La Grande Guerra nelle vie di Sondrio Via V Alpini Via Damiano Chiesa Via Vittorio Veneto Via Zara Via IV Novembre Via Ragazzi del ‘99 Via Adamello Via Gorizia Lungo Mallero Armando Diaz Lungo Mallero Luigi Cadorna Via Stelvio Via Enrico Toti Via Trento Via Fiume Via Trieste Sacrario Militare Via Tonale Via Nazario Sauro Via Cesare Battisti Clicca sul cartellino per visualizzare le schede Gli autori Lungo Mallero Armando Diaz Il Lungo Mallero Armando Diaz, deliberato nel settembre 1930, comprende oggi il tratto a destra del torrente dalla casa Cao fino a via Adua. Precedenti denominazioni la indicavano “via Argine destro” e poi “Argine Cantone” (1865) nel solo tratto fino al ponte nuovo (piazza Garibaldi). Il tratto poi da detto ponte verso l’Adda era dominato “via al Bersaglio”, poi cambiato lo stesso anno 1865 in “Lungargine della Presa”. (da G. Bianchi, Le vie di Sondrio) Indice Armando Diaz, la vita Giudizi su Armando Diaz La lettera di Mariano Gigli La Battaglia di Vittorio Veneto Il Bollettino della Vittoria Armando Diaz, la vita Avviato giovanissimo alla carriera militare, Diaz fu allievo dell'Accademia militare di Torino, dove divenne ufficiale d'artiglieria. Fu colonnello, comandante il 93º Reggimento fanteria, durante la guerra italo-turca. Maggior generale nel 1914, alla dichiarazione di intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale fu addetto al comando supremo quale capo del reparto operazioni; lasciò l'incarico al momento della promozione a tenente generale, nel giugno del 1916, per assumere il comando prima della 49a Divisione militare, poi del XXIII Corpo d'armata. La sera dell'8 novembre 1917 fu chiamato a sostituire Luigi Cadorna nella carica di Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Italiano. Recuperato quello che rimaneva dell'esercito, organizzò la resistenza sul monte Grappa e sul fiume Piave. Guidò alla vittoria le truppe italiane nel 1918, nella Battaglia di Vittorio Veneto; per l'occasione stilò il famoso Bollettino della Vittoria in cui comunicava la rotta dell'esercito austriaco ed il successo italiano. Al termine della guerra Diaz divenne senatore e nel 1921 venne insignito del titolo di Duca della Vittoria. Nel primo governo Mussolini, su precisa richiesta del re Vittorio Emanuele III assunse l'incarico di Ministro della Guerra. Terminata l'esperienza governativa il 30 aprile 1924, si ritirò a vita privata. Nello stesso anno, venne insignito insieme al generale Luigi Cadorna del grado di Maresciallo d'Italia, titolo istituito espressamente da Mussolini per onorare i comandanti dell'esercito nella Prima guerra mondiale. Giudizi su Armando Diaz "Chi è questo Diaz?" (generale Ferdinand Foch, comandante degli eserciti dell'Intesa) "Cadorna fu sostituito da Diaz, un napoletano di discendenza spagnola. Il quale si preoccupò maggiormente del benessere materiale dei suoi uomini ed istituì degli uffici di propaganda con il compito di esporre ai soldati la condotta e le finalità della guerra" (Dennis Mack Smith, storico) "Diaz rappresentò una figura più simile a quella di un consigliere di amministrazione, che di un capo di esercito" (Mario Silvestri) "L'ho tirato fuori io, è una mia scoperta" (Vittorio Emanuele III) Entusiasmo e ammirazione per la capacità militare del generale Diaz traspaiono anche dalle parole di Mariano Gigli, tenente dell’ 81° reggimento fanteria della Brigata Torino. La lettera di Mariano Gigli Mariano Gigli ha vent’anni quando, dopo aver frequentato il Corso di Allievi Ufficiali, il 30 marzo 1917 parte da Roma per il fronte. Diventerà Tenente dell’81° reggimento fanteria della Brigata Torino. In una lettera che il militare scrive alla famiglia il militare così esprime tutto il suo entusiasmo e la sua sincera ammirazione per il generale Diaz: ‘’Mamma mia carissima, finalmente siamo giunti al giorno che tanto si è fatto attendere, ma che inaspettato è sopraggiunto: a quello della vittoria completa, che il mondo intero, estasiata, sta ammirando. Sì, senza esagerare, quello che l'Esercito Italiano ha fatto è veramente prodigioso: il piano di guerra del nostro Generale Diaz è strabiliante. Ha battuto l'Austria in otto giorni. Se sempre con orgoglio ho appartenuto all'Esercito combattente (veramente combattente) oggi provo in me una soddisfazione immensa, superiore all'orgoglio cui faccio cenno sopra; benedico quel momento che sono stato fatto idoneo al servizio militare. In certi momenti nel vedere tutta questa popolazione sorridente, che parla perfettamente italiano, che ci usa un mondo di cortesie, mi sembra di sognare e più volte tra me e me mi sono domandato se era vero. Voi che state in Italia avete provato immensa gioia nell'apprendere il felice evento, ma noi di quassù, che fino a pochi giorni avanti sparavamo fucilate e cannonate, abbiamo sentito quello che sente chi raggiunge una cosa che, pur desiderandola ardentemente, la ritiene quasi irraggiungibile. Quando il primo forte, la mattina del 3 novembre, issava la bandiera bianca, perché aggirato, il momento di gioia fu indescrivibile, perché nulla noi sapevamo che i parlamentari si erano recati da Diaz (a Padova) per la resa e mai immaginavamo la vittoria così colossale. Nemmeno a dirlo, io sto benone, in attesa della trionfale entrata a Roma della Brigata Torino. Si è già costituita la musica!!’’ La Battaglia di Vittorio Veneto Le truppe e la popolazione passano il Cordevole – 2 Novembre 1918 Primi soldati a Vittorio Veneto Il 4 novembre 1918 si concludeva per l'Italia la Prima guerra mondiale. Dieci giorni prima, 41 Divisioni italiane - affiancate da una Divisione francese e una britannica - erano passate vittoriosamente all'offensiva sul fronte del Piave nella celeberrima Battaglia di Vittorio Veneto. Nel novembre del 1917, dopo la disfatta di Caporetto, il generale Luigi Cadorna venne sostituito, al comando dell’esercito italiano, dal generale Armando Diaz, il quale fu determinante per il successivo esito della Grande Guerra. Nella battaglia di Vittorio Veneto, Diaz guidò l’esercito contro le truppe austriache, rivelandosi decisivo per il clamoroso mutamento nell’andamento dei combattimenti sul fronte austriaco. Vinse l’importante battaglia e dimostrò grandi doti umane e capacità di svolgere un ruolo di camerata, oltre che di comandante. A conclusione di quello scontro, il generale, riferendosi all’esercito austriaco, scrisse nel suo celebre proclama: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”, mostrando un grande sentimento d’orgoglio nella realizzazione di un’impresa davvero storica per l’Italia. Il Bollettino della Vittoria Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un reggimento americano, contro sessantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Il capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Diaz L’entusiasmo per la vittoria fu tale che la sottoscrizione del documento “firmato Diaz” indusse molti italiani ad imporre ai propri figli appena nati il nome di Firmato, nella errata convinzione che quello fosse il nome di battesimo del generale vittorioso. Nei decenni successivi, in epoca fascista, il proclama della Vittoria conobbe una grandissima popolarità: il suo testo, fuso nel bronzo delle artiglierie catturate al nemico, venne esposto in tutte le caserme d'Italia dove tuttora è visibile, e venne poi immortalato sui monumenti, sulle facciate dei municipi, nelle scuole, diffuso in migliaia di copie su cartoline, stampe, libri scolastici, e letto, insegnato e imparato a memoria da generazioni di italiani. Il Sacrario Militare A Sondrio, presso il Parco della Rimembranza, si trova il Sacrario militare. Esso fa parte di un più ampio programma generale di sistemazione delle Salme voluto dal Commissario del Governo per le Onoranze ai caduti in Guerra che prevedeva la creazione di grandi concentramenti di Salme nei più importanti centri urbani. La Cappella Ossario, inaugurata il 6 novembre 1927 e realizzata grazie al contributo finanziario dell’Amministrazione Provinciale di Sondrio e di quattro banche locali (Banca Popolare di Sondrio, Banca Piccolo Credito Valtellinese, Banca della Valtellina e Banca Agricola Italiana), raccoglie le spoglie di 584 caduti della Grande guerra, che all’epoca si Trovavano inumate, in via provvisoria, nel cimitero civile di Sondrio e nei cimiteri civili e militari della provincia. Nella Cappella Ossario di Sondrio sono altresì conservate le spoglie guerra la cappella raccoglie anche i resti di 24 alpini travolti nel 1917 da due valanghe nell’Alta Valmalenco. Indice: La Cappella Ossario: storia L’artigianato di trincea I Caduti dello Scerscen Il Sacrario Militare del Passo dello Stelvio Il Sacrario Militare di Redipuglia Margherita Kaiser Parodi La ‘’spagnola’’ La Cappella Ossario: storia La Cappella Ossario di Sondrio, progettata dell’arch. Pietro dal Fabro di Treviso (Consulente per il Sacrario Militare di Redipuglia e progettista di quello del Passo dello Stelvio), presenta una struttura tripartita ed è stata realizzata con uno stile semplice ed essenziale, tipico dell’architettura di epoca fascista. Un altare semplice, ornato da cimeli militari, richiama subito il visitatore alla solennità del luogo e al valore militare delle Salme che lì riposano, sottolineato anche dalla particolare decorazione del portone, che reca lance e scudi in ferro battuto e ottone, e dalla presenza dei maestosi cedri del Libano che ornano l’antistante giardino. L’intera area avrebbe dovuto essere delimitata da una recinzione, ma, a causa della mancanza di fondi, essa è incorniciata dalle catene d’ancora di una nave da guerra italiana, che simboleggiano il valore della nostra Marina militare. Il portone della Cappella Ossario - particolare La Cappella Ossario è stata inaugurata nel 1932. Dopo la sua consacrazione, fino agli anni Settanta vi si celebrava la messa; successivamente essa non è più stata utilizzata, motivo per cui ha subito i danni dovuti all’incuria e allo scorrere del tempo. Nel 2000 l’Associazione Alpini di Sondrio ne ha promosso la riapertura per tramandare alle giovani generazioni il valore eroico dei Caduti della Grande guerra. La Cappella Ossario è stata quindi riconsacrata nel 2003 e in essa si celebrano delle funzioni liturgiche in occasione di ricorrenze particolari L’interno della Cappella Ossario L’artigianato di trincea L’espressione “artigianato di trincea” indica l’insieme degli oggetti (tagliacarte, vasi, anelli, bracciali…) costruiti artigianalmente dai soldati durante la Grande guerra con materiali di recupero come bossoli, bulloni, cinture di contenimento degli obici in rame, corone di forzamento delle granate, ottone, pezzi di ferro, alluminio… , materiali trovati in abbondanza sui campi di battaglia e raccolti dai soldati, rischiando la vita, in violazione delle norme imposte dagli Stati maggiori: tali materiali, infatti, erano considerati proprietà dello Stato. Bracciale in ottone Vasi Questi manufatti, opera di abili artigiani, vennero realizzati sia per far fronte alla carenza dell’equipaggiamento fornito dall’esercito sia per uso personale (è il caso degli accendini) o come souvenir da mandare a casa (tagliacarte, calamai, anelli e bracciali). Vasi conservati presso il Sacrario Militare di Sondrio Particolare dell’impugnatura di un tagliacarte I Caduti dello Scerscen Durante la Grande Guerra, nelle zone di retrovia si organizzavano vari corsi di addestramento per alpini sciatori, che dovevano essere impiegati nei settori del fronte coperti da ghiacciai. Uno di questi aveva come base la Capanna Marinelli. Da qui, il giorno 2 aprile 1917 una colonna di 42 alpini era da poco partita per scendere all’Alpe Musella quando improvvisamente venne investita da un’enorme valanga staccatasi dai pendii soprastanti. Sedici militari vennero sommersi e trascinati a valle. Proprio il giorno prima una sorte analoga aveva colpito un distaccamento di 28 alpini ospitati nell’Albergo Musella: una valanga distaccatasi dalle pendici del Sasso Nero, nel Vallone dello Scerscen, li aveva travolti, provocando 8 morti e 14 feriti. I resti degli Alpini caduti sotto la valanga di Scerscen e Musella sono ricomposti nella Cappella Ossario al Parco della Rimembranza di Sondrio. Gli 8 Alpini travolti dalla valanga al Rifugio Musella il 1° Aprile 1917 I 16 Alpini travolti dalla valanga alla Bocchetta delle Forbici il 2 Aprile 1917 Agazzi Francesco Bonaiti Mario Capelli Lorenzo Di Biase Alessandro Regazzoni Giuseppe Sosio Faustino Paini Luigi Palermo Rocco Bernardo Bormolini da Livigno Pietro Bonzi da Pessena Angelo Bonfadini da Sulzano Angelo Crescini da Casalino Pasquale di Battisti da Bisenti Domenico di Petrantonio da Penne Ugolino Generali da Pistoia Antonio Galli da Bollate Mauro Mapelli da Trescore Balneario Francesco Magliano da Monteo Roero Luigi Olivieri da Sant'Ambrogio Ernesto Pellegrinelli da Rotadendro Eppe Petrunciani da Sambuca Enrico Rosati da Tortoredo Antonio Ramboldini da Coglio Luigi Tomasini da Comappo Il Sacrario Militare del Passo dello Stelvio A cavallo tra la provincia di Sondrio e l'Alto Adige e non lontano dal confine con la Svizzera si trova il Sacrario del Passo dello Stelvio. Il piccolo monumento raccoglie i resti di 64 militari italiani caduti in questa zona del fronte, provenienti dai dismessi cimiteri di guerra di Spondigna e da quello di San Ranieri, antistante al Sacrario stesso. Le morti, in questa zona, avvennero sia per la guerra che per le condizioni climatiche spesso proibitive. Non va dimenticato infatti che il Passo si trova ad oltre 2500 metri s.l.m. e fu uno degli scenari della cosiddetta "Guerra Bianca". Fu realizzato su progetto di Pietro del Fabro nel 1932 e richiama gli archi romani che celebravano le vittorie dell'Impero Romano. Nella parte interna sono stati costruiti i loculi che contengono le spoglie dei soldati mentre l'intera struttura è circondata da un recinto in ferro. Sul cancello d'entrata si trovano due colonne in pietra che raffigurano due pugnali. L’esterno e l’interno del Sacrario Militare Il Sacrario Militare di Redipuglia Il Sacrario di Redipuglia è il più grande e maestoso sacrario italiano dedicato ai caduti della Grande Guerra. Inaugurato il 18 settembre 1938 dopo dieci anni di lavori, l'opera, detta anche Sacrario "dei Centomila", custodisce i resti mortali di 100.187 caduti (39.857 noti e 60.330 ignoti) nelle zone circostanti, in parte già sepolti inizialmente sull'antistante Colle di Sant’Elia. Fortemente voluto dal regime fascista, il sacrario voleva celebrare il sacrificio dei caduti nonché dare una degna sepoltura a coloro che non avevano trovato spazio nel cimitero degli Invitti. Recinge simbolicamente l’ingresso al Sacrario una monumentale catena d’ancora che appartenne alla torpediniera “Grado”. Subito oltre, dopo le tombe dei generali, tra cui spicca quella del Duca d’Aosta, si eleva una maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su sui sono allineate le tombe dei Caduti noti, che ricorda il poderoso e perfetto schieramento d’una intera grande Unità di centomila soldati. Al centro del primo gradone si trova l'unica donna sepolta, una crocerossina di nome Margherita Kaiser Parodi Orlando, mentre sull’ultimo, in due grandi tombe comuni, si trovano custodite le salme di 60mila Caduti ignoti e, vicine, quelle, identificate, di 72 marinai e 56 uomini della Guardia di Finanza. In cima, tre croci richiamano l'immagine del Monte Golgota e la crocifissione di Cristo. Margherita Kaiser Parodi Orlando Margherita Kaiser Parodi Orlando, nata il 16 maggio 1897, era partita con la madre e con la sorella Olga per il fronte, come crocerossina. Margherita prestò servizio presso l'invitta III Armata anche sotto i bombardamenti, in prima linea, e ciò le valse la medaglia di bronzo al valor militare. Appena finita la guerra, per lo scoppio di un'epidemia, la febbre ‘’spagnola’’, morì il 1° dicembre 1918 a Trieste, a soli 21 anni. Margherita è l'unica donna che abbia avuto l'attenzione di esser inumata al Sacrario di Redipuglia, dove è ricordata con il seguente distico: A noi, tra bende, fosti di carità l'ancella, Morte fra noi ti colse, resta fra noi Sorella. La “spagnola” L'influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la Grande Influenza, è una pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo. È stata descritta come la più grave forma di pandemia della storia dell'umanità, avendo ucciso più persone della terribile peste nera del XIV secolo e della stessa Grande Guerra. All'influenza venne dato il nome di "spagnola" poiché la sua esistenza fu inizialmente riportata soltanto dai giornali spagnoli. La spagnola, pur uccidendo moltissimi soldati italiani, colpì maggiormente l'Austria Ungheria, con circa due milioni di morti. Tra i soldati austriaci l'incidenza della mortalità fu quasi tripla rispetto ai soldati italiani: questo fu dovuto principalmente al fatto che i soldati dell'Impero austro-ungarico erano sottoalimentati per cui debilitati a causa del blocco navale che rendeva impossibile le importazioni degli imperi centrali. Lungo Mallero Luigi Cadorna Il Lungo Mallero Luigi Cadorna, così denominato dal settembre 1930, è il nome della riva sinistra dell’omonimo torrente, dalla località Gombaro fino al ponte della ferrovia. Prima di allora aveva diverse denominazioni: nel 1864 il tratto fra la piazza Vittorio Emanuele e la Folla era detto “via del Lazzaretto” a ricordo della peste del 1630; lo stesso tratto diventerà nel 1875 “Lungargine Cugnolo”, antico nome di una vasta località che si perdeva a sud; sempre nel 1875 il primo troncone fino a piazza Vecchia muterà da “via Fracaiolo” in “Lungargine Fumagalli” a ricordo di un tale Giuseppe, definito “il padre degli operai” che attivò i primi fornelli di un setificio sorto in città; nel 1865 il tratto tra il ponte vecchio e quello nuovo si chiamerà “Strada Rusconi” e poi (1875) “Lungargine Rusconi”. (da G. Bianchi, Le vie di Sondrio) Indice Capo di Stato Maggiore La Prima guerra mondiale La linea Cadorna Il Forte Montecchio La Strafexpedition Caporetto I prigionieri di Caporetto Il dopo Caporetto La fuga delle donne La Strada Cadorna Gli Arditi Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850Bordighera, 21 dicembre 1928) è stato un generale e politico italiano. La mattina del 1º luglio 1914 moriva improvvisamente il generale Alberto Pollio, stroncato da un infarto. Pochi giorni prima, il 28 giugno, Gavrilo Princip aveva assassinato a Sarajevo l'arciduca ereditario Francesco Ferdinando e la consorte Sophie Chotek. Il 27 luglio successivo Luigi Cadorna, su indicazione di Vittorio Emanuele III, prendeva possesso dell‘Ufficio di Capo di Stato Maggiore. Il 23 luglio l'Impero austro-ungarico aveva infatti consegnato il proprio ultimatum alla Serbia, innescando una reazione a catena che, di lì a poco, avrebbe portato allo scoppio della Prima guerra mondiale. L'esercito che il generale ereditava dal proprio predecessore stava affrontando un difficile periodo di transizione: al processo di ammodernamento, rallentato significativamente dalle scarse capacità industriali del Paese, si aggiungeva il dispendio di materiali richiesto dalla campagna libica ed il relativo stravolgimento organizzativo e logistico provocato dall'approntamento del consistente corpo di spedizione: nel 1914, ovvero a due anni dall'ufficiale conclusione delle ostilità, i 35.000 uomini inizialmente inviati erano saliti a 55.000, insufficienti comunque per venire a capo dello stato di guerriglia che travagliava il nuovo possedimento coloniale italiano. La Prima guerra mondiale L'avvio delle operazioni militari si ebbe il 23 maggio, e si tradusse in una lenta avanzata verso il corso dell'Isonzo della 2ª e 3ª Armata, senza che gli italiani incontrassero una significativa resistenza da parte del nemico. I combattimenti si accesero solamente ai primi di giugno e la spinta offensiva voluta da Cadorna raggiunse il suo apice fra il 25 ed il 30. Dopo alcuni scacchi iniziali, costati pesanti perdite il Monte Nero venne conquistato il 16 giugno da un fulmineo assalto di sei battaglioni di alpini mentre le restanti vette rimasero in mano austriaca. Quello stesso giorno il generale Pietro Frugoni ordinò la sospensione delle operazioni offensive della 2ª Armata contro Plava, posizione che sarebbe stata nuovamente teatro di ferocissimi combattimenti durante la seconda e la terza battaglia dell'Isonzo. Con l'ordine di Frugoni si esauriva così la prima fase dell'offensiva, che secondo i resoconti ufficiali era già costata all'esercito perdite per 11.000 uomini fra morti e feriti, quantunque oggi si tenda a ritenere che queste ammontassero ad almeno il doppio. La linea Cadorna Con il nome di "Linea Cadorna" si intende il sistema di fortificazioni militari costruito durante la Prima Guerra Mondiale tra il Lago Maggiore e il Monte Massone. Le fortificazioni comprendono un fìtto reticolo di mulattiere militari, trincee, postazioni d'artiglieria, luoghi di avvistamento, ospedaletti e strutture logistiche, centri di comando. Furono volute dal generale Cadorna per difendere il confine da un ipotizzato attacco austro-tedesco attraverso la Svizzera mai avvenuto. Esse coprono, nella logica della "guerra di posizione", un dislivello di 2.000 m tra la piana del Toce e il Monte Massone e fra il Lago Maggiore (Carmine inferiore) e il Monte Zeda e proseguono nelle Alpi centrali fino alle Orobie. Un po’di numeri… Tra l'Ossola e la Valtellina furono costruiti 72 km di trincee, 88 postazioni di artiglierie di cui 11 in caverna, 296 km di strade carrozzabili, 398 km di mulattiere. I lavori costarono più di 100 milioni di lire del tempo e impiegarono oltre 15.000 operai. In un'economia di guerra, i lavori ebbero un impatto positivo per le popolazioni locali in quanto offrirono lavoro retribuito a muratori e scalpellini e costituirono una prima occasione di lavoro salariato per la manodopera femminile impegnata nel trasporto dei viveri alle squadre in montagna. Il Forte Montecchio Situato a Colico, il Forte Montecchio Nord è l'unico forte militare italiano della Grande Guerra che conserva intatto il suo armamento originario. Il Forte conserva intatti non solo i quattro imponenti cannoni con una gittata di 14km modello Schneider da 149mm, in postazione girevole a 360° sotto cupola corazzata, ma anche l’impianto elettrico e tutti i serramenti e le blindature originali, oltre ai complessi sistemi di ventilazione e di approvvigionamento idrico. Costruito tra il 1911 ed il 1914, il Forte fa parte del Sistema Difensivo della Frontiera Nord, la cosiddetta “Linea Cadorna”. La sua funzione principale era quella di controllare le strade dello Spluga, del Maloja e dello Stelvio nel caso che gli Imperi Centrali, violando la neutralità della Svizzera, avessero deciso di invadere il Nord Italia. Il forte prende il nome dal luogo in cui è stato costruito. Nel 1939 il forte fu dedicato, come era in uso comune a quel periodo, alla medaglia d'oro al valor militare Aldo Lusardi, ferito a morte il 5 novembre 1935 nella zona di Addi Gundi nell'Africa Orientale italiana. La Strafexpedition Il termine “Strafexpedition” (spedizione punitiva) venne utilizzato dagli Austriaci per sottolineare il “tradimento” dell’ex-alleato, cioè l’Italia. Il punto più favorevole per un attacco era rappresentato dalle due valli che portano alla pianura veneta: a destra la Val Lagarina o Val d’Adige e a sinistra la Valsugana, ambedue servite da una ferrovia. In caso di vittoria, le forze austriache avrebbero potuto isolare completamente le armate italiane schierate ad est sull’Isonzo e arrivare al Po. I preparativi per l’operazione ebbero inizio nel dicembre 1915: alcune unità, unitamente ad armamenti, munizioni e vettovaglie, vennero trasferite da altri fronti verso il Tirolo in modo graduale, per non destare i sospetti italiani. Nonostante le cautele, iniziarono a correre voci sulla grande offensiva in preparazione, ma il servizio informazioni italiano le sottovalutò. Cadorna ricevette solo il 22 marzo la prima notizia di un concentramento di truppe nel Trentino, ma ritenne infondata la possibilità di una offensiva con grandi obiettivi in una località di alta montagna. Tutto l'Altopiano di Asiago fu teatro di sanguinosissimi combattimenti. Le forze italiane si ritirarono ai margini dell’altopiano, mentre fra Vicenza, Padova e Cittadella si costituiva una nuova armata. Il 14 giugno cominciò la controffensiva italiana, che costrinse gli Austriaci al ritiro. Caporetto Sul fronte dell'Isonzo gli italiani sferrarono due nuove offensive a metà maggio e poi ancora ad agosto, guadagnando qualche posizione sul bordo dell'Altopiano della Bainsizza seppur al prezzo di molti caduti; il fronte austro-ungarico fu però talmente logorato che la Germania intervenne ancora una volta. Hindenburg e Ludendorff si accordarono con il comandante in capo austro-ungarico Arthur Arz von Straussenburg per l'organizzare un'offensiva combinata. Alle 02:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-tedesche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza, alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo. Subito dopo la fanteria sfondò le linee italiane sia sulle montagne sia nella valle dell'Isonzo, dove una divisione tedesca raggiunse il pomeriggio del 24 ottobre la città di Caporetto; quindi gli austro-tedeschi avanzarono per 150 chilometri in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni, mentre l'esercito italiano ripiegava disordinatamente con numerosi casi di disgregazione e collasso di reparti. Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, ove nel frattempo era stata rafforzata una linea difensiva grazie agli episodi di resistenza sul fiume Tagliamento. La disfatta di Caporetto, oltre al crollo del fronte italiano e alla caotica ritirata delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, comportò la perdita in due settimane di 350.000 uomini fra morti, feriti, dispersi e prigionieri; altri 400.000 si sbandarono verso l'interno del paese. L'avanzata degli austro-tedeschi fu infine bloccata sulle rive del Piave a metà novembre, dopo una dura battaglia difensiva. Mappa dell'avanzata austro-ungarico-tedesca in seguito alla ritirata italiana I prigionieri di Caporetto Secondo le relazioni ufficiali dei comandi militari, dal 24 ottobre al 4 novembre vennero catturate circa 300 mila persone, la metà di tutti i prigionieri italiani della Grande Guerra. Arrestati lungo le strade e nei paesi dove si tentò di organizzare qualche azione di resistenza, questi uomini furono condotti nei campi di prigionia nel cuore dell'Impero austroungarico e tedesco. I campi di concentramento negli Imperi centrali furono definiti, nel 1918, "le citta dei morenti". Per lenire la fame i prigionieri ingerivano grandi quantità di acqua, ingoiavano erba, terra, pezzetti di legno e carta, anche sassi. Le conseguenze erano morte per dissenteria acuta, o per polmonite, se si gettavano in inverno dentro ai canali di scolo per raccattare la spazzatura delle cucine del campo. La razione di cibo quotidiana che l'Austria riservava ai prigionieri era costituita da un caffè d'orzo al mattino, una minestra di acqua con qualche foglia di rapa a mezzogiorno e a cena una patata con una fettina di pane integrale ed una aringa. Due, tre volte a settimana un Il rancio dei prigionieri minuscolo pezzo di carne. Le cause dei decessi solo in minima parte dipesero dalle ferite contratte in battaglia; la stragrande maggioranza morì per malattia, soprattutto la tubercolosi e l'edema per fame, il freddo e gli stenti. Il dopo Caporetto A livello militare, l'arretramento dall'Isonzo al Piave fu devastante come confermano i numeri ufficiali dell'esercito: 12mila morti, 30 mila feriti, 300 mila prigionieri, 350 mila soldati privi di istruzioni e comandi oppure disertori, migliaia di armi pesanti abbandonate e 14 mila chilometri quadrati ceduti all'Austria-Ungheria per un totale di un milione e mezzo di civili. Le gravi perdite costrinsero il Comando Supremo a schierare la nota "classe del '99", i ragazzi nati nel 1899 . Anche a livello politico le cose cambiarono. Spinto dai rappresentanti militari di Francia e Inghilterra, il Primo Ministro Vittorio Emanuele Orlando destituì il generale Cadorna. Al suo posto fu nominato Armando Diaz, un generale "giovane" e con un modo completamente diverso di intendere il comando. Egli infatti si dimostrò un abile mediatore, si mise a disposizione dello stesso governo di Roma ed esortò le truppe a combattere per la Patria, la famiglia e l'onore, eliminando quel clima di terrore che si era diffuso con Cadorna. La fuga delle donne La disfatta di Caporetto e la conseguente fuga dei civili riguardò anche le donne che, durante la guerra, avevano assunto in diversi casi il ruolo di capofamiglia data l'assenza dei mariti o dei padri, impegnati al fronte. Sole, senza soldi, emigrate in molti paesini del centro e sud Italia, le donne furono spesso vittime di soprusi e maltrattamenti; molte di loro facevano fatica ad accedere ai sussidi giornalieri per i profughi di guerra e così si ritrovarono ogni giorno a fare i conti con la fame e la miseria. Una profuga giunta a Cerignola così scrive: "Fuggita dal mio caro paesello, durante l'invasione nemica, senza aver potuto portare con me neppure il necessario per cambiarmi, fui menata qui, in questa città delle Puglie. Qui non si può avere neppure l'acqua per lavarsi e devo pagarla a caro prezzo, diffalcando la spesa dall'esigua paga di lire due al giorno. Con l'enorme crescente rincaro dei viveri devo pensare a tutto con sole due lire; né posso andare in cerca di decorosa occupazione, vergognandomi di uscire dal mio ricovero così malandata e indecentemente vestita". A questo si aggiunse poi il razzismo degli abitanti del posto che temevano che questi profughi sottraessero loro le scarse offerte di lavoro. Una donna di San Pietro del Natisone, trasferitasi vicino Catania, ricorda come "siamo abbastanza mal visti che questa gente e peggio delle bestie. Ci guardano male a noi e noialtri non potiamo più soportare. Siamo qui come i zingari anche peggio tutti straciati". Spesso molte profughe furono così costrette a chiedere l'elemosina e, nei casi più disperati, ad abbandonare i propri figli. La strada Cadorna La Strada Cadorna è una strada a tornanti lunga 25 km che, partendo da Bassano del Grappa, consente di raggiungere rapidamente la vetta del Grappa a quota 1.776. Venne fatta costruire nel 1916 dal Generale di cui porta il nome. Cadorna intuì che in caso di sconfitta, il monte Grappa sarebbe stato indispensabile per bloccare il Veduta della Strada Cadorna (1927) nemico nel settore da Vicenza al Montello e avrebbe costituito quindi il fulcro della difesa italiana. Dette quindi ordine al genio militare di costruire in breve tempo una strada e due teleferiche che potessero portare mezzi e truppe fino al monte Grappa. Tra militari e civili vi lavorarono circa 30 000 uomini. La strada si rilevò di eccezionale importanza strategica per l'organizzazione difensiva e logistica del sistema di difesa dell'intero massiccio: completata pochi giorni prima della disfatta di Caporetto, i contrafforti del Grappa si rivelarono indispensabili per la difesa della Pianura Padana. La Strada Cadorna Gli Arditi Fin dai primi mesi di guerra, il Comando Supremo aveva prescritto ai reggimenti di conferire, a titolo d’onore, la qualifica di "Arditi" a quanti si fossero maggiormente distinti per decisione e per coraggio e di riunirli in plotoni speciali all’occorrenza. Fu però solo nel 1917, con una circolare del 26 giugno, che il Comando Supremo dispose la formazione di "reparti d’assalto" nell’ambito di ognuna delle Armate. Questi reparti speciali, chiamati prima “Arditi”, poi “Fiamme Nere”, infine “Reparti d’assalto”, erano costituiti da soldati volontari che venivano addestrati a Sdricca di Manzano, nei pressi di Gorizia, dove praticavano molta ginnastica, la lotta corpo a corpo con e senza armi, prendevano lezioni di lancio di bombe a mano e di tiro con fucile e mitragliatrice. Gli Arditi erano specializzati nel combattimento corpo a corpo, dunque venivano inviati in prima linea solo per il tempo necessario allo svolgimento di azioni violente e sanguinose quali l’assalto frontale, colpi di mano, la cattura di prigionieri da usare come fonte di informazioni. Durante le loro azioni si avvalevano di pugnali e petardi Thevenot, sorta di bombe a mano la cui potente deflagrazione stordiva i soldati rendendoli incapaci di combattere; parimenti usati erano anche i lanciafiamme e i lanciagranate. Per sottolineare il ruolo attivo ed eroico degli Arditi, a questi speciali reparti furono riservati un diverso trattamento ed anche una diversa divisa. Gli Arditi, infatti, furono esentati dai turni in trincea, ebbero migliore vitto ed alloggio, un soprassoldo e, soprattutto, un regime disciplinare meno rigido e formale. L’uniforme era costituita da giubba aperta con fiamme nere sul bavero e maglione a collo rovesciato al posto del fastidioso colletto chiuso, fez come quello dei bersaglieri ma di colore nero e pantaloni all’alpina, mentre l’equipaggiamento era rappresentato da materiali più comodi e leggeri. Via Damiano Chiesa Collega via Martiri della Libertà a via Cesare Battisti davanti al cinema Excelsior. È la via parallela a sud di via Cesura. Indice Damiano Chiesa L’ arruolamento La fucilazione L’ ultima lettera alla famiglia Medaglia d’oro alla memoria Strafexpedition Damiano Chiesa Damiano Chiesa nacque nella città trentina di Rovereto il 24 maggio 1894. Fin da piccolo si rifiutò di ritenersi austriaco e di studiare la lingua tedesca nutrendo forti sentimenti irredentisti. Dopo aver terminato le Imperial Regie Scuole nella sua città natale, allora parte dell'Impero AustroUngarico, si iscrisse al Politecnico di Torino e poi continuò gli studi presso la Facoltà di Ingegneria navale di Genova. Rovereto nel 1915 L’arruolamento Nel 1915, invece di arruolarsi, come cittadino austriaco, nell'esercito austroungarico, entrò volontario, con il falso nome di Mario Angelotti, nel Regio Esercito italiano e il 29 maggio partì per il Fronte di Asiago, nel 6º Reggimento Artiglieria da Fortezza. Seguì un corso accelerato da sottotenente e prestò servizio nel 9º Reggimento della stessa Arma sui monti roveretani, mentre la sua famiglia veniva deportata nel campo di internamento austriaco di Katzenau. Sul Monte Zugna guidò i suoi soldati nella costruzione di una caverna per la protezione dei cannoni, fino a quando un attacco sferrato dagli austriaci il 17 maggio 1916, bloccò la caverna e Chiesa venne fatto prigioniero. La fucilazione Fu condotto a forza al Castello del Buon Consiglio, allora presidio militare, e dopo un processo sommario, durante il quale continuò a negare la propria nazionalità austriaca, fu condannato alla fucilazione per «Alto Tradimento alla Casa d'Asburgo ed all'Impero austro-ungarico». Nel 1916 fu fucilato e gli fu conferita una medaglia d’oro alla memoria. Alla fine della guerra fu insignito del titolo di "Protomartire della Grande Guerra" insieme a Cesare Battisti e Fabio Filzi, agli onori dei Re d'Italia e del Governo Italiano e della laurea “honoris causa” del Politecnico torinese. È ricordato soprattutto nel Museo storico italiano della guerra a Rovereto. Le sue spoglie sono conservate a Rovereto, presso l'Ossario di Castel Dante. Ultima lettera alla famiglia « Papà, mamma, Beppina, Jole ed Emma carissimi, negli ultimi momenti di mia vita, confortato dalla Fede, dalla S. Comunione e dalle belle parole del curato di campo, mando a tutti i miei cari i saluti più cari, l'assicurazione che nell'altra vita non sono morto, che sempre vivo in eterno che sempre pregherò per voi tutti. Devo ringraziarvi di tutto quanto avete fatto per me e domando il vostro perdono. Sempre vostro aff.mo figlio Damiano » Medaglia d’oro alla memoria «Fervente apostolo dell’italianità della sua terra, quando suonò l’ora di affermarla con le armi, tra i primi accorse come semplice soldato ed insistentemente sollecitò, finché l’ottenne, l’onore di essere destinato ai reparti più avanzati, dove rese utilissimi servigi in ardite operazioni ad immediato contatto con l’avversario, noncurante dell’estrema gravità che avrebbe avuto per lui l’eventuale cattura. Sottotenente in una delle batterie più avanzate, allo sferrarsi di un attacco di soverchianti forze nemiche, pur sapendo che era stato dato ordine che egli fosse ritirato indietro in caso di evidente pericolo, volle rimanere al suo posto, per sciogliere fino all’ultimo il voto del proprio patriottismo, ed anche quando, per l’incontenibile appressarsi della travolgente onda avversaria, i pezzi furono resi inservibili per essere abbandonati, volle restare a combattere, cercando invano sul campo quella morte che sola poteva ormai salvarlo dal supremo martirio. Circondato e fatto prigioniero, subì con stoica fermezza i maltrattamenti dei nemici. Tratto dinanzi ai giudici, riaffermò solennemente i suoi sentimenti di appassionata italianità e con fiero atteggiamento affrontò il supplizio, cadendo fucilato, col nome d’Italia sulle labbra; fulgido esempio di patriottico ardore e di insigne eroismo.» — Costa Violina (Trento), 15-19 maggio 1916 Strafexpedition Fu la più grande battaglia di montagna, una tra le più grandi spedizioni punitive, combattuta dal 15 Maggio al 26 Giugno 1916. Si scontrarono Italia e Austro-Ungheria sul Fronte di Asiago, sulle Alpi vicentine tra Veneto e Trentino, più precisamente nelle Mellette, gruppo di rilievi montuosi situati nella parte settentrionale dell’Altopiano d’Asiago. Via Cesare Battisti Qui sorse nel 1812 il cimitero della città, poi traslocato nel 1902: vi fu sepolta per prima una figliola del dottor Belottini e per ultima un’anziana signora; luogo piuttosto lugubre, cintato da alte mura e da giganteschi pioppi. Fino al 1897 la via era denominata via Torretta e muterà quell’anno il nome in via al Castelletto; nel 1916, pochi mesi dopo la morte di Battisti, il tratto di strada che si stacca da via Piazzi fino allo scalo ferroviario diventerà via Cesare Battisti. Indice Cesare Battisti La Grande Guerra Il carcere e la morte “I want you” I prigionieri di guerra I campi di prigionia Cesare Battisti Cesare Battisti nasce sotto l’ impero Austro-Ungarico a Trento, nel 1875. Dopo aver frequentato il Liceo Classico Giovanni Prati, all’ epoca chiamato Imperial Regio Ginnasio, si sposta a Graz dove si lega con al gruppo dei Marxisti tedeschi, con cui fonda un giornale, che però viene subito censurato. Dopo le Superiori si sposta a Firenze dove frequenta l’Università e nel 1898 si laurea in Geografia. Successivamente si occupa di problemi sociali e politici, battendosi per migliorare le condizioni di vita degli operai e fonda un altro giornale chiamato “Il popolo”. Nel 1911 si fa eleggere deputato al Parlamento di Vienna. Il centro di Graz Una veduta di Trento La Grande Guerra Dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale Battisti si trasferisce in Italia seguito dalla famiglia e si impegna attivamente nella propaganda contro l’Impero Austro-Ungarico, favorendo l’entrata in guerra dell’Italia. Un anno dopo la penisola dichiara guerra agli Imperi Centrali, quindi Battisti si arruola volontario nel- l’armata Regia. Viene inserito nel un reparto Sciatori al Passo del Tonale, quindi lo promuovono ufficiale nel Battaglione Vicenza del Sesto Reggimento Alpino. Durante le operazioni, che causano moltissime perdite, viene fatto prigioniero. Il carcere e la morte In carcere viene trattato come un animale e umiliato davanti alla folla: i carcerieri, addirittura, gli permettono di bere solo acqua sporca, come un cane. Nel 1916 viene accusato di alto tradimento davanti a un tribunale, non gli viene permesso di avere un difensore e vene condannato a morte. Durante il processo non si scusa nè rinnega il proprio operato, considerandosi un vero e proprio soldato italiano fatto prigioniero. Successivamente viene giustiziato nella Fossa della Cervara per impiccagione e non per fucilazione, il metodo di uccisone dei prigionieri di guerra, come avrebbe desiderato. “I want you” Durante la Prima Guerra Mondiale venne ideato un mezzo efficace per influenzare le masse e convincere i giovani a morire per il proprio paese, la propaganda, utilizzata specialmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove l’arruolamento era volontario. All’epoca, essendo l’unico mezzo disponibile, vennero affisse sui muri delle città e diffuse tra le folle delle vignette, che, attraverso precisi studi, convincevano la gente che, in quel periodo, combattere o lavorare più ore al giorno per il proprio paese era una cosa giusta, visto che la sconfitta del nemico non era solo un obiettivo politico, ma soprattutto un obbligo morale. Prigionieri di guerra I soldati italiani fatti prigionieri durante la Prima Guerra Mondiale, che ebbero la fortuna di rientrare in patria sopravvivendo agli stenti, la fame e le malattie, non poterono subito tornare alle proprie case a riabbracciare i propri cari, ma vennero “concentrati” in campi appositi, distribuiti nelle retrovie delle linee italiane, per essere interrogati su quello che avevano vissuto e, in via precauzionale, per essere messi in una specie di quarantena per paura della trasmissioni di malattie infettive. I campi di prigionia I “Campi”, in realtà, nacquero ben prima della fine della guerra: dopo la disfatta di Caporetto, infatti, le autorità militari dovettero affrontare il riordino dell’esercito a causa del numero notevole di soldati che si riversarono nelle retrovie dopo i tragici fatti. Per questo furono creati campi di raccolta, soprattutto in Emilia, data la favorevole posizione geografica; tali centri di raccolta, già esistenti nel 1917, furono quindi riutilizzati per gli exprigionieri di guerra nel 1918. I militari raccolti in questi campi spesso girovagavano per i paesi, attraverso le campagne, disorientati, lontani da casa, in cerca di cibo e di vestiario, per ripararsi dal freddo. Spesso, purtroppo, venivano “scambiati” per malintenzionati, a causa del loro aspetto, vestiti di stracci e denutriti. Via Enrico Toti Nel 1934 il Comune di Sondrio liquida al Beneficio Parrocchiale, proprietario del terreno, la somma di £. 11.657 per la “costruzione della nuova via E. Toti, in prolungamento verso est della via Nazario Sauro”. La via Toti inizia oggi all’incrocio di via N. Sauro con via Fiume e termina, a est della città, con l’innesto su via Stelvio. Indice Enrico Toti In sella! La Grande Guerra “Nun moro io!” “Così muore un eroe!” L’attacco col gas Lettere alla famiglia “…La morte è bella anch’essa se si sa ben morire!” Enrico Toti Enrico Toti nacque e crebbe a San Giovanni, un quartiere popolare di Roma da Nicola Toti, ferroviere di Cassino, e da Semira Calabresi di Palestrina. Nel 1897, all'età di quindici anni, si imbarcò come mozzo sulla nave scuola Ettore Fieramosca, passando poi sulla nave corazzata Emanuele Filiberto e infine sull'incrociatore Coatit. Nel 1904 fu coinvolto in scontri sul Mar Rosso contro i pirati che infestavano il mare antistante la colonia italiana dell'Eritrea. Congedatosi, nel 1905, fu assunto nelle Ferrovie dello Stato come fuochista. Il 27 marzo 1908, mentre lavorava alla lubrificazione di una locomotiva, che si era fermata nella stazione di Colleferro, a causa dello spostamento delle locomotive, scivolò rimanendo con la gamba sinistra incastrata e stritolata dagli ingranaggi: in ospedale, gli fu amputato l’arto a livello del bacino. In sella! Nonostante la menomazione si appassionò alla bicicletta, che da quel momento divenne la sua fedele compagna di vita. Nel 1911, pedalando in bicicletta con una gamba sola, raggiunse dapprima a Parigi, quindi attraversò il Belgio, i Paesi Bassi e la Danimarca, fino a raggiungere la Finlandia e la Lapponia. Da lì attraversò la Russia e la Polonia, rientrando in Italia nel giugno 1912. Nel gennaio 1913 partì nuovamente in bicicletta, stavolta diretto verso sud: da Alessandria d'Egitto raggiunse il confine con il Sudan, dove le autorità inglesi, giudicando troppo pericoloso il percorso, gli imposero di concludere il viaggio e lo rimandarono al Cairo da dove fece ritorno in Italia. La Grande Guerra Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Enrico Toti presentò tre domande di arruolamento, che furono respinte a causa della sua menomazione. Nonostante tutto, decise di inforcare la bicicletta e di raggiungere il fronte presso Cervignano del Friuli, dove fu accolto come civile volontario e adibito ai "servizi non attivi", privo, quindi, delle stellette militari. Una sera, però, fermato da una pattuglia di carabinieri a Monfalcone, fu obbligato a tornare alla vita civile. Nel gennaio 1916, anche grazie all'interessamento del Duca d'Aosta, riuscì ad essere destinato al Comando Tappa di Cervignano del Friuli, sempre come volontario civile. “Nun moro io!” Destinato inizialmente alla brigata "Acqui", riuscì a farsi trasferire presso i bersaglieri ciclisti del terzo battaglione, che lo proclamarono uno di loro e lo stesso comandante, il maggiore Rizzini, gli consegnò l'elmetto piumato da bersagliere e le stellette.. Combattè nella sesta battaglia dell’Isonzo e il 6 agosto 1916, lanciatosi con il suo reparto all'attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico esclamando: "Nun moro io!" (io non muoio!), poco prima di essere colpito a morte. “Così muore un eroe!” Nei pressi di Quota 85, nel luogo in cui cadde eroicamente, a Sablici, sopra Monfalcone, in un bosco da cui si scorge il mare, si trova un cippo eretto in suo onore tra gli evidenti segni di vecchie trincee della Grande Guerra. «Volontario, quantunque privo della gamba sinistra, dopo aver reso importanti servizi nei fatti d'arme dell'aprile a quota 70 (est di Selz), il 6 agosto, nel combattimento che condusse all'occupazione di quota 85 (est di Monfalcone), lanciavasi arditamente sulla trincea nemica, continuando a combattere con ardore, quantunque già due volte ferito. Colpito a morte da un terzo proiettile, con esaltazione eroica lanciava al nemico la gruccia e spirava baciando il piumetto, con stoicismo degno di quell'anima altamente italiana.» — Monfalcone, 6 agosto 1916. L’attacco col gas L’attacco del 29 giugno 1916 sul San Michele, sebbene si tratti di un attacco minore dal punto di vista delle forze impegnate, rimane nelle cronache come il primo con l'ausilio di gas effettuato sul fronte italiano. I gas calarono sulle trincee della prima linea trovando i soldati italiani completamente impreparati e uccidendone a migliaia. L'utilizzo del gas e delle mazze ferrate per finire gli ustionati fornì ai reparti italiani una motivazione particolare negli scontri successivi. Lettere alla famiglia 6 Aprile 1916 " Nientemento! Ho le miei brave stellette. Ed ho l'invidiabile incarico di fare cose delicatissime. E' stata riconosciuta ormai la mia audacia,e saprò farmi onore se la fortuna mi assiste. Ripenso sempre alle gentilezze ricevute in Belgio, e finchè una sola nazione rimarrà a combattere i tedeschi, non mi muoverò nemmeno io, anch'io voglio combatterli, e fidando nella provvidenza, vedere disfatta la razza teutonica, e la casa degli Asburgo. Comincia il moto per me; e vedere sul viso il nemico non mi fa paura. Nel mio possibile adempio il mio dovere, penso continuamente ai miei cari e sono felicissimo. La razza germanica avrà il castigo che merita e l'imperatore degli impiccatori la maledizione da tutti. Prevedo le sorti della guerra, la vittoria è nostra ed io non voglio essere lo spettatore ozioso, ma farò e saprò fare sempre il mio dovere." “…La morte è bella anch’essa se si sa ben morire!” "...Io sempre, nei forti bombardamenti vado a prendere il posto più avanzato e che vedetta sono! Se un solo austriaco osasse venire all'assalto, il mio allarme sveglierebbe anche i morti. Posso compiere il mio dovere e sono soddisfattissimo. Cos'è per me la morte? La vita è bella, ma la morte è bella anch'essa se si sa ben morire. Amo la mia Patria; la mia vita, la mia energia, il mio coraggio ho consacrato a Lei; però non voglio essere un folle temerario,voglio essere utile sino alla fine, e spero che la mia stella mi proteggerà. Se questa santa causa ha bisogno anche del mio sangue, esultatene: perirò da eroe, con l'immagine della mia famiglia impressa nel cuore,e son certo che ne andrete orgogliosi. Quanto, quanto vorrei scrivere. Vorrei raccontare tanti begli episodi, ma in mezzo a tanto frastuono di cannoni e di entusiasmo, si diventa nervosi. Non si vorrebbe perdere un minuto di tempo, sempre a combattere; si vive in mezzo ad un'esaltazione divina, e come si è lontani dalla calma cittadina! Conserviamo la nostra calma, si è sereni, ma di una serenità nevrotica, e questa serenità ci fa essere eroi, pur non essendo scettici, pur apprezzando la bellezza della vita, la grandiosità della natura. Sono in trincea con i miei cari compagni, i bersaglieri del 3° battaglione, il più valoroso dell'esercito italiano. Esso entrò per primo a Cervignano; esso occupò per primo Monfalcone; esso fu l'eroe di Selz, ecco perché io sono con loro." Via Nazario Sauro Nel 1920 il Consiglio comunale di Sondrio intesta al patriota la nuova strada di accesso alla Stazione ferroviaria fiancheggiante il vecchio cimitero, sino a via Colombaro e, l’anno successivo, allunga con tale denominazione il tratto fino alla via Fiume. Non ancora contento, decide infine di prolungare la via a est fino all’ospedale e, a ovest, fino alla casa circondariale. Oggi, ridimensionate un poco le cose, la via inizia da piazzale Bertacchi e termina all’incrocio con via Fiume. Indice Nazario Sauro In clandestinità Il trasferimento in Italia: imbarcato in missioni di guerra “Viva l’Italia, morte agli Austriaci!” L’Irredentismo La medaglia d’oro La lettera di testamento ai figli Nazario Sauro Nazario Sauro nacque il 20 settembre 1880 a Capodistria, territorio allora sotto la giurisdizione dell’Impero Austro-Ungarico. Fu marinaio valoroso fin dall’adolescenza e a vent’anni divenne capitano di un piccolo equipaggio. In qualità di capitano della Marina Mercantile ebbe l’opportunità di acquisire una profonda conoscenza dei porti dell’Adriatico, delle Isole dell’ Istria e della Dalmazia: utilizzerà poi queste conoscenze nel corso delle operazioni di guerra riuscendo a infliggere molti danni alle navi da guerra austro-ungariche. In clandestinità Tra il 1908 e il 1913, in conformità al principio mazziniano dell'indipendenza di tutti i popoli, svolse un'intensa attività clandestina a favore dell'Albania, guidando diverse spedizioni clandestine d'ingenti quantitativi di armi e munizioni destinate agli insorti di quel paese, che aspiravano a affrancarsi dal dominio ottomano e dall'influenza austriaca. Intorno a lui si era formato un quartier generale di albanesi tanto che il giustiziere politico Terenzio Tocci, disse: " Un nome, quello di Sauro, che i veri albanesi non dovranno mai dimenticare". Nel 1913 Nazario manifestò chiaramente il suo irredentismo e la sua contrarietà all'occupazione asburgica del suolo istriano e alla polizia austriaca, avversa ad ogni manifestazione di italianità. (continua) Quando furono emanati dal governatore di Trieste i "decreti Hohenlohe“, che imponevano alle società e agli enti pubblici locali di licenziare gli impiegati italiani che non fossero sudditi austriaci, Sauro entrò immediatamente in conflitto sia col governo marittimo di Trieste sia con la compagnia di navigazione dove lavorava. Non si assoggettò mai a quella legge “anti-italiana”né si piegò alle forti pressioni dell’autorità portuale triestina. Imbarcato in missioni di guerra Allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Nazario fuggì a Venezia, nel Regno d’Italia, dove iniziò a fare propaganda interventista. Nel maggio del 1915 egli si arruolò volontario nella Regia Marina Italiana e in sedici mesi compì sessantadue operazioni navali in territorio austriaco: per questi meriti di guerra, nel 1916, venne promosso Tenente di Vascello e contestualmente venne decorato con la medaglia d’argento al valore militare. “Viva l’ Italia, morte agli Austriaci!” Successivamente si imbarcò sul sommergibile Giacinto Pullino con il quale, la notte del 30 luglio, andò in missione per silurare delle navi austriache nel porto di Fiume ma sfortunatamente il sommergibile s’incagliò su di uno scoglio nei pressi dell’Isola di Unie. Nazario Sauro, con tutti i suoi compagni, venne catturato e condannato a morte dal tribunale austriaco di Pola, fu ucciso mediante impiccagione il 10 agosto 1916 e prima di morire, davanti alle origini della Grande boia, gridò: “Viva l'Italia, morte agli Austriaci”. . Dopo l’esecuzione, avvenuta alle 19 e 45, il corpo di Nazario Sauro fu sotterrato di notte e in maniera segreta dagli austriaci in area sconsacrata nei pressi del cimitero militare. Solo al termine della guerra la Marina italiana riuscì a sapere il luogo ove era stato sepolto[e provvide a riesumarne la salma (10 gennaio 1919) e alla sepoltura, in forma solenne, avvenuta il successivo 26 gennaio nel cimitero di Marina di San Policarpo a Pola L’irredentismo L’Irredentismo fu un movimento culturale sviluppatosi in Italia a partire dal 1870, in favore dell’estensione dei confini nazionali alle regioni con prevalente popolazione italiana soggette ad altre sovranità, in particolare all’Impero Austro-Ungarico (tra le quali, ad esempio, Trentino Alto Adige e Venezia Giulia). La medaglia d’ oro La medaglia d'oro al valor militare alla memoria gli fu conferita motu proprio dal Re Vittorio Emanuele III con decreto del 20 gennaio 1919 e consegnata alla madre di Sauro a Pola il 26 gennaio 1919 in occasione della esumazione della salma e successiva sepoltura nel cimitero marina. “Dichiarata la guerra dell’Austria, venne subito ad arruolarsi volontario sotto la nostra bandiera per dare il contributo del suo entusiasmo, della sua audacia ed abilità alla conquista della terra sulla quale era nato e che anelava a ricongiungersi all’Italia. Incurante del rischio al quale si esponeva, prese parte a numerose, ardite e difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribuì efficacemente con la conoscenza pratica dei luoghi e dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo del pericolo. Fatto prigioniero, conscio della sorte che ormai l’attendeva, serbò, fino all’ultimo, contegno meravigliosamente sereno, e col grido forte e ripetuto più volte dinnanzi al carnefice di “Viva l’Italia” esalò l’anima nobilissima, dando impareggiabile esempio del più puro amor di Patria.” Lettera di testamento ai figli Caro Nino, tu forse comprendi, od altrimenti comprenderai, fra qualche anno quale era il mio dovere d’italiano. Diedi a te, a Libero, ad Anita,a Italo e ad Albania nomi di libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello ed il mio giuramento l’ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la Patria che è il plurale di padre, e su questa Patria, giura, o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli, quando avranno l’età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani. I miei baci e la mia benedizione. Papà Dà un bacio a mia mamma che è quella che più di tutti soffrirà per me, amate vostra madre! E porta il mio saluto a mio padre… Indice Le vie di Sondrio: Zara, Fiume e Gorizia Zara via Zara Fiume via Fiume Gabriele D’Annunzio Il volo su Vienna Il Vittoriale Gorizia via Gorizia Giorno del Ricordo Le vie di Sondrio: Zara, Fiume, Gorizia Anche la città di Sondrio ha voluto ricordare, dedicando tre vie alle rispettive città di Gorizia, Zara e Fiume, le complicate vicende storiche di alcune regioni territoriali, che pur collocandosi sulla sponda orientale dell'Adriatico hanno sempre vissuto e condiviso da secoli la cultura del popolo italiano. Legate per tradizione e storia alla Repubblica di Venezia le ''Terre irredente'', cosi definite nei primi decenni del 1900, divennero con la prima guerra mondiale le protagoniste di una battaglia verso un processo, assai difficile, di unificazione italiana da cui per secoli erano state escluse. La volontà di unificazione che animò gli italiani e li spinse ad un conflitto segnato da dolorosi e tragici eventi, ci ha lasciato una profonda memoria pubblica: monumenti, musei, piazze, vie ecc. ricordano ancora oggi le Città e le Terre irredente tra cui Gorizia, Fiume e Zara. Zara CANZONE: DA TRIESTE FINO A ZARA La popolazione della città di Zara sino al secondo conflitto mondiale era in grande maggioranza italiana, e questo nonostante le politiche antiitaliane dell'Impero austro-ungarico, che dal 1848 al 1918 provocarono il tracollo della componente italiana della Dalmazia a favore di quella slava. In base al censimento austroungarico del 1910 gli Italiani erano comunque il 70% della popolazione, essendo il rimanente composto da Croati, Serbi e Tedeschi. Il comune di Zara - che comprendeva anche le campagne circostanti era invece costituito in maggioranza da croati e serbi, il che creò la dicotomia tipica dell'Adriatico orientale fra "cittadini italiani o filoitaliani" e "contadini slavi". Le tensioni fra le componenti etniche della regione ebbero quindi anche delle motivazioni sociali. Dopo il 1918 la componente italiana crebbe ulteriormente a causa dell'esodo di numerose migliaia di Italiani dalla zone della Dalmazia assegnate alla Jugoslavia. Via Zara Verso la fine del XIX secolo la strada si denominava “ via Montagna” perché di lì si poteva salire verso quell’amena località. La via Montagna menava ad un elegante edificio, costruito dagli ingegneri Polatti e Orsatti, adibito alla casa di ricovero, oggi in disuso, all’imbocco di via Don Bosco. La città di Zara in Dalmazia, austriaca dal 1797, passa ai francesi nel 1805 con il regno italico di Napoleone. Verrà riconquistata dagli austriaci nel 1813 in seguito ad un assedio. Ma a Zara stanno stretti sia i rapporti con la Francia, sia con l’Austria. La sua “italianità” è molto sentita: combatterà affianco dei nostri patrioti nelle guerre d’indipendenza; il 4 novembre 1918 viene occupata dalle truppe italiane, finchè il 5 gennaio 1921 viene annessa ufficialmente all’Italia. La strada che collega via Del Gesù a via IV Novembre verrà intitolata Zara nel 1920. Fiume LA CANZONE DEL CARNARO: La situazione italiana si fece ancora più difficile con l'improvviso acuirsi della crisi internazionale intorno al problema di Fiume. Gabriele D'Annunzio protagonista di alcune imprese (come il volo su Vienna ), che per la loro sfrontata audacia gli erano valse l'ammirazione dei giovani sensibili al richiamo dell'ardimento patriottico e militaresco, assunse allora l'iniziativa di occupare il 12 settembre 1919 la città e di assumere il governo con forze militari volontarie che ne sostennero l'azione. Si trattava di un colpo di mano che riproduceva, in termini più esasperati, quella forzatura della volontà parlamentare determinatasi con le agitazioni di piazza. D'Annunzio non nascondeva i suoi progetti di marciare da Fiume su Roma per spazzare via il ministero presieduto da Nitti, accusato di non tutelare gli interessi nazionali. Nitti non tenne adeguatamente conto dei rischi che l'avventura fiumana rappresentava per la stabilità del Paese. Il sovversivismo dannunziano esercitava un enorme fascino sulla piccola borghesia impaurita e malcontenta dei disordini sociali di quel periodo. Nitti preferì vedere il potenziale vantaggio dell'imprese di D'Annunzio quale elemento di pressione sugli alleati. Egli preferì, cioè, adottare una tattica prudente, tesa a guadagnare tempo, mentre Giolitti insisteva per una risposta energica, vedendo nel gesto di D'Annunzio sia un ulteriore motivo di indebolimento della difficile posizione internazionale dell'Italia, sia un pericolosissimo attentato alla legittimità delle istituzioni presentative.La fame e il disordini portarono la città alla resa. Via Fiume Fiume è stata città dell’Istria annessa all’Italia nel 1924 con il Patto di Roma. Nell’ottobre del 1918, crollate le monarchie asburgiche, furono creati due Consigli nazionali: uno italiano, l’altro croato. Fra i due si arrivò l’armistizio del 4 novembre 1918 la città venne occupata da un Corpo internazionale; i primo luglio 1919 si verificarono gravi incidenti fra Italia e Jugoslavia. Per evitare lo sconcio del baratto, Gabriele D’Annunzio raccolse arditi volontari e, con l’epica marcia di Ronchi, entrò trionfalmente in città il 12 settembre ad un accordo che riconobbe Fiume Stato indipendente. Dopo 1919. Circa l’anno 1861 la via che si stacca a sud all’incrocio delle vie Piazzi e Stelvio, nel 1921 diventerà via Fiume tutto il tratto della casa di ricovero fino all’incrocio con via Tonale. Gabriele D’Annunzio Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara 12 marzo 1863 da facoltosa famiglia borghese. Studia animato da ambizione dal l874 al 1881 e si forma una cultura classica. Nel 1879 appena sedicenne pubblica la sua prima raccolta poetica “primo vere” di ispirazione carducciana, ma già caratterizzata da una originale sensualità. Nel 1880 (delineandosi già come regista della propria fama) pubblica la notizia della propria morte; dopo i necrologi ne pubblicò la smentita e l’annuncio della nuova edizione di “primo vere”. Collabora con le riviste e si trasferisce a Roma dove si iscrive a lettere, ma si dedica soprattutto alla cronaca del bel mondo, cui partecipa e in cui si afferma come fascinoso letterato. Nel 1882 pubblica canto novo e terra vergine (una raccolta di novelle abilmente propagandate che gli procurano un buon successo). Ormai celebre scrittore prosegue la scalata mondana anche con una serie di amori: Sposa la duchessina Maria Hardouin con cui ha dei figli; tornato a Roma incontra Barbarella (1997 il più grande amore) e qui nascono i primi grandi romanzi:Il piacere, Giovanni Episcopo, L’innocente. Inizia una vita sfrenata di lussi e per bisogni economici pubblicherà poi anche sul "Corriere della sera" Il volo su Vienna D'Annunzio con Natale Palli sull'aereo per Vienna il 9 agosto 1918. L'azione non ha scopo militare ma propagandistico con il lancio di volantini annunzianti la vittoria italiana. Durante il ritorno il motore dell'aereo si arresta all'improvviso. La morte sembra per qualche istante inevitabile, ma l'aereo riprende subito quota: «Io mi volsi verso Natale Palli e gli feci il segno di commiato... Natale mi rassicurò senza parola, con una illuminazione del volto che era il sorriso». Sul volantino: «In questo mattino d'agosto... Il destino si volge. Si volge verso di noi con una certezza di ferro. E` passata per sempre l'ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia, vi infetta».Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto del 1918 da una squadriglia. L’impresa di Fiume fu l’avvenimento storico in occasione del quale Gabriele D’Annunzio guidò un gruppo di circa 260 000 militari ribelli del regio esercito da Ronchi, presso Monfalcone, a Fiume, città della quale d’Annunzio proclamò l’annessione al regno d’Italia nel 12 settembre del 1919. Osteggiato dal governo italiano,D’Annunzio, tentò di resistere alle pressioni che gli giungevano dall’Italia. Nel frattempo, l’approvazione del trattato di Rapallo, il 12 novembre 1920, trasformò Fiume in uno stato dipendente. D’annunzio proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro. Il 24 dicembre 1920 l’esercito italiano procedette con la forza allo sgombero dei legionari fiumani della città. Filippo Tommaso Marinetti, durante il periodo della sua presenza a Fiume nel settembre 1919, definì gli autori dell’impresa disertori in avanti. La città di Fiume venne annessa all’Italia soltanto quando salì al potere Mussolini che stipulò un trattato con la Iugoslavia. Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto del 1918 da una squadriglia di apparecchi che lanciarono sulla città migliaia di manifestini, in cui si leggeva:«Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà». Il Vittoriale Dopo l’esperienza militare D’Annunzio elegge come sua dimora la villa Cargnacco sul lago di Garda, cura la pubblicazione delle opere più recenti: il Notturno e i due tomi delle Faville del maglio. I rapporti di D’Annunzio con il fascismo non sono ben definiti: se in un primo tempo la sua posizione è contraria all’ideologia di Mussolini, in seguito la adesione scaturisce da motivi di convenienza, consoni allo stato di spossatezza fisica e psicologica, nonché a un modus vivendi elitario ed estetizzante. Non rifiuta, quindi, gli onori e gli omaggi del regime: nel 1924, dopo l’annessione di Fiume il re, consigliato da Mussolini, lo nomina principe di Montenevoso, nel 1926 nasce il progetto dell’edizione «Opera Omnia» curato dallo stesso Gabriele; i contratti con la casa editrice «L’ Oleandro» garantiscono ottimi profitti a cui si aggiungono sovvenzioni elargite da Mussolini: D’Annunzio, assicurando allo stato l’eredità della villa di Cargnacco, riceve i finanziamenti per renderla una residenza monumentale: nasce così il «Vittoriale degli Italiani», emblema del vivere inimitabile di D’Annunzio. Al Vittoriale l'anziano Gabriele ospita la pianista Luisa Bàccara, Elena Sangro che gli rimane accanto dal 1924 al 1933, inoltre la pittrice polacca Tamara de Lempicka. Entusiasta della guerra di Etiopia, D’Annunzio dedica a Mussolini il volume Teneo te Africa. Ma l’opera più autentica dell’ultimo D’Annunzio è stato il Libro segreto, ossia Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire (1935), a cui affida riflessioni e ricordi nati da un ripiegamento interiore ed espressi in una prosa frammentaria. L’opera testimonia la capacità del poeta di rinnovarsi artisticamente anche alle soglie della morte, giunta il primo marzo 1938. Il Vittoriale visto dai giardini. I giardini del Vittoriale. 9 Nelle sue opere più recenti D’Annunzio saluta con entusiasmo l’avvento del fascismo al potere, ma è messo risolutamente da parte da Mussolini che vede in lui un possibile nemico per la sua leadership. D’Annunzio pur rendendosi conto della sua condizione di «prigioniero», non rifiuta gli elogi del regime, assicurando allo stato l’eredità della villa, diventata intanto la villa al Vittoriale, riceve i finanziamenti per renderla una residenza monumentale dove vi muore il primo marzo 1938. Gorizia CANZONE: O GORIZIA TU SEI MALEDETTA Nel Novecento il travaglio spirituale che precede e segue il primo conflitto mondiale, al termine del quale la città, esaudisce l'ormai secolare aspirazione a diventare italiana a tutti gli effetti, assume connotati particolari soprattutto nel campo dell'arte figurativa. Sono però gli eventi bellici a segnare in modo peculiare la vita della città. Gorizia, durante la Prima Guerra Mondiale, posta sul principale fronte tra Austria e Italia, fu teatro di scontri sanguinosi, le famose "12 battaglie dell'Isonzo", trovandosi ad essere campo di battaglia per più di due anni. Infatti, dopo 14 mesi di strenui combattimenti, l'8 agosto 1916 le truppe italiane entrarono a Gorizia La ritirata di Caporetto fu l'occasione per il rientro in città delle truppe austriache (ottobre 1917). Il tracollo dell'Austria-Ungheria, la Vittoria dell'Italia e la fine della guerra (novembre 1918) ed i trattati di Saint-Germain e di Rapallo portarono alla definitiva restituzione di Gorizia all'Italia. Il fascismo procedette a un'italianizzazione forzata della vasta provincia di Gorizia, abitata da popolazioni slave soprattutto nella parte orientale. La città non fu risparmiata neanche dalla Seconda Guerra Mondiale. Alla battaglia di Gorizia del settembre 1943 fra partigiani titini, soldati della Rsi e tedeschi, seguì l'annessione della città e dell'intera Venezia Giulia all'Adriatisches Küstenland (Litorale adriatico), sotto il diretto controllo nazista. Via Gorizia Nel settembre 1930 il podestà di Sondrio delibera di denominare via Gorizia il tratto di strada che è il prolungamento di via Trieste, verso est, da via Fiume a via Toti. Sotto la sua gestione il dott. Spartaco Gunella metterà mano, un po’ qua un po’ là nel capoluogo, alla toponomastica delle vie. La città, prima di allora era a tutti gli effetti austriaca, prima che si incrinassero i rapporti con il trono di Vienna. Il conflitto è cominciato da poco più di un anno e già la città respira un’aura di italianità, allorché l’otto agosto 1916 il sottotenente Baruzzi della Brigata Pavia innalza la bandiera italiana sulla stazione ferroviaria della città. “Giorno del Ricordo” Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento italiano ha riconosciuto il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo”, con l’obbiettivo di conservare e rinnovare la memoria della tragedia che ha colpito gli Istriani, i Fiumani e i Dalmati nel secondo dopoguerra, vittime delle foibe costretti all’esodo delle loro terre. Il Giorno del ricordo viene celebrato dalle massime autorità politiche italiane con una cerimonia solenne nel palazzo del Quirinale al cospetto del presidente della Repubblica, che conferisce le onorificenze alla memoria ai parenti delle vittime. In contemporanea in molte città si tengono celebrazioni di commemorazione presso i monumenti e le piazze dedicate ai tragici avvenimenti. Via IV Novembre La via IV Novembre si trova nella zona nord-est di Sondrio, adiacente alla biblioteca comunale Pio Rajna. Fu nominata IV Novembre nel 1930, dal Podestà dell'epoca. Questa via è nota a tutta Sondrio, perché è presente la bellissima villa Quadrio, terminata di costruire nel 1914. Via IV Novembre L’Austria nel 1918 La battaglia di Vittorio Veneto Il proclama della vittoria letto da Armando Diaz L’armistizio di Villa Giusti Il tragico bilancio della guerra Un difficile dopoguerra I tratti di pace di Versailles La pace in Italia La pace in Germania La situazione austriaca nel 1918 Sul finire della guerra, la situazione politica-sociale era disastrosa. Una fallita offensiva austriaca del giugno 1918 non era riuscita ad infrangere la resistenza italiana sul Piave e sul Grappa e si era conclusa con un grave indebolimento della forze e della capacità di combattimento dell'esercito italiano L'attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli alleati, che erano già passati all'offensiva generale sul fronte occidentale, ebbe inizio solo il 24 ottobre 1918, mentre l'Impero austro-ungarico dava già segno di disfacimento a causa delle crescenti tensioni politico-sociali tra le numerose nazionalità presenti nello stato asburgico e mentre erano in corso tentativi di negoziati per una sospensione delle ostilità. La battaglia di Vittorio Veneto La battaglia di Vittorio Veneto fu l'ultimo scontro armato tra Italia e Impero austro-ungarico nel corso della prima guerra mondiale. Si combatté tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918 nella zona tra il fiume Piave, il Massiccio del Grappa, il Trentino e il Friuli La battaglia di Vittorio Veneto fu caratterizzata da una fase iniziale duramente combattuta durante la quale l'esercito austro-ungarico fu ancora in grado di opporre una valida resistenza sia sul Piave che nel settore del Monte Grappa, a cui seguì un improvviso e irreversibile crollo della difesa, con la progressiva disgregazione dei reparti e defezioni tra le minoranze nazionali, che favorirono la rapida avanzata finale dell'esercito italiano fino a Trento e Trieste. Proclama della vittoria « Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Il capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Diaz » La guerra è finita L'armistizio di Villa Giusti L'armistizio di Villa Giusti venne siglato il 4 novembre 1918 a Padova, nella villa del conte Vettore Giusti del Giardino, fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia/Intesa. Con questo armistizio, l'Impero Austro-Ungarico si arrende all'Italia e agli alleati dell'Intesa. Una settimana dopo, 11 novembre, il Kaiser Guglielmo II fuggì dalla Germania, lasciando il potere ad un governo provvisorio, che il giorno stesso della fuga dell'imperatore firmò l'armistizio con gli Alleati dell'Intesa. Il tragico bilancio della guerra Nazione Soldati Morti Feriti Russia 12 000 000 1 700 000 4 900 000 Francia 8 400 000 1 300 000 400 000 Inghilterra 8 900 000 908 000 200 000 Italia 5 500 000 650 000 947 000 Stati Uniti 4 300 000 126 000 234 000 Romania 750 000 335 000 120 000 Serbia 700 000 45 000 133 000 Belgio 267 000 13 000 45 000 11 000 000 1 700 000 4 200 000 Austria-Ungheria 7 900 000 1 200 000 3 600 000 Impero ottomano 2 800 000 325 000 400 000 Bulgaria 1 200 000 87 000 152 000 Paesi dell'intesa Paesi degli Stati centrali Germania Un difficile dopoguerra La situazione dell'Europa del dopoguerra appariva grave in tutti i paesi. Gli stati dovevano provvedere a milioni di pensioni per le vedove e gli orfani di guerra, oltre che ai numerosi mutilati. Anche per i reduci il reinserimento nella vita civile era difficile. Per far fronte alle nuove spese e al pagamento dei debiti, molte nazioni stamparono più denaro di quel che potevano, e così si innescò l'aumento dei prezzi, che danneggiò i poveri. Bisognava inoltre affrontare con urgenza il problema della riconversione delle industrie, che durante il conflitto avevano prodotto solo materiale bellico. Il successo della rivoluzione bolscevica in Russia costituiva un esempio per le fazioni estremiste dei partiti socialisti di molti paesi europei, che tentarono di scatenare delle rivoluzioni coinvolgendo i reduci, gli operai disoccupati e i contadini senza terra. L'Europa, soprattutto tra la borghesia e le fasce popolari, che non si riconoscevano nel socialismo, fu percorsa dal terrore di una rivoluzione ispirata ai principi del marxismo. Cambiamenti territoriali in Europa dopo la prima guerra mondiale I trattati di pace di Versailles ll trattato di Versailles, detto anche patto di Versailles, è uno dei trattati di pace che pose ufficialmente fine alla prima guerra mondiale. Fu stipulato nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi del 1919-1920 e firmato da 44 Stati il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia, nella Galleria degli Specchi del palazzo omonimo. È suddiviso in 16 parti e composto da 440 articoli. Il trattato di Versailles sancì la nascita della Società delle Nazioni, che rappresentava uno dei quattordici punti proposti dal presidente degli Stati Uniti. Woodrow Wilson, per mantenere la pace fra gli Stati. La Società delle Nazioni era un'organizzazione intergovernativa con lo scopo di arbitrare i conflitti tra le nazioni prima che si arrivasse alla guerra. Il suo statuto, la Convenzione della Società delle Nazioni, occupava i primi 26 articoli del trattato di Versailles. Gli Stati Uniti non si unirono mai alla Società delle Nazioni e in seguito negoziarono una pace separata con la Germania: il trattato di Berlino del 1921, che confermò il pagamento delle riparazioni e altre disposizioni del trattato di Versailles, ma escluse esplicitamente tutti gli articoli correlati alla Società delle Nazioni. I trattati di Versailles per l'Italia Prima dell'entrata in guerra dell'Italia il governo italiano prese accordi segreti con il governo franco-inglese, nel famoso patto di Londra. In questo documento si elencavano i territori che sarebbero diventati di dominio italiano dopo la guerra in caso di vincita. I territori erano: il Trentino, il Tirolo, Gorizia, l'Istria, la Dalmazia e le isole del Dodecanneso. A fine guerra l'Italia ottenne il Trentino-Alto Adige, Trieste e l'Istria. Quindi, l’opinione pubblica del tempo considerò la vittoria della Prima Guerra Mondiale, una vittoria “mutilata”. I trattati di Versailles per la Germania Tra le disposizioni previste dal trattato di Versailles c'era la perdita delle colonie e di territorio da parte della Germania. La lista di ex province tedesche che cambiarono appartenenza comprendono: l'AlsaziaLorena, restituita alla Francia; la Renania, alla Danimarca (in seguito a un plebiscito); gran parte della Prussia occidentale alla Polonia; venne resa Città libera Danzica, sotto l'autorità della Società delle Nazioni e della Polonia. Il trattato di Versailles oltre ad abolire la coscrizione per la Germania, pose anche grosse limitazioni alle forze armate tedesche, che non dovevano superare le 100.000 unità. Il trattato stabilì una commissione che doveva determinare le esatte dimensioni delle riparazioni che dovevano essere pagate dalla Germania. Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente stabilita in 132 miliardi di marchi (finiti di pagare nel 2010). Le conseguenze dei trattati in Germania I problemi economici, che le sanzioni di guerra comportarono in Germania, sono spesso citati come la principale causa della fine della Repubblica di Weimar e dell’ ascesa di Adolf Hitler, che inevitabilmente portò allo scoppio della seconda guerra mondiale. Molti tedeschi si sentirono colpiti ingiustamente dalle condizioni di quella che definirono una pace punitiva. Via ragazzi del ’99 Una delle vie più contestate e discusse nelle gestioni amministrative del capoluogo è quella intitolata ai ragazzi del ’99 che porta il nome dei coscritti del 1899 che hanno preso parte alla guerra del ‘15-’18 e, appunto, perché classe più giovane di arruolati, chiamati ragazzi. Il primo aprile 1970 il consiglio comunale esaudendo il vivo desiderio di un gruppo di ex-combattenti, decide di intitolare così la via che collega le vie Vittorio Veneto e Caimi. Quel tratto di strada, intorno agli anni ‘50, era ancora denominato via privata Vittorio Veneto. Indice La disfatta di Caporetto Chi sono Per non dimenticare Fossalta ricorda L’associazione Gli arditi dei reduci La disfatta di Caporetto Il nome di Caporetto è legato alla più grande disfatta nella storia Italiana. Dopo aver sfondato la linea difensiva italiana, le truppe austriache e tedesche decisero di avanzare senza costruire avamposti e senza preoccuparsi di consolidare le postazioni conquistate. Questa tattica provocò il panico nelle linee italiane che si ritirarono scompostamente e vennero poi accerchiate dall’esercito nemico. Oltre alla numerosissime vite umane, vennero persi circa 10.000 km2 di territorio, un numero incalcolabile di munizioni, armi e viveri. La colpa non fu dei soldati, bensì dell’incapacità dei comandanti, anche se il generale Luigi Cadorna diede la colpa ai soldati e li accusò di alto tradimento. Chi sono… I ragazzi del '99 sono i ragazzi della classe 1899, che nel 1917 compivano diciotto anni e pertanto hanno potuto essere impiegati sul campo di battaglia solo nel 1918. Furono chiamati a combattere quando non avevano ancora compiuto diciotto anni. I primi chiamati furono all'incirca 80.000; vennero convocati nei primi quattro mesi del 1917 e, frettolosamente istruiti, furono conformati in battaglioni di Milizia Territoriale. Alla fine di maggio ne furono chiamati altri 180.000. I primi ragazzi del ‘99 furono inviati al fronte nel novembre del 1917, nei giorni successivi alla battaglia di Caporetto. Il loro apporto unito all'esperienza dei veterani si dimostrò fondamentale per la vittoria finale. « Li ho visti i ragazzi del '99, andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera, cantavano ancora! » Armando Diaz Le giovanissime reclute appena diciottenni sono da ricordare, in quanto ebbero un ruolo fondamentale, dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917). In un momento di gravissima crisi per il Paese e per l' Esercito, rinsaldarono le file sul Piave, del Grappa e del Montello, permettendo all'Italia la riscossa nel 1918 a un anno esatto da Caporetto con la battaglia di Vittorio Veneto e quindi la firma dell'armistizio di Villa Giusti da parte dell'Impero austro-ungarico. A partire dal primo dopoguerra, il termine "ragazzi del '99" si radicò ampiamente nella storiografia e nella pubblicistica italiana, tanto da entrare nell'uso comune per riferirsi a tutti i militari nati nel 1899. Per non dimenticare Nelle città di Adria, Asti, Agrigento, Bergamo, Bologna, Brescia, Caserta, Campagna, Casaletto Vaprio, Castellanza, Castel Madama, Catania, Cittadella, Favara, Fermo, Forte dei Marmi, Gallarate, Gazoldo degli Ippoliti, Firenze, Imperia, Legnano, Lucca, Menfi, Milano, Milena, Modena, Mogliano, Veneto, Monza, Novara, Nuoro, Olgiate Olona, Padova, Pavia, Pescara, Peschiera del Garda, Piacenza, Portici, Ragusa, Recanati, Reggio nell'Emilia, Roma, Ronciglione, Rovigo, Sacile, Salerno, San Giorgio su Legnano, Schio, SONDRIO, Trani, Trento, Trieste, Varazze, Vicenza, Velletri, Verona, Viadana c'è una via dedicata alla loro memoria. Via Ragazzi del ’99 a Sondrio “Fossalta ricorda …’’ Nel 1981 i "Ragazzi del '99" tennero a Fossalta di Piave un raduno nazionale, tornando nei luoghi di battaglia 65 anni dopo ed inaugurarono un "cippo" sull'Argine Regio. Sempre sull'Argine Regio venne creato un "Monumento Battistero", che rappresenta segni di pace, di riconciliazione e di fratellanza. Per l'occasione il Comune di Fossalta di Piave nominò tutti i "Ragazzi del '99" suoi Cittadini Onorari, con la seguente motivazione: "grato e riconoscente ai "ragazzi" del '99 che nel 1917 e nel 1918 sbarrarono al nemico le vie della Patria". Domenica 23 giugno 1983 fu inaugurato il "Monumento Battistero" e promossa l'annuale "Giornata della Pace" realizzata dal Comune di Fossalta di Piave. L’associazione dei reduci Al termine della Prima guerra mondiale, un gruppo di reduci della classe del 1899, decise di dar vita ad un’associazione con il compito di onorare e di custodire la memoria dei ragazzi del '99; la prima Sezione fu aperta e costituita nel 1921. Il nome scelto fu I Ragazzi del '99" Associazione Nazionale fra combattenti della Classe 1899 nella Guerra 1915-1918. Come simbolo venne utilizzato la riproduzione dipinta della celebre casa sbrecciata di Sant'Andrea di Barbarana di San Biagio di Callalta (TV) con il testo "TUTTI EROI! O IL PIAVE O TUTTI ACCOPPATI!”. L'Associazione ancora oggi è presente in alcune città come Bassano del Grappa, Roma, Milano, Brescia e Novara dove continua nell'opera di custodia e di raccolta dei figli e nipoti dei celebri ragazzi del '99, partecipando alle cerimonie ufficiali. Come altre associazioni combattentistiche, quella dei Ragazzi del ‘99 è posta sotto il controllo del Ministero della Difesa. Gli arditi I reparti di Arditi nascono durante la Grande Guerra. Si tratta piccoli nuclei di coraggiosissimi soldati di vario grado, che si sono contraddistinti in azioni improvvise di attacco alle trincee nemiche. Armati spesso solo di un pugnale e di bombe a mano, attuavano azioni fulminee e improvvise, penetrando nelle trincee nemiche, portando lo scompiglio e facendo molte vittime fra i soldati. Gli Arditi avevano in dotazione una giubba a bavero aperto, più comoda e pratica, sotto la quale veniva portata una camicia bianca con cravatta nera o, più spesso, in zona di operazioni, un maglione grigioverde. Al bavero della giubba erano cucite le mostrine: fiamme nere a due punte. Un simbolo ricorrente degli Arditi, che compariva sul gagliardetto di reparto, ma anche ricamato sulle giubbe o sotto forma di spilla metallica, era il teschio, talvolta con pugnale in bocca, oppure sovrapposto a due tibie incrociate. Via Vittorio Veneto La via che commemora la celebre battaglia che ha riscattato l’orgoglio militare italiano. Questa via di Sondrio è uno dei tanti riconoscimenti dedicati alla memoria di questa battaglia. È stata istituita nel 1930, dopo aver cambiato per ben sei volte denominazione nel corso degli anni. Nel 1842 si chiamava “Contrada dei Ferrari”; con la costruzione della nuova Banca Popolare nel 1883, cambia ancora la denominazione in “Via Albosaggia”. Con l’avvento della ferrovia nel 1907, viene denominata “Via alla Stazione”; nel 1921 il consiglio comunale cambia il nome della via in “ Via Dante Alighieri. Infine nel 1930 verrà chiamata “Corso Vittorio Veneto “. Indice La Il disfatta di Caporetto fronte italiano dopo caporetto La battaglia di Vittorio veneto Il fronte italiano dopo Vittorio veneto Armando Diaz La guerra è finita La leggenda del Piave 24 ottobre 1917 disfatta di caporetto La battaglia di Caporetto venne combattuta durante la prima guerra mondiale tra le Forze Armate Italiane e quelle Austro-Ungariche e Tedesche. Lo scontro, avvenuto il 24 ottobre 1917, rappresenta la più grave disfatta nella storia dell'esercito italiano,. Con la crisi della Russia, dovuta alla rivoluzione bolscvica, l’ impero Austro-Ungarico e la Germania poterono trasferire consistenti truppe, dal fronte orientale a quelli occidentale e italiano Forti di questi rinforzi, gli austro-ungarici, con l'apporto di reparti specializzati tedeschi, sfondarono le linee tenute dalle truppe italiane che, impreparate a una guerra difensiva, non ressero all'urto e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave . La sconfitta portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna, che aveva imputato l'esito infausto della battaglia alla viltà di alcuni reparti, con Armando Diaz. Il fronte italiano dopo la disfatta di caporetto 24 ottobre 1918 battaglia di Vittorio veneto Dopo la disfatta di Caporetto, le truppe italiane si riorganizzarono sulla linea difensiva del Piave: l’esercito italiano, comandato dal generale Armando Diaz , subentrato al generale Cadorna, si riscattò e dando prova di grande coraggio sbaragliò le armate austroungariche. A detta di Diaz, le forze Austro Ungariche erano state uno degli eserciti più potenti e organizzati del mondo . Il fronte italiano dopo Vittorio Veneto Armando Diaz Armando Vittorio Diaz è nato il 5 dicembre 1861a Napoli. Egli è stato un generale italiano dell'esercito durante la prima guerra mondiale: subentrò a Cadorna dopo la disfatta di Caporetto. Armando Diaz fu nominato "Duca della Vittoria" alla fine del conflitto. La sua morte avvenne a Roma, il 29 febbraio 1928. La guerra è finita… L’orgoglio italiano è stato riscattato, ma il prezzo della vittoria è alto, sia per i vinti, che per i vincitori. Migliaia di soldati soffrirono di una nuova tipologia di lesioni, studiata per la prima volta proprio nel primo dopoguerra, consistente in una serie di traumi psicologici, che potevano portare a un completo collasso nervoso o mentale. Fu la prima teorizzazione del disturbo post-traumatico da stress,designata come "trauma da bombardamento" o "nevrosi di guerra”. I traumatizzati superstiti del conflitto andarono a formare la cosiddetta “generazione perduta”. I civili non furono risparmiati: circa 950.000 morirono a causa delle operazioni militari e circa 5.893.000 persone perirono per cause collaterali, in particolare carestie e carenze di generi alimentari (condizioni sofferte in particolare dagli Imperi centrali, sottoposti al blocco navale alleato), malattie ed epidemie e per le persecuzioni razziali scatenatesi durante il conflitto. Volontari in guerra Sono Una creatura Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo G.Ungaretti “Pidocchi, ratti, filo spinato, pulci, granate, bombe, cunicoli sotterranei, cadaveri, sangue, liquame, topi gatti, artiglieria, sozzura, pallottole, mortai, fuoco, acciaio: ecco cos’è la guerra. E’ opera del diavolo” Otto Dix "questa vita ci ha ridotti ad animali appena pensanti, per darci l'arme dell'istinto; ci ha impastati di insensibilità, per farci resistere all'orrore che ci schiaccerebbe, se avessimo ancora una ragione limpida e ragionante; ha svegliato in noi il senso del cameratismo, per strapparci all'abisso del disperato abbandono; ci ha dato l'indifferenza dei selvaggi per farci sentire, ad onta di tutto, ogni momento della realtà, e per farcene come una riserva contro gli assalti del nulla". Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale La leggenda del Piave Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio; l'esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera... Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava, e andare avanti! S'udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve il tripudiar dell'onde. Era un presagio dolce e lusinghiero, il Piave mormorò: «Non passa lo straniero!» Ma in una notte trista si parlò di un fosco evento, e il Piave udiva l'ira e lo sgomento... Ahi, quanta gente ha vista venir giù, lasciare il tetto, poi che il nemico irruppe a Caporetto! Profughi ovunque! Dai lontani monti Venivan a gremir tutti i suoi ponti! S'udiva allor, dalle violate sponde, sommesso e triste il mormorio de l'onde: come un singhiozzo, in quell'autunno nero, il Piave mormorò: «Ritorna lo straniero!» E ritornò il nemico; per l'orgoglio e per la fame volea sfogare tutte le sue brame... Vedeva il piano aprico, di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora... Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento... E la vittoria sciolse le ali al vento! Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti... «No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti, Infranse, alfin, l'italico valore «Mai più il nemico faccia un passo avanti!» le forche e l'armi dell'Impiccatore! Si vide il Piave rigonfiar le sponde, e come i fanti combatteron l'onde... Rosso di sangue del nemico altero, il Piave comandò: «Indietro va', straniero!» Sicure l'Alpi... Libere le sponde... E tacque il Piave: si placaron l'onde... Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri! Via Trento Nel settembre del 1921 il tratto di strada dal Mallero (ponte Eiffel) a via Stazione assume il nome di via Trento durante il Consiglio comunale. Trento è il capoluogo della Venezia Tridentina, sulla sinistra dell’Adige. Situata strategicamente sulla linea del Brennero, è stata al centro di un episodio della prima guerra mondiale, quando le truppe della prima armata del 29° reparto d’assalto e del 4° gruppo alpini cacciano il nemico ed entrano vittoriose in città. Indice Trento: città irredenta L’Irredentismo La fortezza di Trento L’esperienza di guerra dei soldati trentini Siamo italiani La Prima guerra mondiale ha cambiato la storia di Trento e del Trentino. Nel 1914 il Trentino faceva parte della Contea del Tirolo e, in questo modo, dell’Impero austro-ungarico. I trentini avevano i propri rappresentanti al Parlamento di Vienna e alla Dieta di Innsbruck. Trattandosi di un impero multietnico, in un’epoca di forte risveglio del nazionalismo, l’Impero austroungarico fu frequentemente travagliato da questioni nazionali. In Trentino, fu soprattutto la piccola e media borghesia cittadina a farsi portavoce del sentimento irredentista, che veniva manifestato anche attraverso le attività di associazioni politico-culturali e sportive quali la Lega Nazionale, la Società Dante Alighieri, la Società Alpinisti Tridentini, le Società di ginnastica e il Tiro a segno. L’Irredentismo L'irredentismo italiano fu un movimento d’opinione, espressione dell'aspirazione italiana a perfezionare territorialmente la propria unità nazionale, liberando le terre soggette al dominio straniero. Il movimento fu attivo principalmente in Italia, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX secolo, a favore dell'integrazione nel Regno d’Italia di tutti i territori compresi nella regione geografica italiana o popolati da italofoni e collegati all'Italia da secolari legami storici, linguistici e culturali. Il movimento era costituito da diversi gruppi ed associazioni non coordinati tra loro. I vari movimenti irredentisti proponevano l’annessione delle terre, considerate italiane, che dopo la terza guerra di indipendenza italiana del 1866 si trovavano ancora in mano straniera. Cronologicamente vi sono stati due "irredentismi" italiani: uno risorgimentale ed uno fascista. Le due donne piangenti raffigurano Trento e Trieste. Esse piangono perché sono prigioniere dello straniero. Le zone colorate in rosso sono le terre irredente. La Fortezza di Trento Durante la prima guerra mondiale Trento fu dichiarata città fortezza e divenne il caposaldo del fronte meridionale austro-ungarico. La città era coronata da una rete formidabile di forti difensivi che ancor oggi sono visibili ed in parte visitabili. Nelle montagne circostanti si celava il più grande e più potente caposaldo del fronte, con la maggior parte del sistema difensivo scavato nella roccia. Alla fine dell'anno 1915 la Fortezza di Trento divenne la sede del quartier generale austroungarico per il fronte meridionale. L'ideatore della Fortezza di Trento era il maggior generale Steinhardt. L’esperienza di guerra dei soldati trentini. All’inizio della guerra gli uomini ritenuti in grado di portare le armi, quelli dai diciotto ai cinquant’anni, si divisero, tra una maggioranza di sudditi asburgici che, volenti o nolenti, si mobilitarono sotto le bandiere di Francesco Giuseppe, e una minoranza di irredentisti che, disertando, vestirono il grigioverde di Vittorio Emanuele III. Stazione di Trento In totale i soldati trentini, di leva obbligatoria, richiamati dall’Esercito austroungarico, furono circa 60.000. Migliaia di loro (10.001 in tutta la provincia) caddero in battaglia nei reggimenti dei Tiroler Kaiserjäger, cacciatori imperiali tirolesi, e Kaiserschuetzen, truppe alpine di difesa territoriale. Nelle memorie di questi soldati il tema della partenza costituisce uno dei momenti più strazianti. «L’eco che una grande guerra s’avvicinava, giunse fin su al mio paesello di Cazzano, dove qualche raro caso veniva a interrompere l’ordinaria quiete e tranquillità. Perciò la carta di richiamo sotto le armi mi giunse quasi inaspettata ancora il giorno 2 agosto. Non si può descrivere la dolorosa partenza. Addii e abbracci, benedizioni e raccomandazioni da tutti. Ma fu giocoforza partire. Partii alla volta di Rovereto dove indossai la divisa degli Alpini [= truppe alpine, Landesschützen]. Il giorno 8 parto da Rovereto per Trento, dove il giorno 14 andai a giurare fedeltà alla Patria […] Il 17 agosto (data memoranda) accompagnati alla stazione da una folla commossa si parte col treno per il fronte Russo. Io coll’animo straziato penso se avrò la grazia di ritornare a vedere ancora le belle valli Trentine, se sarò tra quei fortunati che faranno ritorno dal campo, che comunemente veniva chiamato “Maccello”…» Dalla memoria di Fioravante Gottardi, scritture di guerra n°3 I volontari trentini nel Regio Esercito furono, invece, in totale circa 700. Erano quasi tutti di estrazione borghese medio-alta e di formazione liberale o socialista. Molti erano giovani studenti educati dalle famiglie a sentimenti di italianità, ma c’erano anche maturi professionisti, commercianti ed artigiani. La maggior parte era residente a Trento e Rovereto, ma non mancavano volontari che provenivano dalle valli. Nella primavera del 1917 sorse la “Legione Trentina”, un’associazione coordinata e diretta da combattenti o ex combattenti, che si proponeva di aiutare e sostenere i volontari. Damiano Chiesa 1894 1916 «Io sono felicissimo di essere tornato al mio posto, al posto d’onore, perché sono convinto che questo è il mio dovere e […] anche dovessi morire fra questi monti non ho nulla da rimpiangere se non l’abbandono della mia cara famiglia e vorrei che nessuno di loro piangesse la mia perdita, perché troppo convinto della giustizia di questa causa e non muore chi chiuse gli occhi combattendo un nemico odiato, ma s’addormenta in un sogno d’amore e di speranza.» Lettera di Emilio Parolari 28/10/1916 •Gottardi vive la chiamata alle armi con un lacerante dolore e con la paura di non poter tornare a casa dalla sua amata famiglia che ha pianto per la sua triste partenza. •Parolari, invece, vive la sua partenza con onore e orgoglio, fiero di poter eseguire il proprio dovere. Non ha nulla da perdere tranne la sua famiglia alla quale raccomanda di non vivere la sua partenza con tristezza e lacrime. Il suo obbiettivo, come quello di altri mille soldati trentini, era di liberare le terre irredente per completare l’unificazione italiana. Siamo italiani Monumento ai volontari nell’ esercito Italiano La Grande Guerra ha segnato in profondità la comunità trentina provocando, come nel resto d’Europa, lutti, sofferenze e distruzioni. Alla fine della guerra, con la scomparsa dell’Impero austro-ungarico, il Trentino entrò a far parte del Regno d’Italia e quanti erano morti combattendo nelle file dell’esercito nemico vennero esclusi dal lutto pubblico. Solo chi era caduto in divisa italiana venne ricordato e celebrato con monumenti e titolazione di scuole, vie e piazze, come i caduti volontari nell’Esercito italiano e, in particolare, Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, catturati nel 1916 e mandati al patibolo nel Castello del Buonconsiglio. Il ricordo dei più di 11.000 trentini caduti in divisa austro-ungarica fu ostacolato dal nuovo Stato italiano che non seppe riconoscere la situazione in cui il Trentino si era trovato. In tempi recenti si sta cercando di colmare quella lacuna, ricostruendo l’identità di questi soldati e ricordandoli senza distinzione di bandiere e di uniformi. Via Trieste Nel corso del Consiglio comunale di Sondrio del settembre 1921 la “via Circonvallazione”, nel tratto da via Stazione a via dei Prati (oggi da piazzale Bertacchi a via Fiume), assume il nome di via Trieste. La città, dalla quale la via prende il nome, ha vissuto diversi episodi bellici, quasi tutti combattuti con la rivale Venezia. Il penultimo combattimento, quello contro l’Austria, è accaduto il 3 novembre del 1918 quando viene liberata, ritornando all’Italia come ricorda la bella canzone: “Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore Oh! Italia, oh Italia del mio cuor tu ci vieni a liberar” Indice Trieste: città irredenta L’irredentismo Movimenti irredentisti La chiamata alle armi I prigionieri irredenti Carlo Petitti I disordini di Trieste del 1920 Umberto Saba Italo Svevo Trieste: città irredenta Trieste è una città di antiche origini romane, ma la sua importanza risale alla prima metà del Settecento. L’imperatore d’Austria Carlo VI d’Asburgo concesse il privilegio di essere portofranco, cioè esente da dazi e tariffe doganali. La città poté svilupparsi come centro di scambi commerciali anche grazie alla crisi di Venezia, diventando così, nell’arco di pochi decenni, il porto dell’impero austroungarico. Era, inoltre, punto di incontro di differenti tradizioni culturali. L’Irredentismo L'irredentismo italiano fu un movimento d’opinione, espressione dell'aspirazione italiana a perfezionare territorialmente la propria unità nazionale, liberando le terre soggette al dominio straniero. Il movimento fu attivo principalmente in Italia, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX secolo, a favore dell'integrazione nel Regno d’Italia di tutti i territori compresi nella regione geografica italiana o popolati da italofoni e collegati all'Italia da secolari legami storici, linguistici e culturali. Il movimento era costituito da diversi gruppi ed associazioni non coordinati tra loro. I vari movimenti irredentisti proponevano l’annessione delle terre, considerate italiane, che dopo la terza guerra di indipendenza italiana del 1866 si trovavano ancora in mano straniera. Cronologicamente vi sono stati due "irredentismi" italiani: uno risorgimentale ed uno fascista. Le due donne piangenti raffigurano Trento e Trieste. Esse piangono perché sono prigioniere dello straniero. Le zone colorate in rosso sono le terre irredente. Movimenti irredentisti Scipio Slataper Sul piano politico, erano attivi anche a Trieste i movimenti irredentisti che rivendicavano cioè la “redenzione” e l’annessione della città all’Italia. Il dibattito irredentista si fece ancora più vivo intorno alla prima metà degli anni dieci, subito prima della Grande Guerra, anche per la sensazione dell’imminente dissoluzione dell’impero austroungarico. A tale dibattito, che aveva a Trieste un punto di ritrovo nel Caffè Tergesteo, parteciparono anche gli scrittori triestini Scipio Slataper e Giani Stuparich. La chiamata alle armi Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, i cittadini triestini furono mobilitati nell’esercito austroungarico. Punizioni severissime erano previste per chi fosse passato nelle file italiane. Quartier generale del Infanterieregiment n° 97 in Galizia Tra i reparti coinvolti vi era anche l' Infanterieregiment n° 97 " Georg Freiherr von Waldstätten", dal nome del Generale che lo fondò nel 1883. Fu il reggimento dove affluirono in massima parte i coscritti giuliani. Fu concentrato presso la Caserma Grande di Trieste e, forte di un organico di 3.500 uomini, partì per il fronte con destinazione Leopoli capitale della Galizia orientale. Mortaio austriaco del 97° Il “battesimo del fuoco” contro i reparti russi in avanzata fu tragico. Tra agosto e settembre 1914 il 97° perse il 50% degli organici e si disfò sul terreno paludoso nei dintorni di Leopoli. I superstiti finirono in gran parte prigionieri dei russi. I prigionieri irredenti Dopo le infelici operazioni in Galizia, per i soldati Triestini comincia la lunghissima epopea della prigionia. Nel dicembre 1914 erano caduti in mano russa circa 100.000 prigionieri austro-ungarici. Già alla fine del 1914 la diplomazia italiana si mosse verso Mosca per individuare ed isolare i prigionieri “irredenti” intenzionati ad entrare nelle file del Regio Esercito. Fu identificato quale centro di raccolta il campo Kirsanov che raccolse 4.000 prigionieri triestini. Nel 1916 parte dei prigionieri “irredenti” fu rimpatriata ma, a causa dello scoppio della rivoluzione d’Ottobre, il restante dovette attendere la fine della guerra. Carlo Petitti Carlo Petitti di Roreto (1862 - 1933) Dopo lo sfondamento del fronte, il 3 novembre 1918 il generale Carlo Petitti di Roreto sbarca dal cacciatorpediniere “Audace” e prende possesso della città divenendone governatore. I disordini di Trieste del 1920 Nel 1918 il Regio esercito entrò a Trieste acclamato da quella parte della popolazione che era di sentimenti italiani, dichiarando lo stato di occupazione ed il coprifuoco. La sicura imminente annessione della città e della Venezia Giulia all'Italia, fu però accompagnata da un ulteriore inasprimento dei rapporti tra il gruppo etnico italiano e quello sloveno, traducendosi talvolta anche in scontri armati. Il giorno 13 luglio 1920, i disordini scoppiati a Trieste in seguito ad un attentato contro l'esercito italiano causarono due vittime fra i militari. Secondo ricostruzioni storiche, le manifestazioni contro il gruppo etnico sloveno scoppiarono in seguito all'assassinio di un manifestante italiano. Lo stesso giorno degli squadristi devastarono anche gli uffici delle "Jadranska banka", la filiale della "Ljubljanska kreditna banka", la tipografia del settimanale "Edinost", la Cassa di Risparmio Croata, la scuola serba e numerosi altri centri di aggregazione delle comunità etniche presenti a Trieste. Umberto Saba Il poeta triestino Umberto Saba ha scritto: “Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti diverse: Italiani nativi della città, Slavi nativi del territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini, Turchi col fez rosso e non so quante altre. […] Su questo trafficato amalgama di persone così etnicamente diverse […] la lingua e la cultura italiane fecero da cemento.” Le parole del poeta esprimono la necessità di appartenere ad una cultura ben definita: quella italiana. Il suo pensiero, probabilmente, è stato influenzato dai principi irredentisti. 18831957 Italo Svevo L’esperienza della Prima Guerra Mondiale porta lo scrittore triestino Italo Svevo a riconsiderare il valore del progresso. Nelle ultime pagine della Coscienza di Zeno, Italo Svevo, scrive: “La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie […] inventa gli ordigni fuori dal suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi l’inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. […] Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.” 1861-1928 Mentre per gli animali il progresso della selezione naturale garantisce la sopravvivenza della specie, per gli uomini il progresso tecnologico ha distrutto il mondo. Via V Alpini La via Quinto Alpini è stata così denominata il 5 Marzo 1960 dal consiglio comunale di Sondrio (a partire dal 1881 era chiamata “Strada del Canevello”). Si stacca da via IV Novembre, all’incrocio di via Lusardi, a nord-est della città, per raggiungere la località Colda sulla strada che conduce a Montagna in Valtellina. Indice V Alpini: la storia Il Simbolo del reggimento V Alpini L’uniforme Capitano Berni Gli Alpini I sentieri degli Alpini V Alpini: la storia Il Quinto Reggimento alpini è un reparto dell’ esercito italiano con sede attuale a Vipiteno in provincia di Bolzano. Oltre che in molte guerre il reggimento è stato impiegato in operazioni di ordine pubblico e in soccorso alle popolazioni Si costituisce il 1º novembre 1882 a Milano, al comando del colonnello Carlo Goggia, con i battaglioni "Val Dora", "Moncenisio", "Valtellina"; quattro anni dopo i battaglioni prendono il nome di "Morbegno", "Tirano" ed "Edolo". Circa 150 alpini di questo reparto, inquadrato nel Regio Esercito, vengono schierati dal generale Bava Beccaris come rinforzo nella sanguinosa repressione dei moti popolari e operai scoppiati a Milano nelle giornate fra il 5 e il 9 maggio 1898, tumulti noti come «Protesta dello stomaco". Partecipa alle spedizioni coloniali nella campagna di Abissinia, di Libia e alla prima guerra mondiale.. Nel 1921 il 5º Reggimento viene inserito nella 2ª Divisione alpina, di stanza a Bergamo. Nel 1926 il 5º Reggimento torna nella Brigata alpina a Milano, e dal 1936, assieme al 6º e al 2º artiglieria, nella Divisione alpina "Tridentina", che verrà poi sciolta il 10 settembre 1943, dopo il rientro dal fronte russo. Viene rifondato solo il 1º gennaio 1953; è tuttora impegnato in varie missioni. Simbolo Sotto il simbolo è presente il motto «Nec videar dum sim» (non per apparire ma per essere), messo in risalto da uno sfondo oro. Uniforme L'Uniforme Grigio Verde entrò ufficialmente in uso con la circolare n.458 del 4 dicembre 1908, valida per tutte le Armi ad eccezione della Cavalleria. Composta da una giubba ed un pantalone di panno pesante, con piccole differenze se destinata ad Armi a Piedi (Fanteria, alcune specialità di Artiglieria e Genio) o Armi a Cavallo (Cavalleria, Artiglieria e Carabinieri) subirà costanti modifiche per meglio adattarla alla vita di trincea. La giubba, ampia e comoda, è chiusa da una bottoniera nascosta di cinque bottoni di frutto. Un gilet di taglio classico veniva indossato sotto la giacca. I pantaloni erano per le Armi a Piedi di due tipi, da montagna e non, differenziati sostanzialmente dalla lunghezza ed ampiezza dello stesso. Capitano Arnaldo Berni “Il Capitano sepolto nei ghiacci”: potrebbe essere il titolo della vita militare di Arnaldo Berni, Capitano degli alpini, nato a Mantova il 2 Giugno 1894 e morto il 3 Settembre 1918, a poche settimane dalla fine della guerra, nel trincerone di ghiacci in vetta alla Punta San Matteo, a 3.678 metri di altezza nel Gruppo Meridionale dell'Ortles. La Prima Guerra mondiale di Berni Il Battaglione Tirano era specializzato nella guerra in alta montagna e venne impiegato per conquistare e mantenere postazioni in quota nell'alta Valtellina e in Trentino. "Aldo" Berni partecipò con la 46a compagnia alla battaglia per la quota 2931 del Monte Scorluzzo e l'anno successivo, nell’estate del 1916, a quella per la conquista del passo dell'Ables. Entrambe le posizioni erano parte del teatro di operazioni del gruppo montuoso Ortles-Cevedale. Partendo dalla posizione dell'Ables, Berni prese parte alla conquista del Monte Cristallo, che con i suoi 3434 metri diventò una delle postazioni strategiche per gli Italiani sottratta agli Austriaci. Promosso capitano per meriti di guerra, era tenuto in grande considerazione per le specifiche conoscenze acquisite e relative delle particolari tecniche di combattimento alle alte quote. Prestò servizio per la maggior parte del conflitto, grazie alle sue eccezionali doti di guida negli scontri in alta montagna. L’ultimo anno di Berni Il 3 settembre del 1918 la vetta del Monte San Matteo (a 3678 m di quota) è stata teatro della più alta battaglia della storia. Qui trovò la morte il giovane, prima sottotenente del 46° Battaglione Tirano e in seguito Capitano degli Alpini Arnaldo Berni,comandante della 306 compagnia sciatori, anzi "skiatori" , Battaglione Ortler, 5°Reggimento Alpini, il cui corpo giace ancora oggi lassù, sepolto nei ghiacci. Dal diario di Arnaldo Berni Qui vi sono delle parti di diario dove Arnaldo racconta della sua vita quotidiana sul fronte di guerra, in quota : In un primo momento il giovane Arnaldo ha difficoltà ad accettare la dura vita della caserma, e rimpiange la comodità alla quale lui era abituato, quello che gli serve per mostrare il suo carattere, la sua capacità di adattamento e il suo pensare sempre positivo. Infatti il giorno dopo scrive: "...poi sono noiosissime quattro ore filate di istruzione in piazza d'armi. Riconosco però che questa vita mi fa bene e in due giorni di aver guadagnato in salute e muscoli...!“ Il 21 giugno è un giorno importante: infatti si compie la prima scalata militare italiana del Monte Cristallo "Oggi, dopo grandi stenti, cinque nostri alpini con un ufficiale riuscirono ad arrivare in vetta al Monte Cristallo. Che ascensione! Si fa tutto con corda e piccozza. Oggi è arrivato un altro ufficiale degli alpini che era alla IV Cantoniera. Siamo quassù in quattro ufficiali alpini e due d'artiglieria, tutti sottotenenti. Ce la passiamo discretamente e siamo allegri...". Il 3 settembre 1918 arriva sulla vetta un preciso colpo di artiglieria che abbatte la galleria dove Arnaldo Berni si era riparato con alcuni soldati mettendo così fine alla vita del giovane Capitano, impedendo persino ad amici e commilitoni di trovare il corpo. Gli Alpini della Grande Guerra La storia degli Alpini Formatisi il 15 ottobre 1872, gli Alpini sono il più antico corpo di fanteria da montagna attivo nel mondo, originariamente creato per proteggere i confini montani settentrionali dell'Italia con Francia, Impero austroungarico e Svizzera. Nel 1888 gli Alpini furono inviati alla loro prima missione all'estero, in Africa, continente nel quale sono tornati più volte nella loro storia, per combattere le guerre coloniali del Regno d'Italia. Essi si sono distinti durante la Prima Guerra mondiale, quando furono impiegati nei combattimenti al confine nord-est con l'Austria-Ungheria, dove per tre anni dovettero confrontarsi con le truppe da montagna austriache e tedesche, rispettivamente Kaiserschützen e Alpenkorps, in quella che da allora è diventata nota come la "guerra in alta quota" “Cara Antonietta, un Peppino estremamente imprecante alla nequizia umana! Tutt’altro. Il mio buon umore non mi ha abbandonato e pur senza essere stato eroe, nel senso leggendario della parola, posso dirti di aver fatto tutto il mio dovere di soldato non ricorrendo mai ad alcuni stratagemmi per salvare la pelle. Ho avuto anche la forsa di ridere anche quando veniva dato l’ordine di saltare la trincea. Infatti, è inutile addolorarsi soverchiamente – le pallottole vengono anche quando si è preda del dolore! Nella tua ultima affettuosissima lettera mi parli troppo di dio! Povero vecchio buon dio! oramai, al candido pelo della sua fluente barba sono attaccate chissà quante anime imploranti la salvezza dei loro cari…” Questa è una lettera inviata da un Alpino di cui non conosciamo il cognome, conosciamo solo il nome: Peppino. Questo soldato affronta la vita sul fronte con il sorriso e la forza di ridere e andare avanti, cosa che non tutti i soldati all’epoca erano in grado di fare. In memoria di tutti Caduti della Guerra Bianca R.I.P. Stelvio: Madonna della pace Via Stelvio Taglia trasversalmente la città nella parte est e prende il suo nome dal passo dello Stelvio, luogo cruciale per la Guerra Bianca. Via Tonale Si trova nella parte sud della città e prende il suo nome dal Passo del Tonale, luogo rilevante per la Guerra Bianca. Via Adamello Collega via Stelvio e via Gianoli e prende il nome dal gruppo montuoso dell’AdamelloPresanella, il quale è stato un luogo importante per la Guerra Bianca. Indice La geografia dei luoghi: Stelvio, Adamello, Tonale Guerra Bianca e passi Le condizioni di vita dei soldati I monti della Guerra Bianca Passo dello Stelvio Schema del fronte Il contesto ambientale Ortles-Cevedale Adamello-Presanella Passo dello Stelvio Stato Italia Regione Trentino-Alto Adige Lombardia Provincia Bolzano Sondrio Località collegate Stelvio Bormio Altitudine 2.758 Dal punto di vista geomorfologico il passo divide le Alpi Retiche occidentali dalle Alpi Retiche meridionali. Il passo si trova all'interno del Parco nazionale dello Stelvio vicino ad importanti massicci come il monte Livrio, l'Ortles ed il monte Scorluzzo. Il passo si trova in prossimità del confine con i Grigioni svizzeri, cui è collegato tramite il vicino Giogo di Santa Maria-Passo dell'Umbrail (2503 m s.l.m.). Fino al 1915 il valico era percorso tutto l'anno da un servizio di diligenze, grazie all'efficiente opera degli spalatori durante l'intero inverno. Con l'arrivo della Prima Guerra mondiale fu teatro di aspri scontri tra la fanteria austriaca e quella italiana, essendo il passo proprio sul confine italo-austriaco. Schema del fronte Data 24 maggio 1915 - 1º novembre 1918 Luogo Sul confine tra Val Camonica e Tirolo meridionale Esito Vittoria italiana e abbandono austro-ungarico del fronte Il contesto ambientale I problemi più gravi che dovettero affrontare gli eserciti impegnati nella Guerra Bianca furono quelli legati all'impervietà del terreno ed alle condizioni climatiche estreme. Le montagne dei tre gruppi montuosi sono infatti assai elevate e difficili da percorrere: tanto più ci si allontanava dai fondo valle tanto più per i trasporti fu necessario ricorrere agli animali da soma ed alle spalle degli uomini, anche per i pesantissimi carichi dei materiali d'artiglieria. Solo con il procedere del conflitto negli anni si realizzò una fitta rete di strade tale da raggiungere gli avamposti nei luoghi più impervi; negli ultimi due anni di guerra fu infine sistematizzato l'uso delle teleferiche, ma la stessa realizzazione di queste infrastrutture, strade e teleferiche, fu forse l'impresa della Guerra Bianca che richiese più energie e sacrifici. Gruppo Ortles-Cevedale Continente Europa Stati Italia Catena principale Alpi dell'Ortles (nelle Alpi Retiche meridionali) Cima più elevata Ortles (3.905 m s.l.m) Il gruppo Ortles-Cevedale occupa un'area molto estesa, delimitata da profonde vallate di origine glaciale. A ovest, la Valtellina lo separa da altri massicci montuosi delle Alpi Retiche tra cui il Bernina, a sud è chiuso dall'alta valle Camonica e dalla val di Sole, che lo separano dalle Alpi dell'Adamello e della Presanella, mentre ad est si apre in un ventaglio di catene secondarie che dominano la val Venosta. Guerra Bianca: Ortles-Cevedale Tra i settori operativi della Guerra Bianca, quello dell'Ortles-Cevedale presentò in assoluto le condizioni più estreme. Le quote decisamente più elevate (mediamente 500metri al di sopra di quelle degli altri due settori) e l'eccezionale impervietà del terreno, se da un lato impedirono azioni belliche di un certo respiro, dall'altro esasperarono al limite le condizioni di vita e di combattimento degli uomini coinvolti nel conflitto in questi luoghi Alpi dell’Adamello-Pressanella Continente Europa Stati Italia Catena principale Alpi Cima più elevata Cima Presanella (3.558 m s.l.m) Massicci principali Gruppo dell'Adamello Gruppo della Presanella Le Alpi dell'Adamello e della Presanella costituiscono un'entità ben definita all'interno delle Alpi Sud-orientali. L'Adamello-Presanella è delimitato a ovest dalla media Val Camonica, e a nord dai solchi dell'alta Val Camonica e dell'alta Val di Sole, che convergono al Passo del Tonale; ad est, prima la Val Meledrio, poi la Val Rendena e le Valli Giudicarie lo separano dal gruppo delle Dolomiti di Brenta. Il confine meno evidente è quello meridionale, ove una serie di valli minori lo scinde dalle più modeste Prealpi Bresciane. Guerra Bianca: Adamello-Presanella Tra i settori operativi della Guerra Bianca, il settore Adamello-Presanella fu quello che ebbe il peso strategico maggiore: si sono registrate qui le azioni belliche e gli eventi più significativi. Lavoro realizzato dagli alunni delle classi terze della Scuola Secondaria di Primo Grado ‘’Ligari’’ di Sondrio Abdi Rejmonda Agnelli Matteo Alfarano Mattia Andronachi Mihaela Azzalini Giacomo Azzalini Nicola Baikhoidze Nisa Baldo Beatrice Baratta Chiara Barbonetti Francesco M. Barini Francesco Bazzano Emanule Benedetti Alessandra Benedetti Luca Benedetti Michelangelo Bersellini Nicolo’ Bertini Nicola Bertoletti Elena Bertolini Luca Butticè Antonella Buzzetti Francesco Cabello Kristian Caldara Marianna Calvo Vincenzo Caprari Daniele Carbone Francesco Carugo Benedetta Casalino Gaia Catanese Chiara Cattone Rebecca Cesaroni Alessia Chen Yu Qi Cioccarelli Andrea Clementi Ettore Cocozza Bruno Codazzi Alice Colasanto Francesco Combi Lucia Costantino Niccolo’ Curti Simone D’alpaos Maddalena De Bernardi Sasha De Marzi Alessandra De Paoli Leo Dell’utri Mattia Della Vedova Benedetta Di Francesca Giorgio Di Zitti Arianna Dioli Luca Dragone Elisa Egizi Roberta Erba Elia Evangelista Sara Failoni Lorenzo Fanoni Gianfranco Felisa Michela Folatti Marco Islami Emrije Kaur Jasmanpreet Khalil Zeyad Leitner Portolesi Giulia Leo Tommaso Leoncelli Matilde Leoni Giulia Lipcan Larisa Manni Federico Marconi Sara Marconi Valentina Marconi Adriano Mari Pietro Marsetti Luca Marsetti Sara Meleri Alice Menesatti Lorenzo Moreno Manuel Moroni Michele Morozzo Della Rocca Edoardo Mossinelli Anna Musso Riccardo Ni Jiajia Opreni Alessia Anna Orlando Angelo Rocco Osellame Valentina Oubalouk Nadia Paini Eleonora Parolo Silvia Pastore Luca Pedretti Lucia Piatta Elisa Pontiggia Davide Pradella Anna Prandi Sara Presazzi Alessandro Pruneri Alice Qafa Gerald Ravanetti Elisa Riatti Matteo Riccardi Alessandra Robustellini Andrea Romeri Riccardo Sacchi Mattia Saligari Aurora Salvato Silvia Scala Federica Scarafoni Lucia Scarafoni Lorenzo Schena Silvia Schena Lorenzo Scherini Luigi Schiantarelli Gianmarco Scieghi Samuele Scopelliti Filippo Seminara Chiara Sertori Davide Sertori Tommaso Simoncini Davide Sosio Martino Stangoni Arianna Stiglitz Francesca Troudi Sonia Trutalli Beatrice Trutalli Giulia Vailati Massimiliano Vanoni Carolina Venturi Bianca Verdesca Laura Claudia Wu- Liangfang Luisa coordinati dalle insegnanti Alosi Anna, Della Bosca Lara, Esposito M.Cristina, Filippini Ida, Forni Doriana, Guglielmino Laura Indice La Guerra Bianca Guerra in alta quota Percorsi dei soldati Condizioni ambientali Passo dello Stelvio Passo dell’Adamello Passo del Tonale Che cos’è la Guerra Bianca? L'espressione Guerra Bianca ("Guerra di montagna") individua il particolare contesto e l'insieme di eventi del fronte italiano durante la prima guerra mondiale combattuta nel 1915-1918 sulle Alpi del Tirolo meridionale, tra le truppe del Regno d'Italia e dell'Impero Austro-ungarico, sull’OrtlesCevedale, Adamello-Presanella e Marmolada. La guerra in alta quota Nel corso del Primo conflitto mondiale l'estremità occidentale del fronte italoaustriaco attraversava i due imponenti gruppi montuosi dell'Ortles-Cevedale e dell'Adamello-Presanella, per cui le due parti in lotta furono costrette a combattere, per oltre tre anni e mezzo, una guerra tipicamente alpina, su postazioni di roccia e ghiaccio ad oltre 3000 metri di quota, in condizioni ambientali e climatiche difficilissime. Percorsi dei soldati Le montagne erano difficili da percorrere: tanto più ci si allontanava dal fondo valle, tanto più per i trasporti fu necessario ricorrere agli animali da soma (cavalli e muli) ed alle spalle degli uomini per i pesantissimi carichi e i materiali d'artiglieria. Solo col procedere del conflitto si realizzò una fitta rete di strade, mulattiere e sentieri, tale da raggiungere gli avamposti nei luoghi più impervi; negli ultimi due anni di guerra fu infine sistematizzato l'uso delle teleferiche. La stessa realizzazione di queste infrastrutture, insieme alle strade, fu forse ciò che richiese più energie e sacrifici. Condizioni ambientali I problemi più gravi che dovettero affrontare gli eserciti impegnati nella Guerra Bianca furono quelli legati all'impervietà del terreno ed alle condizioni climatiche estreme. La guerra alle alte quote era soprattutto un problema logistico di trasporti: bisognava assicurare accoglienti alloggi ai soldati, sotto forma per lo più di baracche di legno, i viveri, la legna per il riscaldamento e per cucinare o per scaldare il rancio, magazzini per le munizioni. Ma i grandi nemici, per entrambe le parti, erano il gelo, le intemperie, le valanghe, i fulmini, le tormente, il vento, la nebbia, che furono causa, diretta o indiretta, di ben due terzi dei morti. Basti ricordare che in un solo giorno, il 13 dicembre 1916, noto come il Venerdì bianco, circa diecimila soldati morirono investiti da slavine. In alta montagna le escursioni termiche erano notevoli: al di sopra dei 2500 metri erano normali anche d'estate temperature al di sotto dello zero. D'inverno il termometro scendeva anche diverse decine di gradi e negli anni del conflitto si registrarono spesso temperature inferiori ai 35 °C sotto lo zero. Il clima mutava in tempi rapidi. Gli inverni del 1916 e del 1917, oltretutto, per sfortuna dei combattenti, furono tra i più freddi e nevosi del secolo. La grande quantità di neve caduta aumentò spaventosamente il rischio di valanghe, falcidiando pesantemente le corvèe di entrambi gli schieramenti. La lotta contro il maltempo e le tormente, il freddo e gli assideramenti diventò molto spesso più importante della lotta stessa contro il nemico. Era necessario mantenere i collegamenti con il fondovalle per avere i rifornimenti di cibo e di legna per riscaldarsi e a tenere le trincee sgombre. Il Passo dello Stelvio All'inizio dell'Ottocento l'imperatore Francesco I d'Austria volle una nuova strada che potesse collegare la val Venosta direttamente con Milano, allora territorio austriaco, attraverso la Valtellina. L'incarico fu affidato all'ingegnere capo della Provincia di Sondrio, Carlo Donegani (1775-1845), esperto d'ingegneria stradale d'alta montagna e già progettista del passo dello Spluga.I lavori cominciarono nel 1822. Nel 1825 l'opera fu compiuta e venne inaugurata alla presenza di un soddisfatto imperatore Ferdinando. Il passo sul confine italo-austriaco. Dopo la vittoria del 4 novembre entrambi i versanti furono italiani, il passo perse il suo significato originale di collegamento Vienna-Milano e fu decisa la chiusura invernale. Le vette che circondano il Passo Stelvio furono grandi protagoniste nel corso della prima guerra mondiale: il gruppo dell’Ortles – Cevedale fu il fronte occidentale dei combattimenti che videro coinvolti i nostri soldati. Dal 1915 al 1918 su queste cime, vista la loro importanza strategica, si combatté duramente per evitare l’avanzata delle truppe austriache. Vennero realizzate in quest’area, in condizioni climatiche estreme e tra mille difficoltà, numerose fortificazioni e trincee servendosi delle strade militari e dei sentieri appositamente realizzati dai nostri alpini. Gli austriaci approntarono da subito la loro linea difensiva tra il Pizzo Garibaldi e il Cevedale in modo da poter impedire l’eventuale ingresso alle nostre truppe nell’Alto Adige. Occuparono subito anche lo Scorluzzo che era strategicamente fondamentale visto che permetteva di dominare e vigilare su tutte le vette circostanti essendo un punto d’osservazione privilegiato. Il Passo dell’Adamello La distribuzione difensiva italiana in Alta Valle Camonica faceva capo al grande “Sbarramento del Tonale” che, sul suo fianco sinistro, si identificava nel più ridotto “Fronte del Montozzo”, anello di congiunzione con le linee fortificate dello Stelvio. Il 23 maggio 1915 il confine tra Italia ed Austria era situato tra Punta Castellaccio e la Cresta dei Monticelli, entrambe agevolmente controllate dagli alpini del battaglione Morbegno che si trovavano presso il Passo Paradiso. La strategia iniziale italiana prevedeva solo lo sbarramento della Val Camonica e relative valli laterali, il Passo Paradiso fu quindi abbandonato dalla nostra 44° compagnia. Il fronte italiano sull'Adamello andava dal Passo di Lago Scuro all'alta Val di Fumo, quello austriaco dalla Cresta dei Monticelli al Caré Alto. Tra le due linee si trovava, quale "terra di nessuno", la zona dei ghiacciai perenni. Il Passo del Tonale Altro settore considerato molto importante dagli italiani era il passo del Tonale, su cui già prima della guerra furono costruiti alcuni settori fortificati in previsione di una guerra tipicamente difensiva. Le disposizioni del Comando Supremo stabilivano infatti che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove necessario, solo piccole azioni offensive, al fine di occupare posizioni più facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di attestarsi in luoghi più facilmente accessibili e rifornibili. Condizioni di vita dei soldati nella Guerra Bianca Ambiente Riposo Combattere Lavorare Spiritualità Assistenza sanitaria e malattie Gli animali Equipaggiamento Ambiente Uno dei più gravi problemi legati alla Guerra Bianca fu il terreno impervio, unito alle condizioni climatiche estreme. Le vette dei gruppi montuosi interessati hanno quote molto elevate (la più alta, l’Ortles, raggiunge i 3905 metri). A quelle altitudini avevano luogo escursioni termiche notevoli: in inverno si potevano raggiungere punte di temperature inferiori a 35 gradi sotto zero. Inoltre quegli inverni furono molto nevosi: si registrarono più di 16 m di neve. Ciò rese il rischio di valanghe più alto e obbligò i soldati a cimentarsi in lavori di scavo neve. Riposo Quotidianità: per passare il tempo i soldati si cimentavano in giochi con le carte, come il famoso “briscola”, “scopa” o “tras en camisa” (mettersi in camicia); nei tempi morti si fumava una sigaretta o la pipa, per scaldarsi un po’ la bocca e per rilassarsi; la musica era uno dei passatempi preferiti dall’esercito: si potevano trovare tromboni, fisarmoniche, tamburi e violini. Erano importanti anche i momenti di raccolta spirituale come la messa, l’onore ai morti e la preghiera individuale. Alimentazione: durante la Grande Guerra l' alimentazione fu un grande problema in quanto le battaglie, l'abbandono dei campi e le razzie provocarono molte devastazioni ai campi e lo svuotamento dei magazzini. La gente moriva non solo di fame, ma anche per le numerose malattie provocate da una alimentazione non sana. Ci si poteva ammalare di pellagra o dissenteria. Il rancio militare italiano, a differenza di quello austriaco, aveva delle porzioni più consistenti: ogni giorno l'esercito dava ai suoi soldati 600g di pane, 100g di pasta e carne, raramente frutta o verdura, una goccia di vino e del caffè. Un problema era l'acqua potabile: di rado i soldati avevano a disposizione più di mezzo litro al giorno. Per i soldati in prima linea la gavetta era poco più grande: gallette, scatole di carne, cioccolato e liquori. Le scatole della pasta e le lattine erano decorate con motti propagandistici e spesso patriottici. I canti: numerose canzoni ricordano la Grande Guerra e rendono possibile ricostruire più precisamente la vita dei soldati e capire il loro stato d’animo. La maggior parte appartengono al corpo degli Alpini e raccontano dei più svariati aspetti della guerra. Combattere Il territorio rendeva impossibile organizzare offensive su larga scala: furono per lo più scontri tra pattuglie di pochi uomini e spesso la difesa delle postazioni di ogni schieramento. Si trattava di una guerra di posizione e per cercare di scacciare gli avversari si ricorse anche all’esplosivo, posizionato da minatori e alpini sotto le trincee e i capisaldi avversari all’interno di cunicoli scavati nel ghiaccio o nella roccia che non dovevano essere visibili all’esterno. Lavorare I soldati costruirono caverne, baracche e ricoveri per tentare di proteggersi dal freddo. Curiosità: nel cuore della Marmolada gli austriaci costruirono un villaggio sotto il ghiaccio con 8 km di gallerie e trenta caverne. Si costruirono strade, sentieri e teleferiche per giungere nei villaggi militari e per portarci tutto ciò che serviva: viveri, armi, munizioni, cemento, legname e carbone. Spiritualità I momenti di riflessione spirituale come la preghiera, la messa e l’onore ai caduti assunsero maggiore importanza per via della lontananza dalle famiglie e dagli affetti. Assistenza sanitaria ai mutilati Si costituì un sistema di assistenza sanitaria sul fronte. Ebbe luogo una vasta mobilitazione sanitaria in Lombardia, per soccorrere i mutilati che combattevano sul confine con il Trentino Alto Adige, allora parte dell’impero austro-ungarico. Il clima e l’ambiente causarono l’aggiunta di numerosi mali alle patologie belliche : mal di montagna, edemi, sindromi da assideramento, congiuntiviti, insolazioni, traumi da caduta, pediculosi. Impiego di animali • • • Si utilizzarono cavalli, muli e cani per il trasporto a soma e per il traino per portare ai villaggi militari viveri, pezzi di artiglieria … Essi però non tolleravano le condizioni climatiche di questi ambienti. Il primo tentativo vide dodici asinelli che patirono soprattutto l’accecante riverbero della neve. In seguito si impiegarono soprattutto cani che trainavano apposite slitte, i quali richiedevano meno cibo degli animali utilizzati in precedenza. Equipaggiamento • Armi: nella Guerra Bianca furono utilizzate soprattutto mitragliatrici e fucili di precisione. • Le armi utilizzate durante la Guerra Bianca furono perfezionate ed adattate a sparare in lontananza per cercare di bloccare gli spostamenti nemici nei passi, sentieri e rifugi. • Gli alpini che scavavano nuovi sentieri per raggiungere le vette più alte o quelli che semplicemente montavano le armi e premevano il grilletto erano costretti ad indossare la divisa ufficiale della propria patria; essa non si adattava sempre alle condizioni climatiche e li obbligavano a patire il freddo. • Vestiario: a causa delle condizioni climatiche estreme i soldati necessitavano di un abbigliamento particolare: indumenti di lana pesante, scarponi chiodati, pellicce, pesanti soprascarpe, zoccoli di legno chiodati, sci, attrezzatura alpinistica, tute mimetiche bianche … Il sentiero dei fiori Il “sentiero dei fiori” si estende nell’Alta Valle Camonica attorno ai 3.000 metri di quota collegando il Passo di Castellaccio alla Punta di Lagoscuro. Il panorama che si può godere da esso varia dall’Ortles-Cevedale e dalle Dolomiti fino al gruppo del Monte Rosa con il Cervino. Attraverso due passerelle lunghe 55 e 75 metri i soldati potevano aggirare il Gendarme di Casamadre e raggiungere il villaggio militare collocato al passo di Lagoscuro. Il Sentiero della Pace Il sentiero della Pace collega lo Stelvio alla Marmolada, e ripercorre i luoghi della Prima guerra mondiale. L'idea della realizzazione del tracciato sulle rovine dei sentieri fu di Walther Schaumann. Si tratta di un itinerario di grande importanza ambientale e storica che vuole recuperare e trasmettere gli importanti valori del passato e della cultura dei territori in cui si estende. La Strada degli Alpini La strada degli Alpini (detta anche sentiero degli Alpini) è uno tra i più celebri e classici sentieri attrezzati delle Alpi e si trova sulle Dolomiti di Sesto, in provincia di Bolzano. Era usato dagli Alpini nella Prima Guerra mondiale come collegamento efficiente e veloce tra la forcella Giralba e la terrazza ovest di Cima Undici. Segue una cengia naturale, allargata e resa transitabile dagli alpini in guerra, alla base di Cima Undici-Cresta Zsigmondy.