmente tentato di rovesciare l’unico
regime bolscevico americano già nell’anno precedente (Sbarco della Baia dei Porci),
minacciò la guerra se i russi non avessero smobilitato. Questa volta fu Kruscev a cedere.
Oramai sia USA che URSS erano convinti della necessità della convivenza, ma i grandi
fautori della distensione uscirono di scena improvvisamente. Kennedy fu assassinato a
Dallas nel 1963, in circostanze misteriose, probabilmente in seguito ad una congiura,
annodata tra tutti i settori della società americana ostili alle riforme del presidente, che si
avviava a riformare la CIA e l’FBI, e a diminuire il suo appoggio agli anticastristi. Kruscev,
incapace di far progredire economicamente l’URSS in una pacifica competizione con gli
USA, minacciato dal dissenso degli intellettuali, screditato per la rottura con la Cina,
ondivago e superficiale nella realizzazione delle riforme, fu destituito nel 1964, e sostituito
da Leonid Brežnev (1964-1982). Ma la politica della distensione, nonostante tutto, continuò.
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LA DISTENSIONE
Nella Terza Fase del Dopoguerra (quella della Distensione, 1963-1979), protagonisti furono
Brežnev, Johnson, Nixon e Carter. Eventi principali furono la Guerra del Vietnam (19641975), l’invasione sovietica della Cecoslovacchia (1968) e dell’Afghanistan (1979-1989).
Se il presidente americano Johnson (1963-1968), già vice di Kennedy, proseguì la politica
di Kennedy ma con minor carisma (dottrina della “Grande Società”), Leonid Brežnev attutì
la portata delle riforme vagheggiate da Kruscev e fu artefice di un ricongelamento politico
internazionale che intirizzì tutto l’Est europeo. Terreno di frizione fu stavolta il Vietnam.
Colonia francese occupata dai giapponesi e dai loro alleati, alla fine della guerra mondiale
era stato teatro di un conflitto tra francesi e guerriglieri locali (1945-1954), al termine del
quale era stato diviso in un Nord comunista, guidato da Ho Chi Min e un Sud nazionalista,
sotto Ngo Dinh Diem, con la frontiera lungo il 17° parallelo. I tentativi di riunificazione
pacifica fallirono per l’aggressività del Vietnam del Nord e la diffidenza USA, e nel 1955
iniziò una guerriglia comunista nel Sud del paese, combattuta dai cosiddetti vietcong. Gli
USA sostennero il Vietnam del Sud e nel 1964 attaccarono il Nord per snidare i guerriglieri
dalle loro basi, sostenuti dalla Cina e dall’URSS. Fino al 1973 gli Americani si estenuarono
in un lungo conflitto, in cui le loro risorse militari erano depauperate dalla guerriglia, a cui
non erano preparate, in cui non poterono impegnarsi a fondo per tener circoscritto il
conflitto, e in cui commisero obiettive atrocità, che la stampa occidentale diffuse molto di
più di quelle, più nascoste, dei vietcong. Duramente contestato per tutto questo, alla fine il
presidente repubblicano Richard Nixon (1969-1974)4 fu costretto a ritirarsi dal Vietnam,
che cadde tutto sotto il dominio comunista (1975), sotto il quale ancora si trova.
Nel frattempo, Brežnev, nel 1968, aveva invaso la Cecoslovacchia, dove il leader riformista
Alexander Dub ek aveva avviato un corso riformatore (“Primavera di Praga”). Timoroso
di perdere via via il controllo degli Stati comunisti in seguito al diffondersi del dissenso,
Brežnev aveva elaborato la dottrina della “sovranità limitata”, per cui le scelte di un paese
socialista erano libere fino a quando non danneggiassero gli interessi di tutto il blocco
sovietico. Inoltre, nel 1979 l’URSS invase l’Afghanistan per sostenere i comunisti al potere
di Najibhullah.
Nonostante tutto USA e URSS trovarono il modo di concludere accordi sul rispetto dei
diritti umani (Helsinki, 1975; assai poco rispettati dai russi) e per la riduzione degli
armamenti (Salt I e II, 1972 e 1979). Fu merito del presidente Jimmy Carter (1977-1981),
democratico, il raggiungimento di questi accordi, ma egli dovette rassegnarsi alla
Rivoluzione islamica in Iran, dove l’ajatollah (capo religioso) Ruhollah Khomeini depose lo
scià Rehza Palevi, filostatunitense, e instaurò una repubblica teocratica, che nazionalizzò il
petrolio, e umiliò gli USA facendo prigionieri i funzionari d’ambasciata americani a
Teheran, senza che la CIA riuscisse a liberarli con la forza (1979). Carter ci rimise il posto.
Gli subentrò il repubblicano Ronald Reagan (1981- 1989).
LA NUOVA GUERRA FREDDA
Nella Quarta Fase (Nuova Guerra Fredda, 1979-1985), protagonista è Reagan, che riprende
l’offensiva antisovietica. Il presidente sostenne che solo un’accentuata competizione con
4
Nixon è ricordato per aver organizzato un sistema di spionaggio degli oppositori politici, la cui scoperta lo
costrinse a dimettersi (Scandalo Watergate). Il suo vice, Gerald Ford, assunse la presidenza fino alla fine del mandato
(1977).
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l’URSS – chiamata significativamente “Impero del Male nel mondo” – poteva portare al
tracollo il sistema sovietico, come in effetti avvenne. Fautore di un corso liberista in
economia (la Reaganomics), Reagan rilanciò la corsa agli armamenti, specie quelli di difesa
spaziale (lo Scudo stellare), per cui i Russi erano impreparati, e s’impegnò contro
l’espansionismo sovietico in America Latina. I successori di Brežnev (Yurij Andropov,
1982-1984, e Konstantin ernenko, 1984-1985) non furono all’altezza della situazione.
Inoltre la guerra in Afghanistan mangiava uomini e risorse ai russi, senza riuscire ad
imporre il comunismo ai ribelli nazionalisti e islamici, i mujaeddin – tra cui militavano i
futuri talebani. C’era bisogno di un corso politico radicalmente nuovo, e di una personalità
spiccata. Fu trovata in Mikhail Gorbacev.
LA NUOVA DISTENSIONE
Protagonista assoluto dell’ultima fase (1985-1989/1991), Gorbacev concepì la sua riforma
in termini di trasparenza (glasnost) e rinnovamento (perestrojka). Egli sperava di
riformare, salvandolo, il sistema sovietico, reso sclerotico dal dirigismo economico, dalla
militarizzazione estrema e dalla burocrazia corrotta. Ma la crisi del modello bolscevico, che
covava ormai da trent’anni, era irreversibile. Gorbacev dovette rassegnarsi prima a perdere
gli Stati satelliti, per ottenere gli aiuti dell’Occidente, e poi a veder implodere anche
l’URSS. Tuttavia, il fatto che non seppe prevedere l’inutilità della sua riforma non lo
sminuisce storicamente. In realtà, il sistema sovietico era inadatto a sostenere le sfide
dell’Occidente perché privilegiava ancora l’industria pesante rispetto a quella dei beni di
consumo, non comprendeva la portata rinnovatrice in economia della cibernetica e della
robotica, non capiva che il totalitarismo non poteva sopravvivere in un mondo globalizzato,
in cui tutti possono e vogliono confrontarsi tramite i media, non era riuscito a soffocare le
identità nazionali e culturali. Non a caso l’elezione del papa polacco Giovanni Paolo II
(1978-2005) aveva avviato ampi movimenti popolari anticomunisti in Polonia, e rafforzato
il sindacato libero di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, impensierendo non poco
Brežnev. I viaggi del papa nella sua patria avevano attirato l’attenzione del mondo sulle
sofferenze dei polacchi e degli slavi in genere sotto il comunismo. L’autorità morale del
papa servì ovunque, nel mondo, a rivendicare più libertà e a deprecare il materialismo
marxista, persecutore di ogni religione. Segno che l’ateismo militante non aveva sradicato il
senso religioso dalle coscienze. Gorbacev, dopo aver consolidato il suo potere interno, avviò
le riforme. Avendo bisogno di sbloccare risorse economiche per usi civili, avviò il disarmo
bilaterale (accordi di Ginevra, 1985, Reykjavik, 1986; trattati Inf, 1987, Start I, 1991), e si
disimpegnò dall’Afghanistan (1989), dove alla fine prevalsero i talebani del mullah Omar.
Tuttavia, il tentativo di esportare la perestrojka nei Paesi satelliti fallì. La Russia infatti
aveva tratto dal comunismo l’indubbio vantaggio di essere la nazione guida, mentre gli altri
stati erano divenuti solo vassalli. Inoltre, nessuno di loro aveva scelto liberamente il
comunismo. Perciò, non appena poterono, le opposizioni, mute da quarant’anni,
rovesciarono i bolscevichi, sostenuti da imponenti manifestazioni di piazza. Il disimpegno
delle truppe sovietiche facilitò il tutto, e non si versò una goccia di sangue. La Russia non si
oppose per non perdere gli aiuti economici occidentali. Tra l’89 e il ’91 Polonia, Ungheria,
RDT, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Iugoslavia e Albania si liberarono. Spesso i
comunisti si riciclarono sotto forma di socialisti, e mantennero temporaneamente il potere.
L’evento simbolo fu l’abbattimento del Muro di Berlino, in diretta TV, da parte dei
berlinesi, in una grande manifestazione pacifica, nella notte tra l’8 e il 9 novembre 1989,
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l’anno in cui caddero più regimi comunisti. Solo in Romania la liberazione comportò la
fucilazione di Nicolae Ceausescu, dittatore locale, rovesciato da una congiura di riformisti e
da un moto di piazza. Gorbacev tentò di salvare almeno l’URSS, contando sulla
benevolenza del presidente George Bush senior (1989-1993), impegnato a costruire un
Nuovo Ordine Mondiale e a cacciare l’Iraq dal Kuwait (1990, Seconda Guerra del
Golfo5). Ma un colpo di stato vetero-comunista escluse Gorbacev dal potere (1991),
facendo insorgere i moscoviti in sua difesa, guidati dal presidente russo6 Boris Eltsin.
Liberato, Gorbacev vide abolire il PCUS da Eltsin, e molte nazioni lasciare l’URSS.
Riconoscendo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, si dimise il 25 dicembre del 1991.
Eltsin divenne presidente, e creò la CSI (Comunità di Stati Indipendenti), che riunì 10 delle
15 repubbliche sovietiche in una blanda unione internazionale.
5
6
La Prima fu combattuta tra l’Iraq e l’Iran di Khomeini (1980-1988).
Ossia della Repubblica Federativa Sovietica Russa, primo stato dell’URSS, oggi Federazione Russa.
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IL MONDO E GLI USA NELTERZO DOPOGUERRA
Vito Sibilio
CARATTERI GENERALI
Gli USA sono l’unica superpotenza sopravvissuta nel Terzo Dopoguerra (dopo il Conflitto
freddo con l’URSS), e hanno cercato di unificare la leadership del mondo in senso
liberaldemocratico o almeno filooccidentale. Ma la molteplicità dei compiti che incombono
su di loro rende sempre più difficile tale compito, tanto più che esso esige uno sforzo
militare costante e diversificato, assai costoso, e che l’economia americana attraversa fasi
alterne di crescita e regresso. Non mancano tendenze isolazioniste, mentre è sempre più
forte la concorrenza economica europea, giapponese, cinese e indiana. All’unilateralismo
dell’America si contrappone l’ascesa di potenze regionali e continentali, e la tendenza
internazionale alla multilateralità7. In ogni caso il primato culturale, tecnologico,
scientifico e militare degli USA, nonostante il depauperamento demografico causato dalle
guerre, non è ancora sostanzialmente eroso, e l’interdipendenza economica tra l’America e
le potenze emergenti – ai cui investimenti, specie cinesi, sono stati aperti i mercati
statunitensi, per sovvenire al debito pubblico di Washington – rende ancora centrale il
sistema produttivo d’Oltreoceano in tutto il mondo. Gli USA infatti primeggiano
specialmente nella new economy, basata sulla rete telematica, e nella erogazione di servizi
proprio in questo settore strategico e innovativo, per cui da essi è partita una nuova
Rivoluzione produttiva post-industriale. L’inglese rimane la lingua franca del globo, con la
tendenza a fagocitare gli idiomi più arcaici o complessi, specie in Asia e Africa. Le alleanze
politico-militari imperniate sugli USA rimangono poderose nelle Americhe (OSA), in
Europa (NATO), in Asia e Oceania.
Carattere fondamentale del mondo egemonizzato dagli USA è la globalizzazione, come
tendenza all’ipercomunicazione e all’interdipendenza e omogeneizzazione delle culture
(specie tramite internet), e come formazione di un mercato unico mondiale. Risvolto della
medaglia è la mondializzazione e l’interdipendenza dei problemi ecologici e del
sottosviluppo. A quest’ultimo si connette il flusso migratorio intercontinentale dai Paesi
depressi e sovrappopolati a quelli ricchi e in calo demografico, cosa che crea problemi
d’integrazione e squilibri sociali. Continuano inoltre le disuguaglianze tra popoli ricchi e
poveri – tra i quali vanno ora annoverati anche quelli reduci del comunismo – mentre le
sacche di emarginazione nei paesi progrediti sono sempre più ampie – anziani, malati,
handicappati, disoccupati, immigrati – anche a causa della proporzione planetaria dei flussi
migratori, causati dal sottosviluppo e dalla sovrappopolazione del Terzo Mondo. In
opposizione inoltre alla globalizzazione, abbiamo in molte nazioni – specie islamiche - la
tendenza a un nazionalismo e a un integralismo nuovi, magari in risposta alla laicizzazione
imposta tramite la società dei consumi, che sovverte istituzioni e valori millenari. La sfida
di questi ultimi è spesso armata, e ha implicato la mondializzazione delle guerre, sia
attraverso le sofisticate tecnologie e strategie USA, che attraverso il terrorismo
internazionale. Il clima culturale di riferimento dell’odierno villaggio globale è il Post7
Le potenze alternative e regionali dovrebbero essere la UE, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone, il Brasile,
l’Australia. Iniziato il riarmo tedesco e nipponico alla fine della Guerra Fredda, si parla di un seggio all’ONU per
entrambi i Paesi.
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moderno, in cui, in seguito alla crisi delle ideologie del Novecento, invece del trionfo del
Liberalismo e della “Fine della Storia” teorizzati negli anni novanta, si è diffuso un
relativismo e un pensiero debole che ha dato nuovo spazio a forme culturali, filosofiche e
religiose di stampo premoderno, alcune delle quali assai violente, come l’integralismo
islamico. In genere, in seno alle correnti culturali specificamente occidentali, ferve il
dibattito sulle questioni bioetiche, rese brucianti dai progressi scientifici, la cui soluzione
solo dieci anni orsono sembrava riscontrabile nella mera applicazione dei principi del
laicismo tecnocratico.
In questo ventennio di storia statunitense distinguiamo una fase di egemonia democratica e
una repubblicana.
FASE DEMOCRATICA (1993-2001)
Protagonista è Clinton; eventi cardine le Guerre di Bosnia e Kosovo, l’intervento in
Somalia, il rilancio e l’interruzione del processo di pace in Palestina.
George Bush, troppo impegnato in politica estera, e dotato di scarsa sensibilità sociale,
venne rimpiazzato dal democratico William Clinton (1993-2001), detto Bill, che avviò un
programma di riforme sociali in realtà poco riuscito. Di fatto continuò a fare degli USA il
poliziotto del mondo, con una scelta a volte davvero inevitabile. Continuò a tener sotto
controllo l’Iraq, consolidando la presenza strategica americana in Medio Oriente, non
potendo più gli Arabi scegliere di volta in volta tra USA e URSS. Un caposaldo della
politica USA nell’area fu l’alleanza con le monarchie del Golfo, ossia con la parte più
retriva del mondo arabo, e con l’Egitto, oltre che con la Turchia, membro della NATO.
Clinton intervenne, assai controvoglia, con la NATO nell’ex-Iugoslavia. Qui, caduto il
comunismo, Slovenia e Croazia – nazioni cattoliche e occidentali per cultura - si erano rese
indipendenti, suscitando la reazione del governo centrale (1990-1991). Fallito il tentativo di
tenere le due repubbliche secessioniste, il governo iugoslavo del presidente Slobodan
Milosevic (1989-2007)– controllato dai Serbi – si impegnò a sostenere la guerriglia serba
in Bosnia – Erzegovina, caldeggiando la riunione di tutti i suoi connazionali in un unico
Stato (Grande Serbia). Infatti, resasi indipendente anche questa repubblica, popolata da
bosniaci propriamente detti – di religione musulmana – croati e serbi, questi ultimi avevano
deciso di separarsi a loro volta tornando alla Iugoslavia. Iniziò una guerra civile in cui ogni
etnia cercò di eliminare le altre due nel proprio territorio (pulizia etnica), con un ritorno ad
una barbarie razzista che non si vedeva più da 50 anni (1992-1995). Significativa fu la
trasformazione dei comunisti serbi in nazionalisti. Particolarmente efferati furono i leader
serbo-bosniaci Karadzic e Mladic. Clinton, a suon di minacce e di interventi militari, impose
la Pace di Dayton (1995), con cui la Bosnia divenne una confederazione sotto la protezione
dell’ONU, che ancora perdura ed è l’unica condizione di sopravvivenza di quello Stato
lacerato. Milosevic, impegnato nella guerra bosniaca, non si oppose alla secessione della
Macedonia dalla Iugoslavia, sebbene essa fosse popolata, oltre che da macedoni e albanesi,
anche da serbi. Fu invece particolarmente duro contro gli albanesi musulmani della regione
autonoma del Kosovo, che reclamavano maggiore libertà, intraprendendo una violenta
pulizia etnica nei loro confronti. Nel 1998 la NATO impose al presidente iugoslavo di porre
fine alla pulizia etnica con un ennesimo conflitto che piegò rapidamente Belgrado. Subito
dopo gli albanesi del PKK si presero le loro vendette sui serbi costretti a fuggire, mentre il
Kosovo passò sotto il controllo di fatto dell’ONU.
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Diversamente, lo sforzo compiuto da USA e ONU per pacificare la Somalia (1992-1995),
precipitata nella lotta tribale dopo la fine della dittatura di Siad Barre, risultò inutile, e
ancora oggi il paese è nell’anarchia. Uno sforzo notevole fu profuso da Clinton per la pace
in Medio Oriente. Nel 1994 Israele e l’OLP si riconobbero a vicenda. Ma il rifiuto di
Arafat di accettare il Piano di pace proposto da Israele nel ’99-2000 e la vittoria della
Destra, guidata da Ariel Sharon, alle elezioni in quel paese, riportarono la situazione nel
caos. Dopo due mandati presidenziali, Clinton – il cui prestigio fu offuscato da scandali a
sfondo sessuale – dovette cedere il testimone, ma alle elezioni successive prevalsero i
Repubblicani.
FASE REPUBBLICANA (2001-2009)
Eletto nel 2001 proprio per aver sostenuto la necessità del disimpegno americano dalle varie
crisi mondiali, il repubblicano George W.Bush jr. si è invece trovato in condizioni tali da
doversi comportare da presidente di guerra permanente. Colpita infatti l’America
dall’attentato dell’11 settembre 2001 a New York alle Torri Gemelle e a Washington contro
il Pentagono, mediante il dirottamento e l’abbattimento di alcuni aerei di linea, sono venuti
prepotentemente alla ribalta i terroristi islamici di Al- Qaeda, guidati da Osama Bin
Laden, desiderosi di punire gli USA, considerati profanatori del sacro suolo arabo e
protettori degli ebrei, nonché corruttori del costume islamico tramite il consumismo.
L’ultimo sogno di Osama era la nascita di un nuovo Califfato panislamico, la cui teocrazia
militare avrebbe dovuto essere supportata dalle moderne tecnologie belliche. Gli USA
hanno iniziato una guerra senza quartiere contro il fondamentalismo islamico, da alcuni
considerata una Terza Guerra Mondiale, e che certo cela uno scontro di civiltà, che molti
musulmani considerano anche un conflitto religioso. Si tratta di un conflitto insidioso
perché non avviene solo in campo aperto, né solo con le armi.
Bush abbattè il regime dei Talebani – frangia ultraintegralista del mondo islamico - in
Afghanistan (2001), sostenuto da tutto il mondo, perché davano copertura ai terroristi, ma
poi, attaccando l’Iraq per abbattere Saddam Husssein, considerato vicino ad Osama Bin
Laden, entrò in contrasto con buona parte del pianeta, compresi alleati tradizionali come
Germania e Francia, oltre che con potenze antagoniste come Cina e Russia (Terza Guerra
del Golfo, 2003). Molti infatti hanno rigettato la dottrina della guerra preventiva contro
tutti i possibili nemici come contraria al diritto internazionale e alla morale; altri vi hanno
visto una maschera dietro cui si nascondeva una più cinica volontà imperialista. L’ostilità
alla guerra ha portato Giovanni Paolo II ad una grave crisi nei rapporti con Washington,
nonostante i Repubblicani rigettino, come la Chiesa Cattolica, l’aborto, l’eutanasia, il
matrimonio omosessuale, la manipolazione genetica e la fecondazione artificiale. I conflitti
afghano e irakeno hanno impegnato gli USA in lunghe e sanguinose occupazioni militari dei
Paesi coinvolti che durano ancora e che sono per loro assai più impegnative delle guerre
aperte. L’invasione dell’Iraq, supportata da accuse poi rivelatesi false e concernenti la
presenza di armi di distruzione di massa negli arsenali di Baghdad, è stato il punto focale
della politica americana degli ultimi anni. I teorici neoconservatori dell’egemonia mondiale
USA hanno considerato quel conflitto come l’occasione per sortire tre obiettivi: la
destabilizzazione del mondo arabo, il consolidamento della presenza americana nel Medio
Oriente, la diffusione di un modello politico democratico nell’area. Ma il nazionalismo
arabo antiamericano ne è stato rafforzato, lo sforzo bellico è pesante e l’Iraq è praticamente
in preda alla guerra civile. In seguito a ciò, il progetto di invasione dell’Iran, considerato
75
contiguo anch’esso al terrorismo internazionale, è stato accantonanto, e gli USA si sono
limitati a fornire un appoggio incondizionato a Israele contro i Palestinesi di Hamas,
sostenuti da Teheran e dalla Siria tramite il Libano. Il piano di una leadership USA in
Medio Oriente si è dunque capovolta in una alleanza tra Stati un tempo rivali – come la
Siria e l’Iran – in chiave antiamericana e ha dato spazio ovunque tra gli Arabi ai movimenti
più violenti. Per raggiungere i suoi obiettivi, gli USA non hanno esitato a rompere il fronte
interno dei loro alleati, appoggiandosi in chiave antifrancese e antigermanica alla Gran
Bretagna e all’Italia, e hanno propugnato l’estensione della NATO alle nazioni dell’ex-Patto
di Varsavia e dell’ex-URSS, creando gravi attriti con Mosca. Tale scelta corrisponde al
bisogno americano di nuovi sostegni militari nei teatri di guerra.
La rielezione nel 2004 di Bush alla presidenza ha dato naturalmente nuovo impulso alla sua
politica energica. Se all’interno degli USA la tutela della sicurezza ha giustificato la
riduzione delle libertà costituzionali sia nel primo che nel secondo mandato presidenziale, in
politica estera la sua seconda Amministrazione ha segnato una svolta, con l’abbandono
temporaneo dei progetti più bellicosi e con la concentrazione sui problemi dell’Iraq,
divenuto una sorta di protettorato americano, ma assai lontano dalla pace. Un
riavvicinamento all’Europa nel suo complesso, l’intesa economica con la Cina popolare – i
cui investimenti sono serviti a ripianare il debito pubblico USA – la scelta di negoziare con
la Corea del Nord, offrendo aiuti economici in cambio della fine degli esperimenti atomici,
il sostegno all’Etiopia nell’invasione della Somalia per fermare l’avanzata al potere delle
Corti islamiche a Mogadiscio e garantire un po’ di stabilità al Corno d’Africa sono stati i
punti qualificanti della svolta, assieme ad una rinnovata attenzione alle istanze morali del
Cristianesimo e ad una maggiore intesa con Benedetto XVI, accolto trionfalmente negli
USA nel 2008. Ma Bush ha commesso un grave errore riconoscendo l’indipendenza del
Kosovo nel 2008, staccandolo dalla Serbia contro il volere della Russia.
Questa potenza, sotto la presidenza dell’ex-ufficiale del KGB Wladimir Putin (1999-2008;
2012-), era ritornata ad un certo prestigio e aveva raggiunto uno sviluppo economico
importante, grazie ad una politica filooccidentale. Putin aveva svuotato la democrazia russa
di ogni reale contenuto, creando una dittatura personale, non esente dal delitto politico.
Aveva accettato la partnership con la NATO e, sposando la linea della lotta
all’antiterrorismo, aveva impedito la secessione dalla Federazione Russa della Repubblica
autonoma della Cecenia, con una lunga guerra (1994-2005), iniziata già sotto Eltsin.
Questo piccolo Stato federato, di etnia caucasica e religione musulmana, aveva cercato
l’indipendenza senza riuscirci, reagendo con un movimento terroristici stragista. Putin trasse
da ciò il motivo per giustificare una dura guerra di distruzione di massa, acclarando l’ipotesi
di rapporti tra Ceceni e al- Qaeda. USA e UE avevano accettato questa politica, temendo
che la secessione cecena avviasse una reazione a catena che disgregasse la Russia e la
regione caucasica, strategicamente importante e centrale per il transito del petrolio. L’idillio
tra Mosca e Washington entrò in crisi quando gli USA decisero di aprire le porte della
NATO agli Stati ex-sovietici, che la Russia considerava parte del suo spazio vitale, e in
seguito alla ripresa dei programmi reaganiani di difesa missilistica intercontinentale (scudo
spaziale). La rottura è avvenuta sotto il successore di Putin, Medvedev, suo uomo di paglia.
Putin, diventato primo ministro, dinanzi alla minaccia dell’ingresso della Georgia, stato
chiave del Caucaso, nella UE e nella NATO, ha reagito invadendo il Paese nell’agosto
2008, mentre il mondo era distratto dall’estate, dai Giochi olimpici di Pechino e dalla
protesta tibetana contro l’occupazione cinese. La Georgia ha di fatto perduto alcuni suoi
territori e la sua possibilità di aderire alla NATO. La debole reazione dell’Occidente ha
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incoraggiato Mosca a ridurre le forniture di gas all’Ucraina e all’Europa nell’inverno 20082009, per dissuadere Kiev dall’entrare nell’UE e nella NATO. Putin si è inoltre avvicinato
all’Iran, altra area di crisi dell’impero USA. Recentemente è ritornato alla Presidenza,
nonostante una forte opposizione popolare (2012).
L’Iran si era dato un programma nucleare, evidentemente volto alla realizzazione della
bomba atomica. Le sanzioni internazionali non hanno completamente dissuaso il fanatico
presidente Ahmadinejead, volto alla distruzione di Israele e all’egemonia sul Medio
Oriente. Nonostante l’Iran sia sciita, il suo prestigio è cresciuto anche tra i sunniti
palestinesi e siriani. L’appoggio russo e cinese lo ha maggiormente garantito dalla
possibilità di un attacco aereo USA alle sue installazioni atomiche. Deplorevole è
l’acquiescenza europea all’aggressività iraniana e la passività verso Mosca, che hanno
lasciato sola Washington. In ogni caso, questo nuovo isolamento USA è il risultato della
politica di Bush, le cui spese militari hanno contribuito non poco alla nascita di una nuova
Grande Recessione che si è abbattuta sull’economia americana e poi su quella del resto del
mondo. Bush non ha dato segni di precomprensione della crisi imminente. Il suo successore,
Barack Hussein Obama (2009), democratico, il primo afro-americano divenuto leader
planetario, ha avviato una politica multilaterale che sembra avergli ben disposto il resto del
mondo. Si è disimpegnato dall’Irak per concentrarsi solo sull’Afghanistan, dove i Talebani
hanno riconquistato i due terzi del territorio. Ma Obama è arrivato alla Casa Bianca con
promesse di benessere che non potrà realizzare a causa della gravissima Recessione che ha
colpito l'economia capitalistica globale e che può essere paragonata solo a quella del 1929,
né sembra che la sua politica in materia abbia ottenuto successi particolari. Inoltre la sua
politica filoabortista gli ha inimicato le Chiese cristiane. Un significativo successo ha
ottenuto con l'operazione di intelligence militare che ha portato all'esecuzione di Osama Bin
Laden (2011), mentre la crisi nucleare con l'Iran continua minacciosa. Incerto appare anche
il futuro di quei regimi scaturiti dalla cosiddetta Primavera araba, per sostenere la quale egli
ha usato anche la forza (Libia, 2011).
APPENDICE
(note complementari per la comprensione del testo precedente)
Vito Sibilio
LE POTENZE EUROPEE
Le antiche potenze europee, Gran Bretagna e Francia, schierate con gli USA, dovettero
rassegnarsi ad un ruolo da comprimarie. La Gran Bretagna si disimpegnò bene nella
liquidazione dell’Impero coloniale, creando il Commonwealth (v. n. 3). La sua politica
rimase basata sull’alternanza tra Laburisti e Conservatori, nonostante la nascita dei
socialdemocratici. Negli Anni Cinquanta i Laburisti al potere crearono lo Stato assistenziale
(Welfare State), che fu di modello per le politiche sociali di tutto il mondo. Londra aderì
tardi e con riluttanza all’integrazione europea (1972). Mantenne il possesso dell’Irlanda del
Nord (Ulster), scossa dalla lotta terroristica tra la maggioranza anglicana e la minoranza
cattolica dell’IRA. Dal 1979 al 1990 la Gran Bretagna fu governata dalla conservatrice
Margareth Tatcher, la Lady di Ferro, che assieme a Reagan avviò una svolta
neoconservatrice che contribuì alla disintegrazione del Comunismo internazionale. Ella
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smantellò il Welfare, promosse il neoliberismo economico, rilanciò l’industria, puntò sul
nazionalismo frenando l’integrazione in Europa del suo paese e combattendo una vittoriosa
guerra con l’Argentina per il possesso delle Isole Falkland (1982). Il laburista Tony Blair
(1997-2008) restaurò il Welfare, si schierò con gli USA nei conflitti in Medio Oriente e
promosse una politica laicista nella bioetica e nel diritto familiare, ma nel contempo
concesse molto, in nome dei diritti umani e della tolleranza interculturale, alle usanze delle
minoranze etniche e religiose presenti nel Paese. La Casa dei Windsor, con Elisabetta II,
rappresenta ancora bene l’unità nazionale, nonostante gli scandali sessuali che hanno
infangato la famiglia reale. La Francia, costituita la sua IV Repubblica (1947-1958) dopo
la liberazione dai Nazisti, diede un notevole contributo alla nascita dell’Europa unita, ma
dovette rassegnarsi alla fine dell’impero coloniale, con la Guerra del Vietnam e dell’Algeria
(v.n.3). Per quest’ultima giunse quasi al collasso, e al potere andò l’eroe della Resistenza
antinazista, Charles De Gaulle (1958-1969), che fondò la V Repubblica,
semipresidenziale, ancora esistente. Pur disimpegnandosi dall’Algeria, egli perseguì una
politica di Grandeur, sognando un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Fronteggiò bene il
forte Sessantotto francese e le numerose Sinistre estremiste. Il socialista Francois
Mitterand (1981-1995) puntò su una politica estera autonoma, ma sostenne l’integrazione
europea, costituendo con la Germania un asse per l’egemonia nell’Unione, in chiave anti
inglese e antiitaliana. La Germania nel Dopoguerra non svolse un ruolo militare
importante. Divisa in RFT e RDT, ebbe in occidente la sua parte più vitale. Questa sostenne
l’integrazione europea, con il cancelliere democristiano Konrad Adenauer (1949-1963) e
l’ingresso nella NATO. In quegli anni la RFT divenne la terza potenza industriale dopo
USA e Giappone. Il socialdemocratico Willy Brandt (1969-1974) promosse una politica di
coesistenza e riconoscimento con la DDR e gli Stati comunisti (Ostpolitik). Il democristiano
Helmuth Kohl (1982-1998) ha consolidato la potenza tedesca, esercitando l’egemonia con
la Francia nella UE, riunificando la Germania al crollo del comunismo (1990) ed
estendendo l’influenza economica nell’Europa orientale e centrale. Attualmente il paese è
retto da una grosse koalition tra democristiani e socialdemocratici guidata da Angela Merkel
(2005), scaturita dal pareggio elettorale dei due partiti.
L’INTEGRAZIONE EUROPEA
L’integrazione europea, ossia quel movimento che spinse gli Stati europei, dopo secoli di
guerre, ad avviare un processo di unificazione, prima economica e poi politica, è iniziato nel
1951 e prosegue tutt’ora. Nel 1957, a Roma, nasce il Mercato Comune Europeo (MEC), o
Comunità Economica Europea (CEE), formata da Italia, Francia, Germania, Belgio,
Lussemburgo, Olanda e Belgio. Nel 1975 entrò l’Inghilterra. Nel 1979 si gettarono le basi
della moneta unica con il Sistema Monetario Europeo (SME), e si è votato per il primo
Parlamento europeo, con sede a Strasburgo. Entrarono poi Grecia, Irlanda, Danimarca,
Spagna e Portogallo. Nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, per la moneta unica, e
cominciarono a mostrarsi i cosiddetti euroscettici, ossia gli ostili alla perdita di sovranità per
gli Stati a vantaggio della Cee, denominata adesso Unione Europea (UE), in vista di una
unione federale. Nel 1993 si creò il mercato unico, per la libera circolazione delle merci
(Atto unico europeo). Con la caduta del comunismo, si sono aperte possibilità nuove di
espansione dell’UE: nel 1995 vi sono entrati paesi già neutrali (Austria, Svezia, Finlandia),
nel 2004 Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania,
Malta, Cipro, nel 2007 Bulgaria e Romania. Nel 2013 la Croazia. La Turchia è in lista
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d’attesa, ma suscitano perplessità la sua cultura islamica, l’oppressione delle minoranze
etniche (curdi) e religiose (cristiani), la perdurante occupazione del nord di Cipro, il
mancato riconoscimento della colpa storica del genocidio armeno. Dal 2002 in quasi tutti
gli Stati dell’Unione è in vigore la moneta comune, l’euro. Tuttavia manca una vera
cooperazione, sia a livello militare (c’è stato bisogno sempre di ricorrere alla NATO, anche
per i conflitti balcanici) che per le scelte estere (l’Italia di Berlusconi,la Spagna di Aznar e
l’Inghilterra sono state filoamericane; Francia e Germania di meno). C’è inoltre la
tendenza franco-tedesca all’egemonia. Nel 2004 è stata promulgata la Costituzione
europea, per dare valori comuni ai vari Stati, preparata dalla Convenzione riunita dal 2002.
Ma essa è stata bocciata dai referendum confermativi di Francia, Olanda e Irlanda. Pesa
sulla Costituzione il fatto che non sia stata scritta da delegati eletti direttamente dal popolo,
che preceda di molto la nascita di una vera Federazione europea e la polemica tra cristiani e
laici sulle radici culturali del continente menzionate nel Preambolo. Per i più il Parlamento e
la Commissione Europee, con sede a Strasburgo, sono istituzioni estranee, essenzialmente
preoccupate di problemi economici e non politici. L’allargamento ha posto problemi di
governabilità e integrazione. L’espansione verso oriente (Ucraina) ha trovato un ostacolo
nell’ostilità russa, mentre meno problematico appare l’ingresso nell’UE delle repubbliche
ex-iugoslave e balcaniche. L'attuale Crisi economica sta mettendo duramente alla prova i
Paesi con moneta comune e mostra la necessità sempre più forte di un governo unificato
almeno delle questioni finanziarie e monetarie.
CHIESA E PAPATO NEL MONDO CONTEMPORANEO
Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, di Sotto il Monte [Bergamo]), con la sua
comunicativa, diede al Papato una grande popolarità. Fu lui a concepire un aggiornamento
pastorale e operativo della Chiesa, in relazione al mondo che andava cambiando, e
favorendo la cooperazione tra i popoli, la pace e lo sviluppo sociale dei paesi poveri. Egli fu
incoraggiato dalla distensione tra Kennedy e Kruscev. Per realizzare il suo programma
convocò il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), ma morì poco dopo. Il suo
successore, Paolo VI (Giovanni Battista Montini, di Concesio [Brescia], 1963-1978),
proseguì l’assemblea, avviò un profondo processo di riforma della Chiesa, applicò le
decisioni conciliari. Difese i diritti umani, si battè per la pace e la giustizia sociale nelle
nazioni e nel mondo, avviò una politica di convivenza con i regimi comunisti per rendere
meno pesanti le condizioni di vita dei cristiani in quei paesi, iniziò a viaggiare all’estero per
evangelizzare, tradusse la liturgia nelle lingue parlate abbandonando il latino, condannò
l’uso della contraccezione artificiale, promosse il processo di riunificazione delle Chiese
(ecumenismo) e il dialogo delle religioni e delle culture. Dopo il Concilio dovette
sopportare una crisi di contestazione interna alla Chiesa senza precedenti, che lo
amareggiò molto, ma che si esaurì nei primi anni ’80. Dopo il breve papato di Giovanni
Paolo I (Albino Luciani di Canale d’Agordo [Udine] 1978), il 16 ottobre 1978 fu eletto
Giovanni Paolo II (Karol Jozef Wojty a, di Wadowice presso Cracovia, in Polonia, 19202005), primo straniero dopo 455 anni, e primo slavo in assoluto. Egli ampliò le linee di
governo del predecessore, continuando l’opera di riforma (nuovo Codice di Diritto
Canonico, Catechismo universale), la prassi dei viaggi nazionali e internazionali (ha
visitato quasi tutto il mondo, radunando di volta in volta anche milioni di fedeli, specie
nelle Giornate Mondiali della Gioventù e nelle Giornate Mondiali delle Famiglie da lui
istituite), la difesa dei diritti umani, della pace e della giustizia sociale. Ha fronteggiato e
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risolto molti problemi della contestazione, ha insistito molto per la difesa della vita e della
famiglia e contro la contraccezione e la fecondazione artificiale, ha promosso il
movimento ecumenico e il dialogo inter-religioso. Ha ripreso con forza la lotta al
comunismo, contribuendo alla sua crisi, ma è stato critico con la politica militarista degli
USA e con il modello di vita consumistico. Pochi papi hanno avuto una preparazione così
vasta come quella di Giovanni Paolo II, e nessuno un ascendente così universale, grazie
all’uso sapiente che ha fatto delle sue doti comunicative, di poliglotta e dei mass media. La
saldezza dei suoi principi gli ha garantito una inesauribile coerenza di governo, nonostante
le critiche e le difficoltà. Né l’attentato del 1981, organizzato dai servizi segreti sovietici,
tedesco-orientali e bulgari, né le moltissime malattie hanno mai ridotto la sua attività. Un
inesorabile declino lo ha alla fine condotto alla morte il 2 aprile 2005, accompagnata da
manifestazioni mondiali di cordoglio senza precedenti nella storia umana. Il 19 aprile
successivo è stato eletto Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, nato a Marktl am Inn in Baviera
nel 1927, insigne figura di studioso e intellettuale, già stretto collaboratore di papa Wojtyla.
Il nuovo Papa ha dato un taglio meno politico al suo governo, concentrandosi su tematiche
spirituali, pur esercitando una influenza assai forte sull’Italia. Ha ricercato un’intesa
culturale con gli USA e ha corretto alcune esagerazioni del riformismo scaturito dal
Concilio (ripristino del Messale tridentino, 2007). Ha mantenuto la prassi dei viaggi
nazionali e internazionali. Ha avviato un processo coraggioso e doloroso di riforma dei
costumi del clero, segnato da diversi casi di abusi sessuali su minori. Ha inoltre un
magistero di alto livello intellettuale. Una lotta intestina di potere tra non bene identificate
fazioni politico-ecclesiastiche, senz’altro collegate a oscure forze esterne alla Chiesa, ha
funestato l’ultimo periodo del suo pontificato con vari scandali montati ad arte. Non avendo
le forze fisiche per fronteggiare anche questa nuova sfida l’anziano Papa abdicò l’11
febbraio 2013. Ebbe a successore Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires,
primo papa latinoamericano in assoluto e primo extraeuropeo dopo dodici secoli, eletto il 13
marzo 2013, che assunse il nome di Francesco. Il suo papato si è contraddistinto per una
dinamica capacità di relazione umana ben oltre i confini della Chiesa; ha continuato l’opera
di riforma del Predecessore e gestisce con prudenza una ondata di contestazione dottrinale
interna alla gerarchia ecclesiastica, che non si vedeva dagli anni successivi al Concilio. Alla
stessa maniera fronteggia la marea secolarizzatrice dell’Occidente, ostile alla religione,
mentre l’offensiva jihadista e persecutoria contro i cristiani in Medio Oriente trova in lui un
nemico fermo e coraggioso.
IL MOVIMENTO DEL SESSANTOTTO
Il Movimento Internazionale del ’68, preparato dallo sviluppo socio-economico dei
decenni precedenti, si sviluppa da quell’anno fino a tutti gli anni ’70. In Occidente assume i
connotati di una rivolta antiautoritaria, spesso anticonsumistica, come contradditorio
prodotto del benessere diffuso e della cultura di massa. Dagli USA la protesta, all’inizio
degli studenti universitari (dal 1964) si sposta in Europa e in Giappone. In Germania,
Italia e Francia la contestazione si dà un rivestimento ideologico marxista e rivoluzionario
(rifacendosi alla propaganda cinese della Rivoluzione Culturale, che era una delle tante fasi
della lotta per il potere tra Mao e i suoi rivali), e si salda alle agitazioni degli operai. I
sessantottini più sensibili si avvicinano alla filosofia raffinata del marxismo della Scuola di
Francoforte e di Marcuse. Sul ’68 in genere s’innestano i movimenti femministi più
estemisti, volti a inaugurare la lotta tra i sessi. Molti di questi gruppi si diedero poi alla lotta
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armata. Ma l’esito più duraturo fu il mutamento di mentalità, specie nella rivoluzione
sessuale, che tuttavia ha assunto caratteri consumistici, come del resto lo sforzo di
produrre un nuovo stile di vita, specie per i giovani, cristallizzatosi nelle mode della cultura
di massa (stessi abiti, stessi cibi, stesse abitudini). Paradossalmente, il ’68 si è realizzato
nel suo opposto. In Oriente il ’68, non marxista perché ispirato alla democrazia, è stato
schiacciato dai carri armati sovietici a Praga.
ISRAELE E LA QUESTIONE PALESTINESE
La nascita dello Stato d’Israele nel 1948 per volontà dell’ONU in Palestina, come
risarcimento agli Ebrei prseguitati da Hitler, aprì un conflitto che dura ancor oggi. Gli arabi
palestinesi, che vivevano nella regione dall’VIII sec., rifiutarono la divisione della loro terra
con gli ebrei che, con le armi, li espulsero del tutto (Guerra del 1948-1949), costringendoli a
rifugiarsi nei paesi arabi vicini, dove rimasero in enormi campi profughi. Essendo Israele
sostenuto dagli USA per l’influenza degli ebrei americani, i paesi arabi, sostenitori dei
Palestinesi (Egitto, Giordania, Siria) furono di solito aiutati dall’URSS. Ci furono guerre nel
1956, nel 1967 (Guerra dei Sei Giorni), nel 1973 (Guerra del Kippur). I Palestinesi
reagirono con la guerriglia (detta in determinati periodi intifada), coordinata
dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat (OLP). Israele
raggiunse la pace con l’Egitto nel 1979, ma invase il Libano, dove c’erano le basi
palestinesi, avviando un conflitto che poi divenne interno a quel paese e che si concluse con
l’instaurazione dell’egemonia siriana su di esso (1982-1991). I primi ministri israeliani
Itzak Rabin (1992- 1995) e Ehud Barak (1999-2001) arrivarono ad un passo dagli
accordi di pace, ma per un soffio sfumarono ancora. Il nuovo premier israeliano Ariel
Sharon (2001-2006) ha seguito una politica più conflittuale fino alla morte di Arafat
(2004), per poi aprire al dialogo evacuando un territorio rivendicato dai Palestinesi, ossia la
Striscia di Gaza. Essa, assieme alla Cisgiordania, dovrebbe costituire lo Stato libero di
Palestina. Il successore di Sharon, Ehud Olmert (2006-2009), ha dovuto fronteggiare
l’ascesa dei nazionalisti palestinesi di Hamas e ha irrigidito molte posizioni. Per disarmare
le basi dei guerriglieri nemici, ha invaso il Libano meridionale (2006) e poi la Striscia di
Gaza (2009) ma con scarsi risultati e suscitando una forte reazione ostile nell’opinione
pubblica mondiale. Il problema d’Israele si intreccia con quello del nazionalismo arabo. Gli
arabi sono divisi in moltissimi stati (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania,
Siria, Libano Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Oman,
Yemen), spesso in lotta tra loro, ma animati dalla speranza dell’unione. Recuperata
l’indipendenza politica negli anni ’60 dopo secoli di dominio straniero (turchi, inglesi,
francesi), gli Arabi hanno cercato il progresso e il riscatto attraverso il partito Baath,
presente in molti Stati, che ha avviato una modernizzazione forzata e una parziale
laicizzazione, ma a prezzo dell’instaurazione di regimi autoritari (Gheddafi in Libia, Nasser,
Sadat e Mubarak in Egitto, Assad senior e jr. in Siria, Hussein in Iraq). Hanno cercato
l’aiuto sovietico, dandosi un programma socialisteggiante, ma ora sono spesso in contrasto
con gli USA, interessati alle forniture petrolifere ma anche al fatto che esse non
arricchiscano troppo dei potenziali nemici. Tutto questo spesso si riveste di rivendicazioni
religiose, com’è normale per la cultura araba, e si mescola ad altre tensioni, come il
terrorismo integralista, che mira a creare una società religiosa nei paesi arabi – e quindi
combatte il Baath – e ad abbattere Israele o anche l’America. La nascita della democrazia in
Iraq, in seguito alla III Guerra del Golfo, con la conseguente caduta del Baath di Saddam
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Hussein e la sua esecuzione capitale ha causato una serie di rivoluzioni politiche nei Paesi
arabi nel 2011 (Primavera araba), con importanti trasformazioni in Tunisia, Marocco,
Algeria, Yemen, Egitto e Libia, dove Gheddafi è stato ucciso dai rivoltosi sostenuti dalla
NATO per iniziativa franco-statunitense, mentre i tentativi insurrezionali in Iran e in Siria
sono stati soffocati nel sangue. L'Occidente è incerto nelle sue mosse verso questi eventi: da
un lato i valori umanitari e democratici lo spingono a sostenere i cambiamenti, da un altro
esso non sa bene che genere di situazione politica potrà scaturire da simili sommovimenti,
con l'incognita del fondamentalismo.
Questo è il grande protagonista del Medio Oriente post moderno: sostenuto dagli USA, dalle
monarchie del Golfo, dalla Turchia e indirettamente anche da Israele, allo scopo di arginare
l’espansionismo iraniano, è nato, da una costola di Al Qaeda, tra Siria e Iraq uno Stato
sunnita retto da una organizzazione terroristica, l’Islamic State of Iraq and Syria (ISIS,
2006), il cui leader, Al-Baghdali, si è autoproclamato Califfo, è intervenuto in Siria (2013)
e ha intrapreso una persecuzione barbara verso i cristiani e le altre minoranze religiose dei
suoi domini, nonché contro i Curdi, desiderosi di avere uno Stato proprio. Lo Stato islamico
ha disarticolato il fronte sciita, composto da Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, la
Siria di Assad e l’Iraq democratico a maggioranza sciita; ha coartato la speranza curda di un
territorio indipendente – anche a scapito della Turchia- e quindi ha assolto il compito
affidatogli dai suoi protettori. Ha inoltre destabilizzato il mondo arabo, avviando feroci lotte
intestine tra i Paesi del Medio Oriente (wahabiti da un lato, hashemiti e nazionalisti turchi
dall’altra). Ma il progetto jihadista dell’ISIS è quello di assoggettare tutto il mondo islamico
e di distruggere la potenza politica delle nazioni europee, riunificando peraltro la galassia
delle sigle terroristiche operanti in tutto il mondo (Al Qaeda, Al Ja’abab, Boko Haram). Per
cui rivoltandosi contro i suoi protettori lo Stato islamico è diventato il centro organizzatore
di attentati stragisti in tutto il mondo, con la connivenza dei più estremisti wahabiti delle
monarchie del Golfo. Ad oggi tuttavia manca una reazione energica, per cui solo la Russia
e’ intervenuta in sostegno dell’alleato storico Assad e respingendo di molto l’avanzata
jihadista.
IL TERZO MONDO
Il Terzo Mondo nasce in seguito al processo di decolonizzazione, in seguito alla diffusione
dei valori democratici anche in Asia e Africa, per cui le colonie europee richiesero
l’indipendenza. In Asia le colonie erano spesso antichi Stati che recuperavano così la loro
libertà, ma in Africa prevaleva ancora l’ordinamento etnico-tribale, per cui l’autonomia dei
nuovi Stati comportò spesso l’accendersi di guerre, anche civili, per la definizione dei
confini o l’egemonia interna. La povertà delle risorse, o il loro sfruttamento da parte delle
multinazionali occidentali, unite all’arretratezza delle forme di vita e alla corruzione delle
classi dirigenti hanno causato, soprattutto in Africa, le drammatiche condizioni di
sottosviluppo che conosciamo e che ancora perdurano, facendo decine di milioni di morti
all’anno per fame, sete, malattie e violenze. Hanno inoltre fornito pretesto per la formazione
di regimi autoritari, spesso ancora al potere. L’Inghilterra concesse facilmente
l’indipendenza alle sue colonie, unendone parecchie in una comunità internazionale sociopolitica, il Commonwealth. Solo in India fece resistenza, ma il movimento non-violento di
Gandhi ebbe la meglio e l’indipendenza arrivò nel 1947 per l’Unione Indiana (stato a
maggioranza indù, la religione tradizionale) e il Pakistan (a maggioranza musulmana). La
Francia invece tentò inutilmente di opporsi con le armi all’indipendenza delle colonie. La
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guerra più importante che sostenne fu quella d’Algeria (1954-1962), senza risultato. Nel
T.M. USA e URSS si contesero l’influenza sui vari stati, mentre l’America Latina,
anch’essa arretrata, è stata quasi sempre sotto l’influenza americana. In Africa lo Stato più
importante è la Repubblica Sudafricana, in cui rimase in vigore il regime della segregazione
razziale dei neri (apartheid) fino al 1992, a vantaggio dei bianchi anglo-olandesi. Alcuni
Paesi, guidati dall’India, hanno tentato di fondare un Terzo Blocco dei Non-Allineati,
indipendente da USA e URSS, ma con scarsi risultati (Conferenza di Bandung, 1955). Oggi
tale blocco è praticamente insussistente per le divisioni tra India e Cina e per la rinnovata
influenza USA su molti Stati del Terzo Mondo, oltre che dallo smarcamento delle Nazioni
islamiche, volte a fare gruppo a sé nella Lega Araba e nell’Organizzazione della Conferenza
Islamica (OCI). Il progresso delle nazioni dell’Estremo Oriente (Tigri Asiatiche) ha fatto sì
che esse non facessero più parte del T.M. L’India, retta spesso dal Partito del Congresso, ha
avuto importanti leader in Jawaharlal Nehru, sua figlia Indhira Gandhi, il figlio di lei
Rajiv Gandhi e la sua vedova Sonia Gandhi. Ha combattuto con la Cina e il Pakistan, e
fronteggia il separatismo Sikh nel Punjab, mentre sostiene quello Tamil a Ceylon. Spesso
lacerata dai contrasti tra musulmani e indù, afflitta da grande miseria, sta tuttavia
conoscendo uno sviluppo economico impetuoso e un rinnovato e intollerante nazionalismo,
aggressivo verso le minoranze religiose estranee alla sua tradizione, come i cristiani.
LA CINA E L’ESTREMO ORIENTE
Mao Tse –Tung, capo del Pc cinese, entrò in contrasto armato con Chiang già dal 1930,
mirando entrambi ad impadronirsi della Repubblica, proclamata nel 1911. Nel 1934-35 Mao
e i suoi fuggirono nella Cina occidentale con la “Lunga Marcia”, estendendo in quella
direzione il loro dominio. Alleatisi contro i Giapponesi invasori nel 1937, Mao e Chiang
ripresero a combattersi nel 1946. Nel ’49 Chiang fuggì nell’isola di Taiwan, dove fondò la
Repubblica della Cina nazionalista, ancora esistente, sotto la protezione americana. Mao,
che sarebbe restato al potere fino alla morte, nel ’76, adattò il comunismo alla situazione
cinese, dominata da un’agricoltura arretrata. Può essere considerato, con Hitler e Stalin, il
terzo grande dittatore del ‘900. Accanto ai lager e ai gulag i laogai, i campi di
concentramento cinesi, furono il più grande sistema detentivo del XX secolo, dove perirono
fino a 20 milioni di persone. Nel 1950 Mao invase il pacifico Tibet, governato dai sacerdoti
lamaisti, avviando un genocidio etnico e culturale che dura tutt’ora. Le scelte di Mao furono
pressoché tutte fallimentari: la sua riforma agraria e il tentativo di industrializzare a fondo
la Cina (“Grande Balzo”) provocarono dal 1956 al 1961 dai 20 ai 40 milioni di vittime.
Inaugurata una linea di maggiore libertà (“I Cento Fiori”, 1956), Mao la liquidò quando
vide che metteva in discussione il suo potere, e ruppe con Mosca che aveva rinnegato Stalin
– come vedremo. Messo in disparte dai comunisti riformatori, Mao avviò, con l’appoggio
dell’esercito guidato da Lin Piao, la Rivoluzione Culturale (1966-1971), in cui le giovani
guardie rosse, indottrinate dal Libretto Rosso del fondatore, devastarono ogni struttura
tradizionale della Cina, e facendo un milione circa di morti, e altre decine di milioni di
vittime psicologiche. Tuttavia i riformatori ripresero ben presto l’iniziativa, e Lin Piao fu
ucciso (1971). Alla morte del dittatore (1976) prese il potere Deng Hsiao-Ping, che aprì la
Cina all’inziativa privata in campo economico, accettando anche investimenti stranieri. Il
comunismo cinese è divenuto così un guscio ideologico vuoto e dispotico, che ha di fatto
abbracciato la logica del capitalismo (“Economia socialista di mercato”), ma ha schiacciato
le forze democratiche (Strage di Tien An-Men, 1989, di cui diremo dopo). Deng è morto
83
nel 1997. I suoi successori sino ad oggi ne proseguono la linea politica. Attualmente è
presidente Hu Jintao, e premier Wen Jiabao. La Cina ha perduto molto prestigio con il
ritorno alla ribalta della crisi del Tibet, insorto per l’autonomia nell’estate 2008 e duramente
colpito dalla repressione, ma la Crisi economica, che pur l'ha colpita, non l'ha privata del
suo ruolo strategico nella gestione del debito sovrano degli USA né ha fermato la sua
crescita in modo significativo.
Nell’Indocina si erano formati regimi comunisti anche in Laos (1976), oggi in fase di
decadenza, e soprattutto in Cambogia (1975-1979), dove si toccò l’apice della
degenerazione del marxismo. Pol Pot, leader cambogiano, volle realizzare direttamente la
società comunista senza classi, saltando le fasi intermedie previste da Marx, e ruralizzando
tutta la popolazione cambogiana, ma anche unificando agricoltura e industria, e abolendo le
specializzazioni professionali. Massacrò circa il 30% della popolazione (2-3 milioni di
vittime) e si abbandonò ad azioni talmente sconsiderati con i suoi Khmer rossi (Khmer è il
nome dell’antico popolo cambogiano), che il Vietnam, comunista anch’esso, invase la
Cambogia (1978-1989) e lo scacciò. Oggi la Cambogia si è riavviata lentamente alla
democrazia, sotto il regime di Sianhouk, mentre Pol Pot è stato processato e ucciso nella
giungla dai suoi ultimi seguaci.
LA CONQUISTA DELLO SPAZIO
E’ durante la Coesistenza Pacifica che USA e URSS cominciano a gareggiare per le
esplorazioni spaziali, per ragioni di prestigio, di sicurezza, di progresso scientifico e di
potenza. L’URSS mise in orbita i primi due satelliti artificiali nel 1957, gli Sputnik 1 e 2
(quest’ultimo con a bordo il primo essere vivente, la cagnetta Laika). Nel 1958 gli USA
misero in orbita l’Explorer 1, mentre il primo uomo nello spazio fu il russo Yuri Gagarin
(1961). I satelliti, oltre a ospitare sempre più frequentemente esseri umani, sono
automatizzati per le telecomunicazioni, le rilevazioni (anche militari), la radionavigazione e
le ricerche astronomiche. Nacquero anche le stazioni orbitali, obiettivo primario
dell’ingegneria sovietica, e le sonde spaziali interplanetarie: la sovietica Lunik 3 esplorò la
Luna nel suo lato oscuro; le americane Mariner 2, 4 e 10 raggiunsero Venere, Marte e
Mercurio (1962, 1964, 1974); le Pioneer 10 e 11 partirono verso Giove e Saturno (197273), le Viking 1 e 2 verso Marte (1975), le Voyager 1 e 2 verso Giove, Saturno, Urano e
Nettuno (1977), la Galileo verso Giove (1989), la Magellano (1989) verso Venere, la
Pathfinder verso Marte (1996), la Cassini verso Saturno (1997), tutte targate USA. Molte
scesero sulla superficie dei pianeti – laddove possibile- alcune portano con sé messaggi
formulati in termini matematici per eventuali intelligenze aliene che possano intercettarle
nella loro navigazione interstellare, anche dopo la perdita dei contatti con la Terra. L’unica
esplorazione fatta da uomini fu quella della Luna (1969), dove la sonda USA Apollo 11
sbarcò Neil Armstrong e E.Aldrin. L’URSS mise invece in orbita la prima stazione
spaziale, la Saljut, nel 1971, a cui seguirono lo Skylab americana (1973), la Mir russa (1986)
e la Stazione Orbitale Internazionale (1998). I contatti con queste stazioni possono essere
tenuti dalle navicelle spaziali, tra cui gli Space Shuttle USA, ma proprio gli incidenti
occorsi a due di essi, il Challenger (1986) e la Columbia (2003) hanno rallentato il
programma delle esplorazioni. In ogni caso, l’arrivo dell’Uomo nello Spazio interplanetario
costituisce un evento capitale nella storia umana, gravido di conseguenze e speranze per il
futuro.
84
DOSSIER
I GRANDI DEL DOPOGUERRA
85
HARRY TRUMAN
A cura di Annalisa Centonza
Fig.22.
Biografia
Harry S. Truman (Lamar, 8 maggio 1884 – Kansas City, 26 dicembre 1972) è stato
un politico statunitense. È stato il 33º Presidente degli Stati Uniti d'America.
Fin da giovane lavora nella fattoria paterna nei pressi di Indipendence, dove studia fino a
diciassette anni.Truman vorrebbe entrare in un'accademia militare per continuare gli studi
ma non viene accettato per la sua vista insufficiente, così è costretto a tornare alla fattoria di
famiglia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale parte volontario. Con il grado di tenente
partecipa alle operazioni di Saint Mihiel e combatte sul fronte delle Argonne diventando in
seguito capitano.Al termine del conflitto viene congedato, torna a casa e nel giugno del
1919 sposa Bess Wallace, dalla quale avrà una figlia .Conosce Tom Pendergast, influente
politico locale che per lui trova un posto come ispettore delle autostrade nella Contea di
Jackson; in seguito Pendergast lo farà concorrere come candidato per un posto di
magistrato. Truman vince il concorso, ma, non avendo mai studiato le materie giuridiche, si
iscrive
a
una
scuola
che
frequenta
nelle
ore
serali.
Truman viene eletto senatore nel 1934 nelle file del partito democratico. Negli anni si
costruisce una fama di uomo onesto e nel 1941 viene rieletto. Truman è convinto che la sua
carriera politica si chiuda qui, ma a sorpresa i dirigenti del Partito Democratico decidono di
affiancarlo come vicepresidente a Franklin Delano Roosevelt, preferendolo a Henry A.
Wallace, in quanto giudicato troppo radicale per il momento tanto critico che il mondo in
quel periodo sta vivendo. Truman quindi nel 1944, con il quarto mandato di Roosevelt,
diviene vicepresidente; il 12 aprile 1945 Roosevelt muore e Truman, a sessant'anni, diventa
così il 33° Presidente degli Stati Uniti d'America.Quando Truman sale al potere il mondo sta
vivendo le ultime fasi della Seconda guerra mondiale: la Germania è ormai quasi vinta ma il
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conflitto nel Pacifico rimane ancora aperto. Il Giappone si stava avviando verso la sconfitta,
ma si riteneva che non avrebbe mai chiesto la resa e la guerra avrebbe rischiato di
prolungarsi,con
gravi
danni
per
i
soldati
americani.
Durante l'amministrazione Roosevelt, i preparativi a Los Alamos per la bomba a idrogeno
erano stati estremamente segreti, tanto che lo stesso Truman vicepresidente ne era
completamente all'oscuro. Sua sarà la grave responsabilità di sganciare la prima bomba
atomica su Hiroshima (6 agosto 1945) e la seconda su Nagasaki (9 agosto 1945). Questa
azione provoca la definitiva resa del Giappone, mettendo fine al secondo conflitto
mondiale.L'utilizzo delle bombe atomiche provoca una vasta reazione nella comunità
scientifica internazionale. Subito dopo la fine del conflitto, le relazioni con l'Unione
Sovietica peggiorano, soprattutto a causa della questione tedesca. Da lì a poco si inizierà già
a parlare di Guerra fredda. Il punto più critico è nel 1947, con il blocco di Berlino Ovest da
parte dell'Unione sovietica, aggirato dagli Stati Uniti grazie all'invio di rifornimenti per via
aerea. I paesi europei occidentali si trovano in una posizione di impotenza a confronto con
l'URSS. Il Presidente americano professa così la cosiddetta "dottrina Truman", per la quale
gli Stati Uniti avrebbero dovuto farsi carico della lotta globale contro l'avanzata del
comunismo, impegnandosi attivamente in ogni Paese che fosse da essa minacciato.
L'approvazione del "Piano Marshall" - proposto dal suo Segretario di Stato George
Marshall - che consisteva in ingenti aiuti economici per la ricostruzione dell'Europa nel
dopoguerra, è da considerarsi tassello fondamentale di questa strategia di contenimento,
piuttosto che un aiuto umanitario.Nel 1946 Truman dà impulso allo sviluppo delle armi
nucleari approvando gli esperimenti atomici sull'atollo di Bikini, nel Pacifico.Nonostante sia
dato per sconfitto, nel 1948 Truman viene riconfermato alla presidenza.Due anni dopo, nel
1950, si trova ad affrontare una grave crisi in Corea: il 25 giugno l'esercito comunista della
Corea del Nord invade il territorio della Corea del Sud. Si scatena con questo
avvenimento la Guerra di Corea che vede gli USA protagonisti in primo piano. Il Consiglio
di Sicurezza dell'O.N.U. si oppone all'invasione e Truman pone l'esercito americano sotto la
sua protezione. La guerra sarà molto dura: alla fine si arriverà ad una situazione di stallo
attorno alle posizioni prebelliche. Truman si dimostra molto risoluto quando arriva a
sostituire il generale Douglas MacArthur, nell'occasione in cui questi minaccia di attaccare
anche la Cina, rischiando così un allargamento del conflitto.E' nel 1949 che su iniziativa del
governo Truman, viene creata la NATO.Sotto il profilo interno Truman cerca di continuare
la strada delle riforme (quello che viene chiamato "Fair Deal"), ma la maggioranza
repubblicana al Congresso glielo impedirà. Nel 1953 scade il secondo mandato
presidenziale e Truman rinuncia a un'altra sua candidatura; dopo che verrà eletto Dwight D.
Eisenhower, Truman compie un viaggio in Europa, per poi ritirarsi a vita privata. Nel 1953,
come ultimo atto politico, dà il via a una massiccia campagna di propaganda mediatica,
chiamata "Atomo per la pace", che sostiene la tesi secondo la quale la diffusione della
tecnologia nucleare ad uso militare avrebbe giocato un ruolo dissuasivo da nuovi conflitti e
sarebbe stata garanzia di pace nel mondo Harry S. Truman muore all'età di ottantotto anni, il
giorno 26 dicembre 1972 a Kansas City.
Bibliografia
Appuntamento ad Hiroshima di Stephen Walker ed. Longanesi ,2015
Harry Truman di Margaret Truman ed. H.Hamilton,1973
Harry Truman di Doris Faber ed. Abelard-Shuman ,1973
Memorie di Harry S. Truman ed.Mondadori Milano ,1956
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NIKITA SERGEEVI CHRUŠ ËV
a cura di Gennaro Calvo
Fig. 23
« Ci interessa sapere come il culto della persona di Stalin sia andato continuamente
crescendo e sia divenuto, a un dato momento, fonte di tutta una serie di gravissime
deviazioni dai principi del partito, dalla democrazia del partito e dalla legalità
rivoluzionaria »
(Nikita Chruš ëv, dal discorso al XX Congresso del PCUS)
Nikita Sergeevi
Chruš ëv (in russo:
) è stato
un politico sovietico.
Dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin (1953) e il breve periodo
di leadership di Georgij Malenkov, Chruš ëv divenne il leader dell'Unione Sovietica. Fu
il Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione
Sovietica (PCUS; in carica dal 1953al 1964) a denunciare pubblicamente i crimini di Stalin,
dando avvio alla cosiddetta "destalinizzazione", e anche il primo leader sovietico a visitare
gli Stati Uniti (il 15 settembre 1959), paese con cui intese stabilire un rapporto di pacifica
coesistenza.
Biografia
Nikita Chruš ëv nacque il 15 aprile 1894 a Kalinovka, nell'oblast di Kursk, nella Russia
imperiale (vicino all'attuale confine con l'Ucraina). Nel 1908, la sua famiglia si trasferì
a Juzovka, in Ucraina. Juzovka fu in seguito ribattezzata Stalino, ma grazie alla
destalinizzazione dello
stesso
Chruš ëv
si
chiama
oggi Doneck.
Persona molto intelligente, Chruš ëv ricevette solo circa due anni di educazione elementare,
e probabilmente imparò a leggere verso i trent'anni. Chruš ëv lavorò come installatore di
tubi in varie fabbriche e miniere. Durante la prima guerra mondiale, s'impegnò in attività
sindacali e, dopo la rivoluzione russa del 1917, combatté nell'Armata rossa, in seguito
svolgendo funzione di Commissario Politico. Divenne membro del partito nel 1918 e lavorò
88
in
varie
posizioni
amministrative
nel Donbass e
a Kiev.
Nel 1931 passò per le segreterie dei rajkom (comitati distrettuali) dei quartieri Bauman e
Krasnaja Presnja a Mosca, anche grazie alle raccomandazioni dell'amico Lazar Kaganovi ,
mentre nel 1932 venne eletto secondo segretario del gorkom (comitato cittadino) di Mosca.
Nel 1934 divenne Primo Segretario del gorkom moscovita del partito Comunista
dell'Unione Sovietica, e secondo segretario dell'obkom (comitato regionale) sempre
di Mosca. Dal 1934 Chruš ëv fu membro effettivo del comitato centrale del partito
Comunista dell'Unione Sovietica. Nel gennaio del 1938 fu nominato come "facente
funzione" di primo segretario del comitato centrale del Partito Comunista Ucraino, in
sostituzione dei precedenti membri falcidiati dalle persecuzioni staliniane del 1937-1938.
Venne invece effettivamente eletto a tale carica nel giugno dello stesso anno, oltre ad
assumere la segreteria dell'Obkom di Kiev. Fu eletto membro candidato
del Politburo nel 1938, contestualmente all'elezione nel Presidium (comitato esecutivo) del
neo-eletto soviet supremodell'URSS, alla prima elezione dopo la nuova costituzione
del 1936.
Durante la seconda guerra mondiale, Chruš ëv servì il suo paese come ufficiale politico,
equivalente al grado militare di tenente generale. Nei mesi seguenti l'invasione tedesca
pianificata nell'ambito dell'Operazione Barbarossa del 1941, Chruš ëv entrò in conflitto con
Stalin riguardo alla condotta della guerra in Ucraina, in cui Nikita Chruš ëv era guida locale
del partito. Considerò l'indisponibilità di Stalin ad accettare la ritirata come opzione
militare, come uno spreco rispetto alle soverchianti possibilità a loro sfavore che i soldati si
trovavano a fronteggiare. Successivamente, fu commissario politico nella battaglia di
Stalingrado.
Dopo la morte di Stalin, avvenuta nel marzo 1953, si scatenò la lotta per la successione
all'interno del partito. Inizialmente sembrò predominante la posizione di Lavrentij Pavlovi
Berija, ministro degli Interni e capo della polizia segreta; ad ogni modo venne appoggiarono
Chruš ëv e venne rimosse Berija dal potere. Berija fu imprigionato in attesa dell'esecuzione
che
avvenne
poi
in
dicembre.
Il 25 febbraio 1956 col suo famoso "discorso segreto" in cui denunciava il culto della
personalità di Stalin e i crimini commessi durante la Grande Purga. Per questo Chruš ëv fu
criticato dai membri più conservatori del partito, che cercarono di spodestarlo nel 1957.
Nonostante ciò Chruš ëv riuscì a mantenere la sua posizione e ad allontanare i conservatori
dal potere. Alcuni degli storici e studiosi contemporanei sostengono che le posizioni
espresse da Chruscev, nel rapporto segreto, siano palesemente false: "non c'è dettaglio in
esso
contenuto
che
non
sia
oggi
contestato".
Il 27 marzo 1958 Chruš ëv rimpiazzò Bulganin come primo ministro dell'Unione
Sovietica e si stabilì come unico capo dello Stato e del partito. Chruš ëv promosse riforme
del sistema sovietico e una maggiore produzione dell'industria pesante.
Nel 1959 Richard Nixon, allora Vice Presidente degli Stati Uniti, trascorse le sue vacanze
in Unione Sovietica, inviato dal presidente Eisenhower per inaugurare l'Esposizione
Nazionale Americana a Mosca. Durante tale visita il 24 luglio Nixon e Chruš ëv discussero
pubblicamente i meriti dei rispettivi sistemi economici, capitalismo ed economia pianificata.
Chruš ëv poi ricambiò la visita recandosi a settembre negli Stati Uniti. In tale occasione,
sicuro che una coesistenza pacifica tra le due potenze avrebbe portato alla lunga alla vittoria,
senza traumi, del sistema comunista, ebbe modo di dire alla televisione americana: «I vostri
nipoti vivranno sotto un regime comunista!». La visione da parte di Chruš ëv degli Stati
Uniti come rivale anziché come nemico "diabolico" causò l'allontanamento della Cina
89
di Mao Zedong: l'URSS e la Repubblica Popolare Cinese arrivarono a una rottura
diplomatica nel 1960. Rafforzati i legami fra l'URSS e le "democrazie popolari" col patto
di Varsavia di amicizia, cooperazione e mutua assistenza del 14 maggio 1955 (quale
risposta alla più stretta collaborazione in seno alla NATO), Ch. diede l'avvio a una politica
di "distensione" con l'Occidente, cercando insieme di incoraggiare il neutralismo afroasiatico. Questi sviluppi sul piano internazionale furono accompagnati, sul piano interno,
dal ripudio dei metodi staliniani, condannati duramente nel XX e XXII Congresso del
PCUS, e da maggiori contatti economici e culturali con l'Occidente.
Chruš ëv viene ancora oggi ricordato per uno dei momenti più iconici del XX secolo: era il
12 ottobre 1960 e in una seduta dell'ONU Chruš ëv si toglie una scarpa sbattendola sul
tavolo per protestare contro le affermazioni del delegato filippino, che accusava l'Urss di
"imperialismo" in Europa orientale. Quell'Assemblea generale delle Nazioni Unite è
ricordata come una delle più infuocate nella storia. Il capo delegazione delle Filippine
infatti, Lorenzo Sumulong, dichiarò nel suo intervento che "la risoluzione proposta dall'Urss
sul diritto inalienabile all'indipendenza dei popoli dovrebbe essere estesa anche alle genti
dell'Europa orientale e di ogni altro Paese che sono state private del libero esercizio dei
diritti politici e civili inghiottiti, per così dire, dall'Unione Sovietica". Chruš ëv, chiedendo
senza successo al presidente dell'Assemblea di richiamare il delegato filippino "all'ordine",
prima
sbatte
i
pugni
sul
tavolo,
poi
una
scarpa.
Le aperture di Chruš ëv portarono alla rivolta democratica dell'Ungheria. La
cosiddetta Rivoluzione ungherese del 1956 però acquisì connotati antisovietici che
destarono la paura di Chruš v di essere rovesciato dagli stalinisti che già mordevano il
freno e che difficilmente gli avrebbero perdonato di avere "perso l'Ungheria". Questa paura
era assai più giustificata delle vecchie e tradizionali visioni staliniste dell'"accerchiamento",
e che non erano così presenti in un Chruš v convinto della coesistenza pacifica. Così
Chruš ëv diede il via all'invasione dell'Ungheria per reprimerne la rivolta continuando così
quella politica oppressiva di stampo stalinista che lui aveva pubblicamente ripudiato.
Nel 1961 Chruš ëv approvò poi il piano per la costruzione del muro di Berlino proposto
da Walter Ulbricht, leader della Germania Est, allo scopo di arrestare le ormai massicce
emigrazioni clandestine. Infatti, la quasi totalità dei cittadini della Germania Est che a
partire dalla divisione della Germania alla costruzione del muro erano passati
clandestinamente alla parte occidentale, stimati attorno ai 3 milioni, lo avevano fatto
attraverso Berlino, essa stessa divisa in due zone di influenza sovietica e occidentale, ma
con ampie possibilità di transito in entrambe le direzioni. Anche questo un gesto oppressivo
che mal si conciliò con la propagandata apertura politica di Krusciov all'occidente.
Chruš ëv si trovò in grandi difficoltà all'interno del suo partito dopo l'insuccesso nella
gestione della crisi di Cuba, in seguito alla quale la flotta russa che trasportava missili per il
governo filosovietico di Cuba dovette fare un rapido dietro-front di fronte al blocco navale
imposto dagli Stati Uniti. La sua caduta fu apparentemente il risultato di una cospirazione
da parte dei capi del partito, irritati dalla sua politica estera che mise in imbarazzo il partito
e l'URSS stessa nello scenario internazionale. Il PCUS accusò Chruš ëv di aver commesso
errori politici durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962 e di aver organizzato male
l'economia sovietica, soprattutto nel settore agricolo. Inoltre un episodio che non poté
passare inosservato fu la visita, da parte della figlia e del genero di Chruš ëv a papa
Giovanni XXIII a Città del Vaticano, forse avvenuta senza aver consultato il partito. Tale
iniziativa poteva essere considerata un cedimento nella dottrina comunista dell'epoca.
I cospiratori portarono alla deposizione di Chruš v nell'ottobre 1964, quando si trovava
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a Pitsunda. I cospiratori convocarono un consiglio speciale del Presidium del Comitato
Centrale e quando Chruš ëv arrivò, il 13 ottobre, il Consiglio votò a favore delle sue
dimissioni da ogni incarico nel partito e nel governo. Il 15 ottobre 1964 il Presidio
del Soviet Supremo accettò le dimissioni di Chruš ëv da premier dell'Unione Sovietica.
In seguito alle sue dimissioni, Chruš ëv trascorse il resto della sua vita come pensionato
a Mosca. Rimase nel comitato centrale fino al 1966. Per il resto della sua vita fu guardato a
vista dal KGB, ma non si dedicò ad altro che alle sue memorie e ad altri affari di minore
importanza riguardanti l'Occidente. Morì a Mosca l'11 settembre 1971 per attacco cardiaco e
fu seppellito alcimitero di Novodevi ij. Gli furono negati i funerali di stato e
la sepoltura dentro al Cremlino.
Bibliografia
Sergej Chruschtschow: Die Geburt einer Supermacht. Ein Buch über meinen
Vater (Originaltitel Roždenie sverchderžavy. Herausgegeben und übersetzt von R. Meier).
Elbe-Dnjepr Verlag, Klitzschen 2003.
Nikita Sergejewitsch Chruschtschow: Skizzen zur Biographie. Dietz Verlag, Berlin 1990.
Edward Crankshaw: Der Rote Zar – Nikita Chruschtschow. S. Fischer Verlag, 1966 (dt.
1967).
Merle Fainsod: Wie Russland regiert wird. Kiepenheuer & Witsch, Köln / Berlin 1965.
Melanie Ilic, Jeremy Smith (Hrsg.): Soviet State and Society Under Nikita Khrushchev.
Routledge, London 2009.
Lothar Kölm (Hrsg.): Kremlchefs – Politisch-biographische Skizzen von Lenin bis
Gorbatschow. Dietz, Berlin 1991.
Wolfgang Leonhard: Chruschtschows große Säuberung. In: Die Welt, 24. Februar 1961
(reproduziert (Memento vom 23. Dezember 2008 im Internt Archive) in den Open Society
Archives).
Martin McCauley: The Khrushchev Era 1953-1964. London, New York 1995.
Roy Medwedew: Chruschtschow. Eine politische Biographie. Seewald, Stuttgart / Herford
1984.
Reinhold Neumann-Hoditz: Nikita S. Chruschtschow – In Selbstzeugnissen und
Bilddokumenten. Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1980.
Wladislaw Subok, Konstantin Pleschakow: Der Kreml im Kalten Krieg – Von 1945 bis zur
Kubakrise. Claassen, Hildesheim 1997.
Michel Tatu: Macht und Ohnmacht im Kreml – Von Chruschtschow zur kollektiven
Führung. Ullstein, Berlin / Frankfurt / Wien 1967.
William Taubman: Khrushchev. The Man and His Era. Norton & Company, London 2005.
William J. Tompson: Khrushchev: A Political Life. St. Martin’s Press, New York 1995.
Dmitri Wolkogonow: Die Sieben Führer. Societäts-Verlag, Frankfurt am Main 2001.
Gerhard Wettig (Hg.): Chruschtschows Westpolitik 1955 bis 1964. De Gruyter Oldenbourg,
Berlin.
91
HO CHI MINH
A cura di Matteo D’Avena
Fig.24
Chí Minh (Hoang Tru, 19 Maggio 1890 – Hanoi, 3 Settembre 1969)
È stato:
-Presidente Repubblica Democratica del Vietnam (2 Settembre 1945 – 2 Settembre
1969)
-Primo Ministro Repubblica Democratica del Vietnam (2 Settembre 1945 – 20
Settembre 1955)
-Comandante Supremo Viet Minh (1° Febbraio 1941 – 1° Agosto 1954)
-Primo Segretario Partito Comunista del Vietnam (1º novembre 1956 – 10 settembre
1960)
-Presidente Partito Comunista del Vietnam (19 Febbraio 1951 – 2 Settembre 1969)
-Segretario Generale Partito Comunista Indocinese (3 Febbraio 1930 – 11 Novembre
1945)
Biografia
Nato con il nome Nguyen Sinh Cung nel piccolo villaggio della madre, Hoang Tru, nella
provincia centro settentrionale di Nghe An, si trasferì nel 1895 nel vicino villaggio paterno
di Kim Lien. Proveniva da una famiglia povera ma non indigente: il padre Nguy n Sinh
c, un funzionario della corte dell'Annam, era uno studioso del confucianesimo che gli
impartì una rigorosa educazione confuciana. Come da tradizione vietnamita, all'età di dieci
anni cambiò il nome e fu chiamato Nguyen Tat Thanh. A differenza del padre, Nguy n T t
Thành ricevette un'educazione occidentale: frequentò il liceo a Hu e successivamente la
scuola Duc Thanh di Phan Thi t. In questo periodo apprese la lingua francese e approfondì
la conoscenza della storia e della letteratura francese. Dopo la scarcerazione, il padre fu
espulso dalla pubblica amministrazione e preferì non tornare più nel suo paese natale; si
trasferì definitivamente al sud, dove sarebbe morto nel 1929. Il 5 giugno 1911 Nguy n T t
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Thành lasciò per la prima volta il Vietnam a bordo di un piroscafo francese, dove era stato
assunto come aiuto-cuoco. Viaggiò in incognito sotto il nome Van Ba, e sbarcò a Marsiglia.
Durante la permanenza in Francia lavorò come addetto alle pulizie, cameriere e montatore
cinematografico, trascorrendo la maggior parte del tempo libero nelle biblioteche pubbliche,
leggendo libri di storia e giornali politici per approfondire la conoscenza delle strutture della
società occidentale. Visse a New York, a Londra per poi ritornare in Francia dove, nel 1917,
stabilendosi a Parigi conobbe e si unì a un gruppo di nazionalisti vietnamiti di cui facevano
parte i connazionali Phan Châu Trinh, un patriota con cui si scambiava lettere quando era in
Inghilterra, e il suo mentore Phan Van Truong. Dopo il suo arrivo, assunse il nuovo nome
Nguyen Ai Quoc (Nguyen il patriota) Scelse di soggiornare in Francia per partecipare
all'acceso dibattito politico con gli altri espatriati asiatici e soprattutto vietnamiti. Iscritto al
Partito Socialista Francese, nel 1918 Nguy n Ai Quoc cercò di ottenere l'indipendenza dal
governo coloniale ma venne ignorato. Nel 1919, come rappresentante del Partito Socialista,
presentò un'istanza per il rispetto dei diritti civili nell'Indocina francese alle potenze riunite
per i colloqui di pace del Trattato di Versailles. L'istanza fu ignorata ma contribuì ad
accrescere la sua fama in patria di simbolo della lotta anticoloniale. Nel 1919, fu tra i
socialisti che optarono per entrare nella terza internazionale, provocando la scissione del
partito. Nguy n Ai Quoc abbracciò quindi il comunismo insieme all'amico Marcel Cachin,
divenendo nel 1920 uno dei fondatori del Partito Comunista Francese. Il 18 ottobre del 1926
si sposò con la ventunenne cinese T ng Tuy t Minh e nel 1927 avviò una serie di
peregrinazioni che lo portarono in Russia, Italia, Germania, Svizzera, Belgio, Thailandia e
Bangkok. Tornò in Unione Sovietica, dove cadde malato di tubercolosi e, nel 1938, iniziò
un soggiorno in Cina durante il quale combatté alcune fasi della guerra civile al fianco delle
truppe di Mao Zedong. È proprio in questo periodo che adottò il nome Ho Chi Minh
, ovvero "Volontà che illumina", o anche: "Colui che porta la luce". Nel 1940, Ho
Chi Minh si trasferì a Kunming, nella Cina del sud-ovest, dopo sette anni trascorsi a Mosca.
Vi stabilì il quartier generale e riprese i contatti con i vertici del partito. Tornò in Vietnam
nel febbraio del 1941, dopo trent'anni di assenza, ed organizzò un altro quartier generale
nelle grotte di Pac Bo, vicino alla frontiera cinese, dove in marzo si tenne l'ottava sessione
plenaria del partito. Fu in tale circostanza che venne fondato il movimento Viet Minh,
egemonizzato dal partito, a cui potevano accedere i patrioti vietnamiti di qualsiasi ideologia,
pronti a fare un fronte comune per l'indipendenza. Alcuni degli obiettivi del partito furono
eclissati, come la limitazione delle proprietà fondiarie. La stessa retorica comunista fu
abbandonata in nome del nuovo progetto, che intese creare un'unità tra le masse rurali e il
nazionalismo
della
classe
media
urbana.
Malato di malaria nonché di altri fastidi gastrointestinali, venne curato dai medici
dell'Office of Strategic Services e ciò gli consentì di proseguire la sua lotta partigiana
antigiapponese. A partire dal 1944 convisse con Do Thi Lac, una donna di etnia Tay (il
matrimonio con T ng Tuy t Minh si era concluso appena un anno dopo la sua
celebrazione). Il 9 marzo 1945, i giapponesi occuparono militarmente l'intero Paese e
disarmarono i francesi, creando uno Stato fantoccio indipendente ma sotto la propria tutela.
Il trattato del 1883 con cui i francesi avevano imposto il protettorato sul Vietnam fu
dichiarato nullo. Con la popolazione ridotta a morire di fame, fu individuato nei giapponesi
il nemico da scacciare, e a tale fine furono invitati ad unirsi alla lotta i patrioti francesi e i
borghesi moderati delle città. Il piano era di prendere prima il controllo delle campagne e
poi avanzare verso i centri urbani. Tra i vari comandanti che si distinsero in questo periodo
vi fu il comunista Vo Nguyen Giap, che avrebbe avuto un ruolo centrale nella politica del
93
Paese nei decenni successivi. Il popolo vietnamita rispose in massa alle sollecitazioni dei
comunisti un po' ovunque, formando nuovi gruppi e organizzazioni di resistenza; ad Hanoi
furono reclutati 2.000 nuovi operai, 100.000 contadini si unirono nella Provincia di Quang
Ngai. Un'organizzazione comunista giovanile reclutò 200.000 combattenti a Saigon, che
presto divennero un milione nell'intera Cocincina. Fu affidato al generale Giap il comando
del neonato Esercito di Liberazione del Vietnam, il nucleo di quello che sarebbe diventato
l'Esercito Popolare Vietnamita.Nel giugno del 1945, Viet Minh si era compiutamente
organizzato nella zona di Viet Bac sia a livello militare che amministrativo.
Successivamente, a seguito della rivoluzione di agosto da lui ideata, Ho Chi Minh guidò
Viet Minh in azioni militari di successo prima contro le forze di occupazione giapponesi e
poi contro i francesi che volevano rioccupare la nazione; il 2 settembre del 1945 proclamò
ufficialmente l'indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam, prendendo spunto
dalle analoghe dichiarazioni d'autonomia che erano state fatte in occasione delle rivoluzioni
americana e francese. Anche se fin dal 25 agosto era riuscito a convincere l'imperatore Bao
Dai ad abdicare, nessuno Stato straniero aveva riconosciuto il suo governo. Per evitare di
trascinare il neonato Stato vietnamita in aspre tensioni diplomatiche, nel mese di agosto e
settembre 1945 Ho chi Minh aveva richiesto, attraverso i canali OSS (il precursore della
CIA, attivi fin dal tempo della resistenza contro i giapponesi) che gli statunitensi
accordassero al Vietnam "lo stesso status delle Filippine", un protettorato per un periodo
indeterminato prima dell'indipendenza. Con lo scoppio delle ostilità francesi nel Vietnam
del Sud, tra il settembre e l'ottobre del 1945, richiese formalmente l'intervento degli Stati
Uniti e delle Nazioni Unite contro l'aggressione francese, citando la Carta Atlantica, la Carta
delle Nazioni Unite, e un discorso di politica estera del presidente degli Stati Uniti, Harry
Truman, che nell'ottobre del 1945 aveva incoraggiato l'auto-determinazione dei
popoli.Dall'ottobre 1945 al febbraio 1946, Ho Chi Minh scrisse al Presidente degli Stati
Uniti Harry Truman o al Segretario di Stato James Byrnes almeno otto comunicazioni.
Comunicò per l'ultima volta direttamente con gli Stati Uniti nel settembre del 1946, quando
visitò l'ambasciatore statunitense a Parigi George Abbot, a cui chiese assistenza nella lotta
per l'indipendenza del Vietnam dall'Unione francese. L'abdicazione dell'imperatore Bao Dai
portò Ho Chi Minh a dichiarare la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam,
finalmente indipendente. La vittoria dei comunisti nella guerra civile cinese (1º settembre
1949) diede a Ho Chi Minh la possibilità di trovare nuovi alleati: nel febbraio del 1950 si
recò a Mosca dove incontrò Mao Zedong e Josif Stalin; in tale occasione quest'ultimo
riconobbe il suo governo. I tre capi di Stato concordarono sul fatto che il Vietnam sarebbe
divenuto uno Stato indipendente dotato di un governo comunista sostenuto e supportato
dalla Cina, che divenne la principale alleata dei Viet Minh. L'emissario di Mao in URSS
ufficializzò la disponibilità del governo maoista ad addestrare a Pechin 70.000 soldati
vietnamiti, nonché ad allearsi militarmente con Ho qualora il conflitto con la Francia si
fosse rivelato molto impegnativo.Secondo il giornalista Bernard B. Fall, dopo alcuni anni di
guerra Ho negoziò una tregua con il nemico. Proprio quando la trattativa sembrava a buon
punto, i francesi chiesero la consegna di alcuni soldati giapponesi divenuti comunisti, che
avrebbero dovuto essere sottoposti al processo di Toky per crimini commessi durante la
Seconda guerra mondiale. Ho Chi Minh rispose che gli ufficiali giapponesi erano ormai
divenuti alleati e amici e non voleva tradirli, pertanto l'accordo non si trovò e la guerra
proseguì.Inizialmente battuti, anche a causa della soverchiante superiorità bellica dei rivali,
gli indipendentisti riuscirono a cogliere decisivi successi e vinsero il conflitto. Decisiva per
le sorti della guerra fu la battaglia di Dien Bien Phu, che si concluse il 7 maggio 1954 con la
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morte del colonnello Charles Piroth, la resa del comandante Christian de Castries e il netto
successo delle forze comuniste. Nella successiva conferenza di Ginevra, il Vietnam fu
riconosciuto indipendente ma venne diviso in due parti: sud (capitalista e filo-statunitense) e
nord (comunista e, almeno inizialmente, filo-sovietica). Ho Chi Minh divenne Presidente
della Repubblica Democratica del Vietnam (il Vietnam del Nord appunto) nel 1954. Il
governo della Repubblica Sudvietnamita (RVN) del presidente Diem, con l'appoggio degli
USA sotto l'amministrazione Dwight Eisenhower, interpretò il sud-est asiatico come un
altro campo di battaglia della Guerra Fredda e quindi non aveva interesse a far tenere
elezioni democratiche che avrebbero favorito l'influenza comunista sul governo del Sud. Il
Presidente Eisenhower annotò nelle sue memorie che se si fosse tenuta un'elezione su base
nazionale, i comunisti avrebbero vinto prendendo l'80% dei voti. In aggiunta si disse che i
comunisti probabilmente non avrebbero permesso elezioni libere nella loro parte di
Vietnam. Indipendentemente da ciò, né gli USA né i due Vietnam avevano firmato la
clausola elettorale dell'accordo. L'FLN (o comunisti vietnamiti) guidò l'insurrezione
popolare contro il governo Sudvietnamita. Per salvare l'RVN, gli Stati Uniti iniziarono ad
inviare consiglieri militari. Cominciò così nel 1962 la terrificante guerra del Vietnam, che
Ho Chi Minh tentò di scongiurare: nel 1963 ebbe uno scambio epistolare col presidente
Diem nella speranza di aprire dei negoziati di pace. Lo statista sudvietnamita sembrava
essersi convinto ma gli Stati Uniti erano ormai intenzionati a dare fuoco alle polveri e
l'incertezza di Diem contribuì a screditarlo agli occhi degli yankee, che infatti l'anno
seguente sostennero seppur in maniera molto discreta un colpo di Stato contro di lui. Ho Chi
Minh guidò politicamente e pubblicamente (grazie al suo enorme prestigio e nonostante la
sua tarda età) fino alla sua morte nel 1969, la guerra del Vietnam contro gli statunitensi che
appoggiavano il Vietnam del Sud e che a partire dal 1965 sferrarono continui attacchi aerei
contro il territorio del Vietnam del Nord e che si infiltravano clandestinamente anche
attraverso il neutrale Laos: per l'occasione, si affidò anche alla lotta insurrezionale al sud dei
guerriglieri Viet Cong. Essendo già abbastanza anziano al momento dello scoppio della
guerra, Ho Chi Minh lasciò il comando delle operazioni al fidato Giap mentre anche
politicamente dovette spesso dibattere con i suoi luogotenenti più giovani e ambiziosi.
L'ultima grande offensiva militare che vide fu l'offensiva del Tet in cui Giap, utilizzando i
suoi consigli tattici, diede vita ad una serie di audaci operazioni in tutto il Sud non
urbanizzato; Ho Chi Minh aveva capito che nelle guerre moderne l'elemento psicologico era
importante come quello tattico-strategico, se non addirittura di più: gli statunitensi, ormai
convinti di essere a un passo dalla vittoria del conflitto, erano convinti di trovarsi di fronte
un nemico capace solo di opporre una sterile resistenza difensiva; subire un'offensiva su
larga scala, anche se magari confusa e troppo ardita, fu per loro un bruttissimo colpo al
morale. Nel 1969, quando le trattative diplomatiche erano appena iniziate, la salute di Ho
cominciò a peggiorare a causa del diabete e di altre malattie che lo colpirono impedendogli
di partecipare a ulteriori manifestazioni politiche. Tuttavia, insisté sul fatto che le sue truppe
dovevano continuare a combattere fino alla vittoria totale: al rivoluzionario vietnamita non
interessava essere presente al momento del trionfo, il suo unico desiderio era quello di
vedere un Vietnam unito e libero. Stanco e malandato, Ho Chi Minh morì 79enne la mattina
del 3 settembre del 1969 a causa di un arresto cardiaco (ma la notizia venne data alla
popolazione solo due giorni dopo). Il suo successore alla presidenza non fu una singola
persona, ma un collettivo di ministri, militari e uomini politici che proseguirono nel suo
intento di liberare tutta la penisola vietnamita. Al suo funerale parteciparono migliaia di
vietnamiti nonché i leader dei principali partiti comunisti del mondo: per l'Italia, si recò nel
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luogo della cerimonia Enrico Berlinguer. Nel 1975 la città di Saigon (Sàigòn) venne
ribattezzata Città di Ho Chi Minh (Thành ph H Chí Minh) in suo onore. Gli vennero
dedicati un museo, un mausoleo e numerose statue; anche l'UNESCO, nel 1987, invitò i
leader degli stati membri a partecipare alla commemorazione del centenario della nascita del
leader vietnamita visto "l'importante e poliedrico contributo del Presidente Ho Chi Minh nei
settori della cultura, dell'istruzione e delle arti" e "la dedizione di Ho Chi Minh alla causa
della liberazione nazionale del popolo vietnamita" che contribuì "alla lotta comune dei
popoli per la pace, l'indipendenza nazionale, la democrazia e il progresso sociale".
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JOHN FITZGERALD KENNEDY
A cura di Nancy Bevilacqua
(Fig. 25)
Biografia
John Fitzgerald Kennedy, conosciuto anche come John F. Kennedy, John Kennedy o
solo JFK, nacque a Brookline, nel Massachusetts, il 29 maggio 1917 da Joseph P. Kennedy
e Rose Fitzgerald, membri di due famiglie di Boston molto in vista.
Frequentò la “Dexter School” e, in seguito, la “Canterbury School” di New Milford, una
scuola privata. Successivamente fu iscritto al Choate Rosemary Hall, un collegio di
Wallingford. Nell’autunno del 1935 si iscrisse all’università di Princeton, ma dovette
abbandonare il corso di laurea dopo aver contratto l’itterizia. L’autunno successivo si
iscrisse
all’università
di
Harvard.
Nel 1941 si arruolò volontario nell’esercito, ma venne riformato a causa di un problema alla
colonna vertebrale causatogli da una frattura in un incidente ad Harvard. In seguito
all’attacco di Pearl Harbor, venne arruolato dalla Marina degli Stati Uniti. Durante questo
periodo Kennedy partecipò a diverse missioni nel Pacifico e conseguì il grado di
sottotenente di vascello e il comando di una Motor Torpedo Boat PT-109.
Dopo la seconda guerra mondiale fece il suo ingresso in politica, in parte anche per
compensare il vuoto lasciato dal popolare fratello Joseph Jr., che venne ucciso in guerra.
Nel 1946 il deputato James M. Curley lasciò il suo seggio per diventare sindaco di Boston;
Kennedy corse per quel seggio e batté il rivale repubblicano con un ampio margine. Fu
rieletto due volte, con risultati spesso contrastanti rispetto a quelli del presidente Harry
Truman
e
del
resto
del
Partito
Democratico.
Nel 1952 Kennedy si candidò per il Senato con lo slogan «Kennedy farà di più per il
Massachusetts». Con una vittoria a sorpresa, sconfisse il favorito candidato repubblicano
Henry
Cabot
Lodge,
Jr.
con
un
margine
di
soli
70.000
voti.
Nel 1960 Kennedy dichiarò il suo intento di correre per la presidenza degli Stati Uniti. Nelle
elezioni primarie del Partito Democratico si contrappose al senatore Hubert Humphrey del
Minnesota, al senatore Lyndon B. Johnson del Texas e ad Adlai Stevenson II, candidato
democratico nel 1952 e nel 1956, che, pur non correndo ufficialmente, era uno dei favoriti.
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Kennedy vinse le elezioni primarie in Stati chiave come il Wisconsin e la Virginia
Occidentale e giunse da favorito alla Convention democratica di Los Angeles nel 1960.
Il 13 luglio 1960 il Partito Democratico nominò Kennedy candidato alla presidenza.
Kennedy chiese a Lyndon Johnson di essere il suo candidato alla vicepresidenza, nonostante
gli scontri tra i due durante le elezioni primarie. Johnson, contrariamente alle previsioni
dello
staff
di
Kennedy,
accettò.
In settembre e in ottobre, Kennedy si confrontò con il candidato repubblicano alla
presidenza Richard Nixon nel primo dibattito presidenziale mai trasmesso alla televisione.
Durante il dibattito Nixon apparve teso e mal rasato, mentre Kennedy trasmise un'immagine
composta e sicura. Kennedy fu ritenuto da tutti il vincitore del confronto, nonostante gli
osservatori avessero considerato i due sostanzialmente alla pari in termini di oratoria. Il
confronto televisivo Kennedy-Nixon è stato ritenuto un punto di svolta nella comunicazione
politica: il momento in cui il medium televisione inizia ad avere un ruolo decisivo, e il modo
di presentarsi davanti alle telecamere diventa di capitale importanza per un candidato.
Buona parte del merito del buon esito per Kennedy del confronto televisivo andava
comunque accreditata, come sarebbe accaduto poi in successive circostanze, all'apporto di
uno dei suoi più stretti collaboratori, Arthur Schlesinger Jr., che scriveva i discorsi di
Kennedy, chiamati i discorsi della Nuova Frontiera, ispirati al pensiero di Gaetano
Salvemini. Nelle elezioni presidenziali del 1960, Kennedy batté Nixon in una competizione
molto serrata, e all'età di 43 anni divenne il primo presidente cattolico e il più giovane
presidente eletto (Theodore Roosevelt era più giovane, ma divenne presidente subentrando a
William
McKinley
quando
questi
fu
assassinato).
John F. Kennedy prestò giuramento come 35º presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1961
a Washington D.C. In uno dei famosi discorsi della Nuova Frontiera, chiese alle nazioni del
mondo di unirsi nella lotta contro ciò che chiamò «...i comuni nemici dell'umanità... la
tirannia, la povertà, le malattie e la guerra». Il 17 aprile 1961 l'amministrazione Kennedy
mise in atto una versione modificata del piano per l’invasione della Baia dei Porci, studiato
sotto l'amministrazione di Dwight D. Eisenhower, predecessore di Kennedy che rimandava
di attuarlo, per deporre Fidel Castro, leader socialista del governo di Cuba. Durante
l'amministrazione Eisenhower questo piano aveva prodotto l'esecuzione di numerosi
attentati terroristici in Cuba, da parte del gruppo Alpha 66, uno dei quali portò alla
realizzazione della famosa foto icona di Che Guevara, scattata dal fotografo Korda durante i
funerali di 75 cubani morti nell'esplosione di una nave. Con i fratelli Kennedy, John e
Robert e la supervisione di Allen Dulles della CIA, oltre al famoso tentato sbarco nella Baia
dei Porci, in cui 1.500 cubani anticastristi vennero sconfitti dalle forze regolari cubane, si
realizzò l'Operazione Mongoose ("piano mangusta"), nella quale terroristi di diversa
estrazione effettuarono in 14 mesi 5.780 azioni terroristiche e 716 sabotaggi ad
infrastrutture
economiche
cubane.
Questi eventi portarono alla crisi dei missili di Cuba, che iniziò il 14 ottobre 1962, quando
gli aerei-spia U-2 americani fotografarono un sito cubano dove era in costruzione una base
missilistica sovietica. Kennedy si trovò di fronte un pesante dilemma: se gli Stati Uniti
avessero attaccato il sito, avrebbero dato inizio ad una guerra nucleare con l'Unione
Sovietica. Se non avessero fatto nulla, avrebbero avuto una permanente minaccia nucleare
nella propria regione, in una vicinanza tale da rendere quasi impossibile un contrattacco
qualora i nemici avessero attaccato per primi. E ancora, la paura che gli Stati Uniti
apparissero
deboli
agli
occhi
del
mondo.
Molti ufficiali militari e ministri del governo fecero pressione per un attacco aereo, ma
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Kennedy ordinò un blocco navale ed avviò negoziati con i sovietici. Una settimana dopo
raggiunse un accordo con il Segretario Generale del PCUS, Nikita Khruš v. Questi si
accordò segretamente per ritirare i missili in cambio dell'impegno degli Stati Uniti di non
invadere Cuba e di ritirare i propri missili nucleari dalla Turchia.
La crisi dei missili ebbe tuttavia effetti positivi sulle trattative USA-URSS circa la
limitazione dei test nucleari. Sia Kennedy che Khruš v, consapevoli di essersi trovati
sull'orlo di una guerra atomica, cercarono di diminuire le tensioni attraverso una fitta
corrispondenza. Questa culminò nel 1963 con l'inizio ufficiale dei negoziati, assieme alla
Gran Bretagna, che portarono alla firma del Partial Test Ban Treaty, il 5 agosto dello stesso
anno. Il trattato, considerato uno dei successi diplomatici dell'amministrazione Kennedy,
proibiva agli Stati aderenti qualsiasi esperimento nucleare nell'atmosfera, nello spazio e
sott'acqua, lasciando possibili solo i test sotterranei. Il 26 giugno 1963 Kennedy visitò
Berlino Ovest e tenne un pubblico discorso di critica contro la costruzione del Muro di
Berlino. Il discorso è noto per la sua famosa frase, pronunciata in tedesco, Ich bin ein
Berliner,
e
salutata
dai
berlinesi
con
una
grande
ovazione.
Argomentando che «...coloro che rendono impossibile una rivoluzione pacifica rendono
inevitabile una rivoluzione violenta», Kennedy cercò di contenere la diffusione del
comunismo in America Latina fondando la Alleanza per il Progresso (Alliance for
Progress), che inviò aiuti alle nazioni in difficoltà e cercò di imporre un maggior rispetto
dei diritti umani nella regione. Kennedy istituì, durante il primo anno della sua presidenza, i
Peace Corps, un programma di volontariato rivolto ai paesi in via di sviluppo. Questo
progetto, frutto di un incontro di Kennedy con gli studenti dell'Università del Michigan
avvenuto durante la sua campagna elettorale, aveva il compito principale di promuovere una
migliore immagine degli Stati Uniti nei Paesi in cui essa era compromessa dalla diffidenza
verso gli americani, spesso visti come nuovi colonizzatori, e al tempo stesso di fornire un
aiuto tecnico. I Peace Corps, tuttora esistenti, rimangono una delle eredità più durature
dell'amministrazione Kennedy. Riguardo la guerra del Vietnam, durante la sua presidenza a
seguito di continue minacce all'indipendenza dello stato meridionale, Kennedy vi
incrementò il numero di consiglieri militari facendoli passare da poche centinaia fino a
16.000 (al momento della sua morte). Nell'agosto del 1964 il Presidente Johnson, prendendo
spunto da un incidente avvenuto nel golfo del Tonchino, si presentò di fronte al congresso
degli Stati Uniti facendosi dare adeguati poteri per intraprendere iniziative militari. Nel
1965 partirono i primi bombardamenti aerei, mentre il numero dei soldati impegnati
raggiungeva quota 500.000 nel 1967. Con la sua attività, secondo alcuni egli, ordinando il
rovesciamento e l'uccisione di Ngo Dinh Diem, avrebbe acceso la miccia che ha provocato
la guerra. Altri, tra cui Robert Dallek in An Unfinished Life: John F. Kennedy, 1917-1963
sostengono invece che Kennedy avrebbe soltanto continuato l'impegno della Legione
straniera
francese
nella
ex
colonia
dell'Indocina
francese.
Nel 1963, anno in cui ci fu il cambio di passo del Presidente Kennedy, riportato anche da
Martin Luther King nella sua autobiografia (The Autobiography of Martin Luther King, Jr.
by Martin Luther King Jr. and Clayborne Carson), Kennedy cominciò a bloccare le manovre
dei consiglieri militari e a pianificare la ritirata di alcune migliaia di soldati dal Vietnam.
Kennedy non avrebbe quindi dato il via all'escalation, la quale sarebbe solo opera di
Johnson, e che al momento dell'assassinio del Presidente non c'era nessuna battaglia in atto.
Non trascurabili sono poi le dichiarazioni rilasciate dall'ex segretario della difesa americano
(in carica in quegli anni) Robert McNamara, che nel film The Fog of War ha affermato che
Kennedy non aveva nessuna intenzione di impegnarsi in una guerra in Vietnam, così come
99
la presenza di un memorandum datato 11 ottobre 1963 in cui Kennedy ordinava il ritiro di
1.000 uomini dal Vietnam, decisione poi subito annullata da Johnson appena divenuto
presidente.
Uno dei problemi interni agli Stati Uniti più pressanti durante l'era Kennedy fu la turbolenta
fine della discriminazione razziale. La Corte Suprema statunitense si era pronunciata nel
1954 contro la segregazione razziale nelle scuole pubbliche, vietandola; tuttavia c'erano
molte scuole, soprattutto negli stati meridionali, che non rispettavano questa decisione.
Rimanevano inoltre in vigore le pratiche di segregazione razziale sugli autobus, nei
ristoranti,
nei
cinema
e
negli
altri
spazi
pubblici.
Migliaia di statunitensi di tutte le etnie ed estrazioni sociali si unirono per protestare contro
questa discriminazione. Kennedy sostenne l'integrazione razziale ed i diritti civili e chiamò
inoltre a sé durante la campagna elettorale del 1960 la moglie dell'imprigionato reverendo
Martin Luther King Jr., guadagnandosi il consenso della popolazione nera alla sua
candidatura. Tuttavia, da presidente, temette che i movimenti dal basso (grassroots
movement) avrebbero potuto irritare troppo i bianchi del sud ed inizialmente tese ad
ostacolare il passaggio delle leggi sui diritti civili attraverso il Congresso, dominato da
Democratici del Sud, allontanandosi dalle posizioni dei movimenti. Il risultato fu quello di
venire accusato da molti leader dei movimenti per i diritti civili di non dar loro il sostegno
promesso, qualcuno lo accusò di aver strumentalizzato i movimenti per i diritti civili in
chiave
meramente
elettorale.
Il presidente Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 alle 12:30, ora
locale, mentre era in visita ufficiale alla città. Fu un evento straordinario e devastante per la
vita di molti americani. «Dov'eri quando hanno sparato a Kennedy?» fu una domanda posta
di frequente negli anni successivi e continuò a risuonare per decenni dopo il fatto.
Lee Harvey Oswald venne arrestato alle 13:50 in un cinema poco distante da Dealy Plaza,
quindi alle 19:00 accusato di aver ucciso un poliziotto di Dallas ed alle 23:30 di aver
assassinato il presidente nel quadro di una "cospirazione conservatrice". Oswald venne a sua
volta ucciso dopo appena due giorni, il 24 novembre, prima di venire portato in tribunale dunque senza che ci fosse stato il tempo di intentare a suo carico alcun processo, all'interno
del seminterrato della stazione di polizia di Dallas da Jack Ruby, il proprietario di un night
club di Dallas noto alle autorità per i suoi legami con la mafia. Ruby giustificò il suo gesto
sostenendo di essere un grande patriota e di essere rimasto turbato dalla morte di JFK.
Cinque giorni dopo la morte di Oswald, il presidente Lyndon B. Johnson creò la
Commissione Warren, presieduta dal giudice Earl Warren, per indagare sull'omicidio.
Kennedy venne sepolto presso il John Fitzgerald Kennedy Gravesite, nel Cimitero nazionale
di
Arlington,
in
Virginia.
Nel
1993,
il
libro
Case
Closed:
Lee
Harvey
Oswald
and
the
Assassination of JFK del giornalista investigativo Gerald Posner, analizzò le prove su cui si
basano le principali teorie cospirative, concludendo che nulla di quanto si sa fino ad ora
dimostra l'esistenza di un complotto. Il libro è stato molto criticato dai cospirazionisti, per
avere omesso o interpretato soggettivamente fatti ed elementi tesi ad escludere il complotto.
In ogni caso due sono le piste complottiste sull’omicidio Kennedy. La prima, descritta nel
film “JFK, un caso ancora aperto” di Oliver Stone, sostiene che il presidente sia stato ucciso
dalla CIA, dall’ FBI, dalla mafia e dagli anticastristi. La seconda, sostenuta in Italia dal
giudice e scrittore Ferdinando Imposimato, afferma che l’assassinio fu voluto dal KGB e
coperto dai settori più conservatori della politica americana. John Kennedy sposò Jacqueline
Bouvier
il
12
settembre
1953.
100
Sia "Jack" sia la moglie Jacqueline erano molto giovani in confronto alle precedenti coppie
presidenziali e furono figure molto popolari; venne loro tributata un'attenzione più simile a
quella riservata a cantanti rock e a stelle del cinema, più che a un politico e a sua moglie.
Influenzarono persino la moda dell'epoca e loro fotografie comparivano spesso nei
rotocalchi dell'epoca. I Kennedy portarono una ventata di vita nuova nell'atmosfera della
Casa Bianca. Convinti che la sede presidenziale fosse un luogo dove celebrare la storia, la
cultura e le conquiste americane, invitarono regolarmente artisti, scrittori, scienziati, poeti,
musicisti, attori, atleti e vincitori di premi Nobel. Jacqueline Kennedy inoltre riadattò quasi
tutte le stanze della Casa Bianca con nuovi arredi e pezzi d'arte.
La Casa Bianca sembrò anche un luogo più gioioso per via della presenza dei due figli
piccoli della coppia, Caroline e John Jr. Dietro la facciata elegante, anche la vita privata dei
Kennedy conobbe qualche tragedia, come la morte del figlio Patrick.
Il carisma che Kennedy e la sua famiglia irradiavano, valsero alla sua amministrazione
l'appellativo postumo di "Camelot".
John Fitzgerald Kennedy e Jaqueline Bouvier hanno avuto quattro figli:
Arabella (nata morta, nell'agosto del 1956)
Caroline Bouvier Kennedy, che si è sposata nel 1986 con Edwin Arthur Schlossberg
e ne ha avuto tre figli: Rose (1988), Tatiana (1990) e John (1993).
John Fitzgerald Kennedy Jr. detto John-John
Patrick Bouvier Kennedy (nato nell'agosto 1963 e morto a due giorni di vita per
malattia delle membrane ialine).
John Fitzgerald Kennedy era letteralmente ossessionato dal sesso. I suoi rapporti sessuali
extraconiugali erano frequenti ma episodici, anche se avuti con donne con le quali era
venuto a contatto per motivi legati alla sua carica e magari per più volte. Due giovani e
avvenenti fanciulle erano le sue partner sessuali più frequenti che lo raggiungevano spesso,
insieme, nel locale della piscina che egli aveva fatto costruire all'interno della Casa Bianca
per i suoi momenti di relax e per la sua nuotata quotidiana, e che i servizi segreti, che non
avevano accesso al locale e cui non erano state comunicate le generalità delle due "amanti"
del Presidente, chiamavano Fiddle & Faddle. Esse lo seguivano spesso anche nei suoi viaggi
di lavoro. Una lavorava per la segretaria personale di JFK, Evelyn Lincoln, e l'altra per
Pierre Salinger. Ma Fiddle & Faddle non erano le sole amanti di JFK, che ebbe rapporti
intimi con numerose altre giovani donne che in qualche modo erano collegate al suo mondo:
Pamela Turnure, addetta stampa della First Lady Jacqueline, Judith Campbell, fidanzata di
uno dei capi di Cosa Nostra, Sam Giancana, Mary Pinchot Mayer, un'artista che lo
introdusse all'uso di marijuana, di cocaina, di hashish e dell'LSD; Marilyn Monroe, che lo
accompagnò più volte sull'aereo presidenziale Air Force One, nascondendosi parzialmente
con l'utilizzo di una parrucca scura e occhiali da sole. Ma oltre a queste donne del mondo
VIP, JFK s'intratteneva con altre ragazze che ebbero con lui rapporti rapidi ed occasionali:
hostess, donne del mondo dello spettacolo, giovani che aveva conosciuto quando queste
lavoravano per la sua campagna elettorale e anche prostitute, tutte definite dai Servizi di
sicurezza come happening babies (ragazze per l'occasione). Tutto ciò veniva fatto con
l'impegno assoluto a non insospettire la moglie Jacqueline, impegno che coinvolgeva in
primis il suo assistente Dave Powers e, a seguire, i servizi di sicurezza, i quali si trovavano
nell'ingrata e inattesa incombenza di proteggere il Presidente non solo dai nemici potenziali,
101
ma
anche
dalla
sua
legittima
sposa.
Naturalmente l'opinione pubblica americana era del tutto ignara dei comportamenti libertini
del Presidente, così come poco si sapeva delle sue frequenti assenze dovute a motivi della
sua malandata salute.
Bibliografia
Anatolij Andreevic Gromyko, John F. Kennedy e la macchina del potere, traduzione di
Walter Monier, Orientamenti, Editori Riuniti Roma 1969.
Arthur M. Schlesinger Jr. I Mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca, trad. di
Giancarlo Carabelli, Rizzoli Editore, Milano, 1966.
Edward Klein, La maledizione dei Kennedy, trad. di Alessandra Benabbi e Cristina Spitali,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007.
John F. Kennedy, Ritratti del coraggio, Alberto Gaffi Editore con Fondazione Italia USA
Roma, 2008.
Lanfranco Palazzolo Kennedy shock, Kaos edizioni, Milano, settembre 2010.
102
MAO ZEDONG
A cura di Morena Vidone.
Fig.26
Biografia
Mao Zedong o Mao Tse-tung ( Shaoshan, 26 dicembre 1893 –Pechino, 9 settembre 1976) è
l'uomo che ha cambiato il volto della Cina. Figlio di un piccolo proprietario terriero, Mao
manifestò assai presto uno spirito ribelle e una passione per il sapere che si legava
strettamente alla sensibilità per la realtà sociale che lo circondava. All'età di quattordici
anni, fu costretto dal padre a sposare Luo Shi (
), una ragazza più grande di lui di
qualche anno. Tale matrimonio non è mai stato accettato da Mao, che sostenne di non aver
mai dormito con la ragazza, rifiutando di riconoscerla come moglie.
Dopo essersi diplomato alla Scuola Normale di Changsha nel 1918, Mao viaggiò
verso Pechino con il suo insegnante delle superiori e suo futuro suocero, il Professor Yang
Changji (
), durante il movimento del quattro maggio 1919, quando Yang tenne delle
lezioni all'Università di Pechino. Seguendo le sue raccomandazioni, Mao lavorò sotto Li
Dazhao, direttore della biblioteca universitaria, e presenziò ai discorsi di Chen Duxiu.
Sempre a Pechino sposò la prima moglie, Yang Kaihui, una studentessa universitaria e figlia
di Yang Changji, dalla quale ebbe due figli, Mao Anying e Mao Anqing. Il matrimonio durò
poco, mentre Yang, nel 1927 finì imprigionata e uccisa dalle truppe di Chiang Kai-shek.
Dopo un intenso lavoro politico nello Hunan, sempre più ispirato dal marxismo, partecipò
alla famosa riunione di Shanghai dei dodici fondatori del Partito Comunista Cinese (1921).
Segretario di partito della provincia dello Hunan, elaborò prestissimo la linea dell'alleanza
operai-contadini che poneva nella ribellione ed emancipazione contadina la leva materiale di
massa della rivoluzione socialista . Dopo la repressione anticomunista del Kuomintang del
1927, Mao prese parte al “movimento dei soviet” e alle “basi rosse”, e quindi alla “Lunga
marcia” (1934-35) con la quale l'Armata Rossa sfuggì all'annientamento e si trasferì dal Sud
a Yenan. A lungo in opposizione rispetto alla direzione del partito, che oscillava fra spirito
rinunciatario di destra e avventurismo di sinistra, Mao assumeva definitivamente la
leadership, quale presidente del partito, nel gennaio 1935.
Mao Zedong morì a Pechino il 9 settembre 1976 a causa di una malattia che lo affliggeva
già
da
anni.
Intellettuale, fine stratega, poeta e grande nuotatore, guidò la Terra di Mezzo per più di 30
anni, influenzando il pensiero di molti comunisti di tutto il mondo. Mao è stato uno dei
103
personaggi più influenti e controversi del XX secolo, in patria come all'estero. La sua
dottrina ha lasciato tracce profonde all'interno dell'ideologia comunista. Ma le repressioni, le
violenze della Rivoluzione Culturale, i fallimenti economici gettano un'ombra scura sulle
scelte del leader comunista, la cui immagine ancora svetta all'entrata della Città Proibita a
Pechino.
A proposito della vita privata di Mao, che era mantenuta nel totale segreto al tempo del suo
regime ci sono pervenute alcune curiosità divulgate, dopo la sua morte, dal suo medico
personale che pubblicò le sue memorie col titolo La vita privata del presidente Mao, nel
quale afferma che Mao fumava moltissime sigarette, si faceva molto raramente il bagno e
non si lavava mai i denti (si limitava a risciacquarli con tè verde) , passava molto tempo a
letto, era dipendente dai barbiturici ( farmaci liposolubili derivati dall'acido barbiturico, che
agiscono sul sistema nervoso centrale e determinano effetti come la sedazione o l'anestesia)
e aveva un folto gruppo di partner sessuali da cui aveva contratto malattie veneree.
Bibliografia
- Mao è autore delle Citazioni del Presidente Mao Tse-tung, note ad occidente come
"Il libretto rosso": si tratta di una collezione di estratti dai suoi discorsi e articoli. Mao
scrisse diversi altri trattati filosofici, sia prima che dopo aver assunto il potere. Questi
comprendono:
Sulla pratica (1937)
Sulla contraddizione (1937)
Sulla nuova democrazia (1940)
Sulla letteratura e l'arte (1942)
Sulla corretta gestione delle contraddizioni tra il popolo (1957)
Mao scrisse poesie, principalmente in forma ci (una forma di poetica cinese). I suoi meriti letterari
sono difficili da valutare alla luce del controverso status politico dell'autore, e sono più tenuti in
considerazione in Cina che all'estero.
Michael Barlow, “Mao Tse-Tung, l'artefice della nuova Cina”, ed. Milano: Mursia (1975).
Jung Chang e Jon Halliday, “Mao, la storia sconosciuta”, ed. Milano: Longanesi (2006).
Jerome Chen, “Mao Tse-Tung e la rivoluzione cinese” , ed. Firenze: Sansoni (1965).
Yves Chevrier, “Mao Zedong e la rivoluzione cinese” , ed. Firenze : Castermann-Giunti
(1993).
Donatella Guarnotta, “Mao Tsetung” , ed. Milano: Accademia – Firenze: Sansoni (1970).
E. Krieg, “Mao Tse-Tung l'imperatore rosso di Pechino” , ed. Genève: Crémille (1969).
P. Nouaille, P. Lagron, J. Delamotte, F. Fejto, “Mao Tse-Tung e la storia del popolo
cinese” , ed. sl: Ferni (1976).
Roger Howard, "Mao Tse-Tung", ed. Milano: Dall'Oglio editore (1978).
Robert Payne, “Mao Tse-Tung” , ed. Milano: Garzanti (1952).
Stuart R. Schram, “Mao Tse-Tung e la Cina moderna” , ed. sl: Il saggiatore (1966).
Philip Short, “Mao L'uomo, il rivoluzionario, il tiranno”, ed. Milano: Rizzoli (1999).
Jonathan Spence, “Mao Zedong” , ed. Roma: Fazi (1999).
Han Suyin, “Il vento nella torre” , ed. Milano: Bompiani, (1977)
Han Suyin, “Mao Tse-Tung Una vita per la rivoluzione”, ed. Milano: Bompiani, (1972).
Quan Yanchi, “Mao Zedong man, not god”, ed. Beijing: Foreign Languages Press Beijing,
(1992).
104
LEONID BREŽNEV
A cura di Michela Petracca
Fig.27
Biografia
Leonid Il'i Brežnev (
, 19 dicembre 1906 - 10 novembre 1982) fu
l'effettivo presidente assoluto dell'Unione Sovietica dal 1964 al 1982, anche se all'inizio in
collaborazione con altri. È stato il Segretario Generale del Partito Comunista dell'Unione
Sovietica dal 1964 al 1982, ed è stato due volte a capo del Presidium del Soviet Supremo
(Capo dello Stato), dal 1960 al 1964 e dal 1977 al 1982. Brežnev nacque a Kamenka (oggi
Dneprodzer insk) in Ucraina, figlio di un operaio dell'acciaio. Il suo vero cognome era
Brežn v (
, Brežnjòv) e così si fece chiamare fino al 1956. Nonostante fosse di
famiglia russa, mantenne la pronuncia e le abitudini ucraine per l'intera vita. Come molti
ragazzi appartenenti alle classi operaie, negli anni successivi alla Rivoluzione russa ricevette
un'educazione tecnica, prima in economia agraria, poi in metallurgia. Diplomatosi
nell'Istituto di studi Metallurgici di Dneprodzer insk e laureatosi in Ingegneria Metallurgica,
lavorò per qualche tempo in alcune industrie del ferro e dell'acciaio nell'Ucraina orientale.
Si unì alle organizzazioni giovanili del PCUS, il Komsomol, nel 1923, e divenne membro
del partito stesso nel 1931. Nel 1935-36 Brežnev partì per il servizio militare, e dopo
l'addestramento alla scuola carristi divenne commissario politico in una compagnia di
cavalleria corazzata. Nel 1936 fu anche direttore dell'Istituto Superiore Tecnico di Studi
Metallurgici di Dneprodzer insk, prima di essere trasferito al capoluogo della regione,
Dnepropetrovsk. Qui, nel 1939, diventò Segretario di partito, incaricato di gestire le
105
importanti industrie militari della città. Brežnev apparteneva alla prima generazione di
comunisti sovietici che non avevano una vera memoria di come fosse la Russia prima della
rivoluzione, e che erano troppo giovani per aver partecipato a quelle lotte per il comando del
Partito che si erano scatenate dopo la morte di Lenin nel 1924. Quando egli vi entrò Stalin
ne era il capo indiscusso, e lui con molti altri crebbero politicamente nel segno dello
stalinismo senza porsi dubbi o domande sulla bontà delle scelte che venivano dall'alto.
Coloro che sopravvissero alle Grandi purghe del 1937-39 ebbero una carriera incalzante e
molto rapida, dal momento che molte posizioni nei ranghi medi e alti del Partito, del
governo e delle Forze Armate restavano vacanti per l'eliminazione di chi le occupava.
Nel giugno 1941 la Germania Nazista invase l'Unione Sovietica e, come molti ufficiali del
Partito che godevano di considerazione, Brežnev fu immediatamente richiamato alle armi.
Egli si occupò dell'evacuazione delle fabbriche di Dnepropetrovsk nell'Est russo, prima che
la città cadesse in mano tedesca il 26 agosto, e fu poi riassegnato come politruk (
,
commissario politico). In ottobre, Bre nev fu messo a capo dell'amministrazione politica per
l'intero
Fronte
Meridionale,
col
grado
di
Commissario
di
Brigata.
Nel 1942, con l'Ucraina completamente in mano tedesca, Brežnev fu inviato in Caucaso
come capo dell'amministrazione politica del fronte transcaucasico. Nell'aprile 1943 diventò
capo del dipartimento politico della XVIII Armata, che successivamente fu inserita nel I
Fronte Ucraino, quando l'Armata Rossa riprese l'iniziativa e cominciò l'avanzata verso
occidente sul territorio ucraino. Il commissario politico del Fronte, suo diretto superiore, era
Nikita Khruš v, che divenne un importante alleato nella carriera di Brežnev. Alla fine della
guerra in Europa Brežnev occupava la posizione di capo commissario politico del IV Fronte
Ucraino, che entrò a Praga dopo la resa tedesca. Nell'agosto 1946 Brežnev lasciò l'Armata
Rossa col grado di Maggior Generale: era stato commissario politico per l'intera durata del
conflitto, e si era occupato pochissimo di incarichi di comando militare vero e proprio.
Dopo aver lavorato su alcuni progetti per la ricostruzione in Ucraina, tornò alla vita civile
come Primo Segretario a Dnepropetrovsk. Nel 1950 divenne deputato del Soviet Supremo,
il parlamento-facciata dell'URSS; nello stesso anno, fu Primo Segretario nella RSS
Moldava, che era stata da poco assorbita nell'Unione Sovietica dopo l'annessione alla
Romania. Nel 1952 divenne membro del Comitato Centrale del Partito Comunista, e
successivamente del Presidium (già noto come Politburo). Stalin morì nel marzo 1953, e
nella riorganizzazione che seguì fu abolito il Presidium, assieme ad una generale
ristrutturazione del Politburo. Anche se Brežnev non vi fu incluso, fu comunque nominato
capo del Direttorato Politico dell'Esercito e della Marina, col grado di Tenente Generale,
una posizione di grande rilievo la cui assegnazione fu probabilmente non priva
dell'influenza del suo magnate e amico, Nikita Khruš v, il quale aveva da poco preso il
posto di Stalin come Segretario Generale del Partito. Nel 1955 venne nominato Primo
Segretario del Partito in Kazakhstan, una posizione a sua volta molto importante.
Nel febbraio 1956 Brežnev fu richiamato a Mosca, promosso a membro candidato del
Politburo, e fu incaricato dell'industria degli armamenti, del programma spaziale,
dell'industria pesante e della loro amministrazione. In quei momenti, come membro
dell'entourage di Khruš v, egli diede supporto a quest'ultimo nella lotta contro la vecchia
guardia stalinista della leadership di partito, il cosiddetto "Gruppo Anti-partito" guidato da
Vyacheslav Molotov, Georgij Malenkov e Lazar Kaganovi . Seguendo la sconfitta della
vecchia
guardia
Brežnev
divenne
un
membro
pieno
del
Politburo.
Nel 1959 Brežnev divenne Secondo Segretario del Comitato Centrale e nel maggio 1960 fu
promosso a Presidente del Presidium del Soviet Supremo, rendendolo nominalmente Capo
106
dello Stato. Anche se il vero potere era nelle mani Khruš v, che era Segretario di Partito, la
posizione presidenziale permise a Brežnev di viaggiare all'estero, e così inizio a sviluppare
il gusto per i ricchi abiti occidentali e le automobili, per le quali divenne poi famoso.
Una volta divenuto presidente, la sua politica (soprattutto quella estera) si basò su una
revisione del marxismo che venne tra l'altro chiamata dottrina Brežnev (nota anche come
teoria o dottrina della sovranità limitata). Egli dichiarò che l'Unione Sovietica fosse lo stato
guida del comunismo e che avesse il diritto di intervenire, anche militarmente, negli affari
interni dei paesi alleati. Si giustificò così, nel 1968, l'intervento in Cecoslovacchia
dell'URSS (assieme ad altri contingenti dei paesi membri del patto di Varsavia), mettendo
fine alla primavera di Praga. Nei confronti di Stati Uniti ed Europa occidentale egli perseguì
una politica di distensione, riportando risultati significativi agli inizi degli anni Settanta, ad
esempio con la firma del primo trattato sulla limitazione delle armi strategiche SALT II.
Tuttavia l'intervento sovietico in Afghanistan nel 1979 segnò un deterioramento nelle
relazioni USA - URSS che portò tra l'altro al boicottaggio di due Olimpiadi.
Negli ultimi anni della sua vita Brežnev, nonostante la grassezza e la vecchiaia, consolidò il
proprio potere: nel 1976 fu nominato maresciallo dell'Armata Rossa, l'anno successivo
venne rieletto alla presidenza del Soviet Supremo e nel 1981 fu di nuovo alla guida del
Partito comunista dell'Unione Sovietica.
Bibliografia
“Breznev” di Pietro Sormani (s.l., 1971);
“Leonid I. Breznev - Pagine Della Sua Vita” a cura dell’Accademia delle Scienze
dell’URSS (s.l., 1980);
“Cinquant’anni dello stato sovietico” di Leonid Breznev (s.l.; 1975);
Breznev Leonid, in Enciclopedia Treccani, s.v., on line.
107
RICHARD NIXON
A cura di Morena Vidone.
Fig.28
Biografia
Richard Milhous Nixon (Yorba Linda, 9 gennaio 1913 – New York, 22 aprile 1994) è stato
un politico statunitense. È stato il 37º Presidente degli Stati Uniti d'America.
Nixon nasce in una piccola fattoria della California da una piccola famiglia borghese.
Frequenta il college, come ogni buon americano e successivamente la Duke University
School, facoltà di giurisprudenza. Dopo la laurea apre uno studio legale a Yorba Linda, sua
città natale. Qui sposa Patricia Ryan nel 1940.
Qualche anno dopo decide di intraprendere la carriera politica nel partito Repubblicano e nel
1946 accede alla Camera dei Deputati. Nel 1948 è membro della Commissione
parlamentare sulle attività anti-americane e si segnala per la durissima contrapposizione con
Alger Hiss, una spia al soldo dell'Impero sovietico. Quasi si apre un "affare Dreyfus"
americano, poiché il Paese si spacca in due: c'è chi elogia l'operato di Nixon e chi invece
ritiene Hiss al centro di una congiura e quindi innocente.
Dopo essere stato eletto vicepresidente nel 1952, vinse le elezioni presidenziali del 1968 e
del 1972, dopo essere stato battuto da Kennedy nelle precedenti elezioni, rimanendo in
carica dal gennaio del 1969 all'agosto del 1974. Successore repubblicano del
democratico Johnson, è passato alla storia come colui che intensificò lo sforzo militare nel
Vietnam e che venne travolto dallo scandalo Watergate.
Nel 1962 si era candidato alla carica di governatore della California, ma ottenne solo il
46.87% dei consensi e fu sconfitto per poco meno di 300.000 voti dal candidato dei
democratici Pat Brown. Stressato dalla costosa e difficile campagna elettorale, preso dallo
sconforto per il responso delle urne dopo che i principali sondaggisti gli avevano assegnato
la vittoria, Nixon decise di lasciare temporaneamente la politica.
Richard Nixon rimane uno dei presidenti più controversi della storia degli Stati Uniti.
Durante il mandato e soprattutto nei primi anni dopo le dimissioni, fu duramente criticato il
suo metodo di governo, che non escludeva pressioni e interferenze anche illegali sia negli
affari interni che nelle relazioni internazionali; la sua politica di guerra in Indocina fu
108
ritenuta immorale, al di fuori dei limiti costituzionali ed eccessivamente bellicosa; fu
contestata la sua tendenza a circondarsi di collaboratori fidati ma dal discutibile
comportamento.
È stato l'unico presidente statunitense a dimettersi dalla carica e uno dei pochi a non appartenere
alla massoneria. Le sue dimissioni avvennero il 9 agosto 1974, per anticipare
l'imminente impeachment in
seguito
allo scandalo
Watergate.
Lasciata la Presidenza, Nixon si dedicò alla cura della biblioteca che porta il suo nome. Nel corso
degli anni riuscì a riprendere un certo ruolo nell'Amministrazione americana come apprezzato
consigliere
di
politica
estera.
Morì nel 1994 all'età di 81 anni a causa di un ictus, assistito dalle figlie. Al funerale, svoltosi
in forma privata davanti alla sua abitazione, parteciparono varie personalità, fra i quali
l'amico e collaboratore Kissinger, che gli dedicò una commovente commemorazione. Nixon
aveva lasciato un'esplicita disposizione di rifiutare un funerale di Stato, qualora fosse stato
concesso.
L'allora presidente Bill Clinton, con un gesto a sorpresa, ordinò di mettere a mezz'asta tutte
le bandiere nazionali nel Paese e chiese che gli fossero resi gli onori militari. Nel suo
discorso di commiato, Clinton affermò che l'ex capo di Stato aveva pagato un prezzo
superiore alle sue colpe, invitando la nazione a riconciliarsi con il suo passato e con la
figura stessa di Richard Nixon.
Bibliografia
Richard Nixon, “Six crises”, Doubleday: New York, (1962).
Jonathan Aitken, “Nixon: A Life, Regnery “, Pub., (1993).
Marco Cesarini Sforza, “NIXON”, Collana Gente Famosa, Chi è, Longanesi , (1968).
Conrad Black, “Richard M. Nixon: A Life in Full”, The Perseus Book, (2007).
Margaret MacMillan, “Nixon and Mao: The Week That Changed the World”, New York:
Random House, (2007).
Rick Perlstein, “NIXONLAND. The Rise of a President and the Fracturing of America”,
Scribner: New York, (2008).
109
JIMMY CARTER
A cura di Michela Petracca
Fig.29
Biografia
Nobel per la pace nel 2002, James Earl Carter detto Jimmy, 39° presidente degli Stati Uniti,
nasce il giorno 1 ottobre 1924 a Plains (Georgia) in una famiglia di religione battista con
interessi
nel
settore
dell'agricoltura.
Dopo la laurea alla Accademia navale di Annapolis (Maryland), conseguita nel 1946, Carter
sposa Rosalynn Smith. Dal loro matrimonio nascono quattro figli: John William, James Earl
II, Donnel Jeffrey e Amy Lynn. Dopo sette anni di servizio come ufficiale di marina il
futuro presidente americano torna a Plains per gettarsi a capofitto nell'agone politico, da cui
ricaverà i primi sostanziosi frutti a partire dal 1979, diventando governatore della Georgia.
Già da questo momento Carter si pone come un amministratore attento e all'avanguardia,
soprattutto nei confronti dei problemi che affronta. Uno su tutti: l'ecologia argomento che
sul finire degli anni '60, è da considerarsi straordinario; ma si occupa anche delle barriere
razziali,
che
disprezza
apertamente.
Forte dei consensi ottenuti con battaglie comunque difficili, impopolari ed impegnative,
annuncia la sua candidatura alla presidenza nel dicembre del 1974 dando l'avvio ad una
campagna
elettorale
lunga
due
anni.
Alla Convention democratica viene nominato al primo ballottaggio; sceglie il senatore
Walter F. Mondale come suo compagno di corsa. In seguito conduce una dura campagna
contro Ford,
peraltro
brillantemente
vinta.
Nel corso della sua presidenza Carter lavora molto per combattere la continua crescita
dell'inflazione e l'aumento della disoccupazione. Sfortunatamente al concludersi della sua
110
amministrazione il tasso d'interesse e l'inflazione registrano valori record e gli sforzi per
ridurli causano una breve recessione. In politica interna mette a punto un piano per la
politica energetica volto a contrastare la carenza d'energia, basato sulla liberalizzazione del
prezzo
del
greggio
nazionale
per
stimolare
la
produzione.
Aumenta l'efficienza governativa attraverso la riforma del servizio pubblico e procede alla
liberalizzazione dell'industria aerea e dei trasporti. Sempre forte in lui è l'attenzione al
problema ambientale. In politica estera invece il sostegno di Carter alla questione dei diritti
umani viene accolto con freddezza dall'Unione Sovietica e da altri paesi. In Medio Oriente,
attraverso l'accordo di Camp David del 1978, Carter dà il suo contributo per la risoluzione
delle divergenze tra Egitto e Israele. Costruisce una fitta rete di relazioni diplomatiche con
la Repubblica popolare cinese. Conclude il trattato sulla limitazione della energia nucleare
(Salt II) con l'Unione Sovietica. Ma la ratifica del trattato viene sospesa in seguito alla
invasione
dell'Afghanistan
da
parte
di
Mosca.
Gli ultimi quattordici mesi dell'amministrazione Carter sono dominati dalle notizie
riguardanti il sequestro dello staff dell'ambasciata americana in Iran. Le conseguenze del
sequestro e il costante aumento dell'inflazione contribuiscono alla sua sconfitta ad opera
di Ronald
Reagan nel
1980.
Dopo aver lasciato la Casa Bianca Carter torna in Georgia dove nel 1982 fonda ad Atlanta il
no profit Carter Center per promuovere la pace e i diritti umanitari nel mondo.
Il Nobel a Jimmy Carter è stato motivato per "i decenni di sforzi dedicati a cercare soluzioni
pacifiche ai conflitti internazionali, a fare avanzare la democrazia e i diritti umani, e a
promuovere
lo
sviluppo
economico
e
sociale".
"Durante la sua presidenza - si legge nel comunicato diffuso dal Comitato norvegese per
il Nobel - tra il 1977 e il 1981, la mediazione di Carter è stata un contributo vitale agli
accordi di Camp David tra Israele e l'Egitto, di per se stessi un risultato sufficiente a
qualificarsi per il premio Nobel per la pace. In un tempo in cui la guerra fredda tra Est e
Ovest era ancora predominante, Carter ha posto una enfasi rinnovata al ruolo dei diritti
umani nella politica internazionale".
Bibliografia
Carter, Jimmy (2008). A Remarkable Mother. New York: Simon & Schuster.
Carter, Jimmy (2007). Beyond the White House. New York: Simon & Schuster.
Carter, Jimmy (2009). We Can Have Peace in the Holy Land: A Plan That Will Work. New
York: Simon & Schuster.
Carter, Jimmy (2010). White House Diary. New York: Farrar, Straus and Giroux.
Carter, Jimmy (2012). NIV Lessons from Life Bible: Personal Reflections with Jimmy
Carter. Grand Rapids, Mich: Zondervan.
Carter, Jimmy (2014). A Call to Action: Women, Religion, Violence, and Power. New
York: Simon & Schuster.
Carter, Jimmy (2015). A Full Life: Reflections at Ninety. New York: Simon & Schuster.
111
MOSHE DAYAN
A cura di M. D’Avena
Moshe Dayan (Degania, 20 Maggio 1915 – Tel Aviv, 16 Ottobre 1981)
È stato un politico e generale israeliano. Fu il quarto Capo di stato maggiore generale delle
Forze di Difesa Israeliane. È stato un personaggio emblematico per lo Stato di Israele,
conosciuto in tutto il mondo per la benda sull'occhio sinistro, perso in Siria durante la
seconda guerra mondiale.
Dayan era un sabra, ossia un israeliano nato in Palestina. Nacque da Shmuel e Debora, due
sionisti che erano immigrati dall’Ucraina.
A 14 anni entrò nell’Haganah, la forza semi ufficiale nata per difendere gli insediamenti
ebraici in Palestina. Resa illegale dal governo britannico, Dayan venne incarcerato. Nel
1941, l'Haganah prese a collaborare con i britannici nella guerra contro l'Asse. Dayan,
liberato, venne aggregato alla 7ª Divisione di fanteria australiana. Il 7 giugno di quell'anno,
durante le operazioni contro la Siria controllata dalla Francia di Vicy, venne colpito
all'occhio sinistro indirettamente da un proiettile di fucile, mentre stava osservando le
posizioni nemiche con un binocolo la cui lente esplose dato l'impatto con il proiettile e i
frammenti di vetro gli danneggiarono l'occhio irreparabilmente. Dopo un recupero solo
parziale dell'occhio, Dayan iniziò ad usare la benda nera che diventerà uno dei segni
distintivi del suo personaggio. Per il suo ruolo nella guerra in Siria, ricevette la
Distinguished Service Order, una delle massime onorificenze militari britanniche.
Nella guerra arabo-israeliana del 1948 combatté come ufficiale superiore e nel 1955 divenne
Capo di Stato Maggiore. Con questa carica diresse la seconda guerra arabo israeliana contro
gli arabi nel 1956, portando i suoi soldati fino al canale di Suez. L'operazione di Suez gli
diede un immenso prestigio. In contrasto con il governo, nel 1958 diede le dimissioni
dall'esercito.
Nel 1967, con l'aggravarsi della crisi con i paesi arabi, Eshkol (Primo Ministro Israeliano),
nonostante la sua scarsa simpatia per Dayan, lo nominò ministro della Difesa. Il primo
ministro, che prima della nomina di Dayan rivestiva anche la carica di ministro della Difesa,
non aveva infatti neppure compiuto il servizio militare. Nell'imminenza della guerra, era
quindi indicato affidare il ministero ad una guida carismatica. Sebbene i piani di guerra
fossero stati già preparati in precedenza dal Capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, Dayan
112
diede il suo contributo alla vittoria, ottenuta in appena sei giorni, in quella che appunto
venne chiamata “Guerra dei sei giorni”. Però Dayan, tra le cui doti non si poteva enumerare
una particolare modestia, riuscì a farsi passare come il principale autore della grande
vittoria. Per lui, che dopo la vittoria rimase ministro della difesa fino al 1974, si ipotizzava
ormai un futuro da Primo Ministro.
Dopo la morte di Levi Eshkol, nel 1969, divenne primo ministro Golda Meir. Dayan, come
s'è detto, rimase al dicastero della difesa. Era ancora in carica quando, il 6 ottobre 1973,
iniziò la Guerra del Kippur. I primi due giorni di guerra furono traumatici per Israele.Dayan
porta indubbiamente alcune responsabilità nelle sconfitte iniziali. Assieme alle altre
massime autorità civili e militari, aveva sottovalutato i segnali d'allarme che provenivano da
diverse fonti. Si era rifiutato di mobilitare le Forze di Difesa Israeliane per lanciare un
attacco preventivo contro Egitto e Siria, in quanto credeva che le stesse IDF avrebbero
potuto vincere con facilità anche se gli arabi avessero attaccato per primi. Dopo le pesanti
sconfitte dei primi due giorni di guerra, le ottimistiche idee di Dayan cambiarono
radicalmente. Fu sul punto di annunciare "la caduta del Terzo Tempio" ad una conferenza
stampa, dimenticandosi di parlarne prima con la Meir. Cominciò anche a parlare
apertamente di usare armi di distruzione di massa contro gli arabi. Riuscì comunque a
recuperare il controllo della situazione e condurre la guerra fino alla vittoria finale. Nel 1977
accettò di diventare Ministro degli Esteri nel nuovo governo, retto dal leader del Likud
Menachem Begin. Agli Esteri, il suo ruolo fu basilare per giungere agli Accordi di Camp
David, con cui si stabilì la pace con l'Egitto. Dayan si dimise nel 1979, a causa di disaccordi
con Begin riguardo alla questione palestinese. Gli accordi di pace con l'Egitto includevano
clausole riguardanti futuri negoziati con i palestinesi, ma Begin, contrario all'ipotesi, non
inserì Dayan tra gli incaricati delle trattative. Nel 1981, Dayan fondò un nuovo partito, il
Telem, che chiedeva un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Morì
poco dopo, nello stesso anno di cancro al colon. È sepolto a Nihalal, dove era cresciuto.
113
RONALD WILSON REAGAN
A cura di Michela Petracca
Fig.31
Biografia
Ronald Wilson Reagan, 40°Presidente degli Stati Uniti d'America (dal 1981 al 1989), ha
lasciato un'impronta indelebile sugli anni '80. Nasce a Tampico, Illinois, il 6 febbraio 1911.
Figlio di un venditore ambulante di scarpe, per pagarsi gli studi universitari deve ricorrere
alla sua bravura nel football. Si laurea nel 1932 in scienze sociali, passa poi
al giornalismo sportivo divenendo un apprezzato radiocronista. La notorieta' acquisita lo
spinge verso il cinema.
Ronald Reagan comincia così la sua carriera di attore nel 1937. Gira più di 50 film in 28
anni. A giudizio dei critici Reagan fu un attore prestante e simpatico, tuttavia mediocre. Di
alta statura e voce gradevole sfruttò poi queste qualità come Presidente guadagnandosi
anche l'appellativo di "grande comunicatore".
Durante la Seconda guerra mondiale è capitano dell'Air force. Torna ad Hollywood e viene
eletto presidente del sindacato attori dal 1947 al 1952; negli anni del maccartismo prende
parte attiva alle campagne di epurazione dagli "studios" dagli elementi ritenuti filocomunisti
e anarchici. In questo periodo divorzia dalla moglie Jane Wyman, attrice dalla quale ha
avuto la primogenita Maureen - morta di cancro nel 2001, all'eta' di 60 anni - e con cui
aveva adottato Michael. Nel 1952 sposerà Nancy Davis, che gli sara' accanto per il resto
della vita.
114
Reagan entra attivamente in politica nel 1954 con la proposta della General Motors di
compiere un giro di conferenze nelle fabbriche. Reagan si crea in questi anni un'importante
rete di conoscenze, finanzieri e industriali, che nel 1964 lo spinge a decidere di lavorare
nella politica a tempo pieno. Partecipa quindi alla campagna presidenziale a sostegno della
candidatura del repubblicano Barry Goldwater; nel 1966 Reagan è candidato Governatore
della California. La vittoria di Reagan è schiacciante. Nel 1970 viene rieletto.
Dieci anni dopo, nel 1980, Reagan ottiene la nomination repubblicana nella corsa alla Casa
Bianca. La sua massiccia vittoria contro il presidente democratico Jimmy Carter avviene
sullo sfondo della cattura degli ostaggi all'ambasciata USA a Teheran (liberati mentre
Reagan prestava il suo giuramento a Capitol Hill il 20 gennaio 1981). E' il 30 marzo quando
Reagan viene ferito al torace da un colpo di pistola provocato da un folle attentatore.
Guarisce presto ma la sua salute durante gli anni alla Casa Bianca sarà spesso segnata da
malattie.
La sua presidenza si caratterizza per l'ottimismo e il senso di fiducia che lo stesso Reagan sa
emanare. Con lui l'industria bellica riceve un impulso senza precedenti; nasce inoltre la
cosiddetta "Reaganomics", la politica economica con le più ampie riduzioni fiscali nella
storia americana. In politica estera, Reagan sceglie di vestire i panni del "duro". Nel 1983
ordina l'invasione di Grenada e nell'aprile 1986 il bombardamento di installazioni militari in
Libia. Sostiene la guerriglia dei Contras in Nicaragua e dei mujahidin afghani in lotta contro
l'occupazione sovietica. Incoraggia il programma di difesa strategica, noto come "guerre
stellari" che sarà causa del deterioramento dei rapporti con l'URSS, che lui definisce
"impero del male". Per combattere il terrorismo arabo-islamico ordina una vasta quanto
fallimentare operazione militare a Beirut.
Nel 1984 Reagan ottiene il suo secondo mandato diventando il più anziano Presidente della
storia americana. Questi sono gli anni della guerra fredda e dei grandi vertici USA-URSS:
Reagan incontra più volte il presidente russo Mikhail Gorbacev a Ginevra, Reykjavik,
Mosca, Washington, raggiungendo infine uno storico accordo per l'eliminazione dei missili
a corto e medio raggio dall'Europa (i cosiddetti euromissili).
E' verso il termine del secondo mandato che la politica di Reagan comincia a subire i primi
contraccolpi: tra il 1986 e il 1987 vengono alla luce documenti su vendite di armi USA
all'Iran per finanziare i Contras. Lo scandalo investe la Casa Bianca ma Reagan ne esce
indenne. Concluderà il mandato con una popolarità altissima. Si ritira quindi in California
da dove nel 1994 annuncia di essere affetto dal morbo di Alzheimer. Da allora le sue
apparizioni in pubblico vengono annullate e la sua condizione necessiterà di assistenza
continua.
Dopo un lungo periodo di malattia Ronald Reagan è morto a Los Angeles il 6 giugno 2004,
all'età di 93 anni. Di lui il Presidente George W. Bush ha detto "Reagan seppellì l'era della
paura e della tirannide nel mondo. Lascia dietro di se un mondo che aveva contribuito a
restaurare, e un mondo che aveva contribuito a salvare".
"Ha dato energia allo spirito d'America. Il suo ottimismo e la sua convinzione del trionfo
finale della democrazia hanno contribuito a mettere fine alla guerra fredda. Sono fiero di
essere stato un soldato sotto la sua presidenza, il mondo e gli americani saranno sempre in
debito con lui. Era una persona unica, un americano inimitabile" ha dichiarato invece Colin
Powell, segretario di Stato americano.
115
Bibliografia
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116
GEORGE BUSH SENIOR
A cura di Arianna Tricarico.
Fig.32
Biografia
George Herbert Walker Bush fu il 41° Presidente degli Stati Uniti d’America. Egli nacque il
12 giugno 1924 a Milton, in Massachusetts. Seguendo le orme del padre (Prescott Sheldon
Bush), Bush sente da subito la necessità di impegnarsi attivamente nella realtà politica
americana per dare il suo contributo. Partecipa come aviatore della Marina durante la
seconda guerra mondiale ricevendo molti onori. Tornato in patria, completa gli studi
iscrivendosi all’università di Yale, e nel gennaio del 1045, finita la guerra, si sposò con
Barbara Pierce con cui ebbe sei figli. Da questo momento iniziò la sua carriera politica nel
mondo della politica americana, divenne deputato del Congresso per il Texas per due
mandati, venendo nominato ambasciatore delle Nazioni Unite, presidente del Comitato
nazionale repubblicano, capo dell'ufficio delle Nazioni Unite per le relazioni con la
Repubblica cinese ed anche direttore dell'ufficio dell'Intelligence Agency (CIA).
Grazie alla sua eccezionale carriera politica e alla sua personale fortuna economica,
acquisita con un favorevole investimento petrolifero in Texas, può permettersi di aspirare
alla presidenza degli Stati Uniti. Il primo tentativo, nel 1980, fallisce. Ronald Reagan è il
candidato repubblicano vincente e Bush diviene il vice-presidente. Con questo ruolo, dal
1980 al 1988, si interessa a molte questioni interne: firma programmi per prevenire il
contrabbando di droga nel sud della Florida, visita più di quindici nazioni come
rappresentante di Reagan e intraprende dure battaglie contro il terrorismo.
Nel 1988 George Bush diviene il quarantunesimo presidente degli Stati Uniti, battendo il
governatore del Massachusetts Michael Dukakis. Designa come suo vice James Danforth
Quayle. Bush è stato il primo vice-Presidente, dopo Martin Van Burer nel 1836, a
raggiungere la stanza ovale. Il suo orientamento nella politica interna non muta rispetto a
quello del suo predecessore Reagan. In politica estera, invece, assiste ad importanti
cambiamenti:
La conclusione, dopo quarant’anni della Guerra Fredda,
117
Il crollo del comunismo,
La distruzione del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica e il successivo
abbandono presidenziale da parte di MIhkail Gorbaciov.
Nel 1989 invia le truppe americane a Panama per rovesciare il regime del generale Manuel
Antonio Noriega che minaccia la sicurezza del Canale e gli americani che vi vivono.
Nell'agosto del 1990, quando l'Iraq invade il Kuwait, Bush decide di intervenire. Dopo aver
tentato di convincere il presidente iraniano Saddam Hussein a ritirarsi, decide di attaccare
l'Iraq. Riunisce le Nazioni Unite e raggruppa la più grande coalizione di paesi alleati mai
messa insieme dai tempi della seconda guerra mondiale, per bloccare l'invasione del paese
saudita.
L'operazione è denominata "Desert Storm". Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 sono
inviati più di 500.000 soldati di tutte le nazioni alleate, e 425.000 sono americani. Dopo
settimane di combattimenti sanguinosi, anche attraverso bombardamenti aerei mirati, la
guerra si conclude con la sconfitta dell'Iraq e l'indipendenza del Kuwait.
Nel 1992 tenta di essere eletto per il secondo mandato presidenziale, ma vince il candidato
democratico Bill Clinton. I motivi di questa sconfitta: poca attenzione ai problemi interni,
aumento
della
violenza
nelle
città
e
crisi
dell'economia.
Il suo mandato di presidente è durato dal 20 gennaio 1989 fino al 20 gennaio 1993.
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119
MIKHAIL GORBA ËV
A cura di Annalisa Centonza
Fig.33
Biografia
Michail Sergeevi Gorba ëv (
) nasce a Privolnoye, nel sud
della repubblica russa .Nel 1950 si diploma e viene ammesso alla facoltà di legge
dell'Università Statale di Mosca. Si laurea nel 1955 e prosegue gli studi per corrispondenza,
ottenendo una seconda laurea (nel 1967) in economia agraria presso l'Università di
Stavropol. In questo periodo si iscrive al Partito Comunista dell'Unione Sovietica e incontra
la
futura
moglie Raisa
Titarenko.
Poco dopo il suo ritorno a Stavropol gli viene offerto un incarico nella locale associazione
giovanile Komsomol che segna l'avvio della sua carriera politica. Nel 1970 viene eletto
Primo Segretario del Comitato del Partito nel Territorio di Stavropol. Nello stesso anno
diviene membro del Comitato Centrale del PCUS (Partito Comunista dell'Unione
Sovietica). Nel 1978 diventa uno dei Segretari e si trasferisce a Mosca. Due anni più tardi
entra a far parte del Politburo del Comitato Centrale del PCUS, la massima autorità del
partito e della nazione. La sua politica di riforme avvierà numerosi processi di cambiamento
che grazie alla Glasnost', alla Perestrojka e all’Uskorenie (accelerazione dello sviluppo
economico), lanciati durante il ventisettesimo congresso del PCUS porteranno alla fine della
Guerra
Fredda.
Gorba ëv fu Segretario degli Organi( KGB e GRU) e nel marzo del 1985 venne eletto
Segretario
Generale
del
PCUS.
Gorba ëv,in campo internazionale, modificava la politica dei suoi predecessori innanzitutto
promuovendo il passaggio dal confronto militare, specie con gli Stati Uniti, alla
cooperazione internazionale, sottoscrivendo con i presidenti statunitensi R. Reagan e G.
120
Bush fondamentali accordi per la riduzione degli arsenali nucleari . Tutto ciò condurrà,
nel 1987 alla firma del Trattato INF sulla eliminazione delle armi nucleari a raggio
intermedio in Europa. L'anno successivo, Gorba ëv, annuncia la fine della dottrina
Brežnev, che permette alle nazioni del Blocco orientale di tornare alla democrazia . La fine
del sistema degli stati satelliti avrebbe anche liberato l'URSS di una parte dei costi di
mantenimento di strutture militari ormai non più sostenibili. Gorba ëv, insieme al
suo ministro degli esteri Eduard Ševardnadze, conseguì anche il ritiro delle truppe
sovietiche dall'Afghanistan. Nel settembre del 1988 Gorba ëv assunse anche la carica di
capo dello Stato mandando in pensione Andrej Gromyko. Il 15 marzo del 1990 il Congresso
dei rappresentanti del popolo dell'URSS (il primo parlamento costituito sulla base di libere
elezioni nella storia del Paese) elegge Gorba ëv presidente dell'Unione Sovietica. Il 15
ottobre dello stesso anno, grazie alla sua fama di riformatore e leader politico mondiale,
nonché al contributo dato per migliorare le sorti della guerra fredda, gli viene assegnato
il Premio
Nobel
per
la
Pace.
Nel 1987 Papa Giovanni Paolo II espresse il desiderio di recarsi a Mosca per incontrare
Gorba ëv. Ma questi,e anche la Chiesa russa, non gradivano l’arrivo del Papa in Russia, in
quanto avrebbe potuto avvicinare la popolazione alla Chiesa Cattolica. In fin dei conti, poté
avvenire
l’incontro
non
a
Mosca,
ma
a
Roma.
In politica interna si giova di una dialettica tra conservatori e riformatori, da lui abilmente
guidata per mantenersi in equilibrio tra i due schieramenti interni al PCUS e portare così il
Paese a un moderato progresso democratico. Ma nel 1988-89 l'equilibrio da lui stabilto
vacilla paurosamente: i primi moti nazionalisti nel Caucaso e nei Paesi baltici sfociano in
disordini e crimini (ad esempio l'eccidio degli armeni nella capitale azera Baku, gli
assassinii di persone russe in Kazakistan). Di fronte a questi fatti che minavano l'integrità
territoriale e politica del Paese, Gorba ëv inizialmente non reagisce affatto, mentre i
disordini assumono vaste dimensioni. Poi ordina di usare la forza militare, il che provoca
ulteriori
vittime
e
accresce
i
sentimenti
indipendentisti.
Esattamente questo è il caso della Lituania dove, dopo aver a lungo tollerato, se non
addirittura sostenuto, un'intensa attività di movimenti indipendentisti, nel gennaio 1989
Gorba ëv ordina improvvisamente all'esercito di occupare la sede del parlamento e della TV
a Vilnius. Le reazioni militari violente non producono nulla, oltre ai morti e l'odio verso il
potere centrale moscovita. Mentre l'economia, tra tentativi di liberalizzazione e resistenze
collettivistiche, perdeva colpi, nell'agosto 1991 i comunisti conservatori tentarono un colpo
di Stato: nonostante il fatto che Gorba ëv ne fosse stato la prima vittima, essendo rimasto
recluso per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, gli fu contestato di aver
favorito,con le sue tattiche ,il radicamento al potere non di interlocutori responsabili della
perestroika,
ma
di
pericolosi
avventuristi.
Nonostante il suo dissenso dalla deriva liberista propugnata da El'cin, il partito Comunista
venne messo al bando e i suoi beni confiscati. Il 25 dicembre 1991 Gorba ëv rassegnò le
sue dimissioni da Capo dello Stato: poche settimane prima, l'8 dicembre 1991 i capi dei tre
stati Russia con Boris El'cin e Gennadij Burbulis, Ucraina con Leonid Krav uk e Vitol'd
Fokin e Bielorussia con Stanisla
Šuškevi e Vja esla
Kebi avevano
firmato
a Belavežskaja puš a l'Accordo di Belaveža il trattato che sanciva la dissoluzione dello
Stato sovietico. Tale dissoluzione venne ufficialmente confermata il 26 dicembre dello
stesso
anno,
dal
Soviet
Supremo.
Dal gennaio del 1992, Gorba ëv è presidente della Fondazione Internazionale NonGovernativa per gli Studi Socio-Economici e Politici (la Fondazione Gorba ëv ). Dal marzo
121
del 1993 è inoltre presidente (nonché fondatore) della Green Cross International,
un’organizzazione ambientalista indipendente presente in più di 30 Paesi. Ricopre anche
l'incarico di Presidente del Partito Social Democratico Unito della Russia, fondato nel
marzo del 2000. Mikhail Gorbaciov ha ottenuto l'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro,
tre Ordini di Lenin insieme a molte altre onorificenze e riconoscimenti sovietici e
internazionali, e a numerose lauree honoris causa da università di tutto il mondo.
Bibliografia
L'Urss verso il duemila. Pace e socialismo, Milano, Teti, 1986.
Proposte per una svolta. La relazione al XXVII Congresso del Pcus e altri documenti. Con
una prefazione-intervista inedita dell'autore, Roma, Editori riuniti, 1986.
Moratoria. Discorsi e interventi, Camerino-Pieve Torina, Mierma, 1987.
L'Ottobre e la perestrojka: la rivoluzione continua. Discorso del segretario del Pcus per il
70º della rivoluzione, Roma, Editori riuniti, 1987
Verso un mondo migliore, Milano, Sperling & Kupfer, 1987.
Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Milano, A. Mondadori,
1987.
La casa comune europea, Milano, A. Mondadori, 1989.
Il golpe di agosto. Che cosa è successo, che cosa ho imparato, Milano, A. Mondadori, 1991.
Dicembre 1991. La fine dell'Unione sovietica vista dal suo Presidente, Firenze, Ponte alle
grazie, 1992.
Vincitori e perdenti. Dall'Urss alla Russia, Torino, La Stampa, 1993.
Riflessioni sulla rivoluzione d'ottobre, Roma, Editori riuniti, 1997.
Umanesimo e nuovo pensiero, Torino, Multimage, 1997.
Le nostre vie si incontrano all'orizzonte, con Daisaku Ikeda, Milano, Sperling & Kupfer,
2000.
Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, Venezia, Marsilio, 2013.
122
SAN GIOVANNI PAOLO II
A cura di Dorotea Iannitti
Fig.34
Biografia
Karol Józef Wojty a, divenuto Giovanni Paolo II con la sua elezione alla Sede Apostolica il
16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Kraków (Polonia), il 18 maggio
1920. Era l’ultimo dei tre figli di Karol Wojty a e di Emilia Kaczorowska, che morì nel
1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale
dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era morta prima che lui nascesse.
Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote
Franciszek Zak; a 9 anni ricevette la Prima Comunione e a 18 anni il sacramento della
Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel
1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia. Quando le forze di occupazione
naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed,
in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la
deportazione in Germania. A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò
i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto
dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei
promotori
del
"Teatro
Rapsodico",
anch’esso
clandestino.
Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente
aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione
sacerdotale avvenuta a Cracovia il 1 novembre 1946, per le mani dell’Arcivescovo Sapieha.
Successivamente fu inviato a Roma, dove , sotto la guida del domenicano francese P.
Garrigou-Lagrange, conseguì nel 1948 il dottorato in teologia, con una tesi sul tema della
123
fede nelle opere di San Giovanni della Croce (Doctrina de fide apud Sanctum Ioannem a
Cruce). In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli
emigranti
polacchi
in
Francia,
Belgio
e
Olanda.
Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowi , vicino a
Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al
1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università
cattolica di Lublino la tesi: "Valutazione della possibilità di fondare un'etica cristiana a
partire dal sistema etico di Max Scheler". Più tardi, divenne professore di Teologia Morale
ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.Il 4
luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia.
Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel
(Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak. Il 13 gennaio 1964 fu nominato
Arcivescovo di Cracovia da Papa Paolo VI, che lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro
del 26 giugno 1967, del Titolo di S. Cesareo in Palatio, Diaconia elevata pro illa vice a
Titolo
Presbiterale.
Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-1965) con un contributo importante
nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojty a prese parte anche
alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.
I Cardinali, riuniti in Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978. Prese il nome di
Giovanni Paolo II e il 22 ottobre iniziò solennemente il ministero Petrino, quale 263°
successore dell’Apostolo. Il suo pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della
Chiesa ed è durato quasi 27 anni. Giovanni Paolo II ha esercitato il suo ministero con
instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue energie sospinto dalla sollecitudine
pastorale per tutte le Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera. I suoi viaggi apostolici
nel mondo sono stati 104. In Italia ha compiuto 146 visite pastorali. Come Vescovo di
Roma,
ha
visitato
317
parrocchie
(su
un
totale
di
333).
Più di ogni Predecessore ha incontrato il Popolo di Dio e i Responsabili delle Nazioni: alle
Udienze Generali del mercoledì (1166 nel corso del Pontificato) hanno partecipato più di 17
milioni e 600 mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie
religiose [più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000],
nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo.
Numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite
ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e
incontri con Primi Ministri. Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad iniziare, nel 1985, le
Giornate Mondiali della Gioventù. Le 19 edizioni della GMG che si sono tenute nel corso
del suo Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in varie parti del mondo. Allo
stesso modo la sua attenzione per la famiglia si è espressa con gli Incontri mondiali delle
Famiglie da lui iniziati a partire dal 1994. Giovanni Paolo II ha promosso con successo il
dialogo con gli ebrei e con i rappresentati delle altre religioni, convocandoli in diversi
Incontri
di
Preghiera
per
la
Pace,
specialmente
in
Assisi.
Sotto la sua guida la Chiesa si è avvicinata al terzo millennio e ha celebrato il Grande
Giubileo del 2000, secondo le linee indicate con la Lettera apostolica Tertio millennio
adveniente. Essa poi si è affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella Lettera
apostolica Novo millennio ineunte, nella quale si mostrava ai fedeli il cammino del tempo
futuro. Con l’Anno della Redenzione, l’Anno Mariano e l’Anno dell’Eucaristia, Giovanni
Paolo
II
ha
promosso
il
rinnovamento
spirituale
della
Chiesa.
Ha dato un impulso straordinario alle canonizzazioni e beatificazioni, per mostrare
124
innumerevoli esempi della santità di oggi, che fossero di incitamento agli uomini del nostro
tempo: ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione - nelle quali ha proclamato 1338 beati e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha proclamato Dottore della Chiesa santa
Teresa di Gesù Bambino.Ha notevolmente allargato il Collegio dei Cardinali, creandone
231 in 9 Concistori (più 1 in pectore, che però non è stato pubblicato prima della sua morte).
Ha convocato anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio. Ha presieduto 15
assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e
2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994,
1995, 1997, 1998 e 1999). Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Lettere
encicliche, 15 Esortazioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche.
Ha promulgato il Catechismo della Chiesa cattolica, alla luce della Tradizione,
autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II. Ha riformato i Codici di diritto
Canonico Occidentale e Orientale, ha creato nuove Istituzioni e riordinato la Curia Romana.
A Papa Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono anche 5 libri: “Varcare la
soglia della speranza” (ottobre 1994); "Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del
mio sacerdozio" (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia
(marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004) e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).
Giovanni Paolo II è morto in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21.37, mentre volgeva al
termine il sabato e si era già entrati nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua e Domenica
della Divina Misericordia. Da quella sera e fino all’8 aprile, quando hanno avuto luogo le
Esequie del defunto Pontefice, più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per
rendere omaggio alla salma del Papa, attendendo in fila anche fino a 24 ore per poter
accedere alla Basilica di San Pietro. Il 28 aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI
ha concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte, per l’inizio della
Causa di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II. La Causa è stata aperta
ufficialmente il 28 giugno 2005 dal Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale per la
diocesi di Roma.
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Köchler, Hans, Karol Wojty a's Notion of the Irreducible in Man and the Quest for a Just
World Order (Saint Joseph College, USA, 2006)
Mannion, Gerard (ed.), The Vision of John Paul II: Assessing His Thought and Influence,
Collegeville, MN, Liturgical Press, 2008.
Meissen, Randall J., "Living Miracles: The Spiritual Sons of John Paul the Great,"
Alpharetta, GA, Misison Network, 2011
126
GEORGE BUSH JR.
A cura di Morena Vidone
Fig.35
George Walker Bush (New Haven, 6 luglio 1946) è un politico statunitense.
Biografia
Chiamato comunemente George W. Bush o George Bush, è noto anche come George Bush
Junior poiché figlio dell'ex presidente George H. W. Bush. È stato il 43º presidente degli
Stati Uniti d'America. Il suo primo mandato quadriennale come presidente è cominciato il
20 gennaio 2001, in seguito alle elezioni presidenziali del 7 novembre 2000 nelle quali era
candidato contro Al Gore. Le successive elezioni presidenziali del 2 novembre 2004 lo
hanno riconfermato per un secondo mandato, che ha avuto inizio il 20 gennaio 2005 ed è
scaduto
il
20
gennaio 2009.
Se il percorso politico di Bush Junior si è sviluppato sulla scia degli esempi familiari, in
questo confermando la sua immagine di persona integrata e fedele alle tradizioni (al
contrario di altri "ribelli"), tradizioni che si rifanno alla morale protestante di stampo
metodista, anche la carriera scolastica ricalca fedelmente le orme dell'impostazione paterna,
essendosi laureato nel 1968 all'università di Yale, stesso ateneo del padre. In seguito,
proseguendo gli studi, ha conseguito un master in business administration all'università di
Harvard.
Il suo approccio alla dimensione politica è comunque estremamente pragmatico e tende anzi
a guardare con occhio critico il mondo politico proprio dall'interno. E' nota l'avversione di
Bush
verso
tutto
ciò
che
è
eccessivamente
intellettualistico.
Nella sua campagna elettorale il programma prevede una massiccia riduzione delle tasse
(particolarmente sui redditi più alti), una riforma della scuola che attribuisce maggiori poteri
127
e fondi agli Stati federali, una politica di contrasto contro l'aborto, un decentramento dei
controlli anti-inquinamento e l'ampliamento di ricerche petrolifere in Alaska.
George Bush Jr si è inoltre trovato ad affrontare una delle crisi più gravi a cui sia andato
incontro il suo Paese, ossia gli squilibri derivanti dagli attacchi terroristici e dalla loro lotta.
George W. Bush viene poi rieletto alle elezioni del novembre 2004 battendo il candidato
democratico John Kerry con oltre 59 milioni di voti, con la maggioranza per i repubblicani
sia alla Camera che al Senato: meglio di ogni presidente che l'ha preceduto.
Il suo successore sarà il democratico Barack Obama.
Bibliografia
George W. Bush, “A Charge to Keep”, (1999)
J. H. Hatfield, “Fortunate Son: George W. Bush and the Making of an American
President”, (1999).
B. Minutaglio,” First Son: George W. Bush and the Bush Family Dynasty “,(1999).
M. Ivins and L. Dubose, “Shrub: The Short but Happy Political Life of George W.
Bush”, (2000).
E. Mitchell,” W:Revenge of the Bush Dynasty “,(2000).
Bob Woodward, “Bush At War”, (2002).
Bill Sammon,” Fighting Back: The War on Terrorism from Inside the Bush White House”,
(2002).
Stephen Mansfield, “The Faith of George W. Bush”, (2003).
George W. Bush,” We Will Prevail”, (2003).
David Frum, “The Right Man”, (2003).
Bob Woodward, “Plan of Attack”, (2004).
Bill Sammon, “Misunderestimated: The President Battles Terrorism, John Kerry, and the
Bush Haters”, (2004).
Ben Fritz, Bryan Keefer & Brendan Nyhan, “All the Presidents Spin: George W. Bush, the
Media, and the Truth”, (2004).
128
OSAMA BIN LADEN
A cura di Ilenia Savino
Fig.36
Biografia
Nato il 10 marzo 1957, diciassettesimo dei 52 figli del più ricco costruttore dell'Arabia
Saudita, avrebbe scoperto la propria intensa religiosità dopo essere rimasto folgorato dai
luoghi
santi
islamici
della
Mecca
e
di
Medina.
Comincia a formare la sua rete terroristica fin dal 1979. In quell'anno, dopo essersi laureato
in ingegneria all'università di Gedda, si unisce alle truppe della resistenza afgana, i
mujahedin, per combattere le truppe sovietiche che occupano l'Afghanistan. Nel 1980,
infatti, decide di lasciare la casa paterna per prendere parte alla Jihad afghana contro
l'Unione Sovietica, trasformandosi in un eroe nella regione. Un'esperienza che lo porta a
radicalizzare il suo odio nei confronti degli Stati Uniti ma anche a prendere le distanza dal
paese di origine, l'Arabia Saudita, la cui famiglia regnante viene considerata ''troppo poco
islamica''. Terminata l'esperienza di guerra contro i sovietici, torna in Arabia Saudita, dove
comincia a lavorare per l'azienda di costruzioni di famiglia, il "Saidi Binladen Group".
Tuttavia, a scapito della pacifica esistenza che si andava profilando, sembra divorato da
un'irrefrenabilmente attrazione per le situazioni conflittuali. Ecco allora che si attiva sui
fronti caldi del momento e si unisce alle forze che si oppongono alla monarchia regnante, la
famiglia Fahd, tanto che di lì a poco viene espulso dal Paese, spogliato della cittadinanza
saudita. Nel 1996 lancia il primo "fatwah", editto religioso in cui invita i musulmani a
uccidere i soldati americani stazionati in Arabia Saudita e Somali. A questo ne segue un
secondo, nel 1998. Nel mirino di bin Laden, stavolta, ci sono anche i civili statunitensi.
129
Secondo gli investigatori bin Laden è al centro di una coalizione terroristica islamica che
vanta numerosi alleati, dall'egiziana al Jihad, agli Hezbollah iranani, al fronte nazionale
islamico sudanese, ai gruppi della jihad in Yemen, Arabia Saudita e Somalia.
Nell'ottobre 1993, 18 militari statunitensi impegnati nell'operazione umanitaria in Somalia
vengono uccisi nel corso di un'operazione a Mogadishu. Bin Laden viene condannato nel
1996 con l'accusa di aver addestrato i responsabili dell'attacco. Nell'intervista rilasciata a
CNN nel 1997, ammette che a uccidere i soldati americani sono stati i suoi seguaci, insieme
a un gruppo di musulmani locali. Il 7 agosto 1998, otto anni dopo il dispiegamento delle
truppe americane in Arabia Saudita, l'esplosione di alcune autobombe fa saltare in aria le
ambasciate americane a Nairobi, in Kenya e a Dar es Salaam, in Tanzania, uccidendo
centinaia di persone. Bin Laden ha smentito il proprio coinvolgimento in questi episodi, ma
secondo gli inquirenti la sua responsabilità è del tutto evidente dai fax inviati dalla sua
cellula londinese ad almeno tre organizzazioni giornalistiche. Due settimane più tardi,
l'allora presidente Usa Bill Clinton (al centro in quel momento dello scandalo Lewinsky),
ordina un attacco missilistico contro alcuni campi di addestramento in Afghanistan e un
impianto
farmaceutico
a
Kartoum,
in
Sudan.
Bin Laden sopravvive agli attacchi e viene accusato dalle Nazioni Unite di aver organizzato
gli attentati del 1998. Il 29 maggio 2001 quattro suoi collaboratori vengono condannati al
carcere a vita. Diversi altri sospetti rimangono in attesa di processo. Tra questi, Ahmed
Ressam, reo confesso di aver partecipato al piano fallito di far esplodere l'aeroporto
internazionale di Los Angeles durante i festeggiamenti del capodanno 2000. Ressam ha
detto di aver imparato a maneggiare pistole e fucili in un campo di addestramento in
Afghanistan, il Paese che ospita il miliardario saudita. Il resto è storia recente. Dopo il
tragico attentato alle Torri Gemelle di New York, bin Laden è diventato il pericolo numero
uno per gli Stati Uniti, che hanno unito le loro forze, insieme a numerosi alleati
internazionali, per dare la caccia a quello che è ormai considerato a tutti gli effetti (anche
grazie ad alcuni video che lo vedono "dissertare" sulla riuscita dell'attentato), il responsabile
morale
e
materiale
della
strage
newyorchese.
Il 2 maggio 2011 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia che Osama Bin
Laden è stato ucciso da un commando americano in una località vicino ad Islamabad, dopo
uno scontro a fuoco e che il corpo è stato recuperato dalle forze militari statunitensi.
Il successore di Bin Laden alla guida del gruppo terroristico viene indicato nella persona di
Ayman Al-Zawahiri, fino a quel momento numero due del movimento.
Bibliografia
Peter Bergen, The Osama Bin Laden I Know: An Oral History of Al Qaeda's Leader, Simon and
Schuste, 2006.
Michael Scheuer, Through Our Enemies' Eyes, Washington, Brassey's, 2002.
Bin Laden Osama, a cura di Bruce Lawrence, Messaggi al mondo: la prima analisi delle
dichiarazioni di Osama bin Laden in interviste, lettere, comunicati via internet,
registrazioni audio e video, Roma, Fandango libri, 2007.
Jean-Pierre Milelli, Al-Qaeda. I testi, Roma-Bari, Laterza, 2006.
Lawrence Wright, The Looming Tower: Al-Qaeda And The Road To 9/11, New York:
Knopf, 2006.
Michael Scheuer, Osama bin Laden, Oxford University Press, 2011
130
VLADIMIR VLADIMIROVI PUTIN
A cura di Nancy Bevilacqua
Fig. 37
Vladimir Vladimirovi Putin, è un politico, ex militare ed ex funzionario del KGB russo.
Biografia
Nato il 7 ottobre 1952 in quella difficile metropoli che è Leningrado (l'attuale San
Pietroburgo), nel 1970 Putin si iscrive all'università, studia diritto e lingua tedesca, ma nel
tempo libero si dedica alla pratica dello judo, di cui è sempre stato un grande sostenitore. In
questo sport, lo zar di ghiaccio ha sempre ritrovato quell'unione fra disciplina del corpo e
dimensione "filosofica" che ne fanno una guida per la vita di tutti i giorni. Forse qualcosa di
questa disciplina gli è servita quando nel 1975 è entrato a far parte del Kgb, chiamato ad
occuparsi
di
controspionaggio.
Una gran carriera lo attendeva dietro l'angolo. Prima si sposta nel dipartimento estero dei
servizi segreti e dieci anni più tardi viene inviato a Dresda, nella Germania dell'Est, dove
prosegue la sua attività di controspionaggio politico (prima di partire sposa Lyudimila, una
ragazza di otto anni più giovane che gli darà due figlie: Masha e Katya). Grazie al periodo
trascorso in Germania, Vladimir Putin ha così la possibilità di vivere fuori dall'Unione
Sovietica, anche se, caduto il muro, sarà costretto a tornare nella natìa Leningrado.
Quell'esperienza gli consente di diventare, per le questioni di politica estera, il braccio
destro di Anatoli Sobciak, sindaco di Leningrado, che adotta un programma di riforme
radicali nel campo politico ed economico. E' Sobciak il promotore del referendum per
restituire alla città il vecchio nome di San Pietroburgo. Durante questo periodo Putin
introduce la borsa valutaria, apre le aziende cittadine ai capitali tedeschi, cura ulteriori
privatizzazioni dei vecchi catafalchi sovietici e diventa vice-sindaco, ma la sua corsa si
131
arresta
con
la
sconfitta
di
Sobciak
alle
elezioni
del
1996.
In realtà quell'apparente débacle sarà la sua fortuna. Lo chiama a Mosca Anatoli Ciubais, il
giovane economista che lo raccomanda a Boris Eltsin. Inizia la scalata di Putin: prima vice
del potente Pavel Borodin che gestisce l'impero dei beni immobiliari del Cremlino, poi capo
del Servizio Federale di Sicurezza (Fsb), il nuovo organismo che succede al KGB.
Successivamente Putin ricopre la carica di capo del Consiglio di sicurezza presidenziale.
Il 9 agosto 1999 Boris Eltsin si ritira, principalmente a causa dello stato di salute in cui
versa. Putin è pronto come un felino a cogliere la palla al balzo e, il 26 marzo 2000, viene
eletto presidente della Federazione russa al primo turno con oltre il 50 per cento dei voti,
dopo una campagna elettorale condotta nel più totale sprezzo del confronto politico.
Vladimir Putin, in quell'occasione, non ha mai accettato forme di discussione con altri
esponenti della scena politica russa. Ad ogni modo la sua fortuna politica si basa soprattutto
sulle sue dichiarazioni circa la spinosa questione dell'indipendenza cecena, tese a stroncare
il magmatico ribellismo della regione. Forte di una larga maggioranza anche alla Duma (il
parlamento russo), tenta inoltre di riportare sotto l'autorità centrale di Mosca i governatori
regionali che con Eltsin si erano spesso sostituiti al potere centrale.
La maggior parte dei russi appoggia la sua linea dura, e il forte sospetto di un vero e proprio
odio etnico, più che il timore di una disgregazione dello Stato, mina alla base la legittimità
di questo consenso. I pochi oppositori di Putin d'altronde individuano proprio nella guerra
forti elementi di valutazione di un presidente spietato, dittatoriale che lede il rispetto dei
diritti umani. Le ultime elezioni russe hanno comunque confermato il suo potere e il pugno
di ferro con cui conduce la sua leadership. In uno scenario in cui le voci contrarie alla sua
sono ridotte al lumicino, Putin ha incassato i consensi di una vasta maggioranza della
popolazione.
Nel marzo del 2004 viene rieletto Presidente per un secondo mandato, con il 71 percento dei
voti. Quattro anno più tardi il successore che si insedia al Cremlino è il suo fedelissimo
Dmitrij Medvedev: Vladimir Putin torna così alla carica di Primo Ministro da lui già
detenuta prima del mandato presidenziale. All'inizio del mese di marzo 2012, come era
abbondantemente stato previsto da tutti, viene rieletto per la terza volta Presidente: il
consenso
supera
il
60%.
Secondo Freedom House e altre organizzazioni no-profit, oltre che per gli oppositori
politici, Putin è un uomo politico autoritario e oligarchico, con contorni dittatoriali. Putin e
il suo governo vengono accusati anche di numerose violazioni dei diritti umani, soprattutto
in Cecenia, nonché di limitare la libertà d'espressione. La giornalista Elena Tregubova,
molto vicina ad ambienti di destra, ha denunciato nei suoi libri "l'involuzione anti-liberale
avvenuta in Russia durante il governo di Putin". Accuse pesanti sono state rivolte a Putin
dall'ex agente sovietico Alexander Litvinenko, morto per avvelenamento da polonio 210 a
Londra nel 2006, secondo Litvinenko stesso a causa di un attentato perpetrato da agenti
segreti russi. Benché accusato anche di aver favorito oppure addirittura ordinato omicidi di
dissidenti, Putin ha ribadito più volte la sua contrarietà alla pena di morte anche per gravi
crimini (richiesta da circa il 72 % dei russi, secondo alcuni sondaggi), contribuendo alla
moratoria e alla sua abolizione – tramite sentenza di illegittimità della Corte costituzionale –
nella Federazione Russa. Putin ha sostenuto che non è un efficace deterrente e che è
"contrario a ripristinare la pena di morte. Lo Stato non può sottrarre a Dio il diritto di
togliere la vita".
132
Bibliografia
Maurizio Blondet, Stare con Putin ?, edizioni Effedieffe, 2007.
Steve LeVine, Il labirinto di Putin. Spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia,
traduzione di Enrico Monier, collana Inchieste, Fagnano Alto, il Sirente, 2009.
Lorenzo Gianotti, Putin e la Russia, Irresistibile e anacronistico ritorno all'autocrazia,
Editori Riuniti university press, Roma, 2014.
Aleksandr Litvinenko, Perché mi hanno ucciso, AIEP editore, 2008.
Anna Politkovskaja, Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode
della Russia di Putin, Mondadori, 2007.
Fernando Mezzetti, Il mistero Putin. Uomo della provvidenza o ritorno al passato?, Boroli,
2004.
Leonardo Coen, Putingrad. La Mosca di zar Vladimir, ALET edizioni, 2008.
Osvaldo Sanguigni, Putin il neozar, Manifesto libri, 2008.
Demetrio Volcic, Il piccolo zar, ed. Robinson, 2008.
Masha Gessen, Putin. L'uomo senza volto. Overlook, 2012.
Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar. Mondadori, 2015.
133
L’ITALIA REPUBBLICANA
134
L’ITALIA NEL SECONDO DOPOGUERRA
Vito Sibilio
L’Italia, dopo l’instaurazione della Repubblica (1946) e dopo le prime elezioni politiche8
(1948), entra in una fase storica nuova, convenzionalmente denominata “Prima
Repubblica”, e resa omogenea dalla costante presenza al potere della Democrazia Cristiana,
trasformatasi in Partito Popolare Italiano nel 1994 e poi sconfitta alle elezioni dello stesso
anno. La DC divenne un partito di massa per due ragioni: anzitutto perché la Chiesa,
spaventata dalle persecuzioni religiose dei comunisti e dal rischio dell’isolamento del
Vaticano dal resto del mondo, vietò ai fedeli sia di votare per il PCI che di dividersi su più
partiti (dottrina dell’”Unità politica dei cattolici”); poi perché la DC, a differenza del PCI
o del PSI, che volevano rappresentare solo i ceti più bassi, cercava i voti di tutti i ceti
sociali, per un programma riformatore ma non rivoluzionario, così da creare un partito
interclassista. Molti gruppi sociali – come le Forze Armate o la Confindustria – si legarono
alla DC più per convenienza che per convinzione, ma non l’abbandonarono lo stesso. Il
programma della DC era quello della Dottrina Sociale della Chiesa, ma non mancarono
divisioni che la resero assai litigiosa al suo interno, anche se non produssero nuovi partiti
per gli interessi, legittimi e illegittimi, che tutti i democristiani avevano di rimanere insieme.
A causa dei forti contrasti ideologici esistenti tra i vari partiti italiani, prevalse subito l’idea
che ognuno di essi rappresentasse un pezzo di società a sé, e che tutti questi pezzi andassero
tutelati insieme, in nome dell’equilibrio politico: la degenerazione di quest’idea produsse la
partitocrazia o governo dei partiti, che ebbero più importanza delle istituzioni stesse,
specie a partire dagli anni ’60, e produsse il fenomeno del clientelismo (distribuzione di
favori in cambio del voto) e della lottizzazione (la spartizione delle cariche pubbliche in
base all’appartenenza ai vari schieramenti politici), con grande corruzione.
Possiamo dividere il periodo 1949-1994 in alcune fasi:
1. Il Centrismo (1948-1962), in cui la DC governa con i suoi alleati di centro (ossia né
di sinistra né di destra): il PLI, il PRI, il PSDI9;
2. Il Centrosinistra (1962-1976), in cui la DC si allea anche al PSI;
3. Il Compromesso Storico (1976-1979), in cui la DC collabora col PCI;
8
Si chiamano politiche le elezioni che rinnovano il Parlamento (Camera dei Deputati e Senato) ogni quattro
anni; sono amministrative quelle per il rinnovo delle assemblee degli Enti locali (regioni, province, comuni,
circoscrizioni); sono europee quelle per il Parlamento dell’Unione europea.
9
Da Destra a Sinistra il PLI, la DC, il PRI, il PSDI, il PSI, il PCI costituirono il cosiddetto arco costituzionale,
secondo la definizione di Moro, dei movimenti che avevano fatto la Resistenza e redatto la Carta della Repubblica. Se il
Partito Liberale Italiano era erede della tradizione risorgimentale e prefascista, il Partito Repubblicano Italiano
incarnava un riformismo di matrice laica, erede del Partito d’Azione disintegratosi rapidamente, e guardante al modello
aulico di Mazzini. Il Partito Socialista Democratico Italiano si era scisso dal PSI nel 1947 per iniziativa di Giuseppe
Saragat; esso ripudiava ogni compromesso con il marxismo che non fosse della II Internazionale, sposando con
convinzione la democrazia parlamentare, il riformismo sociale e l’economia di mercato. Il Partito Socialista Italiano
conservava la sua doppia anima risalente ai tempi di Giolitti: quella massimalista filocomunista e quella riformista.
Oltre alle figure che avremo modo di indicare nel testo, di questi Partiti vanno ricordati i liberali Benedetto Croce e
Giovanni Malagodi, i repubblicani Ugo e Giorgio La Malfa, il socialdemocratico Pietro Longo, i socialisti Rino
Formica, Claudio Signorile, Francesco De Martino, Giacomo Mancini e Riccardo Lombardi, i comunisti Luigi Longo,
Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Giancarlo Pajetta, Nilde Iotti, Armando Cossutta.
135
4. Il Pentapartito (1979-1994), in cui DC, PSI, PLI, PRI, PSDI ripropongono
un’alleanza nuova e stabile, fino allo scandalo di Tangentopoli.
IL CENTRISMO
La prima fase, del Centrismo (1948-1962), ha come protagonista indiscusso Alcide De
Gasperi (1881-1954) fino al 1953; poi inizia la direzione collegiale della DC e un lento
trapasso verso il Centrosinistra. De Gasperi era presidente del Consiglio dei Ministri dal
1945. Fino al 1953 presiedette otto Governi. Fu uomo onesto e capace, e collaborò
lealmente col presidente della Repubblica Luigi Einaudi (1948-1955), ispiratore della
politica economica che segnò la ripresa dell’Italia dopo la guerra. De Gasperi, nonostante la
fortissima opposizione del PCI stalinista di Palmiro Togliatti (1893-1964), portò l’Italia
nella NATO (1949) e iniziò una politica europeista nel 1951, che nessuno dei suoi
successori abbandonò. Aderì al Piano Marshall, e rilanciò l’economia combattendo
l’inflazione e incentivando la produzione agricola e industriale. L’Italia entrò nel suo
Miracolo economico, che tra gli anni ’50 e ’60, non senza sacrifici per molti, la fece
diventare la quinta potenza industriale del mondo. I governi De Gasperi promossero una
riforma agraria – solo parzialmente riuscita ma importante – per creare una media
proprietà agricola a danno dei latifondi, una riforma tributaria, per rendere più giuste le
tasse, e inaugurarono la Cassa del Mezzogiorno, per finanziare lo sviluppo della parte più
debole d’Italia. De Gasperi combattè l’insurrezionalismo comunista tramite il severo
ministro degli Interni Scelba, ma resistette a chi voleva che la DC si alleasse al MSI, ossia al
partito neofascista nato dopo la guerra10. Rispettò le libertà sindacali e vide i sindacalisti
cattolici separarsi dalla CGIL per fondare la CISL; poco dopo anche socialdemocratici e
repubblicani fondarono la UIL. Resosi conto che la legge elettorale proporzionale non dava
stabilità ai governi, De Gasperi, alle elezioni del 1953, si presentò con una legge che dava
un premio di maggioranza ai partiti che raggiungessero il 51% dei voti (ossia un numero in
più di parlamentari). Ma la DC con i suoi alleati rimasero di poco sotto questa percentuale.
De Gasperi, risultato così sconfitto, fu messo da parte dal suo stesso partito, in cui ormai
convivevano più anime (le correnti), alcune delle quali miravano ad allargare la
maggioranza alleandosi col PSI. De Gasperi morì nel 1954. Segretario del partito divenne
Amintore Fanfani, che mirava al Centrosinistra. Il PSI di Pietro Nenni (1891-1980) nel
1957 ruppe l’alleanza con il PCI, in grave difficoltà per il “Rapporto Kruscev” sui crimini di
Stalin. Ma finchè fu vivo papa Pio XII (1939-1958), nemico irriducibile dei rossi, nessuno
osò proporre l’alleanza DC-PSI. Solo quando fu eletto papa Giovanni XXIII (1958-1963),
meno dominato dal terrore del comunismo e assertore della coesistenza pacifica
internazionale, Fanfani e Aldo Moro (1916-1978), altro esponente della sinistra della Dc,
dichiararono la loro intenzione di allearsi col PSI, i cui voti, alle elezioni del 1958, erano
aumentati. Il successore di Giovanni XXIII, Paolo VI (1963-1978) sarebbe stato altrettanto
comprensivo. Favorevole al progetto era anche il nuovo presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi (1955-1962). Nel 1960 tuttavia Ferdinando Tambroni guidò un governo
sostenuto in parte dal MSI, che fu duramente contestato nelle piazze dalle sinistre e dovette
dimettersi.
10
Sebbene potesse essere considerato illegale perché la Costituzione vieta la rifondazione del Partito Fascista, il
Movimento Sociale Italiano fu tollerato anche dal PCI per sottrarre voti a destra alla DC. Retto a lungo da Giorgio
Almirante, si fuse coi monarchici nel MSI – Destra Nazionale nel 1972. L’ala più intransigente era rappresentata da
Pino Rauti.
136
IL CENTROSINISTRA
La Seconda Fase, quella del Centrosinistra (1962-1976), ha come protagonista Amintore
Fanfani (1908-1999). Egli presiedette in questo periodo tre governi (in tutta la sua vita sei),
ma la DC non era più unita come ai tempi di De Gasperi, e Fanfani ebbe molti nemici
interni, legati all’idea del centrismo. Il Miracolo economico aveva avuto parecchie
conseguenze: era cresciuto il processo migratorio interno, perché i contadini meridionali
si spostarono in massa a nord per lavorare nelle fabbriche; si erano di conseguenza
ingrandite le città; si erano diffusi nuovi consumi (come TV e automobile); era cresciuto il
fenomeno della speculazione edilizia, mediante la costruzione ovunque di nuovi edifici; si
era ulteriormente acuito lo squilibrio tra Nord e Sud, anche per la crisi dell’agricoltura.
Mancavano servizi efficienti (scuola, sanità, previdenza sociale), e l’evasione fiscale era
assai diffusa, mentre i salari rimanevano bassi. Il Centrosinistra nasce quindi come uno
sforzo riformatore, che vuol fare incontrare il riformismo cattolico e quello socialista, nel
rispetto della democrazia parlamentare: ossia voleva far si che i socialisti non fossero più
una potenziale minaccia sovversiva, e si sganciassero dal PCI, e all’occorrenza ne
prendessero i voti. Il Centrosinistra intervenne inoltre in modo energico nella vita
economica, fondando numerose imprese di Stato, e creando il cosiddetto sistema
economico misto, composto in parte da aziende private, in parte da aziende pubbliche. Nel
1962 nacque, su queste premesse ideologiche, un Governo Fanfani che si reggeva
sull’astensione del PSI nenniano (cioè esso, non votando, permetteva al governo di avere
una maggioranza di voti a favore): esso nazionalizzò l’energia elettrica, fondando l’ENEL,
e istituì la Scuola media, ma non riuscì a fare di più. Quando si andò a votare, nel 1963, si
vide che né DC né PSI avevano avuto più voti: segno che il Centrosinistra non era piaciuto.
Tuttavia la DC continuò a governare col PSI. Aldo Moro presiedette tre governi (19631968) nella cui maggioranza c’era il PSI, ma la politica di riforma (programmazione
economica, riforma sanitaria, istituzione delle regioni) fu largamente insufficiente.
Cominciarono inoltre polemiche velenose, in cui le parti in lotta all’interno dei partiti si
accusavano reciprocamente di essere pericolose per la democrazia. Lo stesso presidente
della Repubblica Antonio Segni (1962-1964) fu accusato, quasi certamente a torto, di aver
favorito un presunto progetto di colpo di Stato dei Servizi segreti militari, guidati dal
generale De Lorenzo (Piano Solo, 1964) e, in seguito ad un ictus, sostituito da Giuseppe
Saragat (1964-1971). E tuttavia, alle elezioni del 1968, aumentarono i voti della DC e del
PCI, ma non del PSI. Mariano Rumor (1915-1990), dal 1968 al 1970, presiedette degli
stanchi governi Dc-PSI, ma in realtà, la situazione si era deteriorata irreversibilmente: era
iniziata la crisi economica a causa della diminuzione della produzione; i lavoratori
chiedevano garanzie contro la disoccupazione e la povertà; la politica riformatrice era
fallita; arrivavano in Italia i movimenti di protesta studenteschi del ’68 europeo11; i molti
11
Il Movimento Internazionale del ’68, preparato dallo sviluppo socio-economico dei decenni precedenti, si
sviluppa da quell’anno fino a tutti gli anni ’70. In Occidente assume i connotati di una rivolta antiautoritaria, spesso
anticonsumistica, come contradditorio prodotto del benessere diffuso e della cultura di massa. Dagli USA la protesta,
all’inizio degli studenti universitari (dal 1964) si sposta in Europa e in Giappone. In Germania, Italia e Francia la
contestazione si dà un rivestimento ideologico marxista e rivoluzionario (rifacendosi alla propaganda cinese della
Rivoluzione Culturale, che era una delle tante fasi della lotta per il potere tra Mao e i suoi rivali), e si salda alle
agitazioni degli operai. I sessantottini più sensibili si avvicinano alla filosofia raffinata del marxismo della Scuola di
Francoforte e di Marcuse. Sul ’68 in genere s’innestano i movimenti femministi più estemisti, volti a inaugurare la
lotta tra i sessi. Molti di questi gruppi si diedero poi alla lotta armata. Ma l’esito più duraturo fu il mutamento di
mentalità, specie nella rivoluzione sessuale, che tuttavia ha assunto caratteri consumistici, come del resto lo sforzo di
137
gruppi operai e studenteschi di sinistra, delusi dal PCI sempre meno rivoluzionario, si
erano avvicinati al comunismo di Mao Tse-Tung, Fidel Castro e Che Guevara (sinistra
extraparlamentare) e cominciavano a preparare la Rivoluzione armata. Stava cioè per
iniziare il ’68 italiano, con l’occupazione delle università, con scioperi a catena e svariate
violenze e tumulti di piazza (autunno caldo del 1968). Questa situazione di grande
confusione durò alcuni anni, e degenerò ben presto nel Terrorismo degli Anni di Piombo.
Nel corso di essi, gruppi di destra e di sinistra si fronteggiarono nel folle sogno di
impadronirsi del paese, creando in esso, con la violenza, condizioni di malumore, sfiducia e
paura che sfociassero in rivolte, rivoluzioni e colpi di stato. I gruppi di destra compirono
azioni più eclatanti, ma circoscritte, volte a seminare il panico12, generalmente con ordigni
esplosivi. I gruppi di sinistra, più numerosi, più radicati, miravano alla guerriglia urbana e
alla rivoluzione, e volevano eliminare tutti coloro che garantivano quello che loro
chiamavano l’ordine borghese, ossia il funzionamento dello Stato, identificando in modo
pretestuoso la legalità con la sopraffazione di classe e la democrazia occidentale col
fascismo. Furono perciò rapiti, uccisi o feriti magistrati, giornalisti, poliziotti, professori
universitari, politici. Tra i numerosi gruppi del cosiddetto “partito armato” il più importante
fu quello delle Brigate Rosse. Queste formazioni paramilitari ebbero pochissimi contatti col
PCI, ma agganci solidi col terrorismo internazionale, compreso quello rosso finanziato dai
Paesi comunisti.
IL COMPROMESSO STORICO
La Terza Fase, del Compromesso Storico (1976-1979) è la più breve ma anche la più
intensa della nostra storia repubblicana, punto di snodo della politica, fitto di misteri e
intrighi. In essa, Aldo Moro, segretario della Dc, dominato dal terrore della rivoluzione
comunista e constatato il fallimento del Centrosinistra, tenta di portare il PCI al governo, per
ridurne al minimo la forza eversiva e per isolare i gruppi dei contestatori e dei terroristi. I
grandi problemi dell’Italia in effetti esigevano l’accordo di tutte le forze politiche, e il fatto
che il PCI ricevesse sempre più voti (34, 4 % nel 1976), quasi raggiungendo la DC (38,7%),
mentre il PSI scendeva sempre più, faceva capire che gli scontenti votavano sempre più per
i comunisti. Sembrava indispensabile un accordo con loro. La DC e la Chiesa sembravano
aver perso il primato sulla società italiana (come dimostrava il referendum che aveva
confermato il divorzio nel 1970), e appariva opportuno un accordo col principale nemico.
Moro si fece interprete di questa strategia, ma fu duramente avversato. Trovò favorevole il
segretario del PCI Enrico Berlinguer (1922-1984), favorevole ad un’evoluzione più
democratica del sistema marxista (il cosiddetto Eurocomunismo, comune anche a Francia e
Spagna). Tuttavia Moro e Berlinguer avevano molti nemici nei loro partiti, sembrando
strano che i rivali di sempre dovessero mettersi d’accordo. Moro propose a Berlinguer un
percorso a tappe: prima l’astensione per far nascere un governo monocolore (formula della
“non sfiducia”), poi la partecipazione alla maggioranza e al governo (formula della
“solidarietà nazionale”). Per garantire poi a tutti che l’operazione sarebbe stata condotta in
modo prudente, chiamò a presiedere i governi Dc-PCI l’uomo politico più rappresentativo
produrre un nuovo stile di vita, specie per i giovani, cristallizzatosi nelle mode della cultura di massa (stessi abiti,
stessi cibi, stesse abitudini). Paradossalmente, il ’68 si è realizzato nel suo opposto. In Oriente il ’68, non marxista
perché ispirato alla democrazia, è stato schiacciato dai carri armati sovietici a Praga.
12
Strage di Piazza Fontana a Milano, 12.12.69; strage di piazza della Loggia a Brescia, maggio 1974; strage del
treno Italicus, agosto 1974; strage della stazione di Bologna, agosto 1980.
138
della destra del partito, assai legato al Vaticano, Giulio Andreotti (1919-vivente), che
divenne presidente del Consiglio dal 1976 al 1979. Paolo VI, amico personale di Moro,
aveva per i suoi progetti una sofferta e inquieta comprensione. A questo esperimento
azzardato, che avrebbe creato in parlamento e nel paese una maggioranza quasi dell’80%,
riducendo al minimo le opposizioni, guardavano con grande sospetto USA e URSS,
entrambe preoccupate per gli equilibri internazionali. Il giorno in cui il PCI avrebbe dovuto
entrare nella maggioranza di governo, Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate
Rosse, con un gesto che segnò l’apogeo del terrorismo in Italia. Le Br miravano a bloccare
il processo d’integrazione del PCI nella maggioranza, mirando alla rivoluzione armata, e
perciò colpirono la mente di tutto il progetto politico, appunto Moro. Volevano inoltre che
lo Stato intavolasse trattative con loro, riconoscendole ufficialmente. Ma né Andreotti, né
Berlinguer vollero accettare. Dopo 55 giorni di estenuanti trattative, le Br, quando forse
qualche spiraglio stava per aprirsi, uccisero Moro (9 maggio), che invano aveva tentato, con
drammatiche lettere, di negoziare la propria salvezza. Molti misteri sono legati al sequestro
Moro, perché molti trovarono provvidenziale la sua scomparsa dalla scena politica, ma non
si può dubitare della natura terroristica del gesto, come fanno alcuni. Morto Moro, l’accordo
tra DC e PCI saltò presto. L’ultimo atto importante del Compromesso Storico fu la discussa
e discutibile legalizzazione dell’aborto (1978), confermata da un referendum popolare
(1981). Berlinguer capì nel frattempo che i suoi elettori non condividevano la sua politica e,
votando contro l’adesione dell’Italia allo SME (sistema monetario europeo), provocò la crisi
di governo. Andreotti dovette tornare a una coalizione di Centrosinistra (1979).
IL PENTAPARTITO
Nella Quarta Fase, del Pentapartito (1979-1993), l’Italia vive il culmine e la decadenza del
sistema dei partiti. Pur tra mille difficoltà, il terrorismo fu sgominato. La crisi economica fu
superata, e gli spettri della disoccupazione e della fame si allontanarono. Le suggestioni del
’68 si stemperarono in una rivoluzione essenzialmente legata ai costumi sessuali e alla vita
quotidiana. La crescita economica, la crisi sempre più evidente del comunismo mondiale e
la diffusione della cultura consumistica legata alla televisione, specie quella privata, fecero
sì che i giovani si allontanassero dai miti della rivoluzione. Il PCI, con l’improvvisa morte
di Berlinguer (1984), entrò in una crisi profonda, che lo portò poi alla distruzione. Il nuovo
spirito politico-sociale s’incarnò nella rinascita del PSI che, sotto la segreteria di Bettino
Craxi (1934-2000), rinnegò il marxismo e divenne fautore di un riformismo laico e
interclassista. La DC entrò invece in una crisi profonda: i nostalgici della linea politica di
Moro si scontrarono duramente con coloro che volevano tornare al Centrosinistra. Numerosi
scandali finanziari, con risvolti di politica internazionale, e altri legati al sistema delle
tangenti macchiarono illustri politici, soprattutto – ma non solo – democristiani13. Il
13
Si pensi al fallimento della Banca Privata di Michele Sindona, considerato vicino ad Andreotti, o a quello del
Banco Ambrosiano. In entrambi i casi erano coinvolti capitali della mafia, che punì con la morte gli errori del presidente
dell’Ambrosiano, Roberto Calvi. Altri scandali (Italcasse, Petroli) riguardavano tangenti per vari politici. Ma il maggior
scandalo fu la scoperta che la potentissima loggia massonica P2, guidata da Licio Gelli, e di cui facevano parte
personalità importanti di tutti i settori, compiva attività affaristiche e forse anche politiche, volte a condizionare la vita
pubblica italiana (1981). Crebbe anche la connessione tra mafia e politica per la spartizione delle tangenti e per ottenere
voti. La conseguenza fu che la mafia siciliana aumentò il controllo sulla sua regione, arrivando ad assassinare il
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, eroe della lotta al terrorismo, inviato nell’isola per guidare la lotta al crimine
(1982). Spesso questi scandali furono usati in modo strumentale dalle opposizioni per danneggiare i partiti al potere, e
la DC in particolare.
139
presidente della Repubblica Giovanni Leone (1971-1978), ingiustamente coinvolto nello
Scandalo Lockheed14, fu costretto a dimettersi e sostituito dall’ex-partigiano socialista
Sandro Pertini (1978-1985), che guadagnò, con il suo comportamento umano e socievole,
grande popolarità, ma che prese importanti iniziative politiche. Infatti, dopo che si riuscì a
riorganizzare una maggioranza a cinque o Pentapartito nel governo Forlani
(DC.PSI.PLI.PRI.PSDI), dinanzi alla profonda crisi della Dc, Pertini incaricò di presiedere
il governo il segretario del PRI, lo storico Giovanni Spadolini (1925-1994), che rimase in
carica dal 1981 al 1982, e avviò una politica di contenimento dell’inflazione e di più stretta
collaborazione con la NATO e con l’ONU (missione di pace in Libano, 1982). Alle elezioni
del 1983, la DC perse voti e crebbero PRI e PSI, per cui, dopo un breve governo di
transizione presieduto da Fanfani, Pertini nominò Craxi capo del governo (1983-1987).
Questi favorì la ripresa economica, grazie anche alla fine della Crisi petrolifera e
produttiva mondiale; combattè l’inflazione bloccando gli aumenti di stipendio; inaugurò –
col ministro degli Esteri Andreotti – una politica estera favorevole ai Palestinesi, anche in
contrasto con gli USA; firmò un nuovo Concordato con papa Giovanni Paolo II (1984),
adattando i rapporti Stato-Chiesa alle mutate condizioni socio-culturali dell’Italia. L’energia
di Craxi, che aveva un controllo assoluto del suo partito, fece parlare di decisionismo
craxiano. Egli sperava di egemonizzare la sinistra e, un giorno, di governare col PCI senza
la DC. Ciò suscitò contrasti con il segretario della DC Ciriaco de Mita, che sarebbe
volentieri tornato alla collaborazione col PCI, ma era condizionato dai suoi compagni di
partito. Nelle elezioni del 1987 il PSI crebbe moltissimo, la DC un poco e il PCI ebbe forti
perdite: segno che i voti comunisti andavano verso Craxi. Dopo un intermezzo di pochi
mesi (governo Goria), De Mita rivendicò per la DC la guida del nuovo governo, ossia per se
stesso (1988-1989). Egli sperava di avere così un controllo più forte del suo partito e di
impegnarsi a fondo per le riforme di cui il paese aveva bisogno. Ma un ampio
sommovimento si andava preparando: De Mita aveva troppo potere e questo indispettiva i
suoi alleati di partito e d governo. Dapprima fu sostituito alla segreteria da Arnaldo Forlani
(1989-1992), eletto con i voti determinanti della corrente di Giulio Andreotti. Poi fu
costretto a dimettersi e a lasciare il posto allo stesso Andreotti, sostenuto da Craxi e Forlani.
Andreotti governò dal 1989 al 1992. Era iniziata la fase del CAF (Craxi-AndreottiForlani), che era nello stesso tempo una maggioranza nella DC – che allontanava la sinistra
interna dalla segreteria – e nel Parlamento. Craxi sarebbe tornato a presiedere il governo
quando Andreotti fosse diventato presidente della Repubblica. Andreotti varò un nuovo
codice penale, dettò regole per l’accoglienza degli immigrati e avviò una intensa lotta alla
criminalità organizzata, dopo anni di inerzia.
La crisi internazionale del comunismo sembrava dare ragione alla nuova linea politica.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est, con una scelta sofferta, il segretario del PCI Achille
Occhetto sciolse il partito e lo trasformò in PDS (Partito Democratico della Sinistra),
non più comunista ma socialista (1989)15. Una parte del partito (la fazione stalinista di
Cossutta e i sindacalisti libertari di Bertinotti) non accettò la svolta, e creò il Partito della
Rifondazione Comunista.
14
Un gruppo industriale che, per far comprare all’Esercito italiano i suoi elicotteri da guerra, aveva corrotto
numerosi politici, uno dei quali – in codice Antilope Kobbler – non è mai stato individuato. Leone fu accusato a torto di
essere l’Antilope.
15
Il suo stato maggiore rimase quello del PCI. Ricordiamo Luciano Violante, Vincenzo Visco, PierLuigi
Bersani, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Antonio Bassolino.
140
Ma la fine del pericolo comunista fece sì che moltissima gente non si sentisse più legata
esclusivamente alla DC e ai suoi alleati. Lo stesso presidente della Repubblica Francesco
Cossiga (1985-1992) iniziò ad esprimere pareri assai critici verso il sistema politico,
auspicando delle profonde riforme. A nord crebbe incredibilmente la Lega Lombarda, poi
Lega Nord16, guidata da Umberto Bossi, che in modo rozzo esprimeva il malumore contro
gli sprechi del denaro pubblico, specie per la politica degli aiuti al Mezzogiorno. Il
leghismo divenne così un movimento antimeridionalista e razzista, che cominciò addirittura
a parlare di secessione del Nord dall’Italia. La voglia di nuovo si espresse col referendum
del 1991, in cui fu introdotta la preferenza unica nelle elezioni (ossia si poteva votare per un
solo candidato, e non per quattro, come prima). Alle elezioni del 1992 la DC subì una dura
batosta, il PSI rimase fermo e il PDS perse molti voti rispetto al vecchio PCI. Si
affermarono i partiti di protesta, come la Lega. Il CAF era morto. Andreotti non potè andare
al Quirinale, e fu eletto presidente Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), uomo politico di
grande moralità, come risposta al dilagare della violenza della mafia, bramosa di vendetta
contro le misure repressive decise dallo Stato, e che era riuscita ad assassinare due
importanti magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992). Scalfaro designò capo
del governo il socialista Giuliano Amato (1992-1993), che prese seri provvedimenti per
risanare la disastrosa situazione del debito pubblico – cresciuto continuamente da decenni –
e ratificò l’ingresso dell’Italia nel trattato di Maastricht (1992). Ma lo scoppio di
Tangentopoli (1992 e seguenti) provocò il collasso della politica. Non più condizionati
dalle conseguenze degli scandali, che in passato avrebbero potuto favorire forze non
democratiche come il PCI, i magistrati poterono indagare più liberamente sugli intrecci tra
politica e affari. Non vi era nessun affare pubblico importante in cui gli imprenditori non
dessero una “mazzetta” ai partiti, che ne avevano bisogno per mantenersi, anche se la
legge lo vietava, lasciando allo Stato il compito di finanziare i partiti presenti in
Parlamento. Spesso queste tangenti servivano ad arricchimenti personali. Le indagini
iniziarono a Milano, col famoso Pool, il cui maggiore esponente fu Antonio Di Pietro. Da
inchieste locali si salì subito in alto, e l’iniziativa fu ripresa dalle procure di tutta Italia. La
gente, da anni distaccata dalla classe politica, seguì come in un circo la caduta dei potenti,
considerati colpevoli per il semplice fatto che si indagasse su di loro. Tutto il pentapartito
fu travolto: Forlani abbandonò la politica, Craxi fuggì all’estero per non andare in carcere.
Molte volte i politici risultarono innocenti in sede di processo. Ma il malcostume era esistito
veramente, e attraverso i magistrati avvenne una specie di rivoluzione. Il PSI, il PLI, il PSDI
scomparvero. Il PRI si ridusse ai minimi termini. La DC ricevette un colpo mortale
dall’inchiesta per mafia su Andreotti in persona (1993), l’uomo simbolo del potere del
partito, già delfino di De Gasperi, protagonista di tutte le stagioni della politica. Andreotti
sarebbe stato assolto dieci anni dopo, ma l’immagine del partito fu colpita
irrimediabilmente. Molti videro in questo processo un atto politico. In genere, ancora si
discute se il PDS sia uscito quasi indenne da Tangentopoli perché meno corrotto o perché
molti magistrati erano politicizzati. La DC si sciolse e si trasformò in Partito Popolare
Italiano. Amato si dimise e Scalfaro, vero padrone della politica perché protetto
dall’importanza della sua carica e perché i partiti non contavano più nulla, lo sostituì col
governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi, dal 1992 al 1993, perché
continuasse il risanamento e portasse il paese alle elezioni, resesi indispensabili, dopo soli
16
Federazione delle Leghe regionali dell’Italia settentrionale, il partito è stato rappresentato da Roberto Maroni,
Francesco Speroni, Roberto Calderoli, Irene Pivetti, Renato Borghezio, Francesco Miglio.
141
due anni, per le profonde trasformazioni del sistema. Si sarebbe andati a votare con la legge
maggioritaria a turno unico e non più con la proporzionale; solo il 25% dei seggi
parlamentari sarebbe stata assegnata col vecchio sistema: in pratica avrebbe vinto il partito o
la coalizione di partiti che avesse preso più voti.
L’ITALIA DELLA SECONDA REPUBBLICA
NASCITA E DECLINO DEL PRIMO BERLUSCONISMO (1994-1996)
La dizione “Seconda Repubblica” è impropria, perché sono cambiati i partiti ma non le
istituzioni. Comunque la si può usare in modo convenzionale. Le inchieste avevano
decimato e distrutto i vecchi partiti, ed era sopravvissuto solo il PDS, attorno al quale i
miseri resti degli altri movimenti politici si erano radunati per una grossa coalizione che era
destinata a vincere anche perché non aveva concorrenti. I rivali (il PPI, la Lega, il MSI )
andavano in ordine sparso, e non potevano vincere perché la nuova legge premiava chi
prendeva più voti e basta. Ma un evento nuovo creò una novità: l’imprenditore milanese
Silvio Berlusconi (1936-vivente), preoccupato dalla ostilità manifestata dal PDS verso il
suo gruppo economico (Mediaset), anche per la sopravvivenza di vecchi rancori contro
Craxi, di cui lui era stato amico, decise di costituire un partito moderato che occupasse lo
spazio elettorale lasciato vuoto dal Pentapartito, chiamato Forza Italia (1994)17. Contribuì
alla scelta anche una sincera passione politica e una personalità avventurosa e bonapartista. .
La sua discesa in campo è stato sicuramente l’evento cruciale della Seconda Repubblica. Le
sinistre hanno visto in lui il simbolo del capitalismo borghese che vuole impadronirsi dello
Stato, anche per via del suo programma liberista in economia, e lo hanno odiato con
passione. I vecchi nemici di Craxi hanno rovesciato su di lui il loro rancore, ragion per cui
mezza DC si è alleata con le sinistre. A rovescio, tutti i nemici delle sinistre e i fautori di
una riforma liberale si sono riuniti sotto le sue bandiere, per cui la politica è tornata ad un
tasso di litigiosità che non si vedeva da anni. La grande concentrazione di potere economico
e informativo nelle sue mani è stata oggetto di dibattito, e ha costituito un argomento
scottante (conflitto d’interessi), che nessuno ha voluto e saputo risolvere, anche perché
Berlusconi ha concesso importanti posizioni di potere a uomini di sinistra nelle sue aziende,
e perché un referendum ha confermato la legge per cui un privato può avere tre reti
televisive (su sei). I suoi procedimenti giudiziari sono stati contraddittori, in quanto sia le
opposizioni se ne sono serviti contro di lui, sia lui se ne è servito per presentarsi come
perseguitato, per cui essi hanno assunto una valenza politica, indipendentemente dalla sua
colpevolezza o innocenza. Ma la sua presenza non ha risolto i problemi politici: le leggi
elettorali che si sono susseguite, pur costringendo i partiti ad allearsi, non li obbligavano a
darsi un programma comune né a rimanere alleati nel corso della legislatura, per cui essi si
sono moltiplicati, si sono ricattati gli uni con gli altri e hanno fatto rientrare in uso il
trasformismo.
Berlusconi riuscì ad allearsi con una parte della vecchia Dc, il Centro Cristiano
Democratico di PierFerdinando Casini (CCD); a Nord concluse un accordo con la Lega
17
Di eterogenea struttura ideologica, formato da manager delle imprese berlusconiane, da democristiani non di
sinistra, da socialisti craxiani, da massoni, da liberali e radicali, il partito ha avuto, fino ad oggi, esponenti di spicco in
Marcello Pera, Franco Frattini, Antonio Martino, Antonio Scajola, Giuseppe Pisanu, Enrico La Loggia, Fabrizio
Cicchitto, Stefania Prestigiacomo, Renato Schifani.
142
(Polo della Libertà), e al Centro-Sud con Alleanza Nazionale (Polo del Buongoverno), il
nuovo partito formato dal MSI e dal suo segretario Gianfranco Fini, per dare una casa a
tutti coloro che, pur essendo di destra, non erano fascisti18. Infatti la Lega e AN non
volevano allearsi tra loro. Sulla scia della novità assoluta e del suo indiscutibile carisma di
self-made man, oltre che grazie all’ottusa ostilità denigratrice dei suoi nemici, Berlusconi
vinse le elezioni del 1994, ma di poco. Infatti al Senato non aveva la maggioranza. Inoltre
la Lega e AN erano in fortissimo contrasto. Il timore della Lega di essere assorbita da un
governo che andasse bene e che quindi facesse crescere a Nord Forza Italia spinse Bossi a
provocare la crisi, in un contesto politico assai difficile. Il governo era durato pochi mesi. Il
presidente Scalfaro respinse la richiesta di Berlusconi di tornare al voto, sia perché erano
trascorsi solo pochi mesi dalle elezioni, sia perché la maggioranza del Parlamento (sinistre
più Lega e PPI) erano contrarie e disponibili ad un nuovo governo. Scalfaro nutriva in verità
una certa diffidenza verso l’uomo nuovo della politica, poco diplomatico e con qualche
macchia, ma il suo comportamento fu istituzionalmente corretto. Nel vuoto di potere che si
era creato, con le opposizioni che non volevano il voto per non far trionfare il Cavaliere e
con questi privo di maggioranza, Scalfaro potè imporre un governo di tregua, tecnico – ossia
formato di esperti ma non di politici – e designò a guidarlo l’ex-ministro del Tesoro di
Berlusconi, già direttore della Banca d’Italia Lamberto Dini, che governò dal 1994 al 1996.
Forza Italia e AN decisero tuttavia di votare contro il governo, che invece fu sostenuto dal
PPI di Rocco Buttiglione, dal PDS di Massimo D’Alema e dalla Lega. Tutti miravano a
guadagnare tempo in vista delle future elezioni. Dini aveva il compito di varare una riforma
pensionistica, di regolamentare per tutti l’uso dei mezzi di comunicazione di massa per la
campagna elettorale e di fare la legge finanziaria (ossia raccogliere i fondi per le attività
dello Stato per l’anno successivo, cosa che si fa alla fine di ogni anno). Con questo
programma restò in carica fino al 1996, quando i partiti furono concordi nel chiedere le
elezioni.
NASCITA E CRISI DELL’ULIVO (1996-2001)
Nel frattempo il PPI si era spaccato in due: i nostalgici della linea del Centrosinistra e del
Compromesso Storico (i Popolari)19 si erano schierati con il PDS nella coalizione di sinistra
denominata “Ulivo” e guidata dall’ex-democristiano Romano Prodi (figura necessaria per
prendere i voti dei centristi, già esperto imprenditore di Stato), mentre i nemici delle sinistre
si erano uniti a Berlusconi e a AN (Cristiani Democratici Uniti di Buttiglione, CDU). La
Lega correva da sola, per non perdere la sua identità, sempre più sovversiva, favorendo la
sconfitta di Berlusconi e del suo Polo delle Libertà. L’Ulivo concludeva un patto con la
Rifondazione Comunista, per aiutarsi contro le destre, senza però allearsi. Prodi vinse le
elezioni (1996), ma al Senato aveva bisogno dei voti di Rifondazione. Le ali estreme dello
schieramento politico (Lega e Rifondazione) condizionavano gli altri partiti con le loro
scelte. Prodi presiedette un governo fino al 1998, ottenendo il grande risultato dell’ingresso
dell’Italia nella moneta unica europea, ma venendo alla fine a cadere per l’abbandono di
RC, ostile a questa politica monetaria “capitalista”. Si formò una nuova maggioranza:
l’Ulivo più una frazione ribelle di Rifondazione e un partito centrista, l’Unione
Democratica per la Repubblica (UDR), formata da Francesco Cossiga con parlamentari del
18
Mirante ad un modello alla De Gaulle, formato da ex-missini, democristiani, conservatori e riformisti di
destra, il partito è stato rappresentato, tra gli altri, da Maurizio Gasparri, Ignazio la Russa, Pinuccio Tatarella.
19
Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Franco Marini, Beniamino Andreatta, Gerardo Bianco, Nicola Mancino.
143
Polo per fare concorrenza a Forza Italia. Essa sostenne il governo di Massimo D’Alema
(1998-1999). Egli mirava a creare un grande partito socialdemocratico al posto dell’Ulivo, e
trasformò il PDS in Democratici di Sinistra, ma con scarsi risultati. Provò anche ad
accordarsi con Berlusconi per le riforme istituzionali, ma senza successo. Sostenne
l’intervento italiano nel Kosovo con la NATO, nonostante l’opposizione delle stesse
sinistre. Ma l’opposizione interna ai DS, guidata da Walter Veltroni, divenuto segretario del
partito e favorevole all’Ulivo e a un partito di sinistra non socialista, all’americana,
costrinse D’Alema a rompere con Cossiga20 e a formare un nuovo governo (1999-2000), ma
che cadde poi per le lotte interne alla maggioranza. Fu sostituito da Giuliano Amato (20002001). Nel frattempo si costituì la Margherita, una federazione di partiti di centro attorno ai
Popolari, alleata dei DS nell’Ulivo, per ottenere i voti moderati alle elezioni ormai
imminenti; il suo leader ufficiale divenne Francesco Rutelli.
LA RIVINCITA DEL BERLUSCONISMO (2001-2006)
Alle elezioni del 2001, secondo le previsioni, la Casa delle Libertà, ossia il vecchio Polo
più la Lega, vinsero. Il nuovo presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (19992006) incaricò Silvio Berlusconi di formare il suo secondo governo (2001-2005) che
condusse una politica liberista, mirante alla riduzione delle tasse, e che schierò l’Italia con
gli USA nelle guerre d’Afghanistan e Iraq. Berlusconi ha inoltre varato una riforma
federalista dello Stato fortemente voluta dalla Lega Nord, integrata poi da un piano di
riordino istituzionale complessivo da confermarsi tramite referendum. Il governo è stato
spesso contestato per alcune leggi che, a torto o a ragione, sono state considerate su misura
per Berlusconi. Inoltre AN e l’Unione di Centro (UDC, nato dalla somma del CCD e del
CDU), sono spesso entrate in contrasto con la Lega. Nel frattempo, alla guida dell’Ulivo
ritornò Romano Prodi.
Prodi stipulò un sostanziale accordo con Rifondazione Comunista, fondando così una nuova
coalizione politica denominata L’Unione, che vinse l’ultima tornata delle elezioni regionali
nel 2005. Questa sconfitta elettorale ha costretto Berlusconi a rinegoziare con gli alleati
l’assetto del Governo, varando così il suo III Esecutivo (2005-2006). Alla fine della
legislatura l’evento politico di maggior rilievo è stato il trionfo dell’astensionismo (75%) al
referendum per l’abolizione parziale delle norme sulla fecondazione assistita (giugno
2005), caldeggiato da un fronte eterogeneo e onnicomprensivo che però non ha
evidentemente persuaso l’opinione pubblica, la quale ha raccolto l’appello di disertare le
urne, lanciato dalla Chiesa Cattolica, da intellettuali indipendenti e da alcuni partiti minori,
per impedire una deregulation troppo permissiva in una materia tanto delicata. Nel corso di
della campagna elettorale si è manifestato un anticlericalismo viscerale di alcuni settori
politico-culturali che sembrava scomparso e che evidentemente ha sortito l’effetto
contrario21. Arrivata al suo termine la legislatura, si è tornati al voto con una nuova legge
elettorale, che istituiva un premio di maggioranza nazionale per la coalizione vincente alla
20
Una prima minaccia per la stabilità della maggioranza fu la divulgazione in Occidente e quindi anche in Italia
del Dossier Mitrokhin (1999), ossia una lista di agenti segreti, confidenti e collaboratori del KGB durante la guerra
fredda nei Paesi Occidentali. Centinaia di persone illustri risultarono al soldo dei sovietici in Italia e si potè appurare
che vicende rilevanti come il Sequestro Moro o l’Attentato al Papa o la Strage di Bologna avevano dei contatti
importanti con i servizi sovietici. Cossiga insistette molto per la verità ma le resistenze delle sinistre fecero sì che gli
aspetti più compromettenti dello scandalo fossero troncati e sopiti.
21
Tuttavia la Consulta di Stato ha poi bocciato, nell'indifferenza generale, alcune delle norme più significative
introdotte dalla legge, creando nuova confusione in materia.
144
Camera – eletta con la proporzionale - e altrettanti locali per i vincenti su scala regionale al
Senato – eletto col maggioritario. Tale legge, che aboliva le preferenze delegando ai partiti
la compilazione delle liste – con un grave regresso della democrazia rappresentativa – era
stata varata dalla CDL per mettere in difficoltà l’Unione, data per favorita alle urne. Ma le
elezioni si chiusero con un esito paradossale.
CRISI E DISSOLUZIONE DEL SISTEMA BIPOLARE (2006-2008)
Conducendo pressoché in solitudine la campagna elettorale, Silvio Berlusconi,
contrariamente alle aspettative dei suoi stessi alleati, è riuscito a realizzare una rimonta che
ha comportato il sostanziale pareggio tra la CDL e l’Unione, con uno scarto di poche
migliaia di voti. La prima ebbe la maggioranza al Senato, la seconda alla Camera. Lo
scontro politico divenne subito incandescente: l’Unione potè designare presidente della
Repubblica il diessino Giorgio Napolitano, già esponente di spicco dell’ala riformista del
PCI e senatore a vita (2006). Nacque poi il II Governo Prodi (2006), per la cui
sopravvivenza sono stati decisivi i voti dei senatori a vita, trovatosi subito in cattive acque
per i veti incrociati tra i partiti della Sinistra Radicale (RC, PdCI, Verdi22) e del centro
cattolico moderato (UDEUR). Il governo cadde una prima volta (2007) per la sua politica
militare in Afghanistan. Rinviato alle Camere da Napolitano, Prodi insediò il suo III
Governo, riuscendo tuttavia a raggiungere vette uniche di impopolarità per la sua politica
fiscale, motivata dalla necessità di contenere il deficit pubblico. Nonostante ciò, il
referendum sulla riforma istituzionale varata dalla CDL la bocciò (giugno 2006) e Prodi non
ebbe, nell’immediato, niente da temere dall’opposizione. I problemi gli vennero
dall’interno. Per la pressione del Partito Radicale di Marco Pannella, da sempre
protagonista delle battaglie laiciste in Italia23, e della Sinistra Radicale e dei DS, il Governo
presentò un disegno di legge per un parziale riconoscimento delle unioni di fatto etero e
omosessuali (legge su DI.CO., diritti e doveri dei conviventi). Ad esso si oppose
risolutamente il mondo cattolico, la CDL e, all’interno dell’Unione, la componente
centrista, oltre che i senatori a vita provenienti dalla Dc. Il progetto fu affossato, e iniziò una
lotta intestina tra cattolici e laici della maggioranza.
In considerazione di ciò e dell’impopolarità dell’Esecutivo, all’interno della Margherita e
dei DS prese il sopravvento la fazione politica che voleva fondere i due partiti creando un
unico soggetto politico che, abiurando anche il socialismo democratico, si rifacesse
direttamente al laburismo anglosassone, in cui potesse discretamente annullarsi anche
l’identità specifica della sinistra cattolica, realizzando un completo abbraccio tra le due
forze che compisse il progetto del Centrosinistra, del Compromesso Storico, dell’Ulivo.
Nacque così il Partito Democratico (2007), il cui segretario fu Walter Veltroni, da
sempre assertore di questo progetto24. Tale evento segnò una trasformazione definitiva della
sinistra italiana. Veltroni decise di smarcarsi subito dall’alleanza con gli estremisti ma anche
22
Il movimento ecologista, nato negli anni Ottanta, divisosi e poi riunitosi, ha sposato tesi comunisteggianti non
pertinenti alla sua vocazione specifica. Fu rappresentato in passato da Francesco Rutelli, e poi da Alfonso Pecoraio
Scanio, Grazia Francescato, Paolo Cento.
23
Ala sinistra del PLI, staccatosi dal partito nel 1957, incarna il laicismo individualista e riformista della
tradizione liberale. Pannella, personalità istrionica e spettacolare, ne è divenuto il padre-padrone dagli anni Settanta,
eliminando sistematicamente chi potesse fargli ombra. Emarginato dall’Arco costituzionale, nella Seconda Repubblica
si è alleato prima a Berlusconi e poi a Prodi. Esponente molto nota è Emma Bonino.
24
Egli impose un buon rinnovamento della nomenklatura del partito. Mista di cattolici di sinistra e di diessini,
annovera, tra gli altri, Dario Franceschini, Giuseppe Fioroni, Enrico Letta.
145
con i centristi, dichiarando che alle elezioni successive il PD sarebbe andato da solo.
Specularmente, Berlusconi decise di accelerare i tempi di un progetto analogo a destra,
lanciando il progetto del Popolo della Libertà, e intendendosi con Veltroni per una nuova
legge elettorale che premiasse non le coalizioni ma i partiti maggiori, così da costringere i
piccoli a fondersi.
L’asse Berlusconi-Veltroni incrinò i rapporti tra Forza Italia e i suoi alleati, AN e UDC, non
intenzionati a fondersi con il partito azzurro. Quest’ultimo strinse un patto politico con la
Lega, garantendole la sopravvivenza. Ma un imprevisto rimescolò tutte le carte.
In seguito alle lotte intestine scaturite dalla faida sui DI.CO., Mastella finì sotto inchiesta
con lo stato maggiore del suo partito. Alla ricerca della solidarietà politica dell’Unione,
sperando di ottenere uno stop sotterraneo all’offensiva giudiziaria contro di lui, Mastella
non ottenne soddisfazione da Prodi e votò la sfiducia, alla vigilia del dibattito sulla nuova
legge elettorale, assieme ad altri dissidenti di centro, ostili alla politica economica del
Governo. Il governo cadde, questa volta definitivamente (2008). Nell’imminenza delle
elezioni, Gianfranco Fini ricucì con Berlusconi, negoziando l’ingresso di AN nel PDL in
vista della successione al Cavaliere nella leadership del nuovo soggetto politico. L’UDC di
Pierferdinando Casini, a cui Berlusconi e Fini non concessero l’apparentamento col proprio
simbolo, rimase fuori.
IL TRAMONTO DEL BERLUSCONISMO (2008-2012)
Le elezioni del 2008 furono giocate essenzialmente tra PDL e PD; nonostante si votasse
ancora con la legge del 2006, la maggioranza per il PDL, apparentato con la Lega, fu
schiacciante. Il PD, alleato all’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, l’ex-magistrato simbolo
di Mani Pulite da tempo in politica, tenne i suoi voti storici. Il terzo ritorno di Berlusconi
segnò il passaggio dal bipolarismo al bipartitismo. Il Parlamento vide escluse le Sinistre
Radicali, la Destra e il PSI. L’UDC entrò. Per la prima volta, nel Parlamento non ci furono
forze di ascendenza totalitaria. Napolitano conferì a Berlusconi l’incarico di formare il
suo IV Governo (2008). Tuttavia l’esecutivo, nato sulla scorta di promesse elettorali di
benessere, si dovette confrontare con la Grande Recessione, una emergenza politica ed
economica per cui Berlusconi riuscì a fare assai poco. Molte misure hanno suscitato
malcontento. Controverse sono state la politica sull’immigrazione e quella estera. Il progetto
di riforma federalista ha suscitato perplessità e opposizione. I problemi giudiziari di
Berlusconi hanno monopolizzato il dibattito politico. Essi hanno assunto un carattere
particolarmente imbarazzante per gli scandali sessuali in cui si è trovato invischiato.
Numerose sono state le lotte intestine tra la Lega e il ministro dell'Economia Giulio
Tremonti da un lato e i quadri del PDL dall'altro. In seguito a ciò, Berlusconi ha espulso dal
PDL Gianfranco Fini (2010), il quale, con i parlamentari a lui fedeli, ha costituito il
movimento di Futuro e Libertà per l'Italia, per una destra europea e riformatrice. Il
Governo, per sopravvivere, ha cercato consensi tra i parlamentari dell'opposizione, alcuni
dei quali hanno accettato di passare dalla sua parte. Infine, essendo divenuta ingestibile la
crisi economica, alla vigilia di un voto parlamentare di sfiducia per lui, Berlusconi si è
dimesso (novembre 2011). Il presidente Napolitano ha allora incaricato Mario Monti,
insigne figura di economista, di formare un governo di emergenza, tecnico, sostenuto da
un'ampia maggioranza parlamentare (PDL, PD e Terzo Polo, costituito da UDC, FLI e Api,
il nuovo movimento di Rutelli). Il Governo ha preso drastiche misure per incrementare le
entrate, ma non ancora pone mano agli sprechi della pubblica spesa. La crisi economica si è
146
allargata mentre il quadro politico appare ancora confuso, con gli scandali che hanno
travolto anche il padre-padrone della Lega, Umberto Bossi, costringendolo alle dimissioni.
Recatisi infine alle urne gli Italiani nel febbraio 2013 con un leggero anticipo rispetto alla
fine della legislatura – avendo il PDL manifestato una certa insofferenza per il Governo
tecnico- il quadro politico che ne è emerso è risultato estremamente difficile. E’ innanzitutto
emerso il Movimento Cinque Stelle, forza apartitica, antieuropeista, anticapitalista e
tendenzialmente antisistemica, strutturata essenzialmente sulla rete internet e sotto la
leadership dell’attore Beppe Grillo e dell’imprenditore Gianroberto Casaleggio. Esso ha
dichiarato di essere indisponibile alla collaborazione con le altre forze politiche considerate
responsabili dello sfascio dell’Italia. Le altre forze politiche non potevano governare se non
accordandosi, secondo la formula delle Larghe Intese, patrocinata da Giorgio Napolitano,
rieletto Presidente della Repubblica per uscire da una situazione di stallo conseguente alle
faide interne del PD (2013-2015). A guidare l’esecutivo fu chiamato Enrico Letta (20132014). Il suo sforzo maggiore fu quello di tenere insieme il suo partito e il PDL.
L’esperienza di governo subì una drastica battuta d’arresto quando Berlusconi, condannato
in via definitiva, fu espulso a maggioranza dal Senato in ottemperanza alle nuove leggi
anticorruzione. Di lì a poco il PDL ritirò il sostegno alla maggioranza, con l’eccezione di
una piccola frangia che costituì il partito del Nuovo Centro Destra, proprio allo scopo di
permettere la prosecuzione dell’esperienza del Governo di emergenza.
La mina che però deflagrò sul percorso del Governo fu innescata da Matteo Renzi, nuovo
segretario del PD e rampante esponente di una fazione del partito desiderosa di
impossessarsene. Lo scopo del neosegretario era andare alle urne, ma il Presidente della
Repubblica, temendo il trionfo delle forze antisistema (ossia il M5S e la Lega Nord in nuova
impetuosa ascesa sotto il segretario Matteo Salvini) e la permanenza dell’Italia nella UE,
favorì l’apertura di una crisi di governo, terminata con la formazione di un nuovo esecutivo,
con la medesima maggioranza, presieduto dallo stesso Renzi (2014 -). Questi ha intrapreso
una intensa e controversa politica riformatrice, fondata su numerosi colpi di forza in
Parlamento e sulla rottura delle strategie tradizionali del Partito Democratico
147
INTERVISTA A …………
148
ENRICO BERLINGUER
a cura di Arianna Tricarico e Ilenia Savino
Fig.38
Biografia
Enrico Berlinguer nacque il 25 maggio 1922 a Sassari e mori l’11 giugno 1984 a Padova.
Egli fu un politico italiano, segretario del Partito Comunista Italiano a partire dal 1972 fino
alla morte e principale esponente dell’Eurocomunismo. Sposò Letizia Laurenti ed ebbe tre
figli.
On. Berlinguer quale ruolo lei svolse nella politica italiana degli anni ’70- 80?
Svolsi un ruolo molto importante. Il centrosinistra della DC e del PSI, concepito proprio
per isolare il PCI, alla fine degli anni sessanta era alle corde e i governi appesi a
maggioranze assai esili. Esse avrebbero avuto bisogno dell’apporto del PCI, ma contro di
esso vi era la pregiudiziale della non democraticità. Per superarla io proposi da un lato una
strategia di progressivo avvicinamento alla DC e dall’altro un graduale superamento della
teoria e della prassi del bolscevismo. Proposi una formula denominata Eurocomunismo, che
voleva adattare il pensiero di Marx e di Lenin, sulla scia dell’insegnamento di Gramsci, alla
situazione dell’Europa Occidentale. Questo programma prevedeva che il PCI prendesse il
potere ed esercitasse una funzione di guida nei confronti degli altri partiti senza però
sopprimerli; prevedeva inoltre la conservazione delle libertà tipiche delle democrazie
occidentali e della collocazione dell’Italia nella CEE e nella NATO. Questo programma fu
condiviso anche dai partiti comunisti francese e spagnolo. In questo contesto nacquero il
compromesso storico e i governi della solidarietà nazionale (1976-1979), che molto
contribuirono alla ripresa economica del paese. La morte di Moro e l’opposizione
dell’elettorato di sinistra e di alcuni quadri del mio partito alla mia politica fecero si che, a
partire dal 1979, io ritornassi ad una linea di opposizione presentando il PCI come
alternativo alla DC e ai suoi alleati. In questa seconda fase della mia politica ritornai ad una
maggiore fedeltà all’ortodossia comunista.
149
Cosa era per lei il compromesso storico?
L’espressione la coniai io stesso e riprendeva la collaborazione che tutti i partiti della
Resistenza avevano sperimentato durante la fase costituente. In virtù di questo
compromesso il riformismo comunista e quello cattolico dovevano incontrarsi in una
stagione di governo la cui tempistica io lasciai dettare a Moro ma che in ogni caso doveva
condurre il PCI a una piena partecipazione al potere, dapprima con la DC e poi anche da
solo.
Come fu il suo rapporto con l’Unione Sovietica?
Aspro e battagliato, anche se non sempre si vedeva. Quando Breznev si accorse che volevo
dar vita all’Eurocomunismo non solo mi censurò ma addirittura tentò di farmi uccidere in
Bulgaria nel 1973. La rottura tra me e Mosca ci fu ma non fu mai totale, in quanto vasti
settori del mio partito e della sinistra italiana le rimasero legate. Infatti in Italia vi erano 231
agenti del KGB e 10000 informatori sovietici, per cui la mia libertà di iniziativa politica era
limitata. I miei ultimi anni segnarono un riavvicinamento al leninismo anche se non rinnegai
mai i principi eurocomunisti. Diciamo che io non ebbi mai la forza politica di imporre al
mio partito un pieno distacco dall’URSS.
Quale fu il suo rapporto con Moro e gli altri esponenti del DC?
Da buon sardo come mio cugino Francesco Cossiga io mi fidavo prima delle persone e dopo
dei partiti. Di Moro io ebbi sempre fiducia in quanto entrambi dovevamo rendere accettabile
ai nostri elettori un’alleanza per certi aspetti innaturale. Con Andreotti non ci fu mai
confidenza ma solo collaborazione finalizzata ad obbiettivi pratici. In genere tra noi e loro
c’era l’ombra di un’ambiguità irrisolta: loro volevano che noi diventassimo
socialdemocratici, noi che loro accettassero le coordinate politiche dell’Eurocomunismo. La
fine dell’esperienza comune di governo impedì ad entrambi i partiti di vedere da che parte
sarebbe andata la trasformazione politica.
Bibliografia
I.Montanelli, L’Italia degli Anni di Piombo, Milano 1991.
ID., L’Italia degli Anni di fango, Milano 1993.
150
GIULIO ANDREOTTI
a cura di Morena Vidone e Michela Petracca
Fig.39
Biografia
Andreotti, Giulio. - Uomo politico italiano (Roma 1919 - ivi 2013). Tra i fondatori
della Democrazia cristiana, è stato una delle personalità di maggior spicco della vita
pubblica in Italia nella seconda metà del Novecento, con la sua ininterrotta presenza ai
vertici della politica per oltre un quarantennio: deputato dal 1948, ventidue volte ministro in
altrettanti governi, sette volte presidente del Consiglio, (1972-73; 1976-79; 1989-1992),
senatore a vita.
Come mai la carica come Presidente del Consiglio ottenuta nel 1972 durò solo nove
giorni? E per quale motivo ha riottenuto l’incarico nel 1976?
Nel 1972 io fui messo alla guida di un monocolore che doveva essere sfiduciato in
parlamento onde condurre alle elezioni anticipate. Fui scelto io che rappresentavo la destra
del partito per segnare la discontinuità con i precedenti governi retti da Rumor e sostenuti
dal centrosinistra. Avendo la DC vinto le elezioni, io fui reincaricato di formare un governo
sostenuto da DC, PLI, PSDI (1973). Chiusasi quell’esperienza per l’opposizione delle
sinistre sia del mio partito che al di fuori di esso, io cedetti il passo ad altre coalizioni
politiche. Fu Moro, nel 1976, sempre nella stessa legislatura, che pensò a me per presiedere
i governi prima con la non-sfiducia e poi con l’appoggio esterno del PCI. Lo fece perché io
ero abbastanza conservatore da non essere considerato cedevole nei confronti dei comunisti.
Dopo l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli lei è
stato assolto al processo per “non aver commesso il fatto”. Ma come mai Pecorelli
avrebbe avuto un qualche interesse nell’accusarla?
Il presunto movente sarebbe stata l’imminente pubblicazione di un numero della rivista
diretta da Pecorelli, Osservatorio Politico, contenente la rivelazione di un giro di assegni per
tangenti alla mia corrente politica e alla mia persona. Nel corso dell’inchiesta emerse anche
l’ipotesi che il giornalista avesse conservato assieme al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
le parti rimaste inedite del Memoriale dettato da Moro alle Brigate Rosse durante la sua
151
prigionia. Proprio per eliminare coloro che avevano letto quegli imbarazzanti segreti,
secondo l’accusa io avrei ordinato la loro morte. In realtà io sono stato assolto e c’erano
moltissime altre persone che avrebbero potuto volere la morte di Pecorelli, che aveva
pestato i piedi a tanti. Inoltre, visto che la pubblicazione del numero contenente le
rivelazioni sulle tangenti era imminente (nonostante molti miei collaboratori avessero
avvicinato Pecorelli per offrirgli denaro), io non avrei mai commesso l’errore di ordinare
un omicidio di cui subito sarei stato accusato. In quanto poi al legame tra Pecorelli, Dalla
Chiesa e il Memoriale Moro, anch’esso non è stato mai dimostrato per cui non è stato
possibile accusarmi di nulla.
Senatore Andreotti, un testimone oculare afferma di averla vista mentre baciava Totò
Riina. Questo è rimasto il simbolo indelebile del suo rapporto con la mafia. Come
intende contestare queste accuse?
Com’è noto, io sono stato riconosciuto innocente di quanto contestatomi dopo il 1981,
perciò non ho mai baciato Riina. Anteriormente a quella data mi sono stati attribuiti reati
che però risultavano prescritti. Premesso che io ho sempre negato anche questi reati, a
questo proposito faccio notare che io sono stato assolto completamente in primo grado e
prescritto fino all’81 in secondo grado con una sentenza confermata in Cassazione in quanto
la suprema corte non ravvisava in essa quei vizi di forma che soli avrebbero potuto farla
annullare. I reati prescritti sarebbero due incontri con il boss Stefano Bontate, dei quali però
le circostanze erano talmente nebulose che io non potevo difendermi in modo netto. Il
secondo, a cui aveva assistito il pentito che lo raccontava (Francesco Marino Mannoia) era
senza data nel 1980, per cui non potevo dimostrare di essere stato altrove; il primo, riferito
da lui per sentito dire, era datato in un giorno del 1979 in cui avevo un impegno pubblico.
Di quest’ultimo i giudici di primo grado ritennero che non fosse mai accaduto, quelli di
secondo invece accettarono la proposta di modifica di collocazione temporale fatta dai PM
per cui il mio alibi veniva meno. Per il resto si sosteneva che dal 1969 al 1981 io avrei fatto
credere alla mafia di essere disponibile ad aiutarla anche se non avrei fatto nulla, sia perché
nulla mi fu chiesto sia perché all’occorrenza non mi sarei prestato. Ora appare un po’
difficile che in dodici anni nulla mi potesse esser chiesto o che io pensassi di correre il
rischio di ingannare la mafia. Tuttavia le accuse si basavano sul fatto che proprio dal 1969
era entrato nella mia corrente un uomo politico siciliano considerato vicino alla mafia, Salvo
Lima. E questo mi permette di spiegare quale fu il rapporto tra me e la mafia. Esso fu
identico a quello che tutti i politici italiani ebbero con essa fino agli anni ’80; lo Stato e
Cosa Nostra erano due rette parallele che non si incontravano mai. La mafia non era
percepita come una minaccia primaria e quando lo divenne tutti noi politici faticammo ad
entrare in un’ottica conseguente, anche per non perdere le posizioni di potere derivanti
dall’elettorato siciliano. È tuttavia un dato di fatto che fu il mio settimo governo a varare le
leggi più dure contro la mafia, ancora in vigore. Forse proprio in conseguenza di ciò Lima
fu ucciso da Cosa Nostra senza mai essere processato, per cui io l’ho sempre difeso. Tra
l’altro proprio quell’omicidio mi impedì di diventare Presidente della Repubblica. In genere
l’ambiguità da me coltivata nella mia lunga carriera e la vicinanza a persone sicuramente
vicine alla mafia (come Michele Sindona) hanno fatto si che nascesse quel sospetto di
criminalità attorno a me e che poi mi portò sotto processo. Personalmente credo di essere
stato vittima di una congiura politica italiana e straniera, ma attualmente non sono ancora
emerse le prove.
152
“Ho la coscienza di essere di statura media, ma se mi giro attorno non vedo giganti”.
Questa è una delle sue grandi citazioni. Vuole attaccare qualcuno in modo particolare?
Sicuramente il mio più grande avversario politico fu Fanfani, del quale non ho mai
condiviso l’attivismo né accettato l’autoritarismo. Ho riconosciuto la genialità di Moro ma
non ne ho mai condiviso pienamente i progetti, sebbene li abbia applicati fedelmente. Ho
rintuzzato la presunzione di Craxi, pur stringendo dopo con lui una forte alleanza politica.
Ho guardato sempre con molto sospetto ai due piccoli re della cosiddetta Seconda
Repubblica, Berlusconi e Prodi. In genere mi sono sempre considerato il rappresentante del
sano ceto medio, contro ogni preteso gigante politico, sia fisico che partitico.
Sappiamo che lei ha avuto rapporti stretti con il Vaticano e che ha conosciuto ben sette
papi. Questo ha influenzato molto le sue scelte sia nella vita privata che in quella
politica?
Conobbi da bambino Pio XI, ma come fucino ebbi strette relazioni con Pio XII, al quale fui
sempre devotissimo e col quale coltivai strettissime relazioni, anche mediando tra lui e De
Gasperi in occasione di gravi contrasti. Proprio per fedeltà a Pio XII e a De Gasperi mi
opposi al centrosinistra; quando però Giovanni XXIII e Paolo VI lo autorizzarono, vi aderii
ma in modo critico. Negli anni di Paolo VI io fui molto vicino alla Chiesa in preda a diversi
problemi economici e politici. Con Giovanni Paolo II io collaborai per la soluzione di
analoghi problemi e in genere promuovendo una politica estera vicina a quella del Vaticano.
Anche durante il mio processo mantenni ottime entrature in Vaticano e Giovanni Paolo II
ebbe per me espressioni pubbliche di stima e sostegno. In genere io sono stato il referente
politico privilegiato della Santa Sede in Italia. La mia politica ha sempre riflettuto quella del
Vaticano e mi hanno chiamato il “Cardinale Esterno”. Anche a Roma e nel Lazio, che
furono sempre un mio feudo politico, ho tenuto presente gli interessi della Chiesa. La mia
politica, poco ideologica e molto pratica, ha fatto si che io fossi il referente anche di
Comunione e Liberazione (CL). In quanto alla mia vita privata io sono sempre stato un
devoto osservante, andando a messa tutti i giorni e vivendo in osmosi col mondo
ecclesiastico.
Bibliografia
I.Montanelli, L’Italia della Repubblica, Milano 1985.
ID., L’Italia del Miracolo, Milano 1987.
ID., L’Italia dei Due Giovanni, Milano 1989.
ID., L’Italia degli anni di piombo, Milano 1989.
ID., L’Italia degli anni di fango, Milano 1993.
M. Franco, Andreotti, Milano 2008.
AA.VV., Giulio Andreotti. L’uomo il cattolico lo statista, Soveria Mannelli 2010.
Avviso di garanzia della Procura di Palermo, 1993.
Sentenza del Tribunale di Primo Grado di Palermo, 1999
Sentenza del Tribunale di Secondo Grado di Palermo, 2003
Sentenza della Corte di Cassazione (processo di Palermo), 2004
Sentenza della Corte di Cassazione (processo di Perugia), 2003
G.Andreotti, Cosa Loro. Mai visti da vicino, Milano 1995
ID., Io e la mafia, Vibo Valentia 1995.
153
PAOLO VI
a cura di Gennaro Calvo e Dorotea Iannitti
Fig.40
Biografia
Nato a Concesio (Br) il 26 settembre 1897, si chiamava Giovanni Battista Enrico Antonio
Maria Montini. Ordinato sacerdote nel 1920, intraprese la carriera diplomatica. Fu
segretario di Nunziatura in Polonia (1923), assistente spirituale della FUCI (1925), sostituto
alla segreteria di Stato (1937), pro segretario di Stato di Pio XII (1952), Arcivescovo di
Milano (1954) e cardinale (1958). Fu eletto papa il 21 giugno1963. Concluse il Concilio
Vaticano II (1965) e fu il più grande riformatore interno della storia della Chiesa. Morì il 6
agosto 1978. Papa Francesco lo ha beatificato nel 2015.
Cosa l’ha spinta a concepire la Ostpolitik e perché.
Io appartenevo ad una generazione di politici ed intellettuali che ritenevano il comunismo
come un fatto politico e un dato culturale irreversibili o quanto meno destinati a durare per
moltissimo tempo. Perciò ho sviluppato una iniziativa del mio predecessore Giovanni XXIII
e ho annodato trattative continue con i regimi dei paesi dell’est allo scopo di rendere il meno
dura possibile la condizione dei cattolici e in generale per inaugurare una convivenza il più
possibile pacifica. Mi ha aiutato molto Agostino Casaroli, che fu poi segretario di stato di
Giovanni Paolo II. Quando io morii nel 1978 il comunismo sembrava in grande espansione
in occidente e in tutto il mondo. Nessuno immaginava che le sue basi fossero tanto fragili
nei paesi dell’Europa orientale e che un papa polacco potesse poi , assieme al suo popolo,
distruggere i regimi comunisti rendendo così improvvisamente inutile la mia Ostpolitik.
Vostra Santità, perché ha deciso di essere il primo a compiere viaggi internazionali
nell’età moderna?
Quando ho preso il nome Paolo l’ho fatto per imitare l’Apostolo delle Genti che ha portato
il vangelo a popoli lontani. Ho voluto essere il primo a viaggiare perché nel mondo di oggi è
inutile che il prete suoni la sua campana : deve tornare a farsi missionario. Su scala globale
154
il papato è chiamato a una testimonianza diretta e universale, adattandosi alle nuove
potenzialità dei mezzi di comunicazione e alla natura cattolica della Chiesa. Questo spunto è
stato ripreso e ampliato da Giovanni Paolo II e ancora oggi è uno dei pilastri del governo
pastorale dei miei successori.
Vostra Santità ha varato la riforma liturgica sulla scia del Vaticano II. Come ha
reagito alle critiche e come si è sentito rompendo con un così antico passato?
La traduzione in volgare dei riti liturgici fu il punto di arrivo di un movimento, detto
appunto liturgico, che voleva avvicinare la gente alla celebrazione. Perciò, andando anche
oltre le indicazioni del Concilio, io ordinai la traduzione integrale dei libri liturgici e la
celebrazione dei sacramenti e della messa in volgare. Le critiche mi hanno addolorato e
hanno causato lo scisma della Fraternità di San Pio X costituita dai seguaci di Marcel
Lefebvre. Tuttavia ritengo di aver operato bene; alcuni abusi andrebbero corretti per non far
perdere la sacralità al rito liturgico. Su questa scia si è mosso Benedetto XVI. Ma la
celebrazione della liturgia in volgare è un fatto irreversibile come l’uso del nuovo messale
che porta il mio nome. Accanto ad essi possono coesistere sia la celebrazione in latino sia
l’uso del messale antico, detto di San Pio V.
Perché ha scelto la via del dialogo con le altre confessioni religiose?
Per secoli la Chiesa non ha avuto concorrenti nei paesi cattolici e ha conosciuto solo ribelli
di cui è venuta facilmente a capo. A livello internazionale le religioni convivevano ciascuno
avendo il proprio spazio quando non confliggevano apertamente. Dopo l’illuminismo è
emersa l’idea che lo Stato dovesse essere neutrale in questioni religiose e che le varie
confessioni dovessero saper coesistere. Io ho fatto un passo ulteriore rispetto ai miei
predecessori che avevano già cristianizzato questi principi: ho iniziato dei rapporti stabili e
cordiali con tutte le religioni , sapendo che nel mondo moderno non esistono più zone di
appartenenza esclusiva dell’una o dell’altra fede. In questo modo la Chiesa conosce e si fa
conoscere, convive amorevolmente, prepara l’evangelizzazione e cristianizza il grande
ideale del dialogo.
In seguito al Concilio la Chiesa attraversò un periodo di crisi di contestazione interna.
Vi sentite responsabile dell’accaduto?
In effetti la grande libertà di dialogo concessa ai Padri conciliari ha contribuito a far credere
ai chierici e ai laici che ogni opinione fosse lecita e ogni contestazione possibile. C’è stato
sotto il mio pontificato un vuoto di potere perché io stesso forse ho mancato di energia ,
oscillando tra il riformismo e , alla fine del mio papato, lo spirito di restaurazione.
Vostra Santità, qual è stato il rapporto con la politica italiana?
Di osmosi, comprensione ed influenza reciproche. Mi hanno definito il papa democristiano
perché i principali leader politici cattolici italiani erano stati miei discepoli quando ero
assistente nazionale della FUCI. Io mi sforzai di comprendere le ragioni del centrosinistra e
addirittura del compromesso storico, sebbene non potessi farle mie fino in fondo. Sia perché
sono italiano, sia perché tenevo alla sicurezza della Santa Sede, sia perché pensavo (come
Moro) che il comunismo fosse un fatto politico irreversibile e che prima o poi si sarebbe
imposto anche in Italia, mi occupai sempre delle vicende politiche della Repubblica
accettando lo scivolamento a sinistra della DC. A questa esigenza sacrificai anche alcuni
155
interessi politici della Santa Sede e per bilanciare quello scivolamento all’occorrenza
appoggiai anche politici (cattolici e non) impegnati in progetti più conservatori.
Bibliografia
J.N.D.Kelly, Grande Dizionario Illustrato dei Papi, Casale Monferrato 1989
J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Milano 1967.
156
ALDO MORO
a cura di Annalisa Centonza e Nancy Bevilacqua
Fig..41
Biografia
Uomo politico (n. Maglie 1916 - m. Roma 1978). Tra i fondatori della Democrazia
cristiana e suo rappresentante alla Costituente, ne divenne segretario (1959). Fu più volte
ministro e come presidente del Consiglio guidò diversi governi di centro-sinistra (1963-68;
1975-76), promovendo (1974-76) la cosiddetta strategia dell'attenzione verso il Partito
comunista. Nel 1978 Moro fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse.
Presidente, nonostante l’ideologia politica della DC sia opposta a quella del PCI, per
quale motivo ha deciso di trovare un accordo con quest’ultimo?
Dopo la fase del centrosinistra la maggioranza parlamentare era al lumicino, perché il PSI
aveva visto diminuire progressivamente i suoi consensi. Perciò, nella legislatura iniziata nel
1973, ci rendemmo conto che, per avere delle maggioranze stabili, era necessario che la DC
si alleasse non solo con i suoi partner storici (PSDI, PSI, PRI) ma anche con il PCI. L’idea
del compromesso storico, come fu chiamato questo incontro tra i due partiti nemici, venne a
Berlinguer e io la feci mia. La situazione generale dell’Italia era molto grave, sia per la crisi
economica che per il terrorismo, per cui aveva senso una grande coalizione di tutti i partiti
della Resistenza (anche se il PLI si tirò fuori). Immaginai un percorso a tappe: la prima era
l’astensione del PCI per favorire la nascita di un governo monocolore democristiano; la
seconda era il voto favorevole di quel partito a un governo fatto nella stessa maniera; la
terza sarebbe stata l’ingresso di ministri comunisti e di altri partiti nell’esecutivo, ma non si
realizzò mai. In diversi discorsi pubblici io dichiarai che l’obiettivo finale era rendere il PCI
una forza democratica che si potesse alternare alla DC nel governo del Paese. In realtà
pensavo che la fase di collaborazione tra i due partiti sarebbe durata a lungo, per la lentezza
dello sviluppo democratico dei comunisti. Questi a loro volta miravano ad un obiettivo
157
diverso, ossia l’instaurazione dell’Eurocomunismo. Tuttavia sembra che, nel corso del
governo della solidarietà nazionale che essi sostenevano con il loro voto, Berlinguer
avrebbe avvicinato il suo partito alla socialdemocrazia, rendendo più praticabile il mio
progetto. La mia morte aprì tuttavia una crisi progettuale che pose fine all’intera strategia.
Quando sono cominciate le trattative con il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, lei
era sicuro che gli accordi sarebbero andati a buon fine?
Era un percorso obbligato per entrambi in quanto avevamo bisogno l’uno dell’altro, ma la
storia dei due partiti e gli umori del rispettivo elettorato nonché l’opposizione delle grandi
potenze non dava nessuna garanzia in merito.
L’accordo con Berlinguer che reazione ha suscitato fra i suoi “amici” di partito? Non
temeva una risposta ostile alla sua idea e una perdita di credibilità all’interno del
partito?
La maggior parte dei parlamentari democristiani erano ostili all’incontro con il PCI e si può
dire che io li abbia guidati per mano. La scelta di Andreotti alla guida dei governi di
solidarietà nazionale attutì in parte l’ostilità interna. Però la mia figura rimase sempre
controversa per i rischi connessi alle mie scelte politiche. Tuttavia ebbi cura di circondarmi
di collaboratori di cui mi fidavo, come per esempio Benigno Zaccagnini alla segreteria del
partito e lo stesso Andreotti.
E’ risaputo che il suo sequestro sia stato organizzato dalle Brigate Rosse. E’ sicuro che
i responsabili fossero loro ? Non crede che l’esito del rapimento sia dipeso da fattori
esterni al terrorismo?
Le BR mi rapirono con l’aiuto tecnico dei terroristi tedeschi della RAF, grazie alla
mediazione dell’ Hyperion, una sorta di centro di coordinamento del terrorismo rosso in
Europa occidentale con base a Parigi e in cui operavano anche italiani. Un supporto
all’impresa venne da Separat, la struttura terroristica internazionale di Vladimir Ilich
Sanchez, detto Carlos e ancora vivente, la cui base era in Ungheria e che cooperava con i
servizi segreti della DDR, della Cecoslovacchia e dell’URSS. Si può dedurre che il blocco
orientale guardasse con favore al mio rapimento per gli effetti devastanti che avrebbe avuto
sul PCI che si era avvicinato alla DC e allontanato da Mosca, ma anche perché sperava di
ricavare tramite le BR informazioni segrete sulla NATO. Posso quindi dire che il mio
rapimento e la mia morte furono opera dei terroristi ma che elementi esterni si intromisero
nella gestione di tutta la vicenda rendendola ingarbugliata e irresolubile. Si è detto che la
CIA o il KGB volessero la mia morte perché contrari, per motivi opposti, all’ingresso del
PCI nella maggioranza; se questo fosse stato vero io però sarei stato ucciso immediatamente
e non rapito, probabilmente dal 1976. Anche Israele aveva motivi di risentimento verso di
me a causa della mia politica filo palestinese e infatti diede aiuti alle BR, ma non vi è alcuna
prova del suo coinvolgimento nel mio sequestro.
Presidente Moro, lei era fiducioso nelle trattative per la sua liberazione? Che certezza
aveva che lo Stato fosse disponibile ad aiutarla? Cosa ne pensa dell’indisponibilità
dello Stato?
Io ovviamente speravo di essere liberato ma sapevo che era difficile. Quando cominciai a
scrivere le mie lettere (che le BR rendevano pubbliche a mia insaputa) ai vari esponenti
politici italiani, io chiesi che si trattasse la mia liberazione con i terroristi, esattamente come
158
essi chiedevano. Ciò era l’esatto contrario di quello che il governo aveva programmato di
fare con le BR, ossia combatterle. Perciò il PCI, temendo di essere scavalcato a sinistra,
pose il suo veto a ogni trattativa. La DC lo seguì, temendo a sua volta di perdere prestigio,
di causare una crisi di governo, di spaccarsi come partito e di consegnare la repubblica alla
guerra civile. Questi motivi, uniti alla strage della mia scorta (composta di cinque agenti) al
momento del mio rapimento, rendevano impossibile una trattativa per liberarmi. A
complicare la situazione furono due altri fattori. Il primo fu il fatto che io rivelai sotto
minaccia ai terroristi molti segreti di Stato. Le BR lo fecero sapere e dichiararono che sul
momento avrebbero mantenuto il segreto. Per questo motivo il governo temette che quelle
informazioni potessero essere usate per altri ricatti o vendute a potenze straniere (forse quei
russi a cui facevo riferimento nella mia risposta precedente). Da quel momento in poi per lo
Stato il ritrovamento del mio memoriale divenne più importante della mia stessa
liberazione. Il secondo fattore furono le inframmettenze di servizi stranieri che spingevano
la polizia italiana verso il luogo della mia detenzione probabilmente con la speranza di
costringere i terroristi a cedere loro il mio memoriale. Per questi due motivi le ricerche del
mio carcere ebbero rallentamenti. Quando poi la DC decise di rilasciare alcuni terroristi
malati così da togliere alle BR l’alibi morale della mia detenzione, queste ultime, portando
alle estreme conseguenze la loro logica fanatica e prima ancora che il governo potesse fare
quel passo, decisero di assassinarmi. Si è detto che qualcuno sapesse dove ero detenuto ma
che all’ultimo minuto decise di non liberarmi, per ragioni sconosciute. Di questo però non
abbiamo prove incontrovertibili. In ogni caso, sia se fossi stato liberato sia se fossi stato
ucciso durante una eventuale irruzione nel luogo della mia detenzione, ci sarebbe stata una
grave crisi politica. Nel primo caso avrei fatto di tutto per dare una lezione a DC e PCI che
non avevano voluto trattare per liberarmi. Nel secondo il governo avrebbe portato la
responsabilità della mia morte. Questo influì forse su un certo immobilismo nelle mie
ricerche. Sebbene io sia morto dopo qualche mese il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
riuscì a trovare il memoriale e a consegnarlo ad Andreotti. La sua versione completa sarebbe
stata resa nota, in modo misterioso, solo alla fine degli anni ’80.
Bibliografia
F. Imposimato - S. Provvisionato, Doveva morire, Milano 2014.
Id., Il caso Moro. I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, Roma 2013.
Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro: Relazione di maggioranza
I. Montanelli, L’Italia degli anni di piombo, Milano 2012.
159
LICIO GELLI
a cura di Alessandra Grimaldi e Matteo D’Avena
Fig.42
Biografia
(Pistoia 1919 – Arezzo 2015). Negli anni Trenta ha partecipato alla guerra di Spagna come
membro delle truppe inviate da B. Mussolini a sostegno di F. Franco. Tornato in Italia ha
lavorato presso il partito fascista di Pistoia e (dopo l’8 settembre 1943) ha aderito alla
Repubblica Sociale Italiana diventando un ufficiale di collegamento tra il governo fascista e
il Terzo Reich. Fino al termine del secondo conflitto mondiale Gelli ha militato
alternativamente nelle forze fasciste e in quelle di resistenza partigiana. In seguito ha
collaborato con le agenzie dell’intelligence britannica e americana sino a quando (a metà
degli anni Sessanta) si è iscritto alla massoneria nella loggia del Grande Oriente; circa un
anno più tardi è stato nominato maestro venerabile dell’associazione coperta Propaganda 2.
Nel maggio del 1981, nella villa di Gelli è stata scoperta una lista di appartenenti alla P2 che
ha generato uno dei più gravi scandali politici della storia della Repubblica italiana: negli
elenchi erano riportati i nomi di rappresentanti del governo, dei servizi segreti, delle forze
dell’ordine, nonché di magistrati, imprenditori, banchieri e giornalisti. Mossi da finalità
eversive, i membri dell’organizzazione avevano come obiettivo quello di assumere
occultamente il controllo dello Stato attraverso la creazione di un vero e proprio sistema
politico sotterraneo (parallelo a quello istituzionale). A metà degli anni Novanta Gelli è
stato condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna e per la bancarotta
fraudolenta del Banco Ambrosiano. Indagato per l’omicidio di R. Calvi (2005), nel 2008
Gelli è tornato a far parlare di sé: ha condotto una trasmissione su Odeon TV, Venerabile
Italia. Muore nel 2015.
Nel 1981, trovarono la lista di coloro che hanno aderito alla P2. Dove sono le altre
centinaia di nomi che mancavano all’appello?
160
La lista parziale fu trovata nel marzo 1981; quella completa la portai nell’aprile successivo a
Montevideo in Uruguay, dove provvidi a distruggerla, lasciando a memoria i nominativi. I
nomi conosciuti, dei quali però molti erano semplici aspiranti all’iniziazione o persone
decadute dalla Loggia, erano 963. I membri reali erano intorno a 1700.
Lei ha mai avuto rapporti col Vaticano? E per quanto riguarda i servizi segreti delle
due superpotenze, CIA e KGB?
Durante la Seconda Guerra Mondiale io ero al servizio della Repubblica di Salò ma presi
contatti prima con i partigiani comunisti supportati dal KGB e poi con l’OSS, il servizio
informazione delle forze Alleate. Ho mantenuto rapporti saltuari ma significativi con i
servizi orientali e relazioni più strette con quelli occidentali. Qualcuno ha immaginato che lo
stesso scandalo P2 sia stato da me orchestrato con dei servizi stranieri. Naturalmente non ho
nessuna intenzione di dirvi la verità. In quanto al Vaticano, negli anni di Paolo VI ci fu più
comprensione nei confronti della massoneria e io stesso conobbi il papa e il banchiere
Michele Sindona, al quale il Vaticano si affidò per diverse operazioni finanziarie,
apparteneva alla mia loggia. Anche sotto Giovanni Paolo II, nonostante la sua maggiore
severità dottrinale, il banchiere Roberto Calvi, anch’egli piduista, svolse un ruolo
importante nelle vicende finanziarie della Santa Sede. In generale io fui considerato un
paladino dell’Alleanza Atlantica dagli americani, dell’anticomunismo dal Vaticano e un
ottimo referente dai sovietici, per operazioni sconosciute anche alla mia stessa loggia.
Secondo Lei, alcuni parlamentari, tuttora, prendono spunto dai punti principali e dai
provvedimenti presi da Voi nel piano di Rinascita Democratica?
Secondo me si. Il piano di Rinascita Democratica non era un progetto eversivo ma un
programma di governo molto simile non solo a quello di Berlusconi, che pure fu membro
della P2, ma anche a quello del Centrosinistra di Prodi e a quello del premier Matteo Renzi.
Esso conteneva delle riforme normalissime simili a quelle fatte in altri stati occidentali, al
massimo un pochettino conservatrici.
Quali furono i rapporti con Carlo Alberto Dalla Chiesa?
Il generale chiese e ottenne di entrare nella mia loggia, anche se poi dichiarò di esservi
iscritto per infiltrarla. Lo fece probabilmente per coprirsi dallo scandalo. Io ebbi sempre
grande stima di lui e ho sostenuto che sia stato mandato in Sicilia a combattere contro la
mafia senza poteri dal governo proprio perché piduista, tanto che Cosa Nostra lo eliminò
facilmente.
“Io non ho mai fatto parte della P2. La P2 è una montatura: è stato uno scoop che ha
fatto la fortuna di Repubblica e dell’Espresso”. Cosa ne pensa di questa asserzione
fatta da Silvio Berlusconi?
Che la P2 sia stata enfatizzata nella sua presunta negatività è un fatto obiettivo legato alle
situazioni politiche degli anni dall’81 ad oggi. Del resto io stesso ho sempre favorito la
diffusione della leggenda della mia onnipotenza. Ma la frase di Berlusconi è senz’altro
tipica del personaggio che riduce o ingrandisce le vicende che lo vedono protagonista in
base al suo tornaconto. Le sue fortune dipendono dal suo talento ma le amicizie, comprese
quelle della P2, senz’altro l’hanno aiutato.
161
Bibliografia
A. A. Mola, Gelli e la P2, Foggia 2008
D. e P. De Villemarest, Le KGB au coeur du Vatican, Parigi 2011
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Indice
Sez. 1^ La prima guerra mondiale
Cap. 1° La grande guerra
1.L’antefatto
L’attentato di Sarajevo
Le cause del conflitto
La situazione dell’Italia
Il contesto culturale
2. Le vicende belliche
Il primo anno di guerra: 1914
Il secondo anno di guerra: 1915
Il terzo anno di guerra: 1916
Il quarto anno di guerra: 1917
Il quinto anno di guerra: 1918
Il genocidio armeno
3. L’Europa e il mondo dopo la grande guerra
I trattati di Versailles
4. Cronologia
Approfondimento: La battaglia di Caporetto
Approfondimento storiografico
Bibliografia essenziale
Apparato iconografico
Repertorio videografico
Filmografia della prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale nella letteratura europea
pag. 2
pag. 3
pag. 3
pag. 3
pag. 4
pag. 6
pag. 7
pag. 8
pag. 8
pag. 9
pag. 9
pag. 10
pag. 11
pag. 12
pag. 14
pag. 14
pag. 16
pag. 19
pag. 30
pag. 41
pag. 43
pag. 53
pag. 55
pag. 64
Sez.2^ Il secondo dopoguerra tra USA e URSS
Cap. 2° USA e URSS dalla fine della II guerra mondiale
alla caduta del muro di Berlino
La guerra fredda
La coesistenza pacifica
La distensione
La nuova guerra fredda
La nuova distensione
pag. 66
165
pag. 67
pag. 67
pag. 68
pag. 69
pag. 70
pag. 71
Cap. 3° Il mondo e gli USA nel III dopoguerra
Caratteri generali
Fase democratica (1993 – 2001)
Fase repubblicana (2001 – 2009)
Appendice
Le potenze europee
L’integrazione europea
Chiesa e papato nel mondo contemporaneo
Il movimento del 68
Israele e la questione palestinese
Il terzo mondo
La Cina e l’estremo oriente
La conquista dello spazio
Dossier. I grandi del Dopoguerra
Truman
Kruscev
Ho Chi Minh
Kennedy
Mao Zedong
Breznev
Nixon
Carter
Dayan
Reagan
Bush sr.
Gorbacev
Giovanni Paolo II
Bush jr.
Bin Laden
Putin
Sez. 3^ L’Italia repubblicana
Cap. 4° L’Italia nel II dopoguerra
Il centrismo
Il centrosinistra
Il compromesso storico
166
pag. 73
pag. 73
pag. 74
pag. 75
pag. 77
pag. 77
pag. 78
pag. 79
pag. 80
pag. 81
pag. 82
pag. 83
pag. 84
pag.85
pag. 86
pag. 88
pag. 92
pag. 97
pag. 103
pag. 105
pag. 108
pag. 110
pag. 112
pag. 114
pag. 117
pag. 120
pag. 123
pag. 127
pag. 129
pag. 131
pag. 134
pag. 135
pag. 136
pag. 137
pag. 138
Il pentapartito
Cap.5° L’Italia della seconda repubblica
Nascita e declino del 1° berlusconismo (1994-96)
Nascita e crisi dell’Ulivo (1996-2001)
La rivincita del berlusconismo (2001-2006)
Crisi e dissoluzione del sistema bipolare (2006-08)
Il tramonto del berlusconismo (2008-12)
Intervista a…
Berlinguer
Andreotti
Paolo VI
Moro
Gelli
pag. 139
pag. 142
pag. 142
pag. 143
pag. 144
pag. 145
pag. 146
pag. 148
pag. 149
pag. 151
pag. 154
pag. 157
pag. 160
Referenze fotografiche
pag. 162
Referenze delle locandine dei film
pag. 164
167