Le etiche della virtù

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Alessio Vaccari
Le etiche della virtù
La riflessione contemporanea
a partire da Hume
Le Lettere
INDICE
PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
9
CAPITOLO 1
SENTIMENTI MORALI E VIRTÙ. L’ETICA DI HUME . . . . . . . . .
» 21
1.1. Virtù e natura umana, p. 22; 1.2. L’epistemologia morale sentimentalista: la virtù è “oggetto di sentimento”,
p. 31; 1.3. I sentimenti morali e il punto di vista comune.
Un’etica dello spettatore morale?, p. 39; 1.3.1. Simpatia e
sentimenti morali, p. 40; 1.3.2. Il punto di vista comune,
p. 45; 1.4. Sentimenti morali e passioni: il carattere dell’agente virtuoso, p. 55; 1.5. Virtù, relazioni e la riflessione etica, p. 69; 1.6. Le virtù artificiali. Regole e doveri in una
prospettiva sentimentalista della virtù, p. 72; 1.6.1. La virtù della giustizia, p. 74.
Appendice: Virtù e senso morale in Hutcheson . . . . . . . . .
» 83
1. Senso morale e benevolenza in Hutcheson, p. 83;
2. Autonomia, senso pubblico e virtù, p. 92.
CAPITOLO 2
LA TEORIA KANTIANA DELLA VIRTÙ . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 107
2.1. La virtù come «fortitudo moralis», p. 109; 2.2. Carattere e carattere morale, p. 118; 2.3. Temperamento, responsabilità, sorte morale, p. 128.
CAPITOLO 3
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL . . . .
3.1. Il bene e la virtù, p. 135; 3.2. Il ruolo del carattere e della virtù nella morale e nella giustizia, p. 143; 3.3. Libertà e
sviluppo di sé, p. 155.
» 134
8
INDICE
CAPITOLO 4
L’ETICA PERFEZIONISTA DELLA VIRTÙ IN NIETZSCHE . . . . . .
p. 164
4.1. Una concezione elitista della morale?, p. 166; 4.2. Il
perfezionismo morale in Schopenhauer come educatore, p.
168; 4.3. “Diventa ciò che sei”. La concezione perfezionista
della virtù, p. 173.
CAPITOLO 5
HUME E L’ETICA CONTEMPORANEA DELLA VIRTÙ . . . . . . . .
» 192
5.1.1. Le critiche alle etiche del dovere, p. 192; 5.1.2. L’etica della virtù, p. 208; 5.1.3. Dall’etica della virtù alle etiche
della virtù, p. 217; 5.2. Carattere, legami, motivazione,
p. 222; 5.2.1. Le condizioni aristoteliche dell’agire virtuoso,
p. 225; 5.2.2. Carattere, desideri e motivi nella prospettiva
neokantiana, p. 232; 5.2.3. Simpatia e carattere nella prospettiva sentimentalista della virtù, p. 239; 5.3. La natura
della giustificazione morale, p. 257; 5.3.1. Il naturalismo
etico, p. 258; 5.3.2. La normatività nell’etica sentimentalista
della virtù, p. 265; 5.3.2.1. L’edonismo normativo, p. 266;
5.3.2.2. L’utilità sociale, p. 269; 5.3.2.3. Simpatia e riflessività, p. 272; 5.3.2.4. Una estensione del metodo riflessivo.
Genealogia e natura umana, p. 276.
BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 287
INDICE DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
INDICE DEI TEMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 313
» 317
3
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
La riflessione etica di John Stuart Mill presenta un ricco intreccio di linee filosofiche. In una prima fase gli studi su Mill hanno
illustrato i problemi suscitati dal programma di far coesistere
queste diverse linee in una teoria coerente e unitaria. Mill veniva
considerato un autore scisso fra la vocazione liberale, espressa
nella difesa dell’autonomia personale del saggio On Liberty, e il
progetto complessivo di ricostruire un’etica utilitarista a partire
da una teoria associazionista della mente1. Letture più recenti
hanno invece messo in luce ulteriori filoni2. Uno di questi si basa sul ruolo che il tema del carattere svolge nell’opera di Mill3. Ad
orientare l’attenzione in questa direzione hanno contribuito, da
una parte, la ricostruzione del ruolo che la cultura classica ha
avuto per Mill4 e, dall’altra, l’esame dell’influenza dell’empirismo e del romanticismo inglesi sulla sua formazione intellettuale
1 R. P. ANSCHUTZ, The Philosophy of J. S. Mill, Oxford, Clarendon Press, (1a ed.
1953), 1963.
2 Nuove letture hanno sottolineato, ad esempio, la coerenza complessiva del progetto filosofico di Mill. Si veda A. RYAN, The Philosophy of John Stuart Mill, Houndmills (Basingstoke), Palgrave Macmillan, (1a ed. 1970) 1987; J. SKORUPSKI, John Stuart
Mill, London, Routledge, 1989.
3 Si veda E. LECALDANO, L’utilitarismo delle virtù e l’esperienza dell’etica, in «Rivista di Filosofia», 99 (2008), pp. 553-576, in particolare p. 556; W. DONNER, Mill’s Moral and Political Philosophy (part i), in W. DONNER, R. FUMERTON, mill, Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 13-143.
4 N. URBINATI, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Roma-Bari, Laterza, 2006.
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
135
giovanile5. La rilettura di questo secondo filone permette di interpretare la teoria di Mill come un tentativo di sviluppare una concezione dell’etica capace di tenere insieme due diverse dottrine: la
realtà della sofferenza, l’impatto che essa ha sui nostri doveri di alleviarla e di promuovere la felicità, e una concezione della natura
umana che si sviluppa attorno alla nozione di carattere e di eccellenza. A partire da questi due temi, l’etica utilitarista di Mill è caratterizzata dall’intreccio di diversi piani che si sviluppano lungo
varie dimensioni del valore. Ciò che intendo sostenere è che la virtù segna l’intreccio fra questi diversi piani. Un carattere virtuoso è
un carattere che ha educato la propria sensibilità alla sofferenza delle altre persone: egli dà un’adesione interna alle regole della morale e il suo comportamento promuove la felicità generale. Tuttavia,
la dimensione etica della sua vita non si esaurisce nel rispetto dei
doveri e degli obblighi della morale. Un carattere virtuoso è anche
quello che ha coltivato il proprio intelletto, la propria immaginazione e le proprie relazioni affettive: egli ha scelto liberamente il
proprio piano di vita e trae da tutto ciò una felicità peculiare.
3.1. Il bene e la virtù
Per ricostruire il ruolo della virtù nell’etica di Mill è utile prendere avvio dalla sua discussione sulla felicità in Utilitarianism 6. Nel-
5 Sulla prima indagine, vedi E. LECALDANO, John Stuart Mill rivisitato: diritti e giustizia, in «Rivista di filosofia», 98 (2007), pp. 23-46. Sulla seconda vedi ad esempio N.
CAPALDI, John Stuart Mill: A Biography, Cambridge, Cambridge University Press,
2004; R. DEVIGNE, Reforming Liberalism. J. S. Mill’s Use of Ancient, Religious, Liberal
and Romantic Moralities, New Haven-London, Yale University Press, 2006; P. DONATELLI, Introduzione a Mill, Roma-Bari, Laterza, 2007.
6 Le citazioni che daremo nel testo da Utilitarianism fanno riferimento sia all’edizione inglese sia alla traduzione italiana. L’edizione originale inglese è Utilitarianism in
The Collected Works of John Stuart Mill, volume X, Essays on Ethics, Religion and Society, a cura di J. M. ROBSON, F. E. L. PRIESTLEY, D. P. DRYER, London-Toronto, Routledge, University of Toronto Press, 1969. Nel testo faremo riferimento a quest’edizione con la sigla CW seguita dal numero del volume e dall’indicazione della pagina. L’edizione italiana di riferimento è quella introdotta da Eugenio Lecaldano e tradotta da
Enrico Mistretta con il titolo L’utilitarismo, in J. S. MILL, La libertà, L’utilitarismo, L’as-
136
ALESSIO VACCARI
le parti iniziali, Mill enuncia il principio ultimo della sua filosofia
morale:
La dottrina che accetta l’utilità o il principio della massima felicità come fondamento della morale sostiene che le azioni sono moralmente
corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente
scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità7.
Per Mill, la regola utilitarista costituisce l’unico principio in base al
quale la condotta degli esseri umani può essere moralmente giustificata: si tratta di un criterio empirico che permette di distinguere
le azioni giuste da quelle sbagliate a partire dalle loro conseguenze
sul benessere degli esseri umani. Nell’utilitarismo di Mill, tuttavia,
il principio di utilità svolge una funzione più estesa di quella coinvolta nella giustificazione morale delle azioni. La felicità costituisce
il principio generale del bene, cioè di ciò che è desiderabile per gli
esseri umani8. Nel capitolo IV, Mill scrive:
Secondo la dottrina utilitarista, è desiderabile come fine la felicità e
nient’altro che la felicità, tutte le altre cose sono desiderabili soltanto
come mezzi per quel fine9.
Nel capitolo II, sulla nozione di felicità come principio del bene,
Mill afferma:
Per felicità, s’intende il piacere e l’assenza dal dolore; per infelicità il
dolore e la privazione di piacere. Per dare una visione chiara del parametro morale proposto da questa teoria, bisognerebbe però aggiungere molto di più: in particolare, quali cose rientrino nelle idee di dolore e di piacere, e fino a che punto la questione venga lasciata aperta. Ma queste spiegazioni supplementari non toccano la teoria della vi-
servimento delle donne, Milano, Rizzoli, 1999. Ci riferiremo a quest’edizione indicando il titolo in italiano dell’opera seguito dal numero della pagina.
7 CW X, p. 210; L’utilitarismo, p. 241.
8 Per una ricostruzione delle idee di Mill sulle varie dimensioni dell’“arte della vita” si veda A. FUCHS, Mill’s Theory of Morally Correct Action, in The Blackwell Guide
to Mill’s Utilitarianism, a cura di H. WEST, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 139-158.
9 CW X, p. 234; L’utilitarismo, p. 281.
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
137
ta su cui si fonda la teoria utilitarista della moralità: e cioè, che il piacere e la liberazione dal dolore siano le uniche cose desiderabili come
fini; e che tutte le cose desiderabili (che nello schema utilitarista sono
tante quante in tutti gli altri) sono desiderabili o per il piacere insito
in esse o come mezzo per promuovere il piacere e prevenire il dolore10.
L’indagine sulla felicità come principio del bene illumina un primo
importante livello nel quale la virtù si intreccia con la teoria utilitarista di Mill. Questa linea viene sviluppata in Utilitarianism a
partire da una reinterpretazione dell’edonismo di Jeremy Bentham.
Mill condivide la tesi che le uniche cose buone per gli esseri umani sono gli stati di coscienza piacevoli, ma prende poi le distanze da
Bentham rispetto al modo di intendere la natura di queste esperienze. Seguendo un’impostazione comune alla tradizione utilitaristica, Mill riteneva che la felicità e il bene non fossero nozioni
astratte. Esse erano strettamente legate alla nozione di essere umano, cioè alle qualità peculiari di coloro che ne fanno esperienza.
Convinzione di Mill era che Bentham aveva una immagine riduttiva dei tratti caratteristici degli esseri umani e ciò aveva inevitabilmente influito sulla sua concezione di ciò che poteva renderli felici. Mill espone queste considerazioni in un passaggio di Utilitarianism, dove richiama l’obiezione che l’utilitarismo sarebbe una dottrina «degna di porci». A questa critica, Mill risponde:
… l’accusa presuppone infatti che gli esseri umani non siano capaci di
altri piaceri se non quelli di cui son capaci i porci. […] I piaceri di una
bestia non soddisfano la concezione che della felicità hanno gli esseri
umani. Gli uomini hanno facoltà molto più elevate rispetto agli appetiti animali, e una volta che ne siano consapevoli vedono la felicità solo e soltanto in qualcosa che includa la gratificazione di quelle facoltà11.
L’edonismo di Bentham era vulnerabile all’obiezione poiché si fondava su una descrizione della natura umana a partire dalla quale la
quantità di piacere era l’unica caratteristica di cui si dovesse tener
conto per misurare la desiderabilità degli stati mentali piacevoli. In
10
11
CW X, p. 210; L’utilitarismo, p. 241.
CW X, pp. 210-211; L’utilitarismo, p. 242.
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ALESSIO VACCARI
Bentham questo aspetto aveva inoltre favorito la tendenza a considerare le componenti semplici dell’esperienza, cioè le singole sensazioni di piacere, l’oggetto principale della teoria del bene. Alla luce di una differente concezione di natura umana, incentrata sulla
nozione di qualità elevate, Mill modifica la teoria benthamiana del
bene lungo tre dimensioni ciascuna delle quali concorre a formare
una nuova nozione di felicità personale di cui la virtù è una componente essenziale.
La prima correzione esprime la tesi che per determinare il valore
di ciascuna esperienza piacevole non è sufficiente calcolare la quantità di piacere che ognuna di esse contiene ma occorre tenere conto
anche della qualità dell’esperienza, cioè del tipo di esperienza piacevole in gioco12. Il secondo elemento di novità riguarda invece la natura degli stati mentali desiderabili. Per Bentham si tratta di singole
esperienze piacevoli. Mill sostiene invece che gli stati di coscienza che
esprimono valore in modo esemplare sono esperienze complesse
12 Una delle obiezioni più persistenti alla teoria di Mill è che l’introduzione della
dimensione qualitativa nel criterio di misurazione del valore renderebbe incoerente la
sua concezione edonista. Secondo questa prospettiva una teoria è edonista solo se sostiene che la quantità del piacere è l’unica unità di misura del valore. Questa obiezione è stata formulata con grande chiarezza da Francis H. Bradley: «Se preferiamo un
piacere alto ad uno basso senza far riferimento alla quantità – allora vi è un fine totalmente nuovo oltre al principio che pone la misura nel surplus di piacere di tutte le creature sensibili», ID., Ethical Studies [2° edizione], Oxford, Oxford University Press,
1988, p. 119. Henry West ha ripreso recentemente questa critica e l’ha connessa a una
confutazione più articolata della nozione che Mill ha del piacere, vedi ID., An Introduction to Mill’s Utilitarian Ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, capitolo 2. Contro questa linea interpretativa, Wendy Donner ha sostenuto giustamente
che queste letture confondono due questioni distinte: 1) che cosa ha valore intrinseco? 2) Quali proprietà producono valore? Donner sostiene che la risposta alla prima
domanda lascia totalmente indeterminata la risposta alla seconda. Non c’è perciò alcuna contraddizione fra la tesi che gli stati mentali piacevoli sono le uniche cose che
hanno valore intrinseco e la tesi che la quantità e la qualità del piacere sono entrambe
proprietà che rendono buone, cioè desiderabili, le esperienze piacevoli, si veda ID., Mill’s Theory of Value, in The Blackwell Guide to Mill’s Utilitarianism cit., pp. 124-126. Seguendo questa stessa linea, Roger Crisp ha sottolineato alcune somiglianze fra la prospettiva di Mill e la teoria aristotelica della virtù: «Coloro che sono in grado di giudicare correttamente il valore delle esperienze non solo sono sensibili alle caratteristiche
salienti di quelle esperienze, cioè alla loro natura e intensità, ma sanno connettere a esse il valore che meritano», ID., Mill on Utilitarianism, London, Routledge, 1997, p. 39.
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
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prodotte dalle operazioni delle leggi psicologiche dell’associazione su
stati mentali più semplici. Il terzo aspetto interessa la procedura per
misurare il valore delle esperienze. Il metodo introdotto da Mill si basa sui giudizi espressi da “agenti competenti”. Si tratta, come vedremo, di una nozione centrale nell’etica di Mill che presuppone che i
giudizi morali qualificati siano quelli formulati da persone che si siano perfezionate moralmente e intellettualmente.
Il primo e il secondo aspetto esprimono congiuntamente la tesi che il tipo di esperienza piacevole è una caratteristica che rende
buona e desiderabile un’esperienza indipendentemente dall’intensità, cioè dalla quantità, del piacere che vi è coinvolto poiché giudici competenti la desiderano e la preferiscono ad esperienze di tipo differente cui è connessa una quantità di piacere maggiore o una
minore presenza di dolore. In Utilitarianism, Mill scrive:
Riconoscere che alcuni tipi di piacere siano più desiderabili e apprezzabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla
quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in
considerazione anche la qualità, oltre alla quantità13.
A proposito del collegamento fra la qualità dell’esperienza e l’opinione espressa da giudici competenti, Mill aggiunge
Se mi si chiede cosa intendo per differenza di qualità fra i piaceri, o che
cosa renda un piacere più apprezzabile di un altro solo in quanto piacere, a prescindere cioè dalla sua maggior quantità, non c’è che una risposta possibile. Fra due piaceri, il più desiderabile è quello cui va decisamente la preferenza di tutti o quasi tutti coloro che abbiano fatto
esperienza di entrambi, a prescindere da qualsiasi sentimento di obbligazione morale a preferirlo. Se coloro che hanno una conoscenza
qualificata di entrambi pongono uno dei due tanto al di sopra dell’altro, da preferirlo pur sapendo che a esso si accompagnerà una maggiore dose di insoddisfazione, e non accetterebbero mai in cambio l’altro piacere quale che fosse la sua quantità … si è giustificati allora ad
attribuire al godimento da essi prescelto una superiorità qualitativa,
13
CW X, p. 211; L’utilitarismo, p. 243.
140
ALESSIO VACCARI
che va tanto al di là dell’aspetto quantitativo da renderlo, al paragone,
di ben poco conto14.
Per spiegare la natura dei piaceri qualitativamente superiori, Mill
chiama in causa esplicitamente l’esercizio delle virtù morali e intellettuali:
Ora, è fuori discussione che, data un’eguale conoscenza di due tipi di vita, e data una eguale capacità di apprezzarli e di goderne, diamo la nostra preferenza più marcata a quello dei due che impegna le nostre facoltà più elevate. Ben poche creature umane acconsentirebbero a esser
tramutate in un animale inferiore, neanche se si promettesse loro di potersi concedere tutti i piaceri di quell’animale; nessun essere umano intelligente acconsentirebbe a diventare uno sciocco, nessuna persona
istruita vorrebbe essere un ignorante, nessuna persona dotata di sentimenti e di coscienza vorrebbe essere egoista e meschina, anche quando
fossero tutti convinti che è più soddisfatto lo sciocco, l’ottuso o il furfante
per ciò che ha, di quanto lo siano loro per ciò che a loro è toccato15.
La teoria del bene di Mill permette di classificare la felicità individuale non solo rispetto alla intensità del piacere ma anche a partire dal tipo di esperienza in gioco. In questa linea il tipo di esperienza che è considerato più desiderabile è quello che dipende dal
possesso e dall’esercizio delle nostre virtù morali e intellettuali16.
Nel capitolo IV di Utilitarianism, Mill approfondisce ulteriormente il tema del legame fra virtù e felicità mostrando come la sua
concezione edonistica del bene sia perfettamente in grado di dare
conto della natura disinteressata e non strumentale del desiderio
per la virtù. Nel corso di questa spiegazione, come vedremo, Mill
articola quello che abbiamo chiamato il secondo elemento di rottura rispetto all’edonismo di Bentham: per Mill ciò che è desiderabile e buono in modo paradigmatico non sono sensazioni sem-
14
15
16
Ibidem.
CW X, p. 211; L’utilitarismo, pp. 243-244.
Per una difesa di questa interpretazione si veda W. DONNER, The Liberal Self:
John Stuart Mill’s Moral and Political Philosophy, Ithaca, Cornell University Press,
1991; D. O. BRINK, Mill’s Deliberative Utilitarianism, in «Philosophy and Public Affairs», 21 (1992), pp. 67-103; R. CRISP, Mill on Utilitarianism cit.
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
141
plici di piacere ma piuttosto esperienze piacevoli complesse che
hanno origine dall’associazione di idee e sensazioni semplici17.
Le integrazioni del capitolo IV sono presentate da Mill come
una precisazione a un’obiezione intuizionista. Secondo questa posizione l’utilitarismo sarebbe una teoria inadeguata sia sotto il profilo esplicativo sia sotto quello normativo perché non sarebbe in
grado dare conto del nostro desiderio disinteressato per la virtù.
Non solo le persone desiderano la virtù come fine in sé e non come parte della propria felicità, ma l’amore disinteressato per la virtù è considerato da tutti un elemento fondamentale di che cosa significa vivere una vita morale. A questa obiezione, Mill risponde:
Questa opinione non si discosta minimamente dal principio di felicità. Gli ingredienti della felicità sono molto vari, ognuno è desiderabile in sé e non semplicemente quando va a ingrossare le fila di un aggregato. […] Secondo la dottrina utilitarista, anche se la virtù non è
per sua natura e in origine una parte del fine, è però capace di diventarlo; lo è diventata in coloro che la amano disinteressatamente: e costoro la desiderano e la coltivano amorevolmente, non come un mezzo per la felicità, ma come una parte della propria felicità18.
L’amore disinteressato per la virtù non è un sentimento originario.
Mill sostiene infatti che gli esseri umani desiderano inizialmente la
virtù per la sua capacità di proteggerli dal dolore e di procurargli
piacere. Tuttavia, sostiene Mill, attraverso i princìpi associativi,
questo motivo si trasforma gradualmente in un desiderio per la virtù come fine in sé. Per Mill, infatti, l’associazione era assimilabile ad
un processo quasi-chimico capace di creare unioni tanto forti fra
singoli elementi psicologici che le parti originarie finivano per fondersi nel nuovo stato mentale19. Nel System, egli scrive:
17 Per una discussione recente su questo elemento di diversità fra Bentham e Mill
si veda P. DONATELLI, Introduzione a Mill cit., pp. 97-98; W. DONNER, Mill’s Moral and
Political Philosophy cit., p. 18.
18 CW X, p. 235; L’utilitarismo, p. 283.
19 Su questo tema, vedi W. DONNER, Mill’s Moral and Political Philosophy cit., p.
18. Vedi anche C. GIUNTINI, La chimica della mente. Associazione delle idee e scienza
della natura umana da Locke a Spencer, Firenze, Le Lettere, 1995.
142
ALESSIO VACCARI
A volte, quando molte impressioni o idee operano assieme nella mente, ha luogo un processo che è simile per genere a una combinazione
chimica. Quando facciamo esperienza di impressioni che sono in congiunzione fra loro, e tale esperienza è ripetuta tanto frequentemente
che ciascuna impressione richiama in modo istantaneo e con facilità le
idee dell’intero gruppo, accade a volte che tali idee si fondano e “coesistano” l’una nell’altra, e appaiano non più come tante idee, ma diventino una soltanto20.
Come ha sostenuto recentemente Roger Crisp, uno degli aspetti più
importanti e peculiari della spiegazione genetica di Mill è che essa
si svolge interamente all’interno del quadro dell’edonismo psicologico. La trasformazione del desiderio strumentale per la virtù
nel desiderio di virtù come fine è infatti spiegato da Mill nei termini
del passaggio che si attua fra «desiderare la virtù perché è mezzo
per il piacere» e «desiderare la virtù perché è piacevole»21. Questa
distinzione è alla base della possibilità di distinguere, all’interno di
un quadro edonistico, fra una persona autenticamente virtuosa e
una persona che tratta la virtù in modo strumentale per fini egoistici. Cogliendo bene questo tema, John Skorupski ha scritto:
La persona generosa desidera fare doni perché prova piacere a farlo. È
proprio il piacere immotivato di dare piacere agli altri che lo rende generoso. Consideriamo ad esempio un padre che gioca con i suoi figli.
20 Faccio riferimento al System of Logic, Ratiocinative and Inductive, in The Collected Works of John Stuart Mill cit., volumi VII e VIII, a cura di J. M. ROBSON e con
introduzione di R. F. MCRAE, 1973. CW VIII, p. 853; trad. it. mia.
21 Si veda R. CRISP, Mill on Virtue as a Part of Happiness, «British Journal for the
History of Philosophy» 4 (1996), pp. 367-380. Crisp sostiene che per difendere questa scelta Mill sceglie una strada peculiare: quella di mostrare che l’edonismo psicologico non implica che tutte le nostre azioni siano sempre solo e soltanto mezzi per il nostro piacere, concepito come una sensazione che dipende dal conseguimento di oggetti
diversi dall’azione stessa. Al contrario, questa teoria è compatibile con la tesi che alcuni
comportamenti sono in se stessi piacevoli ed è proprio la previsione di questi piaceri
peculiari connessi a certe azioni che ci spinge a compierle. Mill declina questa dottrina classica all’interno della sua concezione edonistica della motivazione: l’agente virtuoso non è spinto dal desiderio di conseguire oggetti che sono distinti dall’azione, ma
dal desiderio per i piaceri che sono ad essa connaturati. Crisp sostiene che questa linea si sviluppa a partire dalle osservazioni critiche sulla filosofia di Bentham che Mill
svolge nei Remarks on Bentham’s Philosophy.
VIRTÙ, CARATTERE E FELICITÀ IN JOHN STUART MILL
143
Lo fa perché vuole farlo e, lo desidera, semplicemente perché gli piace. Donare è parte della felicità dell’uomo generoso. Giocare con i propri figli è parte della felicità del padre. Fanno queste cose perché danno loro gioia – ma non possiamo dire che lo fanno allo scopo di ottenere quel piacere o quella soddisfazione. Ciò significa rappresentare
il motivo alla base di quei comportamenti come un desiderio egoistico, e questo è esattamente quello che non accade22.
Skorupski afferra correttamente che il punto essenziale della teoria di Mill è che essere motivati dal pensiero che qualcosa è piacevole non significa agire in modo egoistico: al contrario, i piaceri della virtù sono la componente essenziale della motivazione delle persone virtuose, cioè quelle persone per le quali la virtù non è mezzo ma è parte della felicità.
La concezione edonistica del bene di Mill, costruita attorno al
principio associazionistico, è dunque perfettamente in grado di
dare conto del valore non strumentale che gli esseri umani attribuiscono alla virtù: la felicità individuale è costituita dall’esperienza piacevole di agire in modo virtuoso. Attraverso il linguaggio
dell’edonismo, Mill recupera dunque la tesi dell’etica classica, ripresa nel Settecento da Hume e poi fortemente osteggiata da Kant,
secondo la quale il possesso della virtù si manifesta nella spontaneità e immediatezza con cui rispondiamo alle caratteristiche delle situazioni moralmente rilevanti. La misura della virtù non è data dalla forza con cui si resiste all’influenza delle inclinazioni sensibili, ma dal vigore e dalla vitalità delle nostre passioni, il cui esercizio suscita quei piaceri peculiari che costituiscono una parte importante della nostra felicità.
3.2. Il ruolo del carattere e della virtù nella morale e nella giustizia
Come abbiamo accennato all’inizio del capitolo, l’utilitarismo di
Mill è una teoria che riguarda i fini e i principi generali della vita
buona. Nel capitolo IV del Sistema di logica, Mill illustra questo
22
J. SKORUPSKI, John Stuart Mill cit., p. 296.
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