C - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA: LA CONCEZIONE DELLA REALTÀ 2 3 - Democrito e il materialismo antico 4- Socrate/Platone: “La struttura del dialogo e il concetto” 5 – P. Hadot: “La figura di Socrate” 4 - Platone e l’idealismo antico 6 – K. Popper – Il Mondo 3 e il mondo delle idee di Platone 5 - Aristotele e il razionalismo antico 6 - Gli stoici e il vitalismo antico 3 - DEMOCRITO E IL MATERIALISMO ANTICO Materialismo, idealismo, razionalismo nella storia della filosofia L’intreccio delle due tradizioni: le caratteristiche degli atomi L’atomo come ipotesi razionale La visione della realtà: Il materialismo Il meccanicismo Il determinismo Caso e necessità Materialismo e inquietudini umane MATERIALISMO, IDEALISMO, RAZIONALISMO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA Il materialismo è nella filosofia antica legata, come abbiamo detto, all’opera di Democrito (sec. V a.C.), al quale, schematicamente, possiamo attribuire il merito di aver formulato i concetti e le tesi fondamentali della visione materialista della realtà, e di Epicuro (sec. III-IV a.C.), il cui merito essenziale è quello di aver coerentemente sviluppato una visione materialista dell’uomo. Democrito fu contemporaneo di Socrate, Platone e Aristotele giovane, cioè dei filosofi dell’antichità che maggiormente hanno influito sullo sviluppo del pensiero occidentale. Socrate, Platone, Aristotele si ricollegano alla tradizione aristocratico-sacerdotale e hanno elaborato le visioni idealista e razionalista, che incorporate Tradizione _________________________________ Socrate - _______________ ___________________ _________________ Filosofi ____________________________________ Democrito razionalismo ___________________ _______________________ visione materialistica visione materialistica della _____________ __________________ ______________________ I concetti della filosofia come frutto di: 1 - ____________________________________________________________________________ 2 - ____________________________________________________________________________ 79 nella filosofia cristiana domineranno incontrastate per molti secoli nel pensiero filosofico e scientifico. Democrito ed Epicuro, invece, si ricollegano ai filosofi della città e nella cultura ellenistica il materialismo, nella versione epicurea, rivaleggiò sia con le religioni tradizionali, per le quali rappresentava un fattore di profonda critica, sia con il cristianesimo, di cui rappresentava un’alternativa razionalistica e terrena. La sua Il materialismo come critica a ___________ scomparsa dall’orizzonte culturale occidentale fu dovuta all’avvento del ____________________ e alternativa al cristianesimo a religione di stato e alla conseguente cristianizzazione della cultura e quindi del modo di vedere il mondo. _________________________________ Le tesi materialiste sono riapparse nel dibattito filosofico solo in epoca moderna (sec. XVI), quando con la rivoluzione scientifica si è affermata una visione della natura che acquisiva le caratteristiche della visione della realtà elaborate da Democrito. L’INTRECCIO DELLE DUE TRADIZIONI: LE CARATTERISTICHE DEGLI ATOMI A Democrito dobbiamo la formulazione del concetto principale su cui ruota la concezione materialista, ovvero del concetto di atomo, e delle sue tesi fondamentali, ovvero il carattere originario della materia che precede ogni altro essere e ne è causa e la struttura atomica della materia stessa, tesi che sono compendiate nella sua affermazione “ I principi di tutte le cose sono gli atomi e il vuoto”. Il concetto di atomo rappresenta un ottimo esempio del frutto del dibattito filosofico e, comunque, dell’incontro/scontro tra tradizioni e quindi modi di vedere diversi, che ha il merito di diventare l’occasione per un approfondimento, un raffinamento un superamento delle incongruenze, delle “ingenuità” contenute nei rispettivi punti di vista. Infatti, il concetto di atomo viene introdotto da Democrito per dare una risposta alla domanda tipica dei filosofi della città, ovvero il principio costitutivo di tutte le cose, ma acquisisce alcune delle caratteristiche che deve avere un oggetto per essere razionale secondo i criteri stabiliti dai pensatori della tradizione aristocratico-sacerdotale. Infatti, gli atomi, che Democrito definisce come gli elementi indivisibili di materia sono, come l’essere di Parmenide, privi di qualsiasi proprietà sensibile, e quindi non visibili ai sensi ma solo alla ragione, eterni e immutabili. A queste caratteristiche Democrito aggiunge le condizioni minime, necessarie e sufficienti perché tale concetto potesse essere utilizzato, come volevano i filosofi della città, per spiegare la realtà sensibile caratterizzata dal divenire delle cose con la loro formazione, i mutamenti, la scomparsa delle cose. Tali caratteristiche vengono individuate nel fatto che gli atomo sono infiniti, di natura materiale con un’estensione minima e impercettibile, dotati di movimento. Accanto agli atomi, che sono pensati come entità fisiche costituite da materia Un concetto: _______________________ due tesi: 1 - ________________________________ ___________________________________ 2 - ________________________________ ___________________________________ L’atomo e il ______________________ _________________________________ Atomo = ___________________________ ___________________________________ L’ATOMO E IL __________________________________________ Atomo come _______________________________________________________________ _______________________________ Caratteristiche atomo: 1 ________________________________ 4 __________________________________________ 2 ________________________________ 5 __________________________________________ 3 ________________________________ 6 __________________________________________ come _________________________________ spiegare ________________________________ come i filosofi _________________________ 80 omogenea dotati di movimento, Democrito deve ammettere l’esistenza del vuoto Il _______________________ e il perché essi possano muoversi. Tutte le cose, dalla formazione dell’universo alla formazione dell’immagine di un ____________________ degli atomi oggetto nella nostra mente, sono il frutto dell’aggregazione di atomi che si verificano a causa degli urti che avvengono tra gli atomi nel loro movimento che, cose = __________________________ / allo stesso modo, sono causa della disaggregazione delle cose. ___________________________ di atomi La concezione atomistica è, secondo quanto afferma Epicuro, coerente con ciò che ci attesta l’esperienza, ovvero, innanzitutto, il fatto che nulla può nascere dal nulla e nulla può finire nel nulla altrimenti il tutto si sarebbe esaurito col tempo, e che la realtà è fatta di corpi e che questi corpi sono dotati di movimento. Constatazioni che giustificano la tesi sul carattere originario della materia. Inoltre, l’esperienza ci attesta il divenire delle cose (nascere, trasformarsi e perire) constatazione che a sua volta giustifica la teoria dell’aggregazione e disaggregazione degli atomi. L’ATOMO COME IPOTESI RAZIONALE MATERIALISMO E __________________________________ Epicuro il materialismo è __________________________________________________________________ in quanto: tesi 1: ____________________________________________________________________________________________________ dimostrato da: 1 _________________________________________________________________________________________ 2 _________________________________________________________________________________________ tesi 2: _________________________________________________________________________________________________________ dimostrata da: ___________________________________________________________________________________________________ L’atomo costituisce, dunque, un’ipotesi della ragione nel suo tentativo di rendere l’esperienza comprensibile, la sua esistenza non è il frutto di un’esperienza sensoriale in quanto gli oggetti che noi percepiamo non sono singoli atomi, bensì aggregazioni di atomi. Questo atteggiamento esclusivamente razionalista dà la misura, nonostante le notevoli somiglianze, della diversità tra la teoria atomistica di Democrito e la teoria atomistica della fisica moderna. Infatti, il modello atomistico della fisica moderna, pur rimanendo un modello teorico, quindi frutto di un ipotesi razionale, è basato su dati sperimentali. In sostanza, mentre per gli antichi era sufficiente che una teoria si accordasse con la realtà così come la sperimentiamo tutti i giorni, per la scienza moderna essa deve consentire di prevedere determinati comportamenti in determinate situazioni. Se le caratteristiche che Democrito attribuisce all’atomo sono un buon esempio del frutto del dibattito tra modi di vedere diversi, la loro descrizione e quella delle modalità di aggregazione costituiscono un altrettanto buon esempio di come esse siano legate al contesto storico-sociale in cui avviene la loro elaborazione. Infatti, per esemplificare le proprietà degli atomi e il loro comportamento Democrito ricorre, come riporta Aristotele, alle lettere e alla formazione delle parole. Tale ricorso avveniva nel momento in cui (V sec. a.C.) la scrittura alfabetica si stava diffondendo in tutti gli aspetti della vita sociale. Gli atomi sono, per Democrito, privi di qualità sensibili quali il colore, l’odore in quanto sono impercettibili. Le uniche caratteristiche che possiamo attribuire ad essi sono quelle necessarie per poter pensare ciascun atomo come distinto dagli altri. Si tratta di qualità di ordine geometrico e quantitativo: la forma, la grandezza, la posizione nello spazio. Democrito esemplifica tali qualità ricorrendo all’analogia con le lettere. Infatti, gli atomi, come le lettere, differiscono tra loro oltre che per grandezza, per forma, come A differisce da B, o per la posizione nello spazio, come N differisce da Z. L’atomo come _______________________ per spiegare ________________________ l’atomo di Democrito e _______________ __________________________________ Atomo di Democrito accordo con ________________________________ Atomo fisica moderna accordo con ________________________________ Atomi e ___________________________ La diffusione _______________________ _________________________________ 81 Allo stesso modo la formazione dei composti, delle diverse entità fisiche, è concepita in analogia con la formazione delle parole a partire dalle lettere. Due aggregati di atomo possono, come le parole, differire per grandezza e forma degli atomi che lo compongono, per il numero di atomi o per la posizione dei singoli atomi nell’aggregato (per le parole possiamo, ad esempio, pensare ai vocaboli Roma/Mora). ATOMI E ___________________________ 1 - _______________________degli atomi non qualità _______________________ ma qualità __________________________ gli atomi come le lettere differiscono per: 1 __________________________ come _________________ 2 __________________________ come _________________ 3 __________________________ come _________________ 2 - _______________________ degli atomi due ______________________ di atomi differiscono, come le _________________ per: 1 ___________________________________________________________________________________________ 2 ___________________________________________________________________________________________ 3 ___________________________________________________________________________________________ LA VISIONE DELLA REALTÀ: Utilizzando il concetto di atomo Democrito elabora una concezione della realtà che si caratterizza come materialista, meccanicista e determinista. Materialista perché ritiene che tutto ciò che esiste sia costituito da atomi di materia e quindi nella spiegazione delle cose occorra fa intervenire esclusivamente entità e forze fisiche, naturali, senza far ricorso ad alcunché di non riducibile ad esse. A questo proposito è significativo il rifiuto di Democrito di trovare una spiegazione al moto degli atomi ricorrendo a forze di carattere psicologico, come aveva fatto, ad esempio, Empedocle (V sec. a.C.) ipotizzando l’azione di due forze contrastanti Amore e Odio, o a una intelligenza superiore, come aveva fatto Anassagora (V sec a.C.). Democrito preferisce concepire il movimento come uno status naturale degli atomi, status che non necessita di altra causa, di spiegazione ma serve, invece, a spiegare la formazione degli aggregati di atomi, cioè dei corpi e delle loro proprietà. La visione della realtà di Democrito risulta inoltre meccanicista, in quanto identifica le leggi naturali nelle leggi meccaniche del moto. Gli atomi si muovono nel vuoto in ogni direzione, di un movimento che è originario, eterno, non ha principio o destinazione, non ha una ragione o uno scopo. In questo modo il loro moto può essere variato ma non distrutto, tendendosi a conservare indefinitamente, inoltre, non ha una finalità, non è diretto a costruire il cosmo, ma è fine a sé stesso. Le leggi regolanti il moto, e quindi la formazione dei mondi e delle cose, sono esclusivamente di carattere meccanico, dipendono dalla traiettoria, dalla velocità e dal punto d’incontro durante l’urto tra particelle elementari. 1 - IL MATERIALISMO perché _____________________________ ___________________________________ (atomi + ____________________________ __________________________) La spiegazione del _________ degli atomi: il rifiuto di __________________________ e di _____________________________ il moto come ________________________ 2 - IL MECCANICISMO perché _____________________________ ___________________________________ Le caratteristiche del moto degli atomi 82 LE CARATTERISTICHE DEL MOTO DEGLI ATOMI: 1- è _________________________________ 2 – è ____________________________ per cui: 3 – non _________________________________________________________________ 4 – è _____________________________ per cui: 5 - non ____________________________________________________________ 6 - _______________________________________________________________________ Moto regolato da leggi _________________________ per cui dipende da: 1 __________________________________________ 2 _____________________________________________ 3 ___________________________________________ Tale visione si oppone alle concezioni finaliste, tipiche dell’idealismo, che consistono nello spiegare la realtà mediante i concetti di fine, scopo poiché suppongono l’esistenza di un piano, di un progetto a cui obbedisce il comportamento delle cose. Ricercare una spiegazione finalista comporta chiedersi “a quale scopo, finalità, in vista di quale piano una certa cosa esiste o funziona in un certo modo?”. Ricercare una spiegazione meccanicista comporta, invece, la domanda “Quale causa o legge naturale comporta la formazione di una certa cosa o il suo funzionamento?”. Prospettiva questa, la seconda, che rappresenta sostanzialmente quella assunta dalla scienza moderna. Da ultimo, la visione della realtà di Democrito può essere caratterizzata come determinista. Infatti, dato un determinato stato del mondo, con una certa configurazione degli atomi, in base alle leggi che regolano il moto, a esso non può che seguirne un altro ben determinato stato casualmente collegato al primo. In questo modo tutti gli eventi sono interconnessi , non vi è alcun posto per accadimenti casuali, non determinati, liberi. Pur sottolineando il legame causale, l’interconnessione tra i fenomeni naturali, poiché non ritiene che il mondo sia stato prodotto obbedendo a un piano prestabilito, Democrito può affermare che: “Tutto ciò che esiste è il frutto del caso e della necessità”. In questo modo egli intende dire che nel mondo pur operando delle leggi naturali, che sono la causa di tutto ciò che succede, non esiste un piano, un progetto, una causa finale che imponga un ordine al divenire. Da questo punto di vista il risultato finale dell’aggregazione degli atomi, appare casuale, legato al caso. Possiamo sottolineare come anche questa prospettiva, sia pure evidentemente fondata su un sapere del tutto diverso, sia stata ripresa da una parte almeno della scienza moderna. Così, ad esempio, J. Monod, un biologo francese, premio Nobel, ha nel 1970 pubblicato un testo intitolato, significativamente, “Il caso e la necessità” in cui scrive che “… una volta inscritto nella struttura del DNA, l’avvenimento singolare (la mutazione genetica) e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasportato in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni. … In effetti, la selezione agisce sui prodotti del caso e non può alimentarsi altrimenti; essa opera però in un campo di necessità rigorose da cui il caso è bandito.” La prima di queste necessità è costituita dal fatto che “ogni novità sotto forma di alterazione di una struttura proteica, verrà innanzitutto saggiata riguardo la sua compatibilità con l’insieme di un sistema già assoggettato a innumerevoli vincoli che controllano l’esecuzione del progetto dell’organismo. Finalismo = esiste ____________________ ________________________________ per cui spiegare = ____________________ ___________________________________ Meccanicismo = no __________________ ___________________________________ per cui spiegare = ____________________ ___________________________________ 3 - IL DETERMINISMO perché:_____________________________ ___________________________________ Interconnessioni (legami ______________) e mancanza di _______________________ (_____________________________) CASO E NECESSITÀ In Democrito: caso = no ___________________________ necessità = _________________________ In Monod: caso = _____________________________ __________________________________ necessità = _________________________ ___________________________________ 83 Le sole mutazioni accettabili sono dunque quelle che perlomeno non riducono la coerenza dell’apparato teleonomico ( la teleonomia costituisce, per Monod, una delle caratteristiche essenziali degli esseri viventi in quanto “oggetti dotati di un progetto”) ma piuttosto lo rafforzano ulteriormente nell’orientamento già adottato oppure, certo molto più raramente, lo arricchiscono di nuove possibilità.”. Ed è proprio il fatto che la selezione operi necessariamente all’interno del progetto dell’individuo che fa si che “l’evoluzione stessa sembri realizzare un progetto”. MATERIALISMO E INQUIETUDINI Per attenuare il determinismo democriteo e introdurre all’interno della stessa teoria atomistica il concetto di casualità Epicuro promosse una modifica della teoria relativa al moto degli atomi. Secondo Epicuro occorre attribuire agli atomi, oltre alla caratteristiche che già gli aveva attribuito Democrito, anche un’altra qualità: il peso. Tale caratteristica deriva dalla tesi di origine aristotelica per cui un corpo privo di peso non è in grado di muoversi, essendo il movimento sempre provocato da una forza. L’attribuzione della qualità del peso agli atomi ha una ragione interna al pensiero epicureo; egli può, infatti, sostenere che il moto degli atomi è di tipo rettilineo e uniforme ed è determinato dal loro peso. Stando così le cose, per spiegare gli urti tra atomi che danno origine alle cose, Epicuro può introdurre nel movimento degli atomi la possibilità di una deviazione casuale dal moto rettilineo uniforme che provoca lo scontro e quindi l’aggregazione degli atomi. La deviazione casuale è l’unico evento naturale non sottoposto a necessità, non determinato a essere da qualcosa d’altro. Epicuro cerca in questo modo di attenuare il determinismo democriteo poiché vuole giustificare il comportamento umano come libero, non determinato anche se in realtà non è agevole conciliare la libertà con la casualità. Bisogna d’altronde sottolineare che Epicuro, come d’altra parte tutta la filosofia antica, quando discute fenomeni naturali non è mai interessato a una loro definitiva e precisa spiegazione, in quanto si limita a indicare possibili spiegazioni che risultino consone con la propria visione della realtà, in questo caso materialista e meccanicista. A Epicuro interessa solo dimostrare che di tutti i fenomeni naturali sono possibili spiegazioni meccaniche che risultano accettabili perchè non in contrasto con i fenomeni e non smentibili da altri fenomeni. Infatti, se è possibile una spiegazione materialista e meccanicista della natura allora diventa inutile sia supporre che le cose avvengano in vista di un fine prestabilito a cui il mondo e gli uomini devono assoggettarsi, alla maniera di Platone e Aristotele, sia supporre l’intervento di una divinità e di un piano provvidenziale che governa il mondo e gli uomini, come volevano le religioni tradizionali e gli stoici. Da questo punto di vista ad Epicureo il materialismo appare come la concezione in grado di inquietare meno gli uomini che non appaiono sottomessi a divinità, fini supremi o piani indipendenti dalla loro volontà. UMANE Epicuro e l’attenuazione del ___________ ______________________________: 1 le ________________ degli atomo: ____________________ 2 – ____________ __________________ il moto ___________________________ le _______________________________ e la _________________dell’___________ MATERIALISMO E INQUIETUDINI UMANE Se la visione materialista ______________________________________________________________ allora: no ___________________________ (_________________ e ____________________) no ______________________ ( ____________) no ____________________ (________________) __________________________________ = = no sottomissione ________________________________________ no __________________________ 84 4 - PLATONE / SOCRATE – LA STRUTTURA DEL DIALOGO E IL CONCETTO Il brano che segue, tratto dal dialogo Eutifrone, contiene un esempio del procedimento attraverso cui Socrate pone il problema di una definizione universale delle virtù. Interlocutore di Socrate è l'indovino Eutifrone. Socrate si sta recando in tribunale. Anche Eutifrone è coinvolto in un processo: egli ha, infatti, accusato il proprio padre, colpevole a suo parere, dell'omicidio di un contadino alle sue dipendenze che aveva lasciato morire di fame e di freddo incatenato in una fossa. Quest'ultimo aveva, infatti, ucciso un servo ed era stato messo in catene dal padre di Eutifrone, in attesa che un messo si recasse ad Atene per interrogare le autorità su come risolvere la questione. Prima del ritorno del messo tuttavia il contadino, dimenticato dal padre nella fossa, era morto. Eutifrone non ha dubbi che il padre sia colpevole e a tutti coloro che lo rimproverano di aver commesso un'azione empia, accusando il genitore, risponde che l'uccisore va incriminato. I suoi critici, afferma l'indovino, "non distinguono affatto che cosa è santo e che cosa è non santo". Egli invece ne ha chiara coscienza; proprio per questo può distinguersi dal volgo e non temere di commettere alcuna azione empia. Di fronte alla ostentata sicurezza di Eutifrone, Socrate, secondo la sua tipica modalità ironica, si offre di diventare suo scolaro: in tal modo, imparerà anch'egli che cosa è santo e potrà facilmente difendersi dall'accusa di empietà che Meleto gli ha rivolto. Ecco dunque il problema su cui viene a incentrarsi il dialogo: che cosa è il santo e che cosa è il suo contrario, il non santo, l'empio. Il brano si apre a questo punto del dialogo. Eutifrone fornisce una prima risposta al quesito: il santo consiste nel condannare chi ha commesso un'ingiustizia. Socrate non è tuttavia soddisfatto della risposta di Eutifrone che ha citato un singolo esempio di azione santa; il filosofo invece chiedeva qual è quella idea del santo per cui alcune azioni possono dirsi sante e altre no. La risposta di Eutifrone non può quindi essere considerata una definizione. A Socrate interessa quale sia l'essenza, l'idea, la forma del santo a cui tutti possono riferirsi come modello. Eutifrone fornisce allora una seconda risposta: "santo è ciò che è caro agli dei". Ma Socrate non è convinto neanche di questo secondo tentativo di definizione. Infatti, gli dei sono spesso tra loro in disaccordo proprio su quelle stesse cose su cui anche gli uomini litigano fra di loro. Le medesime cose sembreranno dunque ad alcuni dei giuste e ad altri ingiuste. Esse risulteranno così, stando alla definizione di Eutifrone, sante e non sante al contempo, il brano si ferma qui; nel prosieguo, Eutifrone tenterà una terza e poi una quarta definizione, ma inutilmente, alla fine, sconfitto, l'indovino abbandonerà la discussione. SOCRATE. O meraviglioso Eutifrone! Dunque per me il partito migliore è diventare tuo scolaro; e, prima che si discuta la causa che ho con Meleto, fare a costui appunto questa proposta, e dirgli così: che io come, già nel passato, feci sempre gran conto di conoscere le cose divine, cosi ora, poiché egli sostiene che in queste cose divine mi sono reso colpevole di introdurre con tanta leggerezza delle novità, ecco che ho voluto essere tuo scolaro; e gli direi: «Se tu, o Meleto, sei d'accordo con me che Eutifrone in questa materia è uomo sapiente, ebbene, devi giudicare che anch'io penso rettamente e non mi devi far causa; se invece non è così, allora, prima che a me, il processo lo devi fare a lui che è mio maestro, come a quello che corrompe non i giovani, ma i vecchi, me e il padre suo; me, in quanto m'istruisce, suo padre, in quanto pretende correggerlo e vuole che sia punito»; e se mi darà retta e desisterà dall'accusa, o non quereli te invece di me, allora questa stessa proposta che gli avevo fatto prima gliela ripeterò in tribunale. 5 10 85 EUTIFRONE. Davvero, o Socrate, che se venisse voglia a colui di sostenere una lite contro di me, saprei ben io, credo, trovare il suo punto debole, e tra noi due il conto da saldare in tribunale ricadrebbe molto prima sopra di lui che sopra di me. SOCR. Anch'io lo credo, caro amico; e appunto per questo ho gran desiderio di diventare tuo scolaro. Ora dunque dimmi che cos'è quello che or ora affermavi di conoscere così sicuramente: che cosa è che chiami il pio e che cosa l'empio, sia riguardo all'omicidio sia riguardo ad altre azioni. Non è il santo, come tale, identico sempre a se stesso in tutte le azioni? e non è a sua volta il non santo il contrario di tutto ciò che è santo, ma identico sempre anche questo, come tale, a se stesso; cosicché viene ad avere - tutto ciò, dico, che è per essere non santo - una sua forma unica relativamente alla sua non santità? EUTIFRONE Senza dubbio, o Socrate. SOCRATE Via dunque, che cosa dici che sono il santo e il non santo? EUTIFRONE Dico che il santo è quello che faccio ora io; se uno commette ingiustizia rendendosi colpevole o di omicidio o di sacrilegio o di altro reato simile, trascinarlo in giudizio, sia pure costui tuo padre o tua madre o chiunque altro; non trascinarlo in giudizio non è santo. E bada, Socrate, che io ho una grande riprova che la legge è così, che cioè non si deve concedere remissione alcuna a chi commette empietà, chiunque esso sia; come già ebbi a dire anche ad altri per provare appunto che solo operando in questo modo si opera rettamente. SOCRATE Ora vedi di dirmi più chiaro quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora accusando d'omicidio tuo padre. EUTIFRONE E dicevo la verità, o Socrate. SOCRATE Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. EUTIFRONE Molte altre, senza dubbio. SOCRATE Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensì di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un'idea unica le azioni non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi? EUTIFRONE Sì, mi ricordo. SOCRATE E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell'azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è. EUTIFRONE Se vuoi così, o Socrate, sta bene. Ti risponderò così. SOCRATE Bravo, proprio così voglio. EUTIFRONE Ecco qua dunque: ciò che è caro agli dei è santo, ciò che non è caro non è santo. SOCRATE Benissimo, o Eutifrone; proprio così io volevo tu mi rispondessi, così ora mi hai risposto. Se poi con verità, questo non so ancora; ma certissimamente saprai bene dimostrarmi tu che è vero quello che dici. EUTIFRONE Senza dubbio. SOCRATE O via, esaminiamo quello che stiamo dicendo. La cosa cara agli dei è santa, l'uomo caro agli dei è santo; la cosa in odio agli dei non è santa, l'uomo in odio agli dei non è santo. Non sono la stessa cosa il santo e il non santo, ma anzi, tutto l'opposto l'uno dell'altro: non è così? EUTIFRONE Proprio così. SOCRATE Ed è stato detto bene. Ti pare? EUTIFRONE Mi pare, o Socrate. SOCRATE E che gli dei sono in lite fra loro, e che ci sono tra loro dissensi e inimicizie degli uni contro gli altri, non è stato detto anche questo, o Eutifrone? 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 86 EUTIFRONE Sì, è stato detto. SOCRATE E dimmi, brav'uomo, su quali cose può essere il dissenso quando produce inimicizia e collere? Vediamo bene questo punto. Se ci fosse dissenso fra me e te intorno a un numero, per esempio, quale di due serie di oggetti è più numerosa, che forse questo dissenso ci farebbe nemici e irosi l'uno contro l'altro, oppure, fatto il conto, almeno su questa questione, ci troveremo subito d'accordo? EUTIFRONE Certamente. SOCRATE E se il dissenso fosse quale di due oggetti è più grande e quale più piccolo, non cadrebbe subito anche questo dissenso, appena prese le misure? EUTIFRONE È così. SOCRATE E allora, quali sono i punti e quali i giudizi per cui, essendoci dissenso fra noi e non potendo giungere a un accordo, diventeremmo irosi e nemici gli uni contro gli altri? Forse non ti vengono a mente ora, ma te li dirò io: considera se non siano il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono questi i punti per i quali, quando ci sia dissenso e non si possa venire a un giudizio soddisfacente, accade talora che diventiamo nemici gli uni degli altri, e io e tu e tutti gli uomini in generale? EUTIFRONE Sì, o Socrate, questo è il dissenso, e su questi punti. SOCRATE Orbene, Eutifrone, gli dei, se è vero che hanno tra loro qualche dissenso, non l'avranno appunto su questioni di questo genere? EUTIFRONE Necessariamente. SOCRATE E dunque, mio bravo Eutifrone, secondo il tuo ragionamento, chi degli dei giudica giusta una cosa e chi un'altra, e chi bella e chi brutta, e chi buona e chi cattiva: che di certo non avrebbero liti fra loro se non dissentissero su questi giudizi. Non è così? 70 75 80 85 90 95 Socrate ritratto da Raffaello nella Scuola di Atene. Socrate è ritratto nella tipica posa dell’ “enumerare”, caratteristica dei filosofi EUTIFRONE Dici bene. SOCRATE Dimmi ora, quelle azioni che ognuno degli dei reputi belle e buone e giuste, codeste azioni non le amano essi anche, e le contrarie le odiano? EUTIFRONE Precisamente. SOCRATE Ma le medesime cose, lo dici tu, alcuni reputano giuste, altri ingiuste; e appunto perché disputano intorno a queste, sono in lite e in guerra fra loro. Non è così? EUTIPRONE Sì. SOCRATE E dunque, è evidente, le stesse cose gli dei odiano e amano; che è quanto dire odiose agli dei e care agli dei saranno le stesse cose. EUTIFRONE È chiaro. SOCRATE E cioè le stesse cose saranno sante e non sante, o Eutifrone, secondo il tuo ragionamento. EUTIFRONE Pare. 100 105 da Platone, Eutifrone, in Platone, Opere complete, Laterza, 1977 87 1 – La strategia di Socrate 2 – Il ragionamento: _____________________________________________________ 3 – La definizione socratica del concetto 88 5 - P. HADOT1 – LA FIGURA DI SOCRATE 0 – La figura mitica di Socrate 1 - Il non-sapere socratico e la critica del sapere sofistico. 0 – La figura mitica di Socrate Mi soffermerò, non tanto sulla figura storica di Socrate, difficilmente conoscibile, quanto piuttosto sulla figura mitica di Socrate come ci è stata presentata dalla prima generazione dei suoi discepoli. … Le scuole fondate dai «socratici» mostrano di essere le più diverse le une dalle altre; questo evidenzia la complessità dell'atteggiamento socratico. Socrate è stato allo stesso tempo ispiratore di Antistene2, fondatore della scuola dei cinici che sosteneva la tensione e l'austerità e che avrebbe influenzato profondamente lo stoicismo di Aristippo3, fondatore della scuola di Cirene, per il quale l'arte del vivere consisteva nel trarre il maggiore vantaggio possibile dalle situazioni che si presentavano concretamente, senza disdegnare la distensione e il piacere, il che avrebbe influenzato in modo consistente l'epicureismo, e di Euclide4, fondatore della scuola di Megara, celebre per la sua dialettica, nonché dell’idealismo di Platone ... Ad ogni modo, un punto accomuna tutte le diverse scuole socratiche: con esse fa la sua comparsa il concetto, l'idea della filosofia intesa come un certo discorso legato a un modo di vivere, e come un modo di vivere legato a un certo discorso. … 1 Il non-sapere socratico e la critica del sapere sofistico. Nella sua Apologia di Socrate, Platone ricostruisce a modo suo il discorso pronunciato da Socrate davanti ai giudici durante il processo che lo vide condannato. Socrate narra di come uno dei suoi amici, Cherefone, avesse chiesto all'oracolo di Delfi se esistesse un uomo più sapiente di Socrate e di come gli fosse stato risposto che non esisteva. Socrate si interroga allora su cosa significhino le parole dell'oracolo e, al fine di scoprire un uomo più sapiente di se stesso, inizia una lunga ricerca interrogando persone che, secondo la tradizione greca, 1 Pierre Hadot (1922 –2010) filosofo francese. Il suo ambito di interesse è la filosofia antica e la patristica, di cui è stato uno dei massimi specialisti contemporanei insieme a J. P. Vernant di cui era amico. 2 Antistene ( 450 a. C. – 360). Fu scolaro di Gorgia, di Ippia e di Prodico, e in seguito fu tra i più devoti seguaci di Socrate. Sfiduciato dalla, dialettica, propone vie di convincimento extra-logiche, affettive: la persuasione, l'esempio, solo mezzo per rendere l'uomo-schiavo, preda dei propri bisogni, uomo-libero privo ogni bisogno. 3 Aristippo di Cirene (? - 355 a. C.) fu all'incirca coetaneo di Platone, ed uno degli scolari di Socrate. Scelse di rimanere ovunque uno straniero, di non fissare alcun ambiente come il proprio, di conservare l’autonomia come valore determinante. Scrisse brevi opere, che intendevano mostrare la superiorità e la prontezza del saggio in situazioni difficili; di esse non ci resta nessun frammento. Ad Aristippo fece capo la «scuola cirenaica» che però non ebbe il carattere di istituzione organizzata (a differenza, per esempio, dell'Accademia), ma constava semplicemente di tutti coloro che individualmente professavano dottrine affini a quelle di Aristippo. 4 Euclide di Megara (450 a. C. – 375 a. C.) nacque a Megara, ma si trasferì ad Atene dove divenne discepolo di Socrate. Alla sua morte tornò a Megara, dove accolse altri discepoli socratici fondando la Scuola megarica. Nessuna sua opera è sopravvissuta, ma il suo pensiero è riflesso nelle dottrine della scuola da lui fondata molto vicina alla filosofia socratica e che ripresero anche alcuni temi teorici di origine eleatica. 89 possiedono la sapienza, ovvero il saper fare: uomini di stato, poeti e artigiani5. Ne risulta che tutti quegli uomini che credono di sapere tutto non sanno nulla. Socrate trae quindi una conclusione: se egli viene considerato il più sapiente è perché, da parte sua, non pensa di sapere ciò che non sa. L'oracolo ha dunque voluto dire che il più sapiente degli umani è «colui che è cosciente di non valere nulla per quanto riguarda il sapere»6. Sarà proprio questa la definizione platonica del filosofo nel dialogo intitolato il Simposio: il filosofo non sa nulla, ma è cosciente del suo nonsapere. Il compito di Socrate, quello che gli è stato affidato dall'oracolo di Delfi, ovvero dal dio Apollo, dice l'Apologia, sarà dunque quello di rendere coscienti gli altri uomini della loro non-sapienza. Per compiere una simile missione, Socrate farà proprio l'atteggiamento di colui che non sa nulla, ossia l'atteggiamento dell'ingenuo. Ecco la ben nota ironia socratica: la finta ignoranza, l'aria candida con la quale, ad esempio, il filosofo ha indagato per scoprire se esistesse un uomo piú sapiente di lui. Come dice un personaggio della Repubblica: “Eccola qui la famosa ironia di Socrate! Lo sapevo io, anzi lo dicevo prima al resto della compagnia che tu non solo non avresti voluto rispondere, ma avresti anche finto ignoranza e tentato ogni via piuttosto che rispondere alle domande che ti fossero state rivolte.”7. A destra: Il tempio di Apollo a Delfi come si presenta oggi. A sinistra: consultazione dell’oracolo di Delfi. Secondo la tradizione, fu la sentenza della sacerdotessa pizia che lo definiva come "il più sapiente fra gli uomini' a spingere Socrate ad interrogare coloro che riteneva essere più saggi di lui. Questo spiega perché, nelle discussioni, Socrate è sempre colui che interroga: «egli ammette di non sapere nulla», nota Aristotele. « Socrate, disprezzando se stesso, - ci dice Cicerone, - concedeva piú di quanto dovesse agli interlocutori ai quali si trovava contrapposto: cosí, pensava una cosa e ne diceva un'altra e provava gusto nell'usare abitualmente quel genere di dissimulazione che i Greci chiamano ironia». In realtà, non si tratta di un atteggiamento artificiale, di un uso ad oltranza della dissimulazione, ma piuttosto di una sorta di umorismo che rifiuta di prendere completamente sul serio gli altri e se stessi, perché effettivamente, tutto ciò che è umano, e per lo meno ciò che è filosofico, è cosa ben poco certa, per la quale non ci si può insuperbire. La missione di Socrate consiste, dunque, nel rendere coscienti gli uomini del loro non-sapere. Si tratta qui di una vera rivoluzione per quanto riguarda il concetto del sapere. Senza dubbio Socrate può rivolgersi, e lo fa volentieri, ai profani, che non possiedono che un sapere convenzionale, che agiscono soltanto sotto la spinta di pregiudizi senza un fondamento ragionato; egli intende dimostrare loro che il preteso sapere che dicono di possedere si fonda sul nulla. Ma Socrate si rivolge soprattutto a coloro che sono convinti, grazie alla loro cultura, di possedere «il» sapere. Fino a Socrate erano esistiti due tipi di personaggi del genere: gli aristocratici del sapere, ossia i 5 Una delle tesi principali di Hadot è che la filosofia è nata, nell’antichità greca, come “stile di vita”, saggezza intesa come “saper vivere”, in una unità di teoria e prassi tipica dell’epoca nella quale appunto nasce. 6 Platone, Apologia, 20a-23b 7 Platone, Repubblica, II, 337a 90 maestri di saggezza o di verità come Parmenide, Empedocle8 o Eraclito, che contrapponevano le loro teorie all'ignoranza della folla, e i democratici del sapere, che pretendevano di poter vendere il sapere a tutti quanti ... avrete senz'altro riconosciuto i sofisti. … Quando Socrate pretende di non sapere che una cosa, ossia di non sapere nulla, è perché rifiuta l'idea tradizionale del sapere. Il suo metodo filosofico non consisterà nel trasmettere un sapere, il che equivarrebbe a rispondere alle domande dei discepoli, ma al contrario nell'interrogare i discepoli, dato che lui stesso non ha niente da dire, niente da insegnare riguardo al contenuto teorico del sapere. L'ironia socratica consiste nel fingere di voler imparare qualcosa dal proprio interlocutore, al fine di condurre quest'ultimo a scoprire di non sapere nulla sull'argomento riguardo al quale pretende di essere sapiente. Tuttavia, questa critica del sapere, apparentemente del tutto negativa, ha un doppio significato. Da un lato presuppone che il sapere e la verità non possano essere ricevuti già confezionati, ma debbano essere generati da ogni singolo individuo. Ecco perché, nel Teeteto, Socrate afferma di accontentarsi, durante una discussione con altri, di fare la parte della levatrice. Egli stesso non sa niente e non insegna niente, ma si accontenta di porre domande; le domande stesse aiutano i suoi interlocutori a generare la «loro» verità. Una simile immagine lascia chiaramente capire che la conoscenza si trova nell'anima stessa, e che soltanto l'individuo può scoprirla, non prima però di aver capito, grazie a Socrate, che il proprio sapere era vuoto. Nell'ambito del proprio pensiero, Platone esprimerà miticamente quest'idea dicendo che ogni conoscenza è reminiscenza di una visione che l'anima ha avuto in un'esistenza anteriore. Bisogna dunque imparare a ricordare di nuovo. In Socrate, però, la prospettiva è del tutto diversa. Le domande di Socrate non conducono il suo interlocutore a sapere qualcosa e a pervenire a delle conclusioni, che potrebbero essere espresse in forma di proposizioni, riguardo a questo o quell'argomento. Il dialogo socratico porta invece ad una aporia, all'impossibilità di concludere e di formulare un sapere. Oppure, ancora, l'interlocutore, dopo aver scoperto la vanità del proprio sapere, scoprirà al tempo stesso la propria verità, ossia che passando dal sapere a se stesso egli comincerà a mettere se stesso in discussione. Per dirlo in altre parole, nel dialogo «socratico» la vera posta in gioco non è quello di cui si parla ma, come dice Nicia, personaggio di Platone, colui che parla: “Non mi sembra che tu sappia che chi si trovi a ragionare con Socrate, come capita, ed entri in conversazione con lui, qualunque sia il soggetto in discussione è trascinato ed è forzato a continuare finché non si trova a render conto di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita; e una volta giunto a quel punto, Socrate non lo lascia piú andare via, prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte ... Perché mi fa piacere, Lisimaco, stare con lui e non credo che sia affatto male che ci sia richiamato alla mente che abbiamo vissuto e viviamo non bene, ch'anzi è forza maggiore che si sia piú attenti per l'avvenire... “9. Socrate conduce dunque i propri interlocutori ad esaminare e prendere coscienza di se stessi. Come un «tafano» Socrate sprona i suoi interlocutori con domande che li mettono in discussione, che li costringono a fermare l'attenzione su se stessi, a curarsi di se stessi: “Oh tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei ateniese, cittadino della piú grande città e piú rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante piú puoi, e della 8 Empedocle (490 a. C. - 350 a. C.) nacque ad Agrigento, da ricca famiglia di parte democratica. Fu anch'egli uno dei principali esponenti della parte democratica; in una data non precisata gli fu offerto il governo della città, ma lo rifiutò. Ebbe fama di grande oratore. Morì probabilmente in esilio. Accanto ai tradizionali principi materiali (acqua, aria, terra, fuoco) ammise l’azione di due forze che li muovono, Amore e Odio, che tendono rispettivamente a congiungere e a separare gli elementi originari. 9 Platone, Lachete, 91 fama e degli onori; e invece dell'intelligenza e della verità e della tua anima, che si tratterebbe di rendere migliore, non ti dai affatto né pensiero né cura?”10 Non si tratta, dunque, soltanto di mettere in forse il sapere apparente che crediamo di possedere, ma soprattutto di mettere in questione noi stessi e i valori che reggono la nostra vita. Infatti, dopo aver dialogato con Socrate, il suo interlocutore non sa più assolutamente per quale motivo agisca. Diventa cosciente delle contraddizioni del suo discorso e delle proprie contraddizioni interiori. Dubita di se stesso. Giunge, come Socrate, alla conclusione di non sapere nulla. Ma facendo ciò, riesce a distaccarsi da se stesso, si sdoppia, una parte di sé si identifica ormai con Socrate in quell'intesa reciproca che Socrate esige dal proprio interlocutore in ogni tappa della discussione. In lui avviene, dunque, una presa di coscienza di se stesso; mette ormai, da solo, se stesso in discussione. Il vero problema non è dunque il sapere questa o quella cosa, ma l'essere in questo o quel modo: “Non mi preoccupo affatto per le cose di cui si preoccupa la maggior parte della gente: affari, denaro, amministrazione di beni, cariche di stratega, successi oratori in pubblico, magistrature, coalizioni, fazioni politiche. Non ho intrapreso questa via ... ma quella grazie alla quale, a ciascuno di voi in particolare, potrò arrecare il maggiore dei benefici tentando di persuaderlo a preoccuparsi meno per quello che possiede che per quello che è lui stesso, al fine di diventare il più possibile eccellente e ragionevole”11. Questo appello a «essere», Socrate non lo esercita soltanto con le sue domande, con la sua ironia, ma anche e soprattutto con il suo modo di essere, con il suo modo di vivere, con il suo stesso essere. P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, Einaudi, 1998, (estratti pag. 25-31) 10 11 Apologia di Socrate, 29 d-e Ibidem, 36c 92 4 - PLATONE E L’IDEALISMO ANTICO 1 L'interesse per la politica 2 Platone e la tradizione aristocratico-sacerdotale 3 La teoria delle idee L'INTERESSE PER LA POLITICA Platone nacque, nel 428/427, in una grande famiglia aristocratica che, per splendore di tradizioni ed effettivo ruolo sociale, si collocava al centro della vita politica e sociale di Atene. La famiglia del padre rivendicava la sua discendenza da Codro, l'ultimo re di Atene; quella della madre, risaliva a un congiunto di Solone. Un re e un saggio legislatore, dunque, nella lontana ascendenza di Platone, quasi a segnarne la vocazione al potere, ma ad un potere accompagnato dalla legge e dalla ragione. Ma altre, più vicine, parentele influiscono direttamente sulla formazione del giovane Platone: fu decisivo il ruolo dello zio materno, Crizia, «sofista» e futuro tiranno di Atene. Attraverso Crizia, il giovane Platone venne senza dubbio in contatto con il gruppo di quegli estremisti aristocratici, filospartani, che progettavano - e poi effettivamente realizzarono, anche se per breve tempo - una restaurazione del potere oligarchico in Atene; un potere, questo, accompagnato non dalla ragione ma dalla violenza, dal rifiuto della legge e della mediazione politica. Nel circolo di Crizia Platone venne anche in contatto con Socrate, che gli era legato; e l'insegnamento di Socrate, con le sue ambiguità ma anche con la sua suggestione, con la mescolanza che gli era propria di audacia innovativa e di richiamo alla tradizione soloniana, avrebbe inciso durevolmente sul pensiero di Platone. La biografia di Platone fu profondamente segnata da queste origini e da queste esperienze. La sua collocazione sociale lo predestinava all'impegno politico e all'esercizio del potere nella città; negli anni della giovinezza, egli guardò con simpatia al gruppo di Crizia e aderì si può dire naturalmente al suo esperimento tirannico. Ma lo scoppio di violenza cui questo esperimento diede luogo, il suo stesso tragico fallimento, in cui Crizia perse la vita, convinsero Platone a un tempo dell'ingiustizia e dell'impossibilità di un potere fondato solo sulla forza. L'eredità di Solone e l'insegnamento di Socrate, del resto, stavano a indicare non solo la via della necessaria mediazione politica, ma anche l'esigenza di accompagnare al potere sapienza e saggezza. D'altra parte la restaurata democrazia dell'inizio del IV secolo non sembrava in grado di risolvere i problemi. Istintive ragioni sociali portavano del resto Platone a diffidare di questo regime, in cui l'aristocrazia era sempre più premuta dai ceti commerciali e dal proletariato urbano; il processo a Socrate (399) confermò, agli occhi di Platone, la convinzione che il potere non può essere di tutti in quanto non tutti raggiungono la necessaria sapienza e saggezza per poterlo gestire con giustizia. La condanna di Socrate segnò anche il definitivo distacco di Platone da ogni fiducia di poter mutare dall'interno il quadro della città. Costante rimane però la vocazione politica, l'intenzione di creare un potere che resti fondamentalmente aristocratico nel suo assetto sociale ma che disponga di giustificazioni e di capacità progettuali nuove, valide non per un ceto soltanto ma per l'intero corpo politico della città. Per la realizzazione di questo progetto Platone pensò e sperimentò vie diverse, dall’elaborazione teorica, volta a giustificare il proprio progetto politico, all’azione educativa, indirizzata a dar vita a un ceto dirigente in grado di attuare tale progetto fino alla pratica dell'alleanza con tiranni e potenti, per ottenerne almeno l'iniziale e violento colpo di spugna sulla situazione di fatto, da cui potesse muovere la ricostruzione della società; intorno a questo L’origine __________________________ Gli avvenimenti ____________________ determinanti la _____________________ 1 - ________________________________ ___________________________________ 2 - ________________________________ Il progetto __________________ 93 progetto ruota comunque la successiva biografia di Platone. Platone affrontò i primi due aspetti fondando in Atene, nel 387, l'Accademia (così detta dal ginnasio e dal giardino dedicati all'eroe Akademos, che Platone acquistò per la scuola). L'Accademia era agli inizi, e restò durante tutta la vita di Platone, un'istituzione complessa che non ha equivalenti nel mondo moderno. Dal punto di vista giuridico, si trattava di un'associazione religiosa, dedicata al culto delle Muse; in realtà, essa era al tempo stesso un'organizzazione politica, che raccoglieva giovani aristocratici di Atene e dell'intero mondo greco, un centro di ricerca scientifica, al quale facevano riferimento non solo filosofi ma matematici, astronomi, scienziati, e un grande istituto di educazione superiore, il primo del genere nella storia della Grecia. Il carattere qualificante dell'Accademia era la vita in comune che vi conducevano maestri e discepoli, l'accordo su un progetto di riforma etico-politica della società, e la convinzione che questo progetto doveva essere basato sul sapere filosofico-scientifico. Dal 387 in poi, l'intera vita intellettuale di Platone si svolse all'interno dell'Accademia; molte delle sue principali opere filosofiche (come la Repubblica, il Parmenide, il Filebo, le Leggi) possono essere interpretate come documenti programmatici o contributi ai dibattiti interni della scuola. Per quanto riguarda il terzo aspetto (la ricerca dell’alleanza di un tiranno per poter disporre del potere e avviare un progetto di ricostruzione della società), Platone tentò con una serie di viaggi di influenzare i governi dei tiranni, dapprima, di Taranto e, in seguito, di Siracusa, allora la maggiore città di tutto il mondo greco dopo Atene. Al di là del fallimento di questi tentativi, dovuti all’impossibilità di legare ai propri progetti la volontà di chi deteneva il potere, Platone non si accorse che il modello di istituzioni politiche che egli ancora privilegiava, la città-stato, andava ormai perdendo importanza di fronte al nuovo modello delle grandi monarchia, come dimostrò il fatto che dopo solo dieci anni dalla morte di Platone, avvenuta nel 347, Filippo di Macedonia avrebbe definitivamente posto fine all’autonomia delle città greche, inglobandole nel regno macedone. IL PROGETTO ___________________________ DI PLATONE 1 ___________________________ 1 - ________________________________________ _________________ 2 ___________________________ 2 - ________________________________________ 3 ___________________________ 3 - _____________________________________________ _____________________________________ PLATONE E LA TRADIZIONE ARISTOCRATICO-SACERDOTALE Platone è il padre dell'idealismo, di quella concezione filosofica che considera i concetti (ad esempio, uomo, animale, ecc..) e i valori (verità, bellezza, bontà, giustizia ecc.) come entità dotate di autonoma esistenza, rispetto alla realtà empirica dei fatti (giudicata come inferiore, illusoria, apparente). In questa serie di opposizioni (tra valori e fatti, idee e cose, realtà e apparenza) consiste il dualismo platonico, che verrà in seguito rifiutato da Aristotele. L’idealismo, in quanto visione della realtà, viene elaborato da Platone in vista dei suoi interessi che, come abbiamo visto, sono essenzialmente politici e riprendendo i temi e la prospettiva tipica della tradizione aristocratico-sacerdotale, di cui l’idealismo platonico rappresenta, per molti versi, la maggiore elaborazione, come la visione materialistica di Democrito per i filosofi della città. Vediamo, inizialmente, come giunge Platone a porsi il problema della concezione Idealismo = _________________ e valori __________________________________ rispetto alla _______________________ __________________________________ Platone e la tradizione _________________ ___________________________________ Dalla politica alla ____________________ ___________________________________ 94 della realtà partendo dai suoi interessi politici. Sicuramente la riflessione platonica prende le mosse dal processo e dalla condanna a morte di Socrate: la città ha votato per la morte di un uomo giusto, condannandolo per le sue idee. Come è potuto accadere questo? Nel libro I della Repubblica, scritto negli anni giovanili, trovano espressione drammatica i dilemmi morali suscitati da quella condanna. L'impulso, da cui prende avvio la filosofia platonica, è in questo scandalo della vita etica: perché nella vita politica accade sovente che l'ingiusto trionfi e sia felice, mentre all'uomo giusto tocca di soccombere, pagando di persona il vano tentativo di migliorare le cose con la giustizia? Che cosa bisogna pensare della giustizia stessa, se proprio la migliore costituzione, quella ateniese, condanna a morte un innocente come Socrate? Hanno forse ragione quanti la riducono all'utile del più forte (del tiranno), a una mera convenzione, negandole valore e realtà in sé? Oppure ha avuto ragione Socrate, il quale ha preferito subire l'ingiusta condanna, comminata sulla base di leggi in sé giuste, anziché coprirsi di vergogna e passare dalla parte del torto, cercando di evitare la morte con la fuga? Solo dando valore e realtà in sé all’idea di giustizia si poteva sottrarre la vita sociale al corrosivo relativismo sofistico o allo scetticismo che colpirono probabilmente la stessa cerchia di Socrate, dopo la sua morte. Ma per risolvere il problema della giustizia, Platone doveva prima affrontate il più generale problema della conoscenza stabilendo la possibilità di giungere a conoscere con certezza la realtà dei valori. Lo stesso Socrate aveva rimandato la soluzione del problema dell'agire a quella del problema del conoscere, sostenendo che “nessuno fa il male sapendo che è male, ma per ignoranza”. L’intento principale di Platone all'inizio della sua riflessione era, dunque, quello di trovare un adeguato criterio di conoscenza: un criterio che fosse valido ed eticamente fondato nella vita pratica, e che nel contempo potesse superare con successo lo scetticismo conoscitivo propugnato dalla sofistica, e in parte confermato dallo stesso Socrate. Era necessario cioè superare l'esperienza socratica del «sapere di non sapere» e della «maieutica»12: era necessario trovare e indicare quelle cose che Socrate continuamente cercava quando chiedeva «che cos'è il giusto» o «che cos'è il bello». Per trovare questo adeguato criterio di conoscenza Platone si riallaccia alla tradizione aristocratico-sacerdotale. II problema della verità e della certezza della conoscenza può essere per Platone risolto solo se esiste una precisa realtà alla quale questa conoscenza si riferisce. La domanda «come è possibile una conoscenza indubitabile, certa e sicura?» risulta allora subordinata a un quesito più radicale: «esiste una realtà altrettanto indubitabile, certa e sicura?». Protagora, secondo Platone, era approdato al suo relativismo e al suo scetticismo conoscitivo in base a una ben precisa concezione della realtà: poiché tutto ciò che esiste è in continuo movimento (come volevano gli eraclitei), la conoscenza non potrà che essere momentanea e soggettiva, o al massimo dovrà limitarsi alla pura convenzione linguistica. Se infatti le cose cambiano continuamente, e sempre diversi sono anche gli individui che le percepiscono, agli uomini non resta che mettersi d'accordo per esigenze pratiche sui nomi da dare agli oggetti: nomi che rimangono fissi solo per convenzione e che non hanno nulla a che fare con la mutevole realtà delle cose. Negare il principio parmenideo secondo cui esiste una realtà immobile e certa conduce a negare che esista una conoscenza universale e sicura e, dunque, allo scetticismo. Poiché invece Platone intende fondare la conoscenza in modo adeguato e persuasivo (in vista degli obiettivi etici, politici ed educativi che conosciamo) è allora evidente che occorre ritornare a Parmenide. Occorre, cioè, stabilire che esiste un essere provvisto La morte di Socrate : __________________ un valore ________________________ o _____________________________? come stabilire ____________________ Socrate:____________________________ ___________________________________ (vedi lettura: Socrate-Platone: La struttura d el dialo go e il concetto) Conoscenza ________________ e realtà ____________________________ Protagora: _________________________ e realtà ____________________________ Parmenide: conoscenza certa e_________ ___________________________ 12 L’aspetto costruttivo del dialogo in cui Socrate attraverso una serie di domanda cerca di portare i suoi interlocutori a definire con sempre maggior chiarezza i concetti, mirando a una definizione che sia valida per tutti i casi particolari, a cui in genere invece si fermano i suoi interlocutori. 95 delle caratteristiche che questa scuola gli aveva attribuito: immobile, sempre identico a sé, non soggetto né al cambiamento né alla generazione e corruzione. D'altra parte Platone appare consapevole sia dei limiti dell'eleatismo, sia dei limiti di quelle filosofie che si richiamavano ai filosofi della città. Parmenide aveva contrapposto «essere vero» alla realtà sensibile, ma non aveva adeguatamente illustrato che cosa realmente intendeva con questo «essere», né i suoi rapporti con il mondo dell'esperienza. I filosofi della città, dal canto loro, avevano cercato di risolvere tale problema riconducendo tutto alla natura, alla materia, cioè individuando nella natura stessa gli aspetti della realtà rispondenti alle esigenze eleatiche (vedi atomo di Democrito): ma Platone rigetta completamente questa linea speculativa. A suo avviso la natura, con tutti i suoi prodotti e tutte le varie forme in cui può trasformarsi e moltiplicarsi, è infatti il regno della mutevolezza e della diversità, perciò non può esibire i tratti specifici di cui deve essere dotato l'essere di Parmenide. Se dunque esiste veramente una realtà provvista delle caratteristiche che le avevano attribuito gli eleatici, sarà possibile trovarla solo seguendo la direzione opposta a quella seguita dai filosofi della città: non cercandola nella natura, ma muovendo al di là di essa, verso dimensione ulteriore e diversa. Platone è così il primo filosofo nella storia del pensiero occidentale che progetta di costruire una «metafisica», cioè una dottrina che divide la realtà in due dimensioni completamente diverse. La prima e più alta dimensione è al di là delle cose fisiche (questo il significato di «metafisica», una parola peraltro coniata solo molto più tardi), eterna e immodificabile (come volevano gli eleati), ma soprattutto immateriale e non sensibile, e può essere colta solo l'intelletto. La seconda dimensione è continuamente mutevole e sempre soggetta al divenire, ma soprattutto è materiale può essere colta attraverso i sensi. Platone ha dato alla prima di queste d dimensioni il nome di «idea» o di «mondo ideale». Limite di _________________________: non spiega i rapporti tra _______________ immutabile e la ______________________ _____________________________ Limite dei _________________________: realtà = ________________________ ma ________________________________ Da ___________________________ al mondo delle ____________________ Le dimensioni della realtà 1 – la realtà _____________: al di là __________________________ (mondo _____________) - _________________________________________ - ____________________________________________ - _________________________________________ - ____________________________________________ - _________________________________________ 2 – la realtà _______________________________ (mondo __________) - _________________________________________ - ____________________________________________ - _________________________________________ Oltre a Parmenide, Platone si riallaccia alla tradizione aristocratico-sacerdotale anche tramite Socrate, che aveva fatto dell’anima il soggetto principale del mondo intelligibile (del mondo della ragione opposto al mondo dei sensi), la quale utilizzava i concetti, che si costituiscono nel dialogo con gli altri, per giudicare il mondo reale. Socrate però, pur rifiutando l’idea dei sofisti che i diversi punti di vista espressi nel dialogo fossero equivalenti o comunque tutti ugualmente giustificabili, aveva ritenuto che non fosse possibile arrivare a definire in maniera esauriente i singoli concetti e non aveva detto nulla sulla reale natura dei concetti. Platone vuole invece riconoscere un’esistenza reale ai concetti, indipendente dal pensiero umano e dal dialogo che li costruisce, per farli diventare qualcosa di oggettivo, di sottratto alla soggettività di chi li esprime. I concetti diventeranno allora, nella visione della realtà di Platone, i coabitatanti, insieme all’anima, del mondo intelligibile, diventeranno Da ___________________________ al mondo delle ____________________ __________________ e ______________ dal ___________________ socratico a ________________ del mondo _________ ______________________________ Funzione __________: ________________ 96 le idee che, in quanto appartengono al mondo intelligibile, sono eterne, immutabili e quindi oggetto di una conoscenza certa e universale. Anche l’anima assume nella riflessione platonica nuove caratteristiche che Platone desume soprattutto dalla tradizione, anch’essa di origine aristocratico-sacerdotale, orfico-pitagorica13. Tale movimento aveva cercato di delineare, sulla base di determinate credenze filosofiche e religiose, i fondamenti della vita morale. In particolare, i suoi esponenti avevano affrontato i problemi dell'educazione, della virtù e della felicità, appoggiandosi in maniera decisiva alla dimensione ultraterrena. Platone fa in larga misura proprio questo orientamento e più di una volta introduce nelle sue opere miti significativi circa il destino dell'uomo dopo la morte. Ad esempio, nel Gorgia viene elaborato un mito tipicamente orfico riguardante il giudizio che le anime devono subire una volta staccate dal corpo allo scopo di suffragare con una prova ulteriore il principio socratico secondo cui «chi patisce ingiustizia è più felice di chi la commette». La frequenza con cui Platone insiste sull'immortalità dell'anima e sul suo destino ultraterreno ci mostra ch'egli attribuiva a questi temi un'importanza centrale: essi infatti eliminavano quella venatura di incertezza che caratterizzava la morale di Socrate, il quale si era avviato alla morte senza sapere con sicurezza assoluta (come Platone gli fa testualmente dire nell'Apologia) se la sua fosse veramente la sorte migliore. L’anima che per Socrate era essenzialmente il centro della personalità dell’uomo diventa nella riflessione platonica un’entità immortale il cui destino eterno si compie nel mondo delle idee. Funzione __________: ________________ la tradizione ________________________ l’anima da _________________________ ___________ (Socrate) a ______________ ____________________________ LA TEORIA DELLE IDEE LE CARATTERISTICHE DELLE IDEE Con «idea» noi intendiamo in primo luogo il contenuto della mente, una specie di rappresentazione interiore della realtà; oppure, in altri casi, intendiamo un'astratta elaborazione del pensiero, che è reale in quanto è pensata. In altre parole noi attribuiamo all'idea una consistenza soprattutto mentale, o, comunque, legata all’ambito conoscitivo. Per Platone, invece, l'idea ha una sua esistenza indipendentemente dalla nostra mente e proprio perché è qualcosa di veramente esistente essa può essere anche pensata. L'idea non è insomma un puro contenuto mentale, ma è quell'«oggetto» cui la mente si riferisce quando pensa qualcosa. Aiutiamoci con un esempio. Davanti a me ho il mio cane; lo guardo, lo accarezzo, lo ascolto quando abbaia. Questo cane è uno degli oggetti esterni a me con cui io entro in relazione quando percepisco qualcosa. Se invece non percepisco attualmente il cane, posso ugualmente cercare di rappresentarmelo con un'idea. Quest'idea, d'altra parte, può sia riferirsi al mio cane, sia riferirsi ad un qualsiasi cane: cioè ad un cane in generale, senza nessuna determinazione specifica che distingua un cane da un altro. Questa è precisamente l'operazione che io compio quando formulo un concetto del tipo «il cane è il migliore amico dell'uomo». In questo caso io ho introdotto un soggetto (il cane) che intendo applicabile a tutti i tipi di cane esistenti; cioè un soggetto, una realtà universale. Ecco, questa nozione universale non è per Platone un semplice pensiero, ma è piuttosto un ente, una realtà 13 L’orfismo è una religione di origine orientale per la quale in ogni uomo vi è un demone o un'anima di natura divina e immortale. Nel corpo l'anima si trova come in una tomba, il suo fine è liberarsene. La morte non rappresenta, in questa prospettiva, qualcosa che debba essere temuto, ma un'occasione di liberazione. La liberazione può essere conseguita, però, solo da chi durante la vita abbia raggiunto una completa purificazione. Gli uomini durante la vita si mostrano per lo più schiavi del corpo e trascurano la loro parte più divina: per questo, dopo la morte, la loro anima è destinata, invece che alla liberazione, alla reincarnazione in un altro corpo. La serie delle reincarnazioni dura finché l'anima abbia compiuto il proprio percorso di purificazione. A questo fine è necessario mantenere una condotta di vita ineccepibile. L'esercizio ininterrotto nel dominio del corpo e una lunga iniziazione sono necessari a rendere chi vi si sottopone capace di estasi ( "star fuori"); cioè permettono di uscire dalla gabbia della corporeità e di "vedere" una verità accessibile a pochi, dalla quale viene fatta discendere una speranza di salvezza personale nell'oltretomba. 97 esistente a tutti gli effetti: non questo cane o quel cane, ma il cane in sé, l'idea del cane. Da un lato abbiamo dunque i cani particolari, che esistono in numerosi e differenti esemplari, appartengono alla realtà sensibile e di conseguenza si offrono alla mia percezione. Dal lato opposto abbiamo invece l'idea universale del cane, che esiste in un unico esemplare sempre identico a se stesso, appartiene alla realtà intelligibile e di conseguenza può essere colta solo dal pensiero. Ci sono così, come abbiamo anticipato sopra, due tipi ben distinti di realtà. Ciò significa che l'«idea» di una cosa non è quella medesima cosa indebolita dal fatto di essere solo pensata e di non esistere attualmente; al contrario, anch'essa è pienamente reale, solo che la sua realtà appartiene ad un piano diverso: al piano della realtà intelligibile e non a quello della realtà sensibile. Ma Platone si spinge ben oltre. Non solo le idee non sono affatto delle copie sbiadite delle cose sensibili: esse sono invece la vera realtà, mentre le cose sensibili sono solo la loro copia imperfetta. Le idee sono, in altre parole, le forme o i modelli che le cose imitano, sono cioè la realtà di ciascuna cosa vista nella perfezione che può attribuirle solo il pensiero e privata delle caratteristiche inessenziali che qualificano le realtà concrete. Torniamo, per chiarire meglio, all'esempio del cane: questo cane ha le orecchie lunghe, quell'altro le ha invece corte; questo cane ha il pelo lungo e liscio, mentre altri cani ce l'hanno corto e a spazzola, altri ricciuto, e così via. Ora, nessuna di queste qualità appartiene all'idea del cane e, d'altra parte, nessun cane concreto rappresenta in quanto tale l'idea del cane alla perfezione. La vera realtà non è dunque quella che appare nel mondo sensibile, dove esistono oggetti molteplici e diversi, ma è quella che si manifesta nell'idea, dove la «forma» delle cose è unica, perfetta e sempre identica a se stessa. Il ragionamento che abbiamo condotto mediante il riferimento al cane può e deve essere ampliato anche ad oggetti di più vasto respiro, a quelle realtà che noi siamo abituati a definire astratte. Esistono molteplici azioni giuste, diversi e vari casi di santità, di bellezza, di coraggio, ecc. E’ evidente che nessuno di questi casi rappresenta la giustizia, la bellezza, il coraggio in se stessi. E, soprattutto, nessuno di questi casi può essere utilizzato per giudicare degli altri casi. Ad esempio, se io ho realizzato un «caso particolare» di azione giusta restituendo un debito, questo non significa che «la giustizia in sé» consista nel «restituire i debiti». Capita infatti l'evenienza in cui «restituire un debito» non sia giusto. Allora è chiaro che tutti questi casi di giustizia sono tali perché partecipano di quella realtà perfetta, sempre identica a se stessa, che è l'idea del giusto: solo l'idea del giusto è veramente universale, perché solo per mezzo suo posso giudicare di tutte le azioni giuste, nessuna esclusa. Abbiamo visto che le idee sono in primo luogo dei modelli: cioè degli enti universali che rappresentano in maniera perfetta ed unica quelle realtà che nel mondo dell'esperienza appaiono in molteplici esemplari, tutti più o meno lontani dal vero, e che, sul piano cognitivo, ci servono per giudicare delle singole cose e dei diversi casi. Sembrerebbe dunque che la differenza stia solo nel fatto che si tratta di due realtà diverse, coglibili dall'uomo con distinti procedimenti conoscitivi. Invece per Platone i due mondi sono differenziabili anche (e soprattutto) dal punto di vista del valore. Le stesse parole con cui vengono introdotte e definite le idee sono di per sé indicative. Dire che le idee sono dei «modelli perfetti» implica già una valutazione, una preferenza per il mondo delle idee nei confronti del mondo sensibile. La superiorità delle idee risiede però , per Platone, soprattutto nel loro essere le cause da cui ha origine la realtà, il mondo dell’esperienza e, forse, più ancora nel loro configurasi come quella dimensione superiore a cui il mondo reale tende come suo fine per poter realizzare la perfezione che il mondo delle idee rappresenta. 98 LE CARATTERISTICHE DELLE IDEE in quanto hanno una ____________________________________________: 1 - sono nozioni ______________________________________________________________________________________ 2 - possono essere colte solo da ___________________________________________________________________________ In quanto rappresentano la ________________________________: 1 – sono modelli, forme delle ____________ 2 – ___________________________________________________ 3 - ___________ del mondo delle cose, dell'esperienza 4 - _______ a cui tende in mondo reale Pur essendo molteplici le idee non formano affatto una pluralità disorganizzata. Esse costituiscono piuttosto una "trama" di essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, con le idee-valori in cima e l'idea del Bene al vertice. Difatti, se le cose partecipano delle idee, le idee partecipano a loro volta del Bene, che è l'idea delle idee, il supremo valore e la perfezione massima di cui le altre idee sono imitazione o riflesso. Allo stesso modo anche l’uomo e l’intero universo nella misura in cui partecipano, seppure imperfettamente alle idee, partecipano anche all’idea del Bene. L'idea del Bene è stata talora assimilata a Dio. Questa lettura non trova un'esplicita verifica nei testi platonici, in cui risulta tra l'altro assente l'idea di un dio creatore. Infatti, pur essendo «al di là dell'essere», cioè delle idee, e pur superandole tutte per «valore e potenza», il Bene non crea le idee, che sono tutte eterne, ma si limita a comunicare loro la perfezione. In linea generale, possiamo dire fin d'ora che nell'universo metafisico di Platone, com'è stato unanimemente rilevato dalla critica contemporanea, non esiste un Dio-persona, ma solamente “il divino”: Platone usa infatti il termine impersonale (il divino ; appunto) per designare una molteplicità di cose diverse: divine sono le idee, divina è l'idea del Bene, divina è l'anima, divine sono le stelle e gli astri ecc. Caratteri personali possiede invece il «demiurgo», introdotto dall’ultimo Platone quando la visione della realtà che egli andava elaborando assunse esplicitamente connotati mitico-religiosi. Figura mitica, il demiurgo viene presentato da Platone come terzo termine mediatore tra le idee e le cose, come una sorta di divino artefice, dotato di intelligenza e di volontà, che si trova in una posizione intermedia tra le idee e le cose. All'inizio, il mondo era solo un caos informe, una materia spaziale priva di vita che Platone chiama necessità. Il demiurgo, essendo buono e amante del bene, ha voluto ordinare le cose del mondo a «immagine e somiglianza» delle idee, comunicando loro una parte di perfezione dei modelli ideali (si noti che il demiurgo non è il "creatore" della realtà dal nulla, ma il semplice "plasmatore" di una materia preesistente, coeterna alle idee). In vista dei suoi «nobili scopi», il divino artefice ha dunque fornito le cose di un'anima del mondo che vivifica e ordina la materia, dando forma all'informe e trasformando l'universo in un immenso organismo vivente in cui si riflette l'armonia delle idee a cui esso tende. Il _____________ e l’organizzazione ____ ___________ del mondo delle idee Bene e ______________________ differenze: 1 - ________________________________ 2 - ________________________________ Il ________________________: il ________________________ del mondo reale in conformità _________________ L’anima ________________________ IL RAPPORTO TRA IDEE E _______________ Riassumendo la problematica relativa al rapporto tra idee e cose possiamo sottolineare che se da un lato Platone afferma la distinzione tra le idee e le cose, dall'altro lato egli ne 1 - ________________________ delle cose sostiene lo stretto legame. Le idee sono infatti: - criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per giudicare circa gli oggetti, non possiamo Le idee come la condizione di _________ fare a meno di riferirci a esse. Ad esempio, diciamo che due cose sono uguali sulla base dell'idea di uguaglianza, oppure diciamo che due azioni sono giuste sulla base dell'idea di _____________________________ giustizia e così via. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la condizione della 99 pensabilità degli oggetti; - causa delle cose, poiché gli individui sono in quanto imitano o partecipano, sia pure imperfettamente, delle idee che costituiscono i modelli primordiali delle cose. Ad esempio, le realtà che diciamo belle sono tali in quanto imitano, o partecipano, della Bellezza, che rappresenta dunque la causa per cui esse sono e vengono ritenute belle. E così pure diciamo che due individui sono uomini sulla base dell'idea di umanità, che è la causa che li rende tali. In questo senso, possiamo affermare che le idee sono la condizione dell'esistenza degli oggetti, o la loro ragion d'essere. - fine delle cose, poiché esse tendono come loro fine alla perfezione delle idee. Tuttavia, il rapporto idee-cose non è stato ben definito dal Platone della maturità, il quale, pur parlando di «imitazione» (per cui le cose imitano le idee), di «partecipazione» (per cui le cose partecipano delle idee), di «presenza» (per cui le idee sono presenti nelle cose) ecc., rimane sulla questione piuttosto incerto e oscillante. Infatti, come abbiamo detto, nella sua vecchiaia il filosofo continuerà a cimentarsi daccapo su tale problema, tentando di risolverlo in modo più soddisfacente, pervenendo a un esito che come abbiamo visto fa ampio ricorso al mito (vedi demiurgo). Con la teoria delle idee Platone risolve anzitutto il problema della ricerca del principio da cui hanno origine le cose che aveva caratterizzato tutta la riflessione dei filosofi della città, ma anche il problema gnoseologico14 da cui la sua riflessione aveva preso le mosse: la conoscenza è possibile perché esiste una realtà che può essere colta dal pensiero, e perché tale realtà resta sempre identica a sé senza dissolversi nel perenne divenire cui sono sottoposte tutte le cose sensibili (contro il relativismo di Protagora). Da quanto si è detto, emerge pure come la filosofia platonica, la quale si pone alla confluenza di diverse tradizioni filosofiche, rappresenti una sorta di integrazione sintetica tra l'eraclitismo e l'eleatismo. Da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno della mutevolezza, del divenire mentre da Parmenide trae il concetto secondo cui l'essere autentico è immutabile. L'idea platonica presenta infatti alcuni caratteri essenziali dell'essere parmenideo: nel Fedro si dice ad esempio che essa è «semplice e imperitura»; nel Simposio che «mai incomincia, né mai passa, né aumenta né diminuisce». In altre parole, analogamente all'essere di Parmenide, l'idea di Platone è immutabile, eterna e perfetta, anche se, diversamente da esso, l'essere platonico risulta multiplo, in quanto formato da una pluralità di idee. Dall'eleatismo Platone deriva anche il dualismo gnoseologico tra sensibilità e ragione e il dualismo ontologico15 tra le cose e l'essere, la realtà vera. Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo sensibile non ha connessioni con quello pensato dalla ragione, per Platone tra le due sfere di realtà esiste un indissolubile rapporto, la cui precisa definizione costituisce uno dei problemi più impegnativi e tormentosi del platonismo. Inoltre, mentre per l'eleatismo il nostro mondo è apparenza illusoria e irrazionale, per Platone esso possiede una sua specifica, anche se imperfetta, realtà e conoscibilità. Infine, giova ricordare che l'esigenza più forte che aveva condotto Platone a formulare la teoria delle idee era un'esigenza politica: i «modelli ideali sempre identici a sé» sono anzitutto quei valori morali (il giusto, il bello, il santo) che possono costituire delle guide sicure per 1'attività etico-politica. Questi valori, se non vogliono rimanere dei pii desideri, devono «esistere» e devono «essere conoscibili», come appunto garantisce la teoria delle idee. In questo modo la teoria delle idee assume un valore fondamentale anche dal punto di vista politico consentendo a Platone di affermare, come vedremo, il diritto a governare per coloro che sono in grado di 2 - ___________ delle cose Le idee come ______________________ _________________________ 3 -_____________ delle cose Le cose tendono _____________________ _______________ Il ricorso ___________________ LA CENTRALITÀ DELLA TEORIA DELLE IDEE Da Eraclito: la ________________________ delle cose da _____________________: le idee sono: - _______________________________ - _______________________________ - _________________________ ma ________________________ - _______________________: 1 - ________________/______________ 2 - _______________/________________ ma con __________________________ 14 Il termine gnoseologia equivale a “teoria (filosofica) della conoscenza” Ontologia letteralmente significa “discorso che riguarda l’essere”, intendendo l’essere come la realtà tutta intera nella sua caratteristica fondamentale che è data dal fatto di essere. L’ontologia comprende quindi le teorie relative alla concezione della realtà. 15 100 conoscere il mondo delle idee. Occorre aggiungere che l'esistenza della dimensione ideale permetteva a Platone di conseguire anche uno scopo ulteriore, essenziale per la sua concezione dell'etica: gli permetteva di garantire con argomenti filosofici (non solo con le rivelazioni mitiche cui si affidavano gli orfici) l'esistenza di un altro «mondo», ultraterreno e sovrasensibile, dove i premi e le pene vengono equamente distribuiti secondo i meriti (come vedremo esaminando la concezione dell’uomo). In questo modo l’esistenza reale delle idee viene posta a garanzia sia delle conoscenze Idee, ________________________ e umane, garantite dalla capacità della ragione di cogliere il mondo intelligibile, sia dell’agire dell’uomo, garantito dalla possibilità per l’esperienza umana, se guidata dalla _________________________________ ragione che vede il mondo ideale, di essere orientata verso la realizzazione di tale perfezione. LA CENTRALITÀ DELLA TEORIA DELLE IDEE 1 - _________________________________________________________________________________________________________ 2 - _________________________________________________________________________________________________________ 3 - _________________________________________________________________________________________________________ 4 - _________________________________________________________________________________________________________ 5 - _________________________________________________________________________________________________________ Per adesso abbiamo spiegato che cosa sono le idee. Ora dobbiamo vedere quali sono e dove e come esistano. Nella fase della maturità del pensiero platonico compaiono due tipi fondamentali di idee: le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, estetici e politici. Tali sono, ad esempio, il Bene, la Bellezza, la Giustizia ecc., che formano appunto ciò che denominiamo "ideali"; o "valori"; le idee matematiche, corrispondenti alle entità dell'aritmetica e della geometria. Infatti, secondo Platone, vi sono idee anche dei principi del pensiero matematico (ad esempio l'uguaglianza, le classi dei numeri, il quadrato, il circolo ecc.), poiché nella realtà non troviamo mai l'uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico, ma solo copie approssimative e imperfette di essi. Insieme a questi due tipi di idee, Platone parla talora di "idee di cose naturali" (ad esempio "l'umanità") e di "idee di cose artificiali" (ad esempio "il letto"). Solo negli ultimi dialoghi tende a lasciar cadere la precedente nozione etico-matematica, in favore di una nozione che fa corrispondere a ogni realtà la propria specifica “forma” o idea: In tal modo, l'idea platonica finirà per configurarsi come la forma unica e perfetta di qualsiasi gruppo, o classe, di cose che vengono designate con un medesimo nome e che possono dunque essere fatte oggetto di scienza. ____________________ DELLE IDEE: 1 _______________________________ 2 _________________________________ 3 _________________________________ 4 _________________________________ IL LUOGO DEL MONDO DELLE IDEE Finora abbiamo detto che le idee esistono in modo "superiore" alle cose. Ma come esistono e dove esistono le idee? Esse, per usare un termine di origine latina, sono senz'altro «trascendenti»16, in quanto esistono "oltre" la mente e "oltre" le cose. Esse A – nel mondo ___________________ vengono collocate in una sfera oltremondana, un vero e proprio mondo dell'aldilà, che è stata identificata da Platone, ancora una volta ricollegandosi alla tradizione _________________________ orfico-pitagorica, nell’«iperuranio» (letteralmente “luogo sopraceleste”) ove risiedono, insieme alle idee, come vedremo, le anime quando non sono incarnate in un corpo. Alcuni studiosi hanno considerato e considerano questa interpretazione come troppo 16 Il termine trascendente indica qualcosa (un ente, ad esempio Dio, un principio) che sta oltre, al di là, al di sopra. Un ente, un principio che è visto come determinante per ciò che sta al di quà, al di sotto (es. Dio e mondo nella religione tradizionale). Il termine opposto è immanente che indica invece qualcosa che sta dentro, che determina dal di dentro. 101 legata al mito, oppure come risultato di una sovrapposizione dell'idea cristiana dell'aldilà al genuino pensiero platonico. Di conseguenza, essi affermano che il mondo B – come ___________________________ platonico delle idee, pur esistendo indipendentemente dalla nostra mente e pur ___________________________________ possedendo una realtà oggettiva a sé stante, non deve essere interpretato come un universo di "super-cose" esistenti in qualche cielo metafisico, ma soltanto come un ordine eterno di forme o valori ideali, che, come tali, non esistono in alcun luogo o "empireo". Secondo questa interpretazione, un esempio di come esistano le idee ci è offerto dagli enti matematici. Infatti, le idee di Triangolo, Uguaglianza, Numero ecc., pur esistendo di per sé al di fuori dello spazio e del tempo e indipendentemente dagli intelletti umani, non per questo si trovano in un ipotetico mondo dell'aldilà. Quest’ultima interpretazione, che trova sicuramente degli appigli nei testi platonici, non sembra però tener conto degli aspetti metafisico-religiosi del platonismo, presentandosi, in fondo, come un affinamento moderno di Platone. Resta comunque al di fuori di ogni discussione che per Platone le idee, comunque intese, costituiscono, come abbiamo detto fin dall'inizio, una zona d'essere diversa dalle cose. LA ___________________ DELLE IDEE Finora ci siamo soffermati sulle idee e sulle loro caratteristiche. Resta da esaminare in qual modo l'uomo possa accedere ad esse. Come si è già visto, secondo Platone, le idee non possono derivare dai sensi, poiché questi LA TEORIA / MITO DELLA ______ ci testimoniano solo un mondo di cose materiali e imperfette. Esse sono dunque l'oggetto di una «visione intellettuale», ossia il risultato di uno «sguardo della mente». Ma da _______________________________ dove proviene questa visione intellettuale? Come si spiega che noi, pur vivendo in un mondo caratterizzato dal divenire e dall'imperfezione, abbiamo la nozione delle forme ideali? Per risolvere tale problema Platone ricorre alla dottrina/mito della «reminiscenza» (cioè del ricordo): egli afferma infatti, sulla base della credenza orficopitagorica della metempsicosi o trasmigrazione delle anime, che l'anima, prima di calarsi nel nostro corpo, è vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove, tra una vita e l'altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l'anima conserva un ricordo sopito di ciò che ha veduto. Grazie all'esperienza delle cose, che fungono da occasione, o pungolo, Per Platone la conoscenza del significato della idea “cane” non deriva dall'esperienza sensibile, ossia dall'aver visto un certo numero di cani (come pensavano i filosofi della città), e neppure da un processo di selezione intellettuale delle qualità tipiche di ogni singolo cane (idea che sarà poi avanzata da Aristotele). Come illustra la vignetta il significato della parola viene invece dal riemergere nella coscienza della nozione o idea eterna di “caninità”, ossia dal ricordo del Cane Ideale, il prototipo, la madre concettuale di tutti i cani concreti per la memoria, essa ricorda ciò che ha visto nell'iperuranio. In questo senso, dice Platone, «conoscere è ricordare», in quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per tirarle fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate tra loro da una sorta di parentela, per cui basta rammentarne una perché tutte le altre tornino alla mente. Lateoria della conoscenza di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, L’______________________________ in quanto ritiene che la conoscenza non derivi dall'esperienza sensibile (che funge soltanto da meccanismo sollecitatore del ricordo), bensì da metri di giudizio 102 preesistenti e connaturati con il nostro intelletto17. Vediamo da ultimo come Platone procede a dimostrare l’esistenza delle idee. Nel Fedone la dimostrazione della loro esistenza prende le mosse da un’esperienza mentale: noi siamo in grado di paragonare fra di loro due oggetti, oppure anche due grandezze, e possiamo dire se si tratta di cose «uguali» o di cose «diverse». Per far questo dobbiamo avere però l'«idea» dell'«uguale». Allo stesso modo la nostra affermazione «questo animale è un cane» implica necessariamente che noi possediamo già l'idea del cane; solo in tal caso, infatti, si giustifica il fatto che noi possiamo dire se questo particolare oggetto è o non è un cane. In altre parole la preesistenza dell'idea è il necessario presupposto di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi definizione; ed è anche implicita, in senso più generale, nel concetto stesso di dialogo, di «confronto» fra opinioni. Il semplice fatto che io possa discutere con un amico su «che cos'è la giustizia» significa per Platone che l'oggetto di cui si parla esiste, anche se al momento non ne possiedo una conoscenza adeguata. Se infatti esso non esistesse non potrei mai iniziare la discussione, perché non potrebbe neppure venirmi in mente l'argomento. Ecco perché la conoscenza non può essere altro che riportare alla luce e svelare una realtà, una verità che temporaneamente si trova nascosta. Nel Menone, per dimostrare l’esistenza delle idee e che le nostre conoscenze sono innate Platone racconta di uno schiavo che, per quanto totalmente privo di competenza e di studi, riesce a trovare una verità matematica (il teorema di Pitagora) dietro lo stimolo di domande opportune da parte di Socrate. Secondo Platone se lo schiavo riesce praticamente da solo a prendere coscienza di principi della matematica mai studiati, ciò dimostra che essi sono presenti nella sua anima che deve averli acquisiti prima della nascita. In secondo luogo dimostra che esistono delle nozioni uguali e comuni per tutti gli uomini, e indipendenti dall'uomo stesso, cui chiunque può pervenire se adeguatamente guidato. Sta di fatto però, aggiunge Platone, che queste idee, necessariamente presupposte dalle più comuni esperienze, nella realtà sensibile non esistono. Qualcuno ha mai visto due cose perfettamente uguali, oppure un cane interamente rispondente all'idea generale che ne abbiamo? La risposta è evidentemente negativa. Non resta altra conclusione che le idee preesistono in un'altra dimensione, che l'uomo (o meglio la sua anima) le ha apprese prima di nascere, e che se le è poi dimenticate al momento stesso di venire al mondo. L'esperienza sensibile, dal canto suo, ha il compito di stimolare il «ricordo» (e cioè la conoscenza): vedendo molte cose «uguali», molti «cani», molte azioni «giuste», l’uomo a poco a poco recupera (ricorda) quelle conoscenze delle idee che possiede solo come ricordo sbiadito. LE ___________________ DELL’ESISTENZA DELLE IDEE 1 _________________________________ __________________________________ L’esempio dello ____________________ 2 ________________________________ La non _____________________________ ___________________________________ Come abbiamo già osservato le idee, come le cose, sono legate tra loro da una sorta di I RAPPORTI TRA LE IDEE parentela, per cui basta rammentarne una perché tutte le altre tornino alla mente. Se il mondo delle idee si costituisce come un insieme di possibili rapporti tra idee, la suprema scienza delle idee, che Platone chiama «dialettica», consisterà nello stabilire la mappa di queste relazioni, cioè nel determinare quali idee si connettono e La _______________________ quali no, precisando i vari modi che possono unire un'idea a un'altra. L'arte dialettica parte dal presupposto della possibile comunicazione tra le idee. Ora, se tutte le idee comunicassero tra loro ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe più senso la fatica della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no e quindi quali discorsi siano veri e quali falsi. Analogamente, se nessuna idea comunicasse con le altre non sarebbe possibile alcun discorso se non quello tautologico, del tipo "l'uomo è uomo". Scartate dunque le tesi universali per cui "tutte le idee sono combinabili con tutte le idee" e "nessuna idea è combinabile altre idee", a Platone resta soltanto la tesi intermedia particolare: "alcune idee sono combinabili tra loro e altre non lo sono": su quest'ultima tesi si radica la dialettica. 17 Le teorie della conoscenza che invece ritengono che ad originare le nostre conoscenze sia l’esperienza sono indicate con il termine empirismo. 103 I RAPPORTI TRA LE IDEE A – se __________________________________________________________________________________________________ allora _________________________________________________________________________________ B – se __________________________________________________________________________________________________ allora _________________________________________________________________________________ C – se __________________________________________________________________________________________________ allora _________________________________________________________________________________ Infatti, la tecnica dialettica consisterà nel definire un'idea mediante successive identificazioni e diversificazioni (con e da altre idee), attraverso un processo di tipo "dicotomico", che avanza dividendo per due un'idea, fino a giungere a un'idea La ____________________ come tecnica indivisibile. Si parte quindi da un’idea generale che include quella che vogliamo definire; per ________________________________ quindi si divide il campo definito dall’idea generale in due in base a una differenza specifica; occorrerà fermarsi quando non è più possibile individuare un’ulteriore diversificazione; la definizione dell’idea sarà ricavata leggendo dall’alto al basso l’albero dicotomico ottenuto. Un esempio servirà a chiarire meglio il procedimento. Supponiamo di voler definire l’idea “uomo”. Prima mossa: verrà scelta un'idea generale in cui quella di «uomo» sia inclusa, per esempio l'idea di animale (I livello di identità). Seconda mossa: il campo definito da questa idea verrà allora diviso in due mediante una differenza specifica, per esempio il possesso o meno di arti inferiori. Da una parte saranno lasciati tutti gli animali privi di piedi (I livello di differenza), dall'altra avremo l'idea di «animali con piedi», in cui è incluso l'uomo (II livello di identità). Fra questi, si dividerà ancora fra quadrupedi e bipedi; poi fra bipedi privi di parola e bipedi dotati di parola. L'uomo verrà finalmente definito come animale dotato di due piedi e di parola. Questa idea è un terminale; essa non risulta ulteriormente divisibile, né presenta altre relazioni di identità o differenza. le mappe __________________________ Ovviamente la definizione proposta non è l'unica possibile, perché scegliendo altre identificazioni iniziali potremmo costruire altre mappe dicotomiche. È quindi sommando le varie definizioni ottenute che si raggiungerà una miglior comprensione dell'idea studiata. __________________________ __________________________ __________________________ __________________________ __________________________ __________________________ __________________________ 104 8 – K. POPPER18 – IL MONDO 3 E IL MONDO DELLE IDEE DI PLATONE Mondo 1 e Mondo 2 La realtà del Mondo 3 Il Mondo 3 e il mondo delle idee di Platone Mondo 1 e Mondo 2 Noi accettiamo come «reali» quelle cose che possono esercitare un'azione causale su cose materiali reali e ordinarie o interagire con esse. Bisogna riconoscere però che le entità reali possono essere concrete o astratte in diversa misura. In fisica accettiamo come reali le forze e i campi di forza perché agiscono su cose materiali. Ma queste entità sono più astratte, e forse anche più congetturali o ipotetiche, delle cose materiali ordinarie. … Penso che i problemi con cui ci stiamo. cimentando si possono chiarire notevolmente qualora introduciamo una suddivisione tripartita. Anzitutto c'è il mondo fisico, l'universo delle entità fisiche; lo chiamerò «Mondo 1». In secondo luogo, c'è il mondo degli stati mentali, comprendente gli stati di coscienza, le disposizioni psicologiche e gli stati inconsci; lo chiamerò «Mondo 2». … Le entità del mondo fisico - processi, forze, campi di forze interagiscono fra loro e quindi con i corpi materiali, per cui congetturiamo che esse siano reali, anche se la loro realtà resta appunto congetturale. Accanto agli oggetti e agli stati fisici ipotizzo che vi siano degli stati mentali e che questi stati siano reali, perché interagiscono con i nostri corpi. Un mal di denti è un esempio valido di uno stato che è al tempo stesso mentale e fisico. Se avete un brutto mal di denti, diverrete fortemente motivati a recarvi dal dentista; il che comporta un certo numero di azioni e di movimenti fisici del vostro corpo. La carie del dente - un processo fisico-chimico, materiale - produrrà sì degli effetti fisici, ma tutto ciò avverrà tramite le vostre sensazioni dolorose e la vostra conoscenza che esistono delle istituzioni quali la professione del dentista. C'è infatti anche un terzo mondo, il mondo dei contenuti di pensiero, o per meglio dire, dei prodotti della mente umana; lo chiamerò «Mondo 3». La realtà del Mondo 3 Per Mondo 3 intendo il mondo dei prodotti della mente umana, come i racconti, i miti esplicativi, gli strumenti, le teorie scientifiche (sia vere che false), i problemi scientifici, le istituzioni sociali e le opere d'arte. Gli oggetti del Mondo 3 sono nostre costruzioni, benché non sempre siano il risultato di una produzione progettata da singoli individui. Molti oggetti del Mondo 3 esistono sotto forma di corpi materiali ed appartengono, in un certo senso, sia al Mondo 1 che al Mondo 3. Ne sono esempi le sculture, i 18 Karl Raimund Popper (1902 - 1994), - Filosofo della scienza. Tra i maggiori filosofi della scienza del sec. 20º, ha esercitato grande influenza per la sua concezione fallibilistica della conoscenza e del metodo scientifico. Sul piano della filosofia politica, la concezione fallibilistica della conoscenza ha condotto P. a una critica del totalitarismo (che avrebbe le sue radici in Platone, Hegel e Marx) a difesa di una «società aperta» dove ogni soluzione politica sia sottoposta al vaglio della critica e dove sia possibile sperimentare, mediante sistemi democratici, nuove soluzioni in grado di correggere gli errori delle precedenti. 105 dipinti e i libri, di argomento sia scientifico che letterario. Un libro è un oggetto fisico e appartiene dunque al Mondo 1; ma ciò che lo rende una produzione significativa della mente umana è il suo contenuto: quel che rimane costante nelle varie copie e nelle successive edizioni. Ora questo contenuto appartiene al Mondo 3…. Naturalmente tutti sono d'accordo nel ritenere che le teorie sono i prodotti del pensiero umano (o, se preferite, del comportamento umano — non starò a disputare sulle parole). Ciò nondimeno, esse hanno un certo grado di autonomia: può darsi che abbiano, oggettivamente, conseguenze che nessuno fino ad allora aveva pensato e che possono essere scoperte; scoperte nello stesso senso in cui è possibile scoprire una pianta o un animale esistenti, ma finora sconosciuti. Possiamo dire che il Mondo 3 è fatto dall'uomo solo alla sua origine e che, dal momento della loro comparsa, le teorie, cominciano ad avere una vita loro propria: esse producono conseguenze precedentemente non manifeste e problemi nuovi. Il mio esempio standard è preso dall'aritmetica. Possiamo dire che un sistema numerico sia la costruzione o l'invenzione degli uomini piuttosto che una loro scoperta. Ma la differenza tra numeri pari e dispari, tra numeri primi e numeri divisibili è una scoperta: una volta che il sistema numerico esiste queste caratteristiche serie di numeri sono là, oggettivamente, quali conseguenze (non prestabilite) della costruzione del sistema e le loro proprietà possono essere scoperte. … La situazione è simile relativamente a ogni teoria scientifica. Ognuna ha, oggettivamente, una serie immensa di conseguenze importanti, siano esse già state scoperte o meno. Il compito oggettivo dello scienziato — un compito oggettivo del Mondo 3 che regola il suo « comportamento verbale » in quanto « scienziato » — è quello di scoprire, le conseguenze logiche relative alla nuova teoria e di discuterle alla luce delle teorie esistenti. Il Mondo 3 e il mondo delle idee di Platone Pur corrispondendo in qualche modo al nostro Mondo 3, il mondo platonico degli oggetti intellegibili differisce da esso per molteplici aspetti. Esso consiste di quelle che Platone chiamava forme o idee o essenze - gli oggetti ai quali si riferiscono i concetti o le nozioni generali. Nel suo mondo delle forme intellegibili o idee le essenze più importanti sono il Bene, il Bello e il Giusto. Queste idee sono concepite come immutabili, atemporali o eterne e di origine divina. Quanto alla sua origine, il nostro Mondo 3 invece è fatto dall'uomo (e lo è nonostante la sua parziale autonomia) una proposta questa che avrebbe gravemente sconvolto Platone. D'altro canto, mentre sottolineo l'esistenza degli oggetti del Mondo 3, non penso che esistano le essenze; cioè non attribuisco nessuno status agli oggetti o referenti dei nostri concetti o nozioni. Secondo me, le speculazioni sulla vera natura o la vera definizione del bene o della giustizia conducono a giochi di parole, per cui vanno evitate. Vale a dire che il Mondo 3 di Platone, pur essendo chiaramente l'anticipazione, in un certo senso, del mio Mondo 3, mi sembra una costruzione erronea. D'altra parte, Platone non avrebbe mai ammesso nel suo mondo degli oggetti intellegibili certe entità come i problemi o le congetture - specialmente le congetture false … K. R. Popper – J. C. Eccles “L’io e il suo cervello”, Armando Editire, Vol. I. estratti pag. 21, 54-61 106 5 - ARISTOTELE E IL RAZIONALISMO ANTICO 1. L'interesse per la natura e le scienze 1.1 Dalla corte alla scuola 1.2 La nuova figura del filosofo: lo scienziato-ricercatore L'INTERESSE PER LA NATURA E LE Con Aristotele entra sulla scena del pensiero filosofico greco un personaggio nuovo, destinato a modificare profondamente e durevolmente il profilo intellettuale, la collocazione sociale, lo stile di lavoro del filosofo. Egli non è identificabile con nessuno dei due tipi di pensatori che ci sono noti: né con il grande aristocratico, destinato al possesso del sapere e alla gestione del potere (alla maniera di Parmenide e di Platone), né con i sapienti legati alle tecniche e alle classi urbane (alla maniera dei filosofi della città). La radicale diversità di Aristotele risulta già dal suo ambiente di provenienza. Nato nel 384 a Stagira, una piccola città della Calcidica sita all'estrema periferia del mondo greco, Aristotele risulta fin dal principio legato alle vicende del regno di Macedonia, alla cui influenza la sua città era sottoposta. Il padre era infatti medico di corte del nonno di Alessandro Magno, il costruttore di quello che sarà il primo impero dell’età ellenistica. Dalla professione del padre, il giovane Aristotele ricevette forse un incentivo verso quell'interesse per le scienze della natura che rimase costante in tutta là sua attività di ricerca; ma certamente più importante fu l'eredità implicita nella collocazione sociale del cortigiano. Per Aristotele, al contrario che per Platone, il rapporto con la politica poté fin dal principio essere soltanto indiretto, visto che dalla contesa per il potere egli era doppiamente escluso: in patria, giacché il potere vi era detenuto dalla monarchia macedone; all'estero, soprattutto in Atene, perché come straniero egli non poteva prender parte direttamente alla vita politica. Dal punto di vista dell'esclusione sociale dalla politica, Aristotele prefigura dunque l'intellettuale ellenistico, che, a partire dal III secolo, avrebbe vissuto in un mondo dominato dalle monarchie assolute. A diciassette anni Aristotele, andato ad Atene, divenne membro dell'Accademia platonica. L'ingresso del giovane provinciale nella grande istituzione ateniese fu probabilmente reso possibile da una presentazione della corte macedone, dalla quale egli proveniva. Fin dal principio non fu l'attività politica dell'Accademia ad attirare l'interesse di Aristotele, bensì le ricerche logiche e scientifiche che vi si conducevano. Aristotele restò nell'Accademia per vent'anni, fino alla morte di Platone. Nel secondo decennio della sua permanenza all'Accademia Aristotele scrisse, oltre a un certo numero di dialoghi di ispirazione platonica, anche alcune delle sue opere più importanti, soprattutto in materia di logica, di teoria del linguaggio e di retorica: a questo periodo appartengono anche probabilmente le sue prime opere scientifiche, fra cui la Fisica. Alla morte di Platone, nel 347, il trentasettenne Aristotele ha comunque ormai definito i fondamenti logici del suo pensiero. In quello stesso anno, egli abbandona Atene e l'Accademia, e si reca a Asso in Asia Minore. L'abbandono di Atene si deve probabilmente sia al disappunto per l'elezione del nipote di Platone alla direzione dell’Accademia platonica che alla reazione ateniese contro la politica espansionistica di Filippo, il padre di Alessandro Magno, alla cui corte Aristotele era notoriamente legato. Ad Asso Aristotele conobbe il giovane naturalista Teofrasto e i due studiosi attesero soprattutto a ricerche di carattere biologico. Nel 342 Aristotele venne invitato da Filippo ad assumere l'incarico di precettore del giovane erede al trono, Alessandro, presso la corte macedone. Più che la sua fama di SCIENZE DALLA CORTE ALLA SCUOLA Aristotele né ________________________ né _________________________________ L’ambiente di provenienza: ___________________________________ L’esclusione dalla ____________________ in patria:____________________________ ad Atene:___________________________ La frequentazione dell’________________ di _________________________ gli interessi ________________________ e ___________________________________ L’abbandono di ______________________ Gli studi ___________________________ 107 studioso, furono probabilmente i suoi legami famigliari a procurargli questo invito. In Macedonia Aristotele si trattenne per diversi anni; il suo compito presso Alessandro non andò comunque mai oltre quello di un normale insegnante di letteratura e di retorica, ed è certamente leggendaria la tradizione antica e medievale di un profondo influsso politico del filosofo sul giovane re, di cui il primo probabilmente non capiva e non condivideva le ambizioni imperiali. Nel 338 Filippo impose definitivamente la supremazia macedone sull'intera Grecia, ponendo fine all’esperienza delle città-stato; due anni dopo Alessandro succedette al padre sul trono di Macedonia. Aristotele era così libero di tornare ad Atene in tutta sicurezza, grazie alla potente protezione del suo regale discepolo. Rotti ormai i rapporti con l'Accademia, Aristotele aprì al Liceo, un ginnasio pubblico aperto all'insegnamento dei filosofi, una sua scuola con corsi regolari. Con l'insegnamento, cui d'ora in poi egli si dedicherà interamente, si definisce il secondo polo fondamentale dell'esperienza di Aristotele: partito dalla corte, egli approda alla scuola. Escluso dal potere, straniero in Atene, privo di una vera patria, il filosofo, che nella reggia è subalterno e di cui la piazza diffida perchè straniero, trova finalmente nella scuola una casa sicura in cui esser padrone; trova nella pratica dello studio e dell'insegnamento quell'appagamento, quel senso di autonomia e di compiutezza che la città gli nega nella mutata situazione sociale. Il Liceo aristotelico era naturalmente assai diverso dall'Accademia platonica. Fra i condiscepoli non esisteva alcun legame religioso, alcuna regola comune di vita, alcun progetto politico cui operare insieme. Meno aperto alla libera discussione dialettica di quanto lo fosse l'Accademia (giacché la dottrina e l'insegnamento di Aristotele erano in certo modo "ufficiali" e non questionabili), all’interno del Liceo venivano condotte tutta una serie di ricerche settoriali, dalla fisica, alla biologia, alla zoologia all’interno del quadro teorico delineato dalle teorie di Aristotele. Durante il periodo dell'insegnamento nel Liceo Aristotele compose le sue maggiori opere filosofiche, etiche, biologiche e psicologiche. Questo periodo di riflessione e di organizzazione della ricerca venne interrotto bruscamente da un grave sommovimento politico. Nel 323 morì Alessandro Magno, e ad Atene riprese vigore, anche se per un breve periodo, il partito antimacedone; per Aristotele, malvisto a causa dei suoi notissimi legami con i Macedoni, non c'era più posto nella città. Egli si rifugiò quindi nella casa della madre, a Calcide in Eubea, dove trascorse in solitudine gli ultimi mesi della sua vita. Le opere che Aristotele ci ha lasciato - un'imponente serie di scritti che coprono quasi tutti i campi del sapere - sono anch'esse legate, come tanta parte della sua vita, alla scuola e all'insegnamento. Aristotele scrisse, è vero, anche dialoghi di tipo platonico destinati alla pubblicazione, che si sono perduti, ma essi rappresentarono comunque una parte secondaria della sua produzione. Il suo pensiero potente, il suo sterminato sapere sono invece esposti nei trattati scientifici, costituiti dalla trascrizione dei corsi tenuti nei lunghi anni di insegnamento prima all'Accademia e poi al Liceo. Aristotele sostenne, nella sua Etica, che la vita contemplativa, dedicata solo al sapere teorico, allo studio, alla conoscenza, è la forma più alta di esistenza, la sola che avvicina l'uomo alla condizione divina: e il suo dio, in effetti come vedremo, non è che pensiero e conoscenza. In questo modo Aristotele descriveva la nuova figura del filosofo che egli stesso aveva impersonato e condotto a perfezione: non più il legislatore, il profeta, come voleva la tradizione aristocratico-sacerdotale, né l'ingegnoso inventore di tecniche, come per i filosofi della città, ma il caposcuola, l’insegnante o il grande intellettuale, ricercatore e scienziato, dedito a una conoscenza che Aristotele definisce del tutto disinteressata e perciò inutile dal punto di vista di ogni possibile fine pratico: fine de la conoscenza non è altro che la conoscenza stessa. Dalla società, dalla politica - cioè, L’istruzione di _______________________ Il ritorno a __________________________ La fondazione del ____________________ Dalla ___________________________ alla __________________________________ Liceo e ____________________________ La fuga da Atene e la _________________ Opere di Aristotele testi di _________________________________ LA NUOVA FIGURA DEL FILOSOFO: LO SCIENZIATO-RICERCATORE L’esaltazione della vita ________________ ___________________________________ La nuova figura di ___________________: lo _________________________________ dedito a un sapere ____________________ 108 ormai, dal potere regio - il filosofo si attende solo quella benevola protezione che gli consenta di attendere serenamente ai suoi studi nel tranquillo recinto della scuola. A sua volta, egli offre alla società un sapere privo di qualsiasi applicazione, che va perseguito solo perché il desiderio di sapere è coessenziale all'uomo. Certo, come vedremo, questo sapere contiene anche una giustificazione globale del sistema del mondo e della società, che fornisce un'indiretta ma solida base ideologica al potere del re e alla conservazione delle differenze di ceto. 2. Aristotele, Platone e la storia della filosofia 2.1 I compiti e l’oggetto della filosofia 2.2 Due concezioni della realtà 2.3 Platonismo e aristotelismo nella storia della filosofia ARISTOTELE, PLATONE E LA STORIA DELLA FILOSOFIA ARISTOTELE E PLATONE A CONFRONTO: Nella storia della filosofia europea, platonismo e aristotelismo sono rimasti, fino ai nostri giorni, come due modelli alternativi, due modi contrapposti di pensare la filosofia, i suoi fini, i suoi oggetti e conseguente come due modi alternativi di concepire la realtà. Una delle ragioni fondamentali di questa contrapposizione è individuabile nella trasformazione oggettiva intervenuta nel ruolo sociale del filosofo e dunque nella destinazione stessa del suo lavoro. Il fine della filosofia e del sapere per l'aristocratico Platone, discendente da re e legislatori, sta nel rinnovamento etico-politico della società; per Aristotele, l'una e l’altro sono fine a sé stessi, dunque socialmente inutili, se non per appagare quel bisogno di conoscenza pura che è insito nell'essenza dell'uomo. Ma questa diversa concezione dei fini della filosofia, che è oggettivamente pilotata dalla struttura sociale, incide poi a sua volta sul modo di pensare gli oggetti stessi della filosofia. Per il platonismo, la filosofia doveva occuparsi non degli oggetti del sapere empirico, volgare, per rivolgersi agli oggetti suoi propri - le idee - diversi da quelli su cui verteva l ‘esperienza comune. Il platonismo introduce dunque una scissione del mondo che è strettamente funzionale ai compiti che esso assegna alla filosofia: rendere certa la vita morale (garantita dall'esistenza di un altro «mondo», ultraterreno e sovrasensibile, dove i premi e le pene vengono equamente distribuiti secondo i meriti) e la guida politica della città destinata ai filosofi i soli in grado di conoscere la realtà ideale. Per Aristotele, al contrario, il compito della filosofia non sta né nell'immaginare né nel costruire un mondo nuovo e ideale; postulare una scissione del mondo fra il livello empirico e quello della «vera» realtà è per Aristotele in linea di principio un abuso dell'immaginazione filosofica, e ne riflette un eccesso del desiderio eticopolitico. Le idee di Platone sono inutili doppioni delle cose e, per di più, siamo costretti a pensarle in numero superiore rispetto alle cose stesse (ci deve essere l'idea dell'oggetto X e, insieme, le idee di tutte le sue qualità e i suoi modi di essere). Non c'è, per lui, che un solo mondo, ed è quello della nostra esperienza quotidian a , pur con tutta la sua complessità e le sue articolazioni che spetta al sapere di comprendere e descrivere. Non c'è che una sola realtà, ed è quella delle sostanze individuali - gli uomini, gli animali, le piante, gli astri, la divinità - che popolano il nostro mondo e che noi percepiamo con i sensi, o di cui ci parla il nostro linguaggio. Descrivere le qualità, l'essenza specifica, l'ordine che definiscono queste sostanze; comprendere le ragioni della loro esistenza, della loro struttura; giustificare razionalmente il grande piano del mondo e della natura:, questo diventa, per l’aristotelismo, il compito della filosofia e del sapere in generale. Queste diversità di compiti che i due filosofi affidano alla filosofia (per Platone rendere sicura la vita morale e l’azione politica, per Aristotele spiegare razionalmente 109 il mondo della natura) conduce all’elaborazione di due concezioni del reale diverse e opposte. Se Platone concepisce la vera realtà, oggetto del vero conoscere, come trascendente il mondo dell'esperienza, Aristotele al contrario assume l'esistenza e la conoscibilità degli enti sensibili e del mondo empirico come il proprio fondamentale punto d'avvio. Alla formazione di questo convincimento concorse verosimilmente l'orientamento naturalistico del padre, medico presso la corte macedone, lo studio della tradizione filosofica e scientifica ionica, oltre alle condizioni storico-politiche di cui abbiamo detto. Nel loro insieme, le principali dottrine di Aristotele configurano una concezione della realtà e del sapere autonoma e alternativa a quella di Platone. I caratteri originali della filosofia aristotelica si mostrano con evidenza nel confronto tra alcune dottrine aristoteliche e le corrispondenti platoniche. Per Aristotele tutte le singole cose che ci circondano (gli animali, le piante, ma anche gli oggetti prodotti dall'uomo) esistono effettivamente, sono cioè sostanze nel senso più proprio e non "immagini" imperfette dell'idea, che invece per Platone è la vera realtà. Gli individui (questo cane, questo albero, questo tavolo) sono concepiti come composti di materia e di forma: alla costituzione del tavolo concorre il legno di cui esso è fatto e la forma che l'artigiano conferisce al materiale legnoso. La forma è dunque pensata ARISTOTELE E PLATONE A CONFRONTO: A – I________________DELLA FILOSOFIA Platone = guida ______________________ della società Aristotele = _____________________________________________________________________________________________________ B - GLI __________________ DELLA FILOSOFIA Platone = il mondo delle _____________________________ Aristotele = esperienza _______ _________________________ L’inutilità del mondo delle idee: le idee come _______________ ________________________ C - CONCEZIONI DELLA REALTÀ Platone realtà vera = mondo che _______________________________________ da cui: Aristotele realtà vera = mondo ________________________________________ 1 - gli oggetti reali per Platone = immagini ______ _________________________ per Aristotele = composti da: ______________ ______________ + _______________________________________ Forma nelle ____________________ Idea _______________________________________ 2 studio della ______________ Platone:_______________ Aristotele: ______________ ricerca delle_______________ e dei _______________ delle _______ come una componente strutturale delle cose, a differenza dell'idea platonica, che esiste "oltre" le cose (sui concetti aristotelici di forma e materia ci soffermeremo più avanti). Se gli enti individuali, dei quali i sensi ci rendono testimonianza, sono realtà a tutti gli effetti, ne consegue per Aristotele che essi possono divenire oggetto di vera conoscenza. In particolare, l a p os s i bi l i t à di uno studio scientifico della natura, negata da Platone, rappresenta uno dei capisaldi del pensiero 110 aristotelico. La constatazione che gli enti naturali nascono, si corrompono, mutano e si muovono non si traduce in Aristotele, come invece in Platone, nella rinuncia a conoscerli con verità, ma dà luogo alla ricerca di cause e principi capaci di rendere intelligibili gli incessanti processi di trasformazione che si verificano intorno a noi. PLATONISMO E ARISTOTELISMO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA Il nuovo atteggiamento di Aristotele nei confronti della filosofia, dei suoi compiti, dei suoi oggetti, e la stessa nuova concezione della realtà se sul piano storicoculturale appaiono strettamente connessi alle nuove condizioni socio-politiche, sul piano teorico, per molti versi, sono ancora una volta il frutto del dibattito filosofico, e comunque dell’incontro/scontro tra tradizioni e quindi modi di vedere diversi, che ha il merito di diventare l’occasione per un approfondimento, un raffinamento, un superamento delle incongruenze, delle “ingenuità” contenute nei rispettivi punti di vista. Infatti, come voleva la tradizione aristocratico-sacerdotale il vero sapere coincide con un sapere che, come abbiamo detto, avvicina l’uomo alla condizione divina e che comunque si identica con un sapere disinteressato, non pratico ma fine a se stesso; la conoscenza ha però per oggetto, come voleva la tradizione dei filosofi della città, il mondo reale, il mondo dell’esperienza quotidiana. Da questo punto di vista non appare forse inutile sottolineare come la filosofia aristotelica si presenti come una riflessione su quella che è la nostra esperienza ordinaria e comune, per cui molte delle teorie aristoteliche appaiono confermate dal nostro comune modo di affrontare la vita quotidiana, coincidendo con il senso comune. L’esempio forse più noto di questa coincidenza è dato dalle teorie geocentriche, fatte proprie da Aristotele, che appunto coincidono con quello che appare nella vita di tutti i giorni, con il nostro senso comune. Un altro legame con la nostra esperienza ordinaria è dovuto inoltre al fatto che , come vedremo, uno degli oggetti principali delle indagini aristoteliche è costituito dal linguaggio di cui ci serviamo per parlare del mondo e che esprime quello che è il nostro abituale, quotidiano, rapporto con il modo stesso. Platonismo e aristotelismo, abbiamo detto all’inizio del paragrafo sono rimasti, fino ai nostri giorni, come due modelli alternativi, due modi contrapposti di concepire la filosofia e la realtà. In effetti essi rappresentano il prototipo di due atteggiamenti che sono rimasti costanti nella storia della cultura occidentale, quello idealistico-religioso e quello razionalistico. Nel suo tendere a giudicare il mondo reale in base al mondo ideale Platone è, infatti, sicuramente il padre del primo atteggiamento, mentre nel suo voler conoscere il mondo reale descrivendolo, classificandolo, spiegandone la cause Aristotele appare il padre di un atteggiamento razionalistico. I due filosofi hanno svolto una influenza diretta nella storia della filosofia almeno sino alla filosofia moderna, dal momento che tutta la filosofia cristiana si è svolta all’interno dei quadri concettuali fissati dall’uno o dall’altro. Infatti, Agostino d’Ippona, il primo dei filosofi cristiani, riprenderà l’atteggiamento radicalmente antimaterialista di Platone che dominerà, attraverso la sua mediazione, sino al XIII secolo quando la cultura europea riscoprirà, attraverso la mediazione della cultura araba, l’aristotelismo che finirà, con l’opera di Tommaso d’Aquino, per ispirare quella che è ancora oggi la visione teologica ufficiale della Chiesa cattolica. __________________________ Il pensiero di Aristotele come tentativo di fusione _____________________________ ___________________________________ Conoscenza ______________________ (tradiz. __________________________)+ ________________________ (filosofi della ____________) Il pensiero di Aristotele e il __________ _______________________ - teorie _________________ - l’analisi del ______________________ _________________________________ Platonismo e aristotelismo: prototipi dell’_________________________ e del _________________________________ Platonismo, aristotelismo e ___________ _____________: Platone ________________________ ______________________ d’Aquino 111 Tommaso 3. La Metafisica 3.1 I livelli della conoscenza: dalla conoscenza sensibile alla conoscenza per la conoscenza 3.2 La filosofia prima o metafisica 3.3 I principi per comprendere razionalmente la realtà 3.4 L'essere in quanto tale 3.5 La sostanza sovrasensibile LA METAFISICA I LIVELLI DELLA CONOSCENZA: DALLA CONOSCENZA SENSIBILE ALLA CONOSCENZA PER LA CONOSCENZA La Metafisica di Aristotele si apre con la celebre affermazione: «Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza». Ma i livelli della conoscenza sono molti e non tutti gli uomini pervengono a quella che, secondo Aristotele, è la forma della suprema conoscenza. L'uomo condivide con gli animali la possibilità di avere sensazioni. Prerogativa delle sensazioni in generale è di riguardare sempre un oggetto o un evento definito nello spazio e nel tempo. Ciò che si percepisce con i sensi, infatti, è sempre un oggetto qui e ora (questo libro che è qui e ora davanti a me). Aristotele esprime questa idea dicendo che la sensazione concerne il che delle cosa, non ancora il loro perché. Tra le sensazioni, Aristotele attribuisce una posizione di primato all'udito e alla vista. Attraverso l'udito, infatti, riceviamo insegnamenti e, quindi, apprendiamo. Questa caratterizzazione aristotelica della funzione dell'udito suggerisce che la via fondamentale per la trasmissione del sapere è ancora ravvisata nell'oralità, non nella scrittura. Tra i vari sensi, tuttavia, quello dotato di maggiori poteri conoscitivi è, per Aristotele, la vista. Questa, infatti, consente di cogliere - con una nettezza impossibile per gli altri sensi - le differenze tra gli oggetti. La superiorità della vista, inoltre, è dovuta al fatto che essa può essere utilizzata anche indipendentemente dall'azione e servire soltanto allo scopo disinteressato di contemplare le cose. La memoria - di cui sono dotate anche alcune specie animali oltre all'uomo - consente di conservare l'informazione ottenuta mediante la percezione, anche quando è assente l'oggetto che l'ha prodotta. Per esempio si sa che il fuoco brucia anche quando non lo si percepisce. Ciò che, per Aristotele, differenzia nettamente l'uomo dagli animali è l'esperienza, intesa come un insieme di molti ricordi della medesima cosa. Ad esempio, il ricordo che un determinato fuoco - percepito una volta - ha prodotto una sensazione di bruciore non è ancora un'esperienza. Sì ha un'esperienza solo quando un avvenimento – verificatosi più volte - è registrato nella memoria, in modo da permettere una conoscenza di tipo generale (ad esempio, il fuoco per lo più brucia). Dall'esperienza, secondo Aristotele, si genera la tecnica. La tecnica, infatti, è caratterizzata dal fatto di avere l'universale come oggetto della propria conoscenza. La medicina, per esempio, raggiunge il livello di tecnica - e non di semplice esperienza - quando è in grado di stabilire che un determinato rimedio guarisce non soltanto Socrate o Platone e così via, bensì ogni persona affetta da una certa malattia. Ciò significa che quel rimedio si rivela efficace nella totalità dei casi in cui è presente tale malattia. Qual è, allora, la differenza tra colui che ha semplicemente fatto esperienza della capacità di guarigione di un farmaco e colui che possiede la tecnica medica? La risposta è che - sebbene entrambi abbiano verificato l'efficacia di quel rimedio in una pluralità di casi - il primo non sa il perché. Chi, invece, possiede la tecnica gli è superiore, perché conosce la causa per cui tale rimedio è efficace in relazione a una data malattia e, quindi, necessariamente per tutti coloro che ne sono o ne saranno affetti. Anche la tecnica, tuttavia, non rappresenta per Aristotele il livello più alto del sapere. La ragione è che la tecnica, in tutte le sue manifestazioni, è subordinata a fini diversi dalla conoscenza. Le prime tecniche inventate dagli uomini sono quelle destinate a soddisfare i bisogni primari e a garantire la 1- le ___________________________ Le cose qui e _____________ ma non il __________________________________ Udito ___________________________ _____________ + poteri conoscitivi + ____________ e indipendente ________ ________________ (contemplazione) 2 - la ____________________ conserva ________________ anche in assenza dell’_________________________ 3 - l’____________________________ memoria che consente _________________ ___________________________________ 4 - la tecnica La generalizzazione dell’ ______________ il _____________ delle cose la ____________________ a fini diversa dalla ____________________________ 112 sopravvivenza. Il loro scopo è, dunque, l'utilità. Ma anche arti inventate successivamente (per esempio, la musica), pur non avendo come fine l'utilità, hanno un fine diverso dalla conoscenza. Esse mirano, infatti, a pro5 – il sapere per il ____________________ durre piacere o diletto. Al di sopra delle tecniche si colloca, dunque, il conoscere per il conoscere: una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa, ossia la conoscenza veramente libera, non subordinata a fini esterni a essa. Questa è la sapienza, il sapere più alto che ha per oggetto le cause prime di tutte le cose. A questo sapere mira la filosofia. In tal modo, Aristotele ha elaborato una nozione di sapere ormai lontana dal significato arcaico di sapere come saper fare, cioè di un sapere legato all'agire e al produrre. Lontana da quel sapere che i primi filosofi di Mileto avevano legato proprio al mondo delle tecniche che Aristotele vuole superare; lontano anche dal sapere platonico volto a dirigere l’azione politica. Per poter ricercare questo sapere disinteressato occorre quella che in greco era detta scholè, ossia il «tempo libero» da ogni attività lavorativa o pubblica. Un tal modo di intendere la conoscenza era legato alla struttura produttiva e sociale del mondo greco. Nella società greca, come in tutte le società occidentali sino al XVIIXVIII secolo) la classe dominante, tale perchè controllava ciò che le altre classi producevano, hanno visto nelle attività produttive soltanto un mezzo per potersi l’ideale di Aristotele: _________________ dedicare ad attività “superiori”, tali perchè del tutto estranee alla produzione. Solo con l’avvento della società capitalista, la nuova classe dominante, la borghesia, _________________________ porrà l’attività economica e produttiva al centro dei suoi interessi richiedendo alla scienza di essere un’attività utile, volta ad incrementare il dominio dell’uomo sulla natura. Nella prospettiva di Aristotele, il luogo autentico in cui questo sapere può essere perseguito è la scuola dei filosofi. Tutti gli uomini aspirano a conoscere, ma soltanto i filosofi realizzano in senso pieno questo fine iscritto nella natura dell'uomo. Il sapere per il ____________________e struttura _________________ e __________________ del mondo antico classe dominante : - controlla ciò _______________________________________________________________ - si dedica alle attività ______________________ perché non _______________________________ Società capitalista: la scienza deve essere ________________ classe dominante si dedica alle __________________________________________________ LA FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA Se il compito delle scienze e quello di farci conoscere i diversi aspetti della realtà, il compito della filosofia è quello di delineare il quadro generale che rende possibile tale conoscenza, di definire con la massima precisione concettuale le coordinate generali valide per ogni aspetto della realtà: i principi primi, cioè, che sorreggono tutta l'impalcatura della realtà. Per Aristotele si tratta di spiegare l'essenza di ciascun ente individuale: non di comprendere l'universale lasciando cadere gli elementi individuali, ma di elaborare concetti universali che siano di aiuto alla comprensione dei particolari, perché solo le cose particolari esistono e gli enti universali - come le idee platoniche - sono solo astrazioni mentali. Aristotele chiama filosofia prima questo tipo di indagine, ma nella tradizione filosofica successiva è prevalso l'uso del termine metafisica, attribuito nel I sec. a.C. da Andronico di Rodi al complesso dei libri aristotelici che trattano delle cause ultime. Si tratta, del resto, di andare davvero oltre la fisica (metà = "oltre", Compiti: delle scienze = ______________________ __________________________________ della filosofia = i principi _____________ _________________________________: a) validi per ________________________ b) concetti ________________ in grado di _________ _________________________ 113 "dopo"), perché non si tratta di parlare di una qualche singola cosa fisica, compito di una qualche scienza particolare ma dell’essere delle cose in generale. Filosofia prima o __________________ Per determinare tali principi Aristotele parte dall’analisi di ciò che compiamo quando cerchiamo di comprendere la realtà. Nel comprendere la realtà noi ci LE OPERAZIONI PER COMPRENDERE LA REALTÀ: serviamo di quattro diverse operazioni: determiniamo con rigore concettuale la precisa identità di ogni cosa, rispondendo cioè alla domanda: "che cosa è ...?"; inoltre, poiché ogni cosa è soggetta a mutamento, si tratta di comprendere come sia possibile che il suo essere si trasformi, devono essere comprese le cause del divenire; in terzo luogo classifichiamo l’oggetto in relazione a tutti gli altri e, infine, ricerchiamo le cause delle trasformazioni che le cose subiscono. LE OPERAZIONI PER COMPRENDERE LA REALTÀ: I PRINCIPI PER COMPRENDERE RAZIONALMENTE LA REALTÀ 1 definire ___________________________________ di ogni cosa _______________________ e _______________________ 2 – comprendere le __________ __________________delle cose _______________________ e _______________________ 3 - _________________________ in relazione ________________ _______________________ e _______________________ 4 – individuare le _______________ delle ___________________ __________________: __________________________________ 1 - I PRINCIPI PER COMPRENDERE Si tratta quindi di enunciare in primo luogo i principi che permettono di definire l'identità di una cosa. Aristotele rifiuta la separazione ontologica radicale tra materia e pensiero, e quindi esclude che il pensiero sia un carattere costitutivo della mente del tutto separato dal corpo e che la conoscenza sia reminiscenza. Ciò che pensiamo è invece inteso come prodotto dell'attività della mente che in se stessa non ha particolari contenuti e trae le proprie informazioni dal mondo esterno lasciandosi plasmare da esse. Aristotele deve quindi poter mostrare come il pensiero astratto possa nascere nella mente dell'uomo mediante l'esperienza, cioè mediante il rapporto sensibile con le cose. Che cosa accade quando mediante la vista osserviamo un oggetto? Ne formiamo una rappresentazione interiore, che diviene parte della nostra coscienza. L'oggetto materiale è ancora davanti a noi nella sua pienezza e nessun frammento della materia di cui è composto è entrato a far parte della nostra mente. Che cos'è dunque una rappresentazione soggettiva di una cosa? Che cosa è stato rappresentato dell'oggetto? La sua materia? Piuttosto è stato rappresentato un insieme di caratteristiche della materia di cui è composto: la sua disposizione nello spazio che gli conferisce una figura particolare; il suo colore; la qualità della luce che lo colpisce; il disegno delle parti che lo compongono; la struttura interna delle sue parti; e così via. Se la materia di cui sono composte le cose non avesse queste caratteristiche, potremmo rappresentarla sensibilmente? Ma non esiste alcuna cosa materiale la cui materia non abbia questo tipo di caratteristiche. E tuttavia esse non costituiscono affatto un carattere proprio della materia in quanto tale. Si prenda un foglio di carta e lo si strappi in diverse parti. Nulla nella materia è cambiato: essa è la stessa di prima, ma il foglio di carta non RAZIONALMENTE LA REALTÀ A – L’IDENTITÀ DELLE COSE Il rifiuto della separazione tra ___________ ___________________________________ Pensare = esperienza (rapporto __________ ___ con le cose) + attività della _________ la rappresentazione _______________delle cose: dalla cosa ______________ alla _________ ________________________________ Gli oggetti = MATERIA = __________________________ ___________________________________ + FORMA = ___________________________ _________________________________ Un esempio: ________________________ 114 è più un foglio di carta. È diventato un insieme di pezzetti strappati. La materia c'è ancora, il foglio di carta non più, e al suo posto c'è qualcos'altro. Ne possiamo trarre la conclusione che il foglio di carta era tutto nella particolare disposizione della materia che abbiamo distrutto? Ma non ci sarebbe alcun foglio di carta senza la materia che lo compone. Dobbiamo concluderne che la cosa - il foglio di carta in questo esempio, ma il principio vale per ogni cosa - non è esclusivamente composto dalla materia, ma anche dalla organizzazione unitaria di questa materia: in una parola da una forma. Essa è l'essenza della cosa, perché solo in questa forma quella determinata materia è divenuta l'oggetto reale che stiamo studiando; se cambiasse la sua forma, cambierebbe la sua identità, la sua essenza: sarebbe un'altra cosa. Tuttavia né la forma né la materia da sole costituiscono la cosa (come può esistere la forma di un foglio di carta senza nulla di materiale? Come può esistere una materia che non abbia alcuna forma?). La cosa è l'unità (con parola greca: il "sinolo") di materia e forma. Quando il soggetto conosce, sensibilmente un oggetto esterno materiale, nella mente nasce una rappresentazione della sua forma, non della materia di cui è composto. (La materia non è pensabile in quanto tale, ma solo in quanto ha assunto una forma. Per rendersene conto, si provi a formare la rappresentazione mentale di un corpo che non abbia alcuna forma: per quanto sforzi facciamo, daremo sempre a quella materia una forma, per quanto caotica essa sia). Questa concezione delle cose come unità di materia e forma si presenta così come una sintesi del pensiero precedente: i filosofi della città avevano identificato la realtà con gli elementi materiali, Platone con le idee; la verità è data, per Aristotele, dalla combinazione di queste due soluzioni (che sono in se stesse errate in quanto unilaterali). D’altra parte non bisogna però dimenticare che la forma mantiene un primato, una priorità. Il principio che determina la materia è la forma: il vetro, il legno, il corpo vivente devono ricevere una certa determinazione, una certa forma, per diventare, rispettivamente, bicchiere, albero e uomo. Ogni cosa diventa precisamente ciò che è grazie alla forma, che ne costituisce quindi l'essenza. La forma non deve essere intesa però platonicamente come separata, trascendente, rispetto alla materia, bensì intrinseca alla materia, in essa immanente. Platone ha saputo individuare il principio della forma, ma l’ha posto come separato, trascendente rispetto alle cose, per cui non è stato in grado di spiegare in che modo le idee possano effettivamente essere cause delle cose. Ciò può avvenire solo se il principio della forma viene concepito come immanente nelle cose stesse, negli individui. Materia e forma sono distinte solo col pensiero, nella realtà sensibile esse sono sempre indissolubilmente unite. L'ente concreto (questo bicchiere, questo albero, questo uomo) è infatti un composto di materia e forma, un sinolo, un intero, un individuo che ha una sussistenza autonoma. Stabilita la priorità della forma, d’altronde, Aristotele potrà introdurre, come vedremo, l’esistenza di entità sovrasensibili, che non appartengono quindi alla realtà sensibile, riproponendo in questo modo una visione, tipica della tradizione aristocratico-sacerdotale, per cui la realtà non si esaurisce in ciò che ci rivelano i sensi. La priorità della ______________________ a) cambiando la _______________ cambia _______________________________ oggetto = unità di ____________________ ____________________ b) ciò che viene rappresentato è _________ _______________ dell’oggetto La sintesi aristotelica: forma materia _______________ Platone __________________________ vedi a la forma come _____________ (dentro le cose) e non ________ _________________ (________ dalle cose) Dalla forma alla _____________________ _________________________ B– IL DIVENIRE DELLE COSE Per la comprensione della realtà nei suoi principi costitutivi non possiamo fermarci al rapporto tra materia e forma, perché le cose non sono realtà immutabili, ma sono continuamente soggette a mutamento. Dobbiamo quindi definire i principi che ci permettano di comprendere razionalmente qual è la natura del movimento e di Un esempio: _______________ capire che cos'è un evento, che cos'è qualcosa che accade. Che cosa accade quando il seme, caduto da un albero, germoglia dando origine a una nuova pianta? Quel seme poteva essere distrutto, poteva divenire cibo per uomini e animali. Non è accaduto, per un concorso di circostanze, ma poteva 115 accadere. Non potevano invece accadere altre cose: ad esempio, non poteva accadere che quel seme germogliasse dando origine a una pianta diversa da quella da cui proviene, che da un seme di un pesco nascesse un ciliegio. Alcune possibilità erano reali, altre no, e di quelle reali una sola si è realizzata. Aristotele interpreta il movimento della natura servendosi dei concetti di potenza e di atto. Considerata in ciascun istante del tempo, ogni cosa è ciò che è, ma nel fluire del tempo diverrà qualche cosa di diverso: il seme è divenuto una nuova pianta. Dunque nel presente ogni cosa è in atto ciò che è, ma nello stesso tempo è in potenza tutto ciò che potrà essere domani. L'atto e la potenza, si osservi, riguardano entrambi il presente. Infatti nel movimento del tempo - quando il seme diverrà una nuova pianta e non cibo per l'uomo - le potenzialità che erano possibili svaniranno: una diverrà reale, le altre non si realizzeranno. Dopo un certo tempo, ogni cosa sarà in atto qualche cosa di diverso da prima, e manterrà solo le potenzialità compatibili con il suo nuovo stato. L'essere di ogni cosa non è quindi, per ciascun momento del tempo, interamente in atto, ma è intriso di potenzialità. Poiché ogni cosa è composta da materia e da forma, nell'unità del sinolo, l'atto e le potenzialità presenti in ciascun istante sono determinati dal particolare rapporto tra quella determinata materia e quella determinata forma. La materia in se stessa non ha alcuna forma, ma potenzialmente può assumerle tutte. Dunque il modo migliore di definire la materia è chiamarla pura potenzialità. Il suo attualizzarsi sino a formare il mondo delle cose così come lo osserviamo nella natura è determinato dall'assunzione di forme determinate. L'universo è quindi concepito da Aristotele come una macchina (dotata di intelligenza, come vedremo) in movimento incessante, dominata dal processo di attualizzazione delle potenzialità. Non c'è bisogno di ricorrere a realtà trascendenti - come ritiene Platone - per spiegare il mondo: esso ha le sue leggi in se stesso. Tuttavia, la natura è qualche cosa di assai più complesso di quanto ritenesse Platone, che non aveva dedicato sufficiente studio alla ricerca sperimentale. Le potenzialità che la materia possiede sono enormi, e lo studio della fisica è tutto dedicato a comprendere nel dettaglio il movimento delle trasformazioni reali. C'è un rapporto preciso tra i concetti di materia e di forma e quelli di atto e di potenza. La materia è concepita da Aristotele come potenzialità, cioè come capacità di essere plasmata da una forma: tutto ciò che la materia è in atto - questo o quell'ente individuale della realtà - deriva dalla assunzione di una forma. La forma è concepita come l'atto della materia, cioè come l'essenza reale che permette alla cosa di essere ciò che è, attraverso la strutturazione della materia in una determinata configurazione. Nell'universo quindi c'è un movimento comune a tutti gli enti reali: tutta la materia tende ad attualizzarsi, ad acquisire una forma realizzando fin dove le è possibile la pienezza delle sue potenzialità. Tuttavia Aristotele non concepisce la realtà in modo simile al mito dell'età arcaica, che fa iniziare il movimento della generazione di ogni cosa da un elemento primordiale informe, come il Caos di Esiodo. Alle origini le cose non possono essere andate così. Anzi, per Aristotele non si può nemmeno parlare di origine. Infatti non si può concepire la materia senza una forma, la potenza senza l'atto: perché si abbia passaggio dalla potenza all'atto, l'ente che così si trasforma deve essere già qualche cosa in atto. Il principio della priorità dell'atto è di fondamentale importanza nella concezione della realtà per Aristotele, perché implica che l'universo e il tempo non abbiano avuto origine, ma vivano da sempre all'interno di un processo eterno di trasformazioni. ATTO = _____________________________ POTENZA = __________________________ La materia non ha _________________ma potenzialmente ______________________ materia = pura ____________________ Atto la materia assume una __________ _________________________ Universo = _________________________ _________________________ L’_________________________ delle cose La priorità dell’_____________ Per passare dalla _________________ all’___________ vi deve essere già _______________________ per cui: universo non ha ____________ Oltre alle coppie forma e materia, potenza e atto, Aristotele ha elaborato un'ultima C - LA CLASSIFICAZIONE DELLE COSE coppia di concetti per definire i principi che definiscono l'essere delle cose che hanno la loro origine nell’operazione, atto tipico della nostra conoscenza, della classificazione degli oggetti 116 Ciascuna cosa è composta da diversi elementi organicamente fusi insieme: si pensi al corpo umano e alla molteplicità dei suoi organi e delle sue funzioni. Il rapporto tra materia e forma determina ciò che l'uomo è in atto in ogni istante e che cosa potrà diventare sviluppando le sue potenzialità, e l'uomo è l'unità di una grande varietà di elementi organici. La sua forma dà unità a membra e funzioni diverse. Sono tutte egualmente essenziali per definire ciò che l'uomo è? Non nello stesso modo. Perché l'uomo sia uomo non fa differenza quali siano il colore della sua pelle o dei suoi capelli, la sua età, il suo sesso, e così via. Altri elementi sono indispensabili: precise differenze sostanziali distinguono l'uomo dall'animale, il vivo dal morto, e così via. Dobbiamo dunque distinguere ciò che appartiene alla sostanza dell'uomo da ciò che è semplicemente un elemento accessorio, accidentale. Appartiene alla sostanza dell'uomo ciò che, se non ci fosse, renderebbe l'uomo, qualche cosa di diverso dall'uomo (ad esempio, la vita, il pensiero, il linguaggio e così via); appartiene al campo dell'accidentale ciò che, pur mancando o variando - come il colore dei capelli o l'età - non modifica affatto il suo essere uomo. Così è per ogni cosa. Lo studioso della natura deve tendere a classificare ciascun ente della natura in rapporto alla sua sostanza, in modo da poterlo identificare rispetto agli altri. In questo modo la scienza della natura potrà procedere metodicamente attraverso osservazioni ordinate e non casuali, che permettano di avere un quadro chiaro degli elementi che compongono la natura e delle loro possibili trasformazioni. Oltre a definire gli oggetti, descrivere i loro mutamenti e a classificare gli oggetti, nel conoscerli noi ricerchiamo le cause delle trasformazioni che le cose subiscono. Definire che cos’è ciascuna delle componenti della realtà significa, infatti, descrivere gli oggetti e le loro trasformazioni ma anche definire dettagliatamente le cause che la determinano ad essere così com'è e la sottopongono al divenire, trasformandola nel tempo. Le cause che agiscono in natura sono diverse ed è necessario elencarle per individuare tutte le r agioni per cui ogni cosa è come è. Con il termine causa Aristotele intende un concetto piuttosto ampio, più ampio del significato che questa parola ha per noi. Per cause si devono intendere le condizioni che è necessario ammettere per spiegare le cose e le loro trasformazioni. Distinguiamo dunque con Aristotele quattro cause. Solo il loro complesso potrà rendere chiaro l'essere della realtà, tuttavia per Aristotele la quarta è quella decisiva. Vediamole una per una. 1) Causa materiale. Ciascuna cosa è composta da una determinata materia: per comprendere che cosa sia un ente della realtà è condizione indispensabile comprendere di quale materia esso è composto e, più in generale, comprendere che cosa sia la materia. 2) Causa formale. La stessa materia può dare luogo a cose diverse, assumendo forme diverse: si pensi, ad esempio, all'acqua, al ghiaccio e al vapore acqueo. Si tratta di comprendere quale sia per ciascuna cosa lo specifico rapporto tra la materia e la forma che essa assume 3) Causa efficiente. È ciò che corrisponde al concetto moderno di causa: per comprendere tanto una cosa quanto un evento è necessario risalire indietro nel tempo e comprendere quali altre cose e quali altri eventi hanno determinato ciò che studiamo a essere, significa scoprire il perché, il motivo per cui ciò che adesso è presente deriva da ciò che è stato prima. 4) Causa finale. Aristotele attribuisce un'importanza fondamentale a questa causa. Egli è convinto che per comprendere la realtà si debba anzitutto esaminare quale è lo scopo, il fine, a cui tutte le cose e gli eventi sono rivolti. SOSTANZA = ________________________ _________________________ ACCIDENTE = _______________________ ____________________________ La priorità della ____________ D – LE CAUSE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE COSE Causa = ____________________________ ___________________________________ Le 4 cause: A – LA CAUSA ________________________ la materia di cui è ____________________ B – LA CAUSA _______________________ _________________________ che assume C – LA CAUSA ________________________ ciò che ha __________________________ _______________________________ D – LA CAUSA ______________________ il ____________ a cui tendono le cose La priorità della causa _________________ 117 Ogni essere possiede quattro tipi di cause: materiale (la materia di cui è formato), efficiente (la causa che l’ha prodotto), formale (la forma che rende quella materia una certa cosa e non un’altra) e finale (lo scopo). Solo le ultime due hanno, per Aristotele, una rilevanza sostanziale: un tempio è tale quando è stato progettato per questo scopo o quando assolve in ogni modo la funzione religiosa, indipendentemente da chi l'ha costruito (causa efficiente) e dal materiale di costruzione. Vediamo meglio quest'ultimo punto. Aristotele non accetta il dualismo radicale tra pensiero e materia proposto da Platone come schema di interpretazione della realtà. Rifiuta quindi su un punto essenziale la teoria delle idee. La ragione intima della realtà deve essere cercata nella realtà stessa, nel mondo delle cose. E in esse Aristotele scopre i l finalismo. Comprendere il perché delle cose significa comprendere la loro destinazione, il termine verso il quale tutto si muove. È infatti evidente che l'incessante divenire di ogni cosa, sottolineato dai filosofi del periodo arcaico, non può essere semplicemente d e s c r i t t o , ma deve essere efficacemente spiegato. Perché la realtà è tutta in movimento? Verso dove si dirige? L'analogia con il comportamento umano può illustrare la situazione, ma non può costituire una spiegazione efficace. Perché l'uomo agisce? Per raggiungere uno scopo che si è prefissato. C'è un obiettivo, posto prima dell'azione dalla sua mente, al quale seguono diverse scelte che gli permetteranno di realizzarlo. Comprendere il perché dell'azione dell'uomo significa comprendere qual è il suo obiettivo, il suo scopo. La natura, a sua volta, sembra agire nello stesso modo: Aristotele, ricercatore attento nel campo della biologia, osserva che ogni organo è preposto a uno scopo, ogni funzione dell'organismo non è mai casuale, ma è finalizzata a soddisfare determinate esigenze dell'organismo vivente. E così tutto in natura sembra finalizzato a qualcosa: non c'è cosa o animale o pianta che non assolva a una funzione necessaria al buon coordinamento del tutto. Tuttavia l'analogia tra il comportamento dell'uomo e quello della natura non può essere spinta troppo oltre. Possiamo infatti ammettere che la natura decida quale obiettivo raggiungere e agisca di conseguenza? Dovremmo ammettere un'intelligenza cosciente posta dietro la materia e interpretare la natura come se fosse dominata da una mente dal carattere cosmico. Dovremmo immaginare una divinità simile all'uomo e alle sue capacità. Ma non abbiamo prove di questo e rischiamo di cadere in un ingenuo antropomorfismo. Per Aristotele il problema è quello di determinare le condizioni in cui opera il finalismo della natura rimanendo strettamente arcorati ai dati dell'esperienza. In questo modo Aristotele si allontana dal finalismo platonico che comunque pone il fine delle cose in qualcosa di esterno alle cose stesse, dal momento che ciò a cui mirano le cose per Platone è rappresentato dalla perfezione del mondo delle idee, fine che è imposto alle cose da un agente esterno quale il Demiurgo. Nella visione di Aristotele, invece, il fine è posto all’interno delle cose stesse dal momento che esso consiste nell’esplicitare al meglio le potenzialità che ciascuna cosa possiede ( così, ad esempio, il fine dell’uomo consiste nel realizzare tutte le potenzialità della persona) . La visione finalista verrà ampiamente ripresa dal cristianesimo che si rifarà più al platonismo che non all’aristotelismo, infatti nella visione cristiana tutte le cose tendono a realizzare un piano divino che pone il fine all’esterno delle cose stesse (così, ad esempio, il fine del mondo è servire l’uomo e il fine dell’uomo servire Dio). Ancora IL FINALISMO L’analogia con ______________________ Agire umano = raggiungere ____________ Azione della natura = _________________ ____________________________ Esiste un’ _________________ divina che decide? _______ perché: - non abbiamo _______________________ - soluzione __________________________ Fine delle cose non esterno (Platone) ma ______________ Fine delle cose = _____________________ ___________________________________ Il finalismo _________________ ___________________________________ La dignità __________________________ 118 una volta la visione di Aristotele appare dunque dominata dalla volontà di restituire piena dignità alle singole cose che contengono in se stesse il proprio fine. 2 - L'ESSERE IN QUANTO TALE Oltre ad enunciare i principi primi che ci consentono di comprendere razionalmente la realtà la metafisica, o filosofia prima, ha un ulteriore compito. Dice Aristotele: «C'è una scienza che considera l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l'essere in quanto essere universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». Le scienze particolari spiegano particolari regioni o aspetti della realtà: la fisica, ad esempio, indaga l'essere in quanto essere in movimento, la biologia l'essere in quanto essere vivente, la matematica l'essere in quanto numero, ecc. Ma è chiaro che interrogarsi sull'essere in quanto movimento o in quanto vivente presuppone che si sappia che cosa è l'essere in generale, l'essere, in quanto tale senza alcuna determinazione particolare (così come chiedere che cosa sia il moto uniforme o il moto accelerato presuppone che si sappia che cosa è il moto in generale). Ora, la scienza che studia l'essere in quanto essere è la metafisica. E poiché l'essere in quanto essere è l'oggetto comune a tutte le scienze particolari, tutte le scienze particolari presuppongono la metafisica che, proprio in questo senso, è la "filosofia prima". Ma com’è possibile parlare dell’essere in quanto essere? Come individuare questo oggetto, che è comune alle cose particolari, di cui si occupano le singole scienze, ma non coincide con esse? La risposta di Aristotele è, al tempo stesso, semplice ed estremamente complessa: l'ambito comune, non solo ad ogni scienza, ma anche ad ogni forma di sapere e di comunicazione umana, è formato dal linguaggio, i modi, le strutture, i significati del linguaggio organizzano qualsiasi nostra espressione, il nostro modo di parlare del mondo, di pensarlo, di interpretarlo. Poiché dunque la realtà viene esaurientemente espressa dal sapere umano, e questo si esprime a sua volta in un linguaggio - cioè con le parole, la grammatica, la sintassi, i significati della lingua -, la lingua si configura per Aristotele come lo strumento unitario per la comprensione del mondo: la struttura del linguaggio e la struttura della realtà gli appaiono omogenee e sovrapponibili, giacché in ultima analisi la prima rinvia sempre alla seconda. Tale identificazione tra strutture del linguaggio, che ci consente di descrivere il mondo, e le strutture della realtà, il mondo stesso, fonda la giustificazione della convinzione che il nostro pensiero, che utilizza il linguaggio, sia in grado di conoscere perfettamente la realtà. Questa convinzione costituisce sicuramente uno dei legami tra Aristotele e la tradizione aristocratico-sacerdotale che su tale identità aveva costruito tutta la sua riflessione a partire da Parmenide. Lo studio dell’essere, attraverso l’analisi delle strutture del linguaggio, porta Aristotele a individuare le diverse forme che esso può assumere che costituiscono le strutture fondamentali della realtà e, contemporaneamente, le strutture concettuali che ci consentono di comprenderla. I nostri discorsi possono riferirsi ad un qualsiasi oggetto in molti modi raggruppabili in dieci classi, ovvero categorie. Infatti, di una qualsiasi cosa noi possiamo parlare sotto i seguenti aspetti: 1- dire di che cosa si tratta, definendo le sue qualità sostanziali (categoria che Aristotele chiama Sostanza) 2 - dire quali qualità possiede (Qualità) 3 - descriverla quantitativamente (Quantità) 4 - metterla in relazione con le altre cose (Relazione) 5- parlare delle azioni che compie (Agire) 6- o degli effetti che subisce (Subire) 7 – indicare il luogo dove si trova (Dove) 8 - collocarla nel tempo (Quando) 9 - descrivere ciò che gli appartiene (Avere) o, infine, 10 - il suo essere in una determinata posizione (Giacere). Le scienze particolari studiano __________ ___________________________________ La metafisica studia __________________ ___________________________________ Il __________________________ come strumento di ______________ dell'______ ___________________________________ a) - Il linguaggio come ________________ ______________ di ogni forma di sapere b) - il sapere conosce esaurientemente ___________________________________ c) - struttura della ________________ e del ____________________ sono __________ _________________________ Pensiero = _______________ = realtà come voleva la _________________ _________________________ LE 10 CATEGORIE 119 Nella seguente proposizione, ad esempio, vengono usate tutte e dieci le categorie, Un esempio ovvero tutte le modalità che ci consentono di parlare di una cosa,: Tizio è un uomo (sostanza) di bell'aspetto (qualità) alto un metro e ottanta (quantità) che sta scrivendo (agire) e sta prendendo il sole (subire) vicino a Caio (relazione) sulla spiaggia (dove) oggi (quando) e porta gli occhiali da sole (avere) e sta seduto (giacere). LE 10 CATEGORIE : i modi con cui possiamo ___________________________ di una cosa: - __________________________________________________ -_____________________________________________ - __________________________________________________ - ____________________________________________ - __________________________________________________ - ____________________________________________ - __________________________________________________ - ____________________________________________ - __________________________________________________ - ____________________________________________ Se riflettiamo sull'esempio addotto, ci rendiamo conto facilmente che la categoria più importante è la sostanza. Perché si possa parlare di una cosa in termini, ad esempio, di dove e di quando, è condizione fondamentale che questa cosa ci sia e sia identificabile. Essa è l'unica ad avere una sussistenza autonoma, mentre tutte le altre si riferiscono ad essa e la presuppongono: la qualità, la quantità, l'azione ecc. sono sempre qualità, quantità, azione di qualcosa, di una sostanza. La cosa si può esprimere anche così: i predicati inclusi nella categoria sostanza «si dicono di un soggetto e non sono in un soggetto, dicono cioè che cosa è quel soggetto, ne definiscono l'essenza (alla domanda «che cosa è Tizio? si risponderà «Tizio è un uomo» e non certo «Tizio è bello o alto, ecc.); invece i predicati inclusi nelle altre categorie "sono in un soggetto" ossia ne esprimono questa o quella caratteristica (Tizio è bello, alto, ecc.). Il significato del termine essere quindi, pur non essendo univoco, non è nemmeno equivoco, ossia essere non è un termine usato per indicare, cose del tutto diverse (come, ad esempio, il termine scorpione usato per indicare l'animale o la costellazione celeste): i suoi diversi significati hanno un comune denominatore che è il seguente, l'essere o è sostanza o si riferisce alla sostanza. Per questo motivo lo studio dell'essere per Aristotele è essenzialmente lo studio delle sostanze reali, esistenti come individui nella realtà. Sulla doppia natura delle categorie che sono contemporaneamente, da un punto di vista logico, gli strumenti concettuali con i quali comprendiamo la realtà, e, da un punto di vista ontologico, i generalissimi modi di essere della realtà si fonda la nostra possibilità di conoscere con certezza il mondo reale. Infatti in questo modo le categorie sono modi di organizzare il nostro pensiero, attraverso il linguaggio, fondate su specifiche caratteristiche strutturali della realtà e che quindi ci consentono di rappresentarci la realtà esattamente come essa è. Le categorie essendo forme dell’essere, della realtà, e del pensiero valgono come leggi della realtà (valore ontologico) e del pensiero (valore gnoseologico). La priorità della ______________________ a) sussistenza _____________________ b) _________________________________ ___________________________________ Essere = _________________ LA DOPPIA NATURA DELLE CATEGORIE LA DOPPIA NATURA DELLE CATEGORIE Le categorie sono contemporaneamente: - modi di essere della ________________ Conoscenza _____________ - strumenti __________________________ che organizzano il nostro ___________ 120 Dobbiamo ora affrontare il terzo ed ultimo oggetto di studio della metafisica, 3-LA SOSTANZA SOVRASENSIBILE insieme ai principi primi che ci consentono di conoscere la realtà e all’essere in generale. Aristotele ritiene, dunque, contro Platone, che non esista una realtà soprasensibile (mondo delle idee) separata dalla realtà naturale, più vera della realtà sensibile, in quanto pensa che la struttura razionale (forma per le singole cose, categorie per l’essere) sia una parte, non separata dalle singole cose, ma costituente le singole cose e l’universo in generale. Non ritiene, però, - in questo concorde con la tradizione aristocratico-sacerdotale e con Platone – che la realtà si esaurisca in ciò che ci rivelano i sensi. Infatti, se occorre che la ragione elabori i principi razionali per comprendere la realtà, occorre anche che la stessa ammetta le conclusioni logicamente derivabili da questi principi, anche se ad essi non corrisponde alcuna esperienza. Ma qual’è il ragionamento che ci costringe ad ammettere una realtà sovrasensibile? I concetti di potenza/atto, così come quelli corrispondenti di materia/forma, sono relativi: ciò che è punto di arrivo, e quindi atto e forma, di un processo diventa punto di partenza, e quindi potenza e materia, di un altro processo. Che una cosa sia materia o forma, potenza o atto dipende dal punto di osservazione: il bambino è potenza rispetto all'uomo adulto, ma è atto rispetto al feto. Questa catena di potenza/atto (materia/forma) non può tuttavia essere pensata come infinità. All'estremo inferiore dobbiamo porre una potenza pura o materia prima del tutto priva di determinazioni. Si tratta di un concetto logicamente necessario a cui non può corrispondere nessuna esperienza. Tutto ciò che è osservabile, infatti, è sempre materia in qualche modo formata, potenzialità in qualche modo attuata. All'estremo superiore della catena degli esseri dobbiamo poi ammettere una forma pura o un atto puro. Possiamo a questo punto affrontare il quarto e ultimo significato di metafisica come indagine su Dio e la sostanza soprasensibile. La necessità di pensare un atto puro all'estremo superiore della catena degli esseri consegue dal principio fondamentale dell'anteriorità dell'atto sulla potenza. Se infatti la potenza presuppone l'atto, è evidente che, per evitare l'assurdo di un regresso infinito, dobbiamo porre al termine superiore della catena potenza-atto-potenza, ecc. un atto senza potenza, ossia un Atto puro. Data la corrispondenza tra atto e forma, 3-LA SOSTANZA SOVRASENSIBILE contro _________________: la struttura razionale delle cose non è ________________ dalle ________ ma è un ________________________ con ______________ e la tradizione ________________: la realtà non si esaurisce _________________________________________ perché occorre accettare le conclusione _________________________ derivabili dai ______________ _________________________ Le catena potenza / __________ e _____________ / __________ per non essere pensate come _______________ necessitano: all’inizio ________________ + ___________ atto puro + ______________________________ _______________________________ Atto puro + _____________________ = sostanza _________________ = ________________ l'Atto puro è nel contempo pura Forma senza materia ed è pertanto una sostanza incorporea, sovrasensibile. Ontologicamente esso è il Principio supremo, il fondamento da cui dipende tutta la catena degli esseri, ciò che gli uomini chiamano 121 Dio. Dio e le sostanze sovrasensibili sono dunque il terzo oggetto di studio della metafisica. L'esigenza di evitare il regresso infinito è alla base di tutte le dimostrazioni aristoteliche dell'esistenza di Dio. Il medesimo ragionamento che ci costringe a porre Dio come Atto puro e Forma pura può essere applicato al movimento: ogni cosa mossa presuppone qualcosa che la metta in moto ossia un motore, ma anche quest'ultimo, in quanto è a sua volta mosso, presuppone un motore, ecc., per cui, per non incorrere nel regresso infinito, dobbiamo porre al termine della catena un motore che non sia a sua volta mosso, ovvero un Motore immobile. Analogamente stanno le cose, se riflettiamo sulla catena delle cause: ogni effetto presuppone una causa, che è a sua volta effetto di un'altra causa e così via; dovrà quindi esserci una Causa prima non causata. Dio è quindi Atto puro e Forma pura, Motore immobile, Causa prima; in quanto sostanza sovrasensibile non ha né grandezza né parti, è eterno, separato, ingenerabile incorruttibile. A questa sostanza sovrasensibile, in quanto perfezione massima, appartiene il modo di vivere più perfetto, «quel modo di vivere che a noi [uomini] è concesso solo per breve tempo» e di cui essa invece gode in eterno: la vita dell'intelligenza. Dio è quindi pensiero ed è pensiero «che ha come oggetto ciò che è eccellente in massimo grado» ossia se stesso: egli è Pensiero che pensa se stesso. Dio è il supremo motore non in quanto causa efficiente, ma in quanto causa finale: egli muove, senza a sua volta essere mosso, "come l'oggetto d'amore attrae l'amante", ossia in quanto Fine ultimo a cui tendono tutti gli esseri. Dio non ha volontà, perché il volere e il desiderio presuppongono la mancanza di ciò che si vuole e si desidera, ed egli non manca di nulla; perciò il rapporto di Dio col mondo è unidirezionale: tutte le cose tendono a Dio, ma Dio non tende a nulla ed è impassibile. Il mondo non ha avuto un inizio nel tempo e nemmeno si è sviluppato dal caos all'ordine: esso è eterno, sempre identico a se stesso e unico. Tempo e movimento sono coeterni al mondo. Le dimostrazione ____________________ fondate sull’esigenza di evitare _________ ___________________________________ esempi: - atto/potenza e materia/ _____________ - _________________________________ - __________________________________ DIO DIO - Atto _____________ + - Motore ____________ _____________ pura _____________ prima - Sostanza _________________________________ (eterno, ingenerabile, incorruttibile) - Pensiero che _______________________________________ - Fine ______________ le cose tendono _______ ma Dio non _____________________ (rapporto Dio-mondo: ________________) - La coeternità di ______________________________________________ Poiché da Dio come Motore immobile dipende il movimento fisico di tutti i Il legame tra metafisica e ______________: cieli, tra metafisica e fisica (o filosofia naturale) sussiste, nella visione aristotelica, una connessione essenziale: non è possibile trattare i problemi Dio, Motore __________________ mette in fondamentali del mondo fisico, delle sostanze sensibili, senza fare riferimento alla sostanza sovrasensibile, anzi alle sostanze sovrasensibili. Secondo moto ______________________________ Aristotele, infatti, Dio è la suprema, ma non l'unica sostanza sovrasensibile: le sfere celesti sono mosse da Intelligenze simili a Dio, anche se a lui inferiori. Aristotele non è quindi monoteista; come tutti i filosofi greci, egli ritiene che il divino sia costituito da molte realtà eterne e incorruttibili, anche se 122 pensa queste realtà disposte in un ordine gerarchico che ha alla sommità il supremo Motore immobile. Aristotele elabora dunque anche una concezione teologica che risulta alquanto diversa dalla tradizione ebraico-cristiana. Infatti, mentre nella concezione cristiana Dio si presenta come una persona dotata di una propria volontà e che, pur trascendendo le cose essendo posto al di là delle cose, interviene attivamente e direttamente nella storia del mondo e delle cose, per Aristotele Dio un ente dettato da una necessità logica del ragionamento, che non ci costringe però ad attribuirgli alcuna caratteristica antropomorfica, e tende ad occupare un posto, all’inizio o alla fine, nella catena degli eventi e degli esseri ma senza intervenire direttamente. Dio, per Aristotele non può essere una persona in quanto, come abbiamo visto, non possiamo attribuirgli una volontà perchè il volere presuppone la mancanza di ciò che si vuole, ed egli non manca di nulla. Inoltre benché amato dagli altri esseri, che sono attratti da lui come il fine ultimo, egli non ama gli altri esseri. Questa mancanza di correlatività nel rapporto uomo-Dio, è stato osservato, comporta la mancanza del senso del peccato, tipica del cristianesimo. Il senso del peccato deriva infatti nell’uomo cristiano dall’avvertire il senso di colpa per non aver corrisposto all’amore paterno di Dio. Inoltre Dio non trascende né interviene nell’universo, infatti, pur essendo una sostanza sovrasensibile non è pensato come separato dall’universo. Infatti egli, come abbiamo osservato, trova posto nella catena degli eventi come Causa prima, Fine ultimo o come Motore immobile, ma la sua azione si limita a trasmettere il moto alle altre intelligenze celesti senza ulteriori interventi nella catena stessa. Il dio cristiano: Il dio di Aristotele: a - ___________________ dotata di __________________ a - necessità _______________ non persona perché: - non ha _________________ (non gli _______________________) - è __________________ dagli altri esseri ma non __________ (uomo non ________________) b - trascende il mondo b – non è _______________________ dall’universo (trova posta all’__ ___________ e alla ___________ della catena degli eventi c - __________________________________________________ c – la sua azione ____________ ____________________________ GLI OGGETTI DI STUDIO DELLA METAFISICA 1- ________________________________________________________________________________________________________ 2 - ________________________________________________________________________________________________________ 3 - ________________________________________________________________________________________________________ 123 6 - LO STOICISMO E IL VITALISMO ANTICO 0. Lo stoicismo 1. La concezione della realtà Materia e pensiero Il monismo L’immanentismo La provvidenza divina L’ottimismo metafisico Il finalismo della natura La fisica Lo stoicismo La quarta ed ultima visione della realtà, il vitalismo, altrimenti detta animismo, monismo organicismo, è stata elaborata dagli stoici, la più importante scuola filosofica, insieme all’epicureismo, dell’epoca ellenistica. Lo stoicismo è stato particolarmente attivo nell'età tardo-ellenistica e in seno alla cultura romana. Le ragioni di ciò non sono oscure: lo stoicismo era pervaso da una profonda ispirazione morale e religiosa, che rispondeva bene alle nuove esigenze spirituali che si diffusero a partire dal I secolo a.C. Data la grande longevità del movimento stoico gli studiosi sono soliti distinguerlo in tre parti: una «Stoa antica», che occupa grosso modo il III secolo a.C., dominata dalle grandi figure di Zenone, Cleante e Crisippo; una «Stoa di mezzo», che giunge fino al I secolo a.C.; una «Stoa nuova» (o «Stoa romana»), che restò assai viva fino al II secolo d.C. (ricordiamo i nomi di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio). In questo capitolo ci occuperemo solo della Stoa antica. Fondatore della scuola fu Zenone di Cizio (nell'isola di Cipro), un uomo di probabile origine fenicia. Egli giunse ad Atene all'età di ventidue anni, e compì il suo apprendistato intellettuale alla scuola platonica. Intorno al 300 a.C. Zenone fondò ad Atene la sua scuola, che fu detta «stoica» dal nome del luogo dove si insediò ( e cioè il «portico dipinto»: per questo motivo gli stoici saranno poi detti i «filosofi del Portico»). La scelta di un portico come luogo di insegnamento non è casuale. Zenone, in quanto straniero, non poteva possedere beni immobili in Atene, e ciò contribuì in qualche modo a determinare le caratteristiche esterne del sodalizio stoico: non un istituto organizzato e riconosciuto come l'Accademia platonica o il Giardino di Epicuro, ma piuttosto un gruppo di filosofi e di amici che si riunivano liberamente «sotto il portico» per discutere di filosofia. Anche le opere degli stoici antichi sono in gran parte perdute. Ciò tuttavia non ci impedisce di avere una conoscenza abbastanza organica del loro pensiero. Infatti la tradizione ci ha conservato un patrimonio di frammenti e di testimonianze assai ricco, e questo proprio a causa delle simpatie che le dottrine del Portico raccolsero negli ambienti più disparati. Risulta invece difficile individuare i singoli contributi dei maestri stoici, sia perché molti testimoni si riferiscono genericamente alla Stoa, sia perché la sistemazione proposta da Crisippo (il quale spesso altera sensibilmente il pensiero di Zenone, pur protestando la sua fedeltà al fondatore) finisce per essere attribuita a tutta la scuola. Per questo motivo esporremo le dottrine stoiche in modo sostanzialmente unitario. Ellenismo, _____________________ e religiosità Zenone di Cizio La scuola stoica 124 La concezione della realtà Materia e pensiero LA CONCEZIONE DELLA REALTÀ A L'asse portante dell'interpretazione stoica della realtà è il concetto di logos, introdotto nella tradizione filosofica greca da Eraclito, e interpretato in modo originale, fino a farne la chiave per la spiegazione di ogni aspetto della realtà. Platone aveva sostenuto l'ipotesi dualista (differenza reale tra l'universo fisico spaziotemporale e l'universo dello spirito), lo stoicismo invece sostiene l'ipotesi monista (da monos, uno: materia e spirito sono due forme della stessa realtà). Il problema da cui muove la filosofia antica è la scoperta, che risale al pensiero di Eraclito e di Parmenide, di due sfere della realtà: la materia e il pensiero. Nell'uomo il filosofo osserva l'interazione tra la forza del corpo e la forza della mente: materia e pensiero si mostrano nella loro connessione. Il pensiero astratto, il logos, concepisce in sé gli elementi sensibili della materia; la sua forza penetra negli aspetti nascosti delle cose; la decisione presa all'interno dello spirito si prolunga in azioni del corpo e la mente governa tutto il comportamento della persona, sia fisico che spirituale. Tuttavia, la relazione tra le due sfere è oscura. È questo il problema: fare luce razionale su questa oscurità. Rifiutando la visione platonica, lo stoicismo concepisce l'universo come un cosmo unitario. Nel Tutto - entità fisica e allo stesso tempo spirituale - il logos è forza, energia vivificatrice, che plasma l'inerte e passiva materia dandole una forma e uno scopo. Nulla è stabile e fermo nella natura secondo l'intuizione, ancora oscura, di Eraclito -, ma ogni cosa è presa dal vortice del movimento. Quale forza lo genera? Che cosa si esprime nell'incessante moto degli astri, nel gioco delle maree, nella mutevole vita degli esseri che popolano la Terra? Una sola forza pervade ogni aspetto del Tutto: l'energia del logos che guida il mondo verso la propria destinazione e conferisce il significato razionale ad ogni evento. Dobbiamo concepire questa forza come materiale o spirituale? La domanda è mal posta, perché presuppone - platonicamente, secondo una concezione ignota ai presocratici - che materia e spirito possano esistere l'uno indipendentemente dall'altro: da un lato la materia senza vita, dall'altro lo spirito creatore, indipendenti, concepiti ciascuno nella propria sfera. L'esperienza non ci dice questo, ma è in accordo con l'antica visione eraclitea della natura (physis): la materia non è affatto senza vita, ma è vivente; lo spirito non è affatto separato dalla materia, ma è la forza vitale interna ad essa. Dovremmo concepire viventi le piante e gli animali, e non la Terra che li nutre? Dovremmo concepire vivente l'essere che respira, e non l'aria che permette la vita? Certo, non si deve concepire il cosmo sull'analogia dell'uomo e dell'animale. Queste ultime sono forme individuali dell'essere, dotate di coscienza personale e nulla ci dice che il pianeta Terra abbia forme simili di coscienza. Ma dire che la Terra, il Sole e gli astri sono viventi non significa affatto che essi pensano come l'uomo o hanno coscienza nella sua stessa maniera. Abbiamo esperienza di molteplici forme di coscienza in natura: la pianta orienta le foglie nella direzione della luce, e sa quindi quale sia la posizione del Sole. Ma non possiamo dire che questa forma di sapere sia analoga a quella dell'uomo. Pensare che nell'universo vi sia una ragione profonda sottesa ad ogni essere, che tutto plasma e muove verso uno scopo determinato - e, come vedremo, buono - non significa immaginare una coscienza sul modello umano dilatata fino a coincidere con il cosmo. "Dal cosmo deve trarre origine tutto ciò che le sue parti hanno in sé: non solo il sostrato corporeo, ma anche il movimento, l'anima, la ragione, la perfezione morale. Noi dobbiamo quindi attribuire tutto ciò anche al cosmo stesso. In primo luogo la vita. ...Questo fu per la Stoa un principio indiscusso: solo la ristrettezza di una prospettiva antropomorfica può negare che il mondo, preso come un tutto, sia un essere animato dotato di ragione e perfetto" (M. Pohlenz). – IL MONISMO Il __________________________ L’ _______________________________ MATERIA E PENSIERO _________________ e _______________: la loro __________________________ L’energia __________________________ del Tutto: il _____________________ Materia e __________________ NON sono ___________________________________ la materia è _____________________ lo spirito è _________________________ interna alla ______________________ il vitalismo Forme di _______________________ in natura l’origine di __________________ dal Tutto cosmico l’animismo 125 Il logos dell'uomo è la forza del pensiero che gli permette di plasmare le cose fino a creare con la cultura e la civiltà quasi una "seconda natura" - nella città ben costruita, nei campi coltivati, nello spazio segnato da strade e ordinato dalla legge come territorio dello Stato. Che nell'universo vi sia una ragione profonda significa concepire questo logos dell'uomo come il prolungamento in una persona, dai tratti individuali, di una forza razionale cosmica - la stessa forza che si esprime nell'inconscio movimento della materia. Si osservi il processo della generazione di una pianta. La natura segue delle fasi estremamente precise, facendo sì che il seme abbia nel tempo una lunga serie ordinata di trasformazioni, fino a diventare albero. Tutto accade come se il seme fosse "programmato" (la parola, ovviamente, è moderna) per divenire albero, se nella sua struttura vi fosse già inscritto il fine. Una mente ha operato questo? Non dobbiamo immaginare la mente che guida l'universo sul modello della mente umana. L'uomo procede per tentativi ed errori, torna sui suoi passi, riprende la ricerca, è condizionato da mille fattori esteriori e psicologici. Il cosmo non procede affatto così: la via delle cose è segnata con assoluta perfezione, il seme diventa albero in un ciclo ininterrotto di nascita e di morte che dura da molto tempo, gli astri compiono un movimento incessante, senza nessuna delle incertezze umane. Dai tempi più antichi gli uomini hanno concepito come Dio una simile forza che gli stoici concepiscono come logos. Ed anche fra gli stoici alcuni spiriti sono profondamente attratti da una interpretazione in chiave religiosa dell'universo. Cleante, l'allievo di Zenone che, alla sua morte, diviene scolarca è dominato da un profondo sentimento religioso, e lucidamente esprime la sua fede in un Dio (la sua è una visione pienamente monoteista) come principio vivificatore del cosmo in un inno che ci è stato tramandato. Nel concepire questa divinità, non si pensi al messaggio cristiano, lontano ancora di secoli. Il Dio di Cleante e degli stoici non è altra cosa dall'universo. È l'intima forza che pervade tutto il cosmo, lo guida e gli conferisce senso. Non è puro spirito contrapposto alla materia, ma l'elemento vivificante della materia, concepito come fuoco, materia vivente, pura energia. Dio è immanente. Gli stoici sono i primi filosofi a concepire in piena consapevolezza l'ipotesi dell'immanenza. Il termine deriva dal verbo latino immanere (restar dentro) e si contrappone al termine trascendenza, con il quale indichiamo la tesi platonica che il mondo dello spirito trascende da la natura e sia eterno (cioè sia per natura ontologicamente separato e indipendente dalla materia e dal tempo). La tesi stoica sul cosmo è che Dio, cioè la forza dello spirito, sia dentro la natura - che il logos sia il suo elemento vivificante - e non possa concepirsi alcuna realtà eterna e immobile, alcuna idea fuori dal tempo. Il Tutto è scandito dal movimento e guidato secondo ragione verso il bene dalla propria intima costituzione divina (concezione finalistica dell'universo). In questo senso l'uomo - l'essere della natura in cui il logos divino si prolunga nella pienezza della sua cosciente razionalità è affine alla natura di Dio e Cleante può concludere la sua preghiera con queste parole: "Nessun ufficio più alto fu dato agli dei e agli uomini / che celebrare la legge che gli uni e gli altri nel giusto unisce". Si trattava, come si vede, di una concezione della divinità profondamente diversa da quella che sarà fatta propria dal Cristianesimo. Infatti la concezione stoica vedeva la divinità come qualcosa di immanente, ovvero come qualcosa di coincidente, insito nell’universo, mentre nella visione del cristianesimo Dio apparirà come un principio trascendente, ovvero superiore, non riconducibile e comunque esterno all’universo (di derivazione quindi platonica). IL LOGOS Nell’uomo: _____________________ nell’universo: _______________________ ___________________________________ La differenza non ___________________________ ma ____________________________ L’interpretazione ___________________: il logos è __________________________ B – L’IMMANENTISMO Dio come _________________________ ___________________________________ Immanenza e ________________________ Logos ____________ uomo simile a ____________________ IL DIO DEGLI STOICI E IL DIO CRISTIANO (vedi schema al fondo) 126 Un’ulteriore differenza tra la concezione stoica della divinità e quella cristiana è rintracciabile nel fatto che la divinità stoica non coincide con quella del Dio persona cristiano in quanto esso rappresenta piuttosto la legge che governa l’universo. Dio come persona e come principio immanente sono tipici della tradizione ebraica e da essa sono pervenuti al cristianesimo. LA PROVVIDENZA DIVINA La concezione della realtà La provvidenza divina Il logos come _____________ del Tutto Strettamente connessa con questa concezione è la dottrina stoica della provvidenza divina. Il logos, infatti, governa il mondo secondo necessità (la stessa necessità che osserviamo nelle inesorabili leggi di natura, al cui potere non c'è nulla che sfugga). Esso, concepito come divinità, guida tutta la natura verso il bene, fine ultimo d'ogni movimento dell'essere. Il bene non è concepito alla maniera platonica come un'istanza superiore ed eterna, immutabile, ma è applicato al mutevole mondo dell'esperienza. Bene non è quindi tanto la destinazione finale, quanto l'orientamento attuale dell'essere delle cose che sistematicamente e necessariamente si evolve, perché tutto è soggetto al movimento del tempo. E questo stesso movimento ad essere buono, perché pone ordine a tutto l'essere in ogni sua fase. Il bene è immanente nel mondo, anche se al nostro debole occhio il male può apparire vincente. Ciò dipende dal fatto che non cogliamo il significato vero delle cose e degli eventi: li osserviamo da un'angolazione ristretta, da un'ottica particolare, e non capiamo perché sono necessari al fine della perfezione del Tutto. Niente accade per caso, tutto accade secondo necessità, perché l'universo abbia ordine e misura. Non c'è movimento nella natura - la caduta delle foglie in autunno, il ciclo della vita e della morte, il costante ruotare dei cieli, e così fino al più piccolo evento che, per la nostra ignoranza, ci appare frutto del caso - che non abbia un senso nell'ordine del tutto. La provvidenza non è l'intervento della divinità che dall'esterno agisce sul mondo per guidarne il corso verso il bene. E la stessa ragione intima delle cose, è il senso oggettivo dell'evoluzione cosmica. L'uomo deve affidarsi a questo cammino dalle tappe già segnate, abbandonarsi con fiducia alla perfezione divina anche quando essa non appaia in tutta chiarezza e il male sembri prendere il sopravvento. Ma ciò che è male dalla visuale dell'individuo (ad esempio la morte per la preda) è bene nell'ordine dei tutto (il rapporto tra preda e predatore garantisce la vita nel ciclo cosmico del divenire). Naturalmente è vana la pretesa di comprendere sempre le ragioni della divinità, forma immanente che regge il mondo. Rimane il mistero nelle cose, negli eventi, nel destino individuale. Ma la ragione ci spinge ad avere fiducia nella bontà del Tutto. Il saggio si affida alla provvidenza appunto perché ha fiducia nella bontà della provvidenza. Se ripercorre col pensiero il corso della propria vita, l'uomo ha l'impressione che essa sia governata dalla Tyche, l'antica dea greca del caso, il cieco destino privo di senso che rende irrazionale ogni progetto troppo preciso a lunga scadenza: la vita soggiace infatti ai colpi della "fortuna", nel senso latino del termine. Per gli stoici questa maniera di pensare è frutto della nostra ignoranza del futuro, della mancanza del saldo possesso razionale della rete di cause che determinano un evento e, soprattutto, delle conseguenze che ne deriveranno. Il saggio però non si lascia ingannare dai limiti delle informazioni in suo possesso. Attraverso la ragione, egli sa che non c'è il caso nella natura, ma rigoroso ordine. Tutto è regolato dalla ragione che governa il cosmo secondo il bene. verso il ______________________ Bene NON _________________________ Bene come _________________________ _____________________________ Il male ha un senso ___________________ __________________________________ ma vana è la pretesa dell’uomo _________ _________________________________ L’inesistenza _______________________ Tutto è _____________________________ all’interno del piano provvidenziale 127 C - L’ OTTIMISMO METAFISICO L'essere stesso è bene, è divino. Il male è solo un momento del ciclo del bene, oppure è il frutto dell'ignoranza (un errore di prospettiva, nato dall'ottica sfocata che ci concede la nostra natura), oppure è il momentaneo prevalere dell'irrazionalità, cui La bontà ________________________ e il logos saprà dare un senso positivo, volgendo gli eventi verso il bene all’interno del piano provvidenziale. Gli stoici, dunque, hanno espresso la massima fiducia nella _______________________________ positività dell'essere. Il loro è un profondo ottimismo metafisico: la vita, l'essere in quanto essere, è bene. Non si tratta di chiudere gli occhi di fronte al male del mondo, di non voler vedere l'irrazionalità della vita e la profondità del dolore che opprime il vivente (ogni essere vivente, non solo l'uomo). Al contrario, la realtà va guardata con lucidità, oggettività: come la scienza ha cercato di fare in ogni tempo e come i Greci Ottimismo e ______________________ avevano imparato fin dai tempi delle prime osservazioni naturalistiche. Il male, tuttavia va compreso nell'ottica del bene. In questo ottimismo radicale – che ritroveremo nel pensiero medievale cristiano - va certamente vista una forma nuova di religiosità. D Questa fede nasce dalla interpretazione finalistica della natura (che, quindi, richiama Aristotele). Gli stoici sono profondamente colpiti dall'ordine dell'universo e dal fatto che tanto gli organismi viventi quanto il cosmo nel suo complesso appaiono orientati verso uno scopo. Si prenda il caso dell’uomo. Ogni suo organo sembra "programmato" per la buona efficienza dell'organismo; ogni momento del suo sviluppo (dal concepimento alla nascita alla crescita) appare finalizzato al perseguimento della migliore condizione dell'adulto; il suo corpo ha caratteristiche che lo predispongono alla parola e alla comunicazione spirituale con i suoi simili. Tutto accade come se un'intelligenza avesse "pensato" lo sviluppo dell'uomo secondo un preciso fine, la pienezza del suo essere. È come se vi fosse un progetto. Troppo bella la natura, per non pensarlo, troppo pieni e perfetti i suoi colori le sue forme, il fascino degli elementi, il paesaggio di tutti i giorni sulle terre dei Greci: il mare, il sole, l'aria, il profilo delle isole e dei monti. Lo stesso accade per ogni piano e per ogni animale. Se si pensa al ciclo delle stagioni, all'alternarsi del caldo e del freddo, del. l'umido e del secco, e così via la natura sembra costituire una macchina meravigliosa finalizzata al bene. La bellezza stessa della natura sembra proclamare la perfezione del divino che è in lei. Gli stoici descrivono ammirati tutto questo, e ai loro occhi il finalismo della natura appare come la migliore e la più razionale prova dell'esistenza di Dio come supremo reggitore dell'universo. Forse non comprendiamo tutte le vie del mondo, qualcuna è dolorosa - forse troppo dolorosa - per noi. Ma l'uomo saggio si affida all'ordine divino, quell'ordine che compare con tanto splendore nella bellezza del mare e della luce, nel ciclo vitale, finalizzato al bene, degli organismi. E tra questi - in un mondo che non ha voluto, ma che contempla con occhi stupiti e che comprende con la sua ragione - è ciascuno di noi. La ragione accomuna il nostro l o go s al logos divino che è in ogni cosa. L'uomo è affine a Dio. Ma come può fuggire dall'infelice condizione in cui si trova, oppresso dal dolore e schiavo delle passioni, per giungere alle serene regioni della vita divina, guidata dalla ragione? L'uomo può accostarsi a Dio? Si rifletta sulla posizione dell'uomo nel cosmo. Mentre gli epicurei concepiscono l'uomo come uno dei tanti casuali prodotti del movimento degli atomi, il pensiero stoico è dominato dall'antropocentrismo: l'uomo ha il primo posto nella scala degli esseri e la sua anima è affine a Dio. A questo punto però si presentava agli stoici un problema: qual è lo scopo ultimo che la natura persegue nel suo creare? Se noi vediamo una casa ben arredata, non ci domandiamo soltanto chi l'ha costruita ma anche per chi è stata costruita. La risposta per loro non è dubbia: tutte le forme di vita inferiori esistono in funzione di quelle superiori. La terra nutre le piante, queste nutrono gli animali, e gli animali servono all'uomo come strumento e come - IL FINALISMO DELLA NATURA L’_____________________ dell’universo: a – la ______________________________ b – la ____________________________ c - la ______________________________ a+b+c dimostrano ______________ _______________ La centralità ___________________ nell’___________________________ a - la comunanza tra __________________ b – l’universo al ____________________ ______________________ 128 cibo. Infatti, sebbene fisicamente l'uomo sia inferiore per molti aspetti agli animali, col suo logos egli si rende padrone di loro e di tutto il mondo. Egli è usufruttuario di tutte le cose ed è pure il solo essere atto e chiamato ad apprezzare la grandezza e la bellezza del mondo e a trarne motivo d'edificazione. Grazie al l o gos egli è Dio e uomo = _______________________ imparentato con la divinità. Dio e uomo sono gli esseri razionali, la più alta la maggior ______________________ forma dell'essere, la quale svela lo scopo e il senso del mondo. Il cosmo secondo Crisippo è «un sistema costituito dagli dèi, dagli uomini e dalle cose create per ______________________________ loro»" (M. Pohlenz). Con questo antropocentrismo gli stoici introducono un elemento nuovo nella cultura greca: esso è infatti assente non solo presso i filosofi, ma anche presso i poeti dell'età arcaica e classica. Anche questo antropocentrismo, insieme con l’ottimismo, verranno riprese dal cristianesimo fin dall’opera di Paolo di Tarso che nella sua interpretazione della figura di Gesù si servì ampiamente dei concetti elaborati dagli stoici. Tra questi vi è Stoicismo e Cristianesimo anche il concetto di provvidenza che è strettamente legato alla divinità per cui anch’essa viene, a causa della diversa concezione della divinità, concepita diversamente. La provvidenza costituisce un piano impersonale in quanto determinato da una legge, mentre per i cristiani sarà il frutto di una precisa volontà, quella divina. Inoltre, per gli stoici essa è, come la divinità, un principio immanente all’universo, mentre per i cristiani essa, come la divinità di cui rappresenta la volontà, e trascendente rispetto al mondo. Alla visione del mondo elaborata dagli stoici è strettamente connesso, come vedremo, la concezione, anch’essa destinata a essere ripresa dal cristianesimo, dalla morale come dovere. IL DIO DEGLI STOICI E IL DIO CRISTIANO 1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ 2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ Concetti ____________________ __________________________________ A Provvidenza ma (vedi divinità) 1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ 2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ B _____________________________________________________________ C _____________________________________________________________ D _____________________________________________________________ La fisica LA FISICA La fisica stoica è dichiaratamente materialistica. Per sostenere tale orientamento i 1 - Il _____________________________ maestri del Portico potevano giovarsi di un argomento di Platone. Nel Sofista questi aveva affermato che veramente reale è solo ciò che ha il potere di agire e di patire. Ma, osservano gli stoici, solo ciò che è materiale può godere di queste caratteristiche: dunque tutto ciò che agisce e patisce è corporeo. Si tratta 129 di una concezione gravida di conseguenze: vediamone subito due. In primo luogo definire la materia come «quella cosa che è in grado di agire e di patire» conferisce Differenze con _________________: al materialismo stoico un aspetto dinamico che lo differenzia nettamente dal materialismo epicureo. Per Epicuro, infatti, la materia è soprattutto la sostanza della realtà: è ciò che occupa uno spazio, che si può toccare e vedere e che si muove in modo geometrico, sospinto da una cieca forza meccanica. Per gli stoici, al contrario, la materia è qualcosa che (usando un'espressione aristotelica) è sempre in potenza, in quanto possiede la capacità intrinseca di divenire. Da qui deriva anche la seconda conseguenza che volevamo mettere in luce. Spesso lo stoicismo La materialità dei ____________________ insisterà nel considerare materiale tutta la realtà senza alcuna eccezione, comprese le entità astratte come la virtù, la giustizia, ecc. Orbene, questa tesi diviene comprensibile solo tenendo presente la concezione della materia illustrata sopra: la giustizia, ad esempio, è per gli stoici non già una realtà immateriale, ma l'insieme delle forme che la «materia» assume nelle persone, nei fatti e nelle cose «giuste». Alla luce di quanto si è detto, si capisce anche perché il carattere distintivo della 2 - Il _______________________________ fisica stoica risulti essere, più che il materialismo, il monismo. Platone aveva separato dualisticamente la forma (le idee) dalla materia (il mondo sensibile) e Aristotele aveva mantenuto, sia pure in forma indebolita, questa distinzione. Gli stoici, dal canto loro, non negano l'esistenza di un principio attivo e di uno passivo, di una realtà in certo modo «formale» e di una realtà «materiale». Negano, invece, che tale dualismo sia originario. Per loro esiste infatti una sola «materia» primigenia che riempie di sé tutto l'universo, e che di volta in volta può specificarsi in differenti ruoli e funzioni. Da qui deriva concezione stoica secondo cui esistono sia la materia che la forma, ma la forma stessa è qualcosa di materiale. In sostanza essi ritengono sia possibile, in via teorica, individuare un principio attivo e uno passivo, purchè si tenga presente non solo che tali principi sono realtà inseparabili (e fin qui saremmo ancora vicini alle critiche che Aristotele rivolgeva a Platone), ma che sono la stessa e unica cosa. A ben guardare il materialismo serve agli stoici soprattutto per confutare il dualismo metafisico di Platone. Dopodichè chiamare l'unica realtà esistente con la parola materia o con qualche altro termine non ha più molta importanza: la «materia» degli stoici è materia che è anche forma e spirito. Le caratteristiche della fisica degli stoici emergono bene attraverso un paragone con la fisica degli epicurei. Epicuro, come abbiamo visto, aveva una concezione «meccanica» della materia, credeva che fosse composta di atomi indivisibili inframmezzati dal vuoto, e asseriva l'impenetrabilità dei corpi; riteneva inoltre che i mondi fossero infiniti e nessuna necessità o provvidenza ne guidasse gli sviluppi, che gli dei vivessero fuori dal mondo e non si occupassero dei destini dell'umanità, e di conseguenza sosteneva l'esistenza del libero arbitrio. È facile dimostrare che su tutti questi punti gli stoici espressero tesi diametralmente opposte. La materia, in primo luogo, è per loro viva ed attiva, interamente compatta e divisibile all'infinito: un principio che poteva essere sostenuto solo ammettendo la penetrabilità dei corpi. In secondo luogo per gli stoici esiste un unico mondo guidato da una provvidenza divina calata nella realtà mondana, una provvidenza la quale guida le sorti di tale mondo secondo un destino che l'uomo è incapace di modificare nella sostanza. Queste differenze non sono casuali. Esse esprimono due maniere di interpretare la realtà naturale, la cui radicale opposizione fu lucidamente colta non solo dagli antichi ma anche in epoca posteriore (ad esempio nel rinascimento). L'universo epicureo assomiglia a un gioco di costruzioni fatto di elementi mobili, che si aggregano e si disgregano in infinite combinazioni senza ordine e senza legge: ogni oggetto è una temporanea unione di «mattoni» che presto o tardi si separeranno per comporne altri, e così via. L'universo stoico, al contrario, è simile ad un unico blocco di materia compatta e malleabile la quale, guidata da una legge 130 intrinseca, assume le forme più varie attraverso una trasformazione continua senza nette divisioni o salti interni. Ancora, mentre gli epicurei ritengono necessario, per spiegare la realtà mondana, un pluralismo spinto fino alle estreme conseguenze (l'infinità degli atomi), gli stoici ritengono che tale spiegazione sia possibile ammettendo una natura unica in grado di assumere configurazioni diverse. Differenze con _________________: A -____________________: materia come ________________________________ Stoici: materia come _______________________________________________ B - ______________________: _________________________________________________________________________________ Stoici: ______________________________________________________________________________________________________ C - ______________________: _________________________________________________________________________________ Stoici: ______________________________________________________________________________________________________ Un'altra significativa dottrina fisica della Stoa è il principio della cosiddetta «mescolanza di tutte le cose», e della loro interazione universale. Il principio di causalità universale sostiene che tutto ciò che accade nell’universo ha una causa che è a sua volta causa di qualcos’altro. L’universo è dunque retto da un’unica catena causale per cui un evento privo di causa è impensabile, in quanto ci sarebbe qualcosa di non determinato dalla natura e dalla ragione divina insita in essa. La provvidenza costituisce, per gli stoici, il piano razionale che, tramite la causalità universale, regge e governa il mondo realizzando un mondo perfetto perché ordinato e armonico in cui il male stesso appare giustificato nell’economia del tutto. Orbene, per i filosofi del Portico ciò implica che in natura tutto ha effetto su tutto: per esempio, anche una sola goccia di vino che cade in mare non è un accadimento irrilevante ma ha il potere di modificare, sia pure in misura infinitesima, le caratteristiche qualitative dell'insieme Da qui deriva anche un'ulteriore, fondamentale concezione, quella della cosiddetta «simpatia universale»: tutte le parti dell'universo, anche le più remo hanno organici rapporti di azione reciproca. Tale concezione ha, tra le altre cose, un importante significato religioso. È infatti grazie ad essa che gli stoici sostennero la fondatezza dell’astrologia, e più in generale furono portati a vedere in tutti i fenomeni della natura le molteplici manifestazioni 3 - Il principio _____________________ e piano ___________________________ La ______________________________ e _________________________ LA CONCEZIONE DELLA REALTÀ Monismo: ______________________________________________________ Materia e pensiero sono ____________________________: IL LOGOS come _________________ Immanentismo: __________________________________________________ ______________________________ LA ____________________________ Ottimismo metafisico: _____________________________________________ come __________________________ Finalismo della natura:_____________________________________________ ________________________ 131 132