La Grande Guerra

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La Grande Guerra
nelle vie di Sondrio
Via V Alpini
Via Damiano Chiesa
Via Vittorio Veneto
Via Zara
Via IV Novembre
Via Ragazzi del ‘99
Via Adamello
Via Gorizia
Lungo Mallero Armando Diaz
Lungo Mallero Luigi Cadorna
Via Stelvio
Via Enrico Toti
Via Trento
Via Fiume
Via Trieste
Sacrario Militare
Via Tonale
Via Nazario Sauro
Via Cesare Battisti
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Gli autori
Lungo Mallero Armando Diaz
Il Lungo Mallero Armando Diaz,
deliberato nel settembre 1930,
comprende oggi il tratto a destra del
torrente dalla casa Cao fino a via
Adua. Precedenti denominazioni la
indicavano “via Argine destro” e poi
“Argine Cantone” (1865) nel solo
tratto fino al ponte nuovo (piazza
Garibaldi). Il tratto poi da detto ponte
verso l’Adda era dominato “via al
Bersaglio”, poi cambiato lo stesso
anno 1865 in “Lungargine della
Presa”.
(da G. Bianchi, Le vie di Sondrio)
Indice

Armando Diaz, la vita

Giudizi su Armando Diaz

La lettera di Mariano Gigli

La Battaglia di Vittorio Veneto

Il Bollettino della Vittoria
Armando Diaz, la vita
Avviato giovanissimo alla carriera
militare, Diaz fu allievo dell'Accademia
militare di Torino, dove divenne ufficiale
d'artiglieria.
Fu colonnello, comandante il 93º
Reggimento fanteria, durante la guerra
italo-turca.
Maggior generale nel 1914, alla
dichiarazione di intervento dell'Italia nella
prima guerra mondiale fu addetto al
comando supremo quale capo del
reparto operazioni; lasciò l'incarico al
momento della promozione a tenente
generale, nel giugno del 1916, per
assumere il comando prima della 49a
Divisione militare, poi del XXIII Corpo
d'armata.
La sera dell'8 novembre 1917 fu chiamato a sostituire Luigi Cadorna nella
carica di Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Italiano. Recuperato quello che
rimaneva dell'esercito, organizzò la resistenza sul monte Grappa e sul fiume
Piave.
Guidò alla vittoria le truppe italiane
nel 1918, nella Battaglia di
Vittorio Veneto; per l'occasione
stilò il famoso Bollettino della
Vittoria in cui comunicava la rotta
dell'esercito
austriaco
ed
il
successo italiano.
Al termine della guerra Diaz
divenne senatore e nel 1921 venne
insignito del titolo di Duca della
Vittoria.
Nel primo governo Mussolini, su precisa richiesta del re Vittorio Emanuele III
assunse l'incarico di Ministro della Guerra. Terminata l'esperienza governativa
il 30 aprile 1924, si ritirò a vita privata. Nello stesso anno, venne insignito
insieme al generale Luigi Cadorna del grado di Maresciallo d'Italia, titolo
istituito espressamente da Mussolini per onorare i comandanti dell'esercito
nella Prima guerra mondiale.
Giudizi su Armando Diaz
"Chi è questo Diaz?" (generale Ferdinand Foch, comandante degli eserciti
dell'Intesa)
"Cadorna fu sostituito da Diaz, un napoletano di discendenza spagnola. Il quale
si preoccupò maggiormente del benessere materiale dei suoi uomini ed istituì
degli uffici di propaganda con il compito di esporre ai soldati la condotta e le
finalità della guerra" (Dennis Mack Smith, storico)
"Diaz rappresentò una figura più simile a quella di un consigliere di
amministrazione, che di un capo di esercito" (Mario Silvestri)
"L'ho tirato fuori io, è una mia scoperta" (Vittorio Emanuele III)
Entusiasmo e ammirazione per la capacità militare del generale Diaz
traspaiono anche dalle parole di Mariano Gigli, tenente dell’ 81° reggimento
fanteria della Brigata Torino.
La lettera di Mariano Gigli
Mariano Gigli ha vent’anni quando,
dopo aver frequentato il Corso di
Allievi Ufficiali, il 30 marzo 1917
parte da Roma per il fronte.
Diventerà
Tenente
dell’81°
reggimento fanteria della Brigata
Torino.
In una lettera che il militare scrive
alla famiglia il militare così esprime
tutto il suo entusiasmo e la sua
sincera
ammirazione
per
il
generale Diaz:
‘’Mamma mia carissima,
finalmente siamo giunti al giorno che tanto si è fatto attendere, ma che inaspettato è
sopraggiunto: a quello della vittoria completa, che il mondo intero, estasiata, sta
ammirando. Sì, senza esagerare, quello che l'Esercito Italiano ha fatto è veramente
prodigioso: il piano di guerra del nostro Generale Diaz è strabiliante. Ha battuto
l'Austria in otto giorni. Se sempre con orgoglio ho appartenuto all'Esercito
combattente (veramente combattente) oggi provo in me una soddisfazione immensa,
superiore all'orgoglio cui faccio cenno sopra; benedico quel momento che sono stato
fatto idoneo al servizio militare.
In certi momenti nel vedere tutta questa popolazione sorridente, che parla
perfettamente italiano, che ci usa un mondo di cortesie, mi sembra di sognare e più
volte tra me e me mi sono domandato se era vero. Voi che state in Italia avete provato
immensa gioia nell'apprendere il felice evento, ma noi di quassù, che fino a pochi
giorni avanti sparavamo fucilate e cannonate, abbiamo sentito quello che sente chi
raggiunge una cosa che, pur desiderandola ardentemente, la ritiene quasi
irraggiungibile.
Quando il primo forte, la mattina del 3 novembre, issava la bandiera bianca, perché
aggirato, il momento di gioia fu indescrivibile, perché nulla noi sapevamo che
i parlamentari si erano recati da Diaz (a Padova) per la resa e mai immaginavamo la
vittoria così colossale.
Nemmeno a dirlo, io sto benone, in attesa della trionfale entrata a Roma della Brigata
Torino. Si è già costituita la musica!!’’
La Battaglia di Vittorio Veneto
Le truppe e la popolazione passano il Cordevole – 2 Novembre 1918
Primi soldati a Vittorio Veneto
Il 4 novembre 1918 si concludeva per l'Italia la Prima guerra mondiale. Dieci
giorni prima, 41 Divisioni italiane - affiancate da una Divisione francese e una
britannica - erano passate vittoriosamente all'offensiva sul fronte del Piave
nella celeberrima Battaglia di Vittorio Veneto.
Nel novembre del 1917, dopo la disfatta di Caporetto, il generale
Luigi Cadorna venne sostituito, al comando dell’esercito italiano, dal
generale Armando Diaz, il quale fu determinante per il successivo
esito della Grande Guerra.
Nella battaglia di Vittorio Veneto, Diaz guidò l’esercito contro le
truppe austriache, rivelandosi decisivo per il clamoroso mutamento
nell’andamento dei combattimenti sul fronte austriaco.
Vinse l’importante battaglia e dimostrò grandi doti umane e capacità
di svolgere un ruolo di camerata, oltre che di comandante.
A conclusione di quello scontro, il generale, riferendosi all’esercito
austriaco, scrisse nel suo celebre proclama:
“I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalgono in disordine e senza speranza
le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”,
mostrando un grande sentimento d’orgoglio nella realizzazione di
un’impresa davvero storica per l’Italia.
Il Bollettino della Vittoria
Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12
La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo,
l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede
incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano
parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed
un reggimento americano, contro sessantatré divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie
della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII
armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della
fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X
armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III
armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che
mai aveva perdute.
L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita
resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di
materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato
finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno
di cinquemila cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e
senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Il capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Diaz
L’entusiasmo
per
la
vittoria fu tale che la
sottoscrizione
del
documento “firmato Diaz”
indusse molti italiani ad
imporre ai propri figli
appena nati il nome di
Firmato,
nella
errata
convinzione che quello
fosse il nome di battesimo
del generale vittorioso.
Nei decenni successivi, in epoca fascista, il proclama della Vittoria conobbe
una grandissima popolarità: il suo testo, fuso nel bronzo delle artiglierie
catturate al nemico, venne esposto in tutte le caserme d'Italia dove tuttora è
visibile, e venne poi immortalato sui monumenti, sulle facciate dei municipi,
nelle scuole, diffuso in migliaia di copie su cartoline, stampe, libri scolastici, e
letto, insegnato e imparato a memoria da generazioni di italiani.
Il Sacrario Militare
A Sondrio, presso il Parco della Rimembranza, si
trova il Sacrario militare. Esso fa parte di un più
ampio programma generale di sistemazione delle
Salme voluto dal Commissario del Governo per le
Onoranze ai caduti in Guerra che prevedeva la
creazione di grandi concentramenti di Salme nei più
importanti centri urbani.
La Cappella Ossario, inaugurata il 6 novembre 1927 e realizzata grazie al
contributo finanziario dell’Amministrazione Provinciale di Sondrio e di quattro
banche locali (Banca Popolare di Sondrio, Banca Piccolo Credito Valtellinese,
Banca della Valtellina e Banca Agricola Italiana), raccoglie le spoglie di 584 caduti
della Grande guerra, che all’epoca si
Trovavano inumate, in via provvisoria, nel cimitero civile di Sondrio e nei cimiteri
civili e militari della provincia.
Nella Cappella Ossario di Sondrio sono altresì conservate le spoglie guerra la
cappella raccoglie anche i resti di 24 alpini travolti nel 1917 da due valanghe
nell’Alta Valmalenco.
Indice:

La Cappella Ossario: storia

L’artigianato di trincea

I Caduti dello Scerscen

Il Sacrario Militare del Passo dello Stelvio

Il Sacrario Militare di Redipuglia

Margherita Kaiser Parodi

La ‘’spagnola’’
La Cappella Ossario: storia
La Cappella Ossario di Sondrio, progettata
dell’arch. Pietro dal Fabro di Treviso (Consulente
per il Sacrario Militare di Redipuglia e progettista
di quello del Passo dello Stelvio), presenta una
struttura tripartita ed è stata realizzata con uno
stile semplice ed essenziale, tipico dell’architettura di epoca fascista.
Un altare semplice, ornato da cimeli militari,
richiama subito il visitatore alla solennità del luogo
e al valore militare delle Salme che lì riposano,
sottolineato anche dalla particolare decorazione
del portone, che reca lance e scudi in ferro
battuto e ottone, e dalla presenza dei maestosi
cedri del Libano che ornano l’antistante giardino.
L’intera area avrebbe dovuto essere delimitata da
una recinzione, ma, a causa della mancanza di
fondi, essa è incorniciata dalle catene d’ancora di
una nave da guerra italiana, che simboleggiano il
valore della nostra Marina militare.
Il portone della Cappella Ossario - particolare
La Cappella Ossario è stata inaugurata nel 1932.
Dopo la sua consacrazione, fino agli anni Settanta vi si celebrava la messa;
successivamente essa non è più stata utilizzata, motivo per cui ha subito i
danni dovuti all’incuria e allo scorrere del tempo.
Nel 2000 l’Associazione Alpini di Sondrio ne ha promosso la riapertura per
tramandare alle giovani generazioni il valore eroico dei Caduti della Grande
guerra. La Cappella Ossario è stata quindi riconsacrata nel 2003 e in essa
si celebrano delle funzioni liturgiche in occasione di ricorrenze particolari
L’interno della
Cappella Ossario
L’artigianato di trincea
L’espressione
“artigianato
di
trincea” indica l’insieme degli
oggetti (tagliacarte, vasi, anelli,
bracciali…)
costruiti
artigianalmente
dai
soldati
durante la Grande guerra con
materiali di recupero come
bossoli,
bulloni,
cinture
di
contenimento degli obici in rame,
corone di forzamento delle
granate, ottone, pezzi di ferro,
alluminio… , materiali trovati in
abbondanza sui campi di battaglia
e raccolti dai soldati, rischiando la
vita, in violazione delle norme
imposte dagli Stati maggiori: tali
materiali, infatti, erano considerati
proprietà dello Stato.
Bracciale in ottone
Vasi
Questi manufatti, opera di abili artigiani, vennero
realizzati sia per far fronte alla carenza
dell’equipaggiamento fornito dall’esercito sia per
uso personale (è il caso degli accendini) o come
souvenir da mandare a casa (tagliacarte,
calamai, anelli e bracciali).
Vasi conservati presso il
Sacrario Militare di Sondrio
Particolare dell’impugnatura di un tagliacarte
I Caduti dello Scerscen
Durante la Grande Guerra, nelle zone di retrovia si organizzavano vari
corsi di addestramento per alpini sciatori, che dovevano essere
impiegati nei settori del fronte coperti da ghiacciai. Uno di questi aveva
come base la Capanna Marinelli.
Da qui, il giorno 2 aprile 1917 una colonna di 42 alpini era da poco
partita per scendere all’Alpe Musella quando improvvisamente venne
investita da un’enorme valanga staccatasi dai pendii soprastanti.
Sedici militari vennero sommersi e trascinati a valle.
Proprio il giorno prima una sorte analoga aveva colpito un
distaccamento di 28 alpini ospitati nell’Albergo Musella: una valanga
distaccatasi dalle pendici del Sasso Nero, nel Vallone dello Scerscen,
li aveva travolti, provocando 8 morti e 14 feriti.
I resti degli Alpini caduti sotto la valanga di Scerscen e Musella sono
ricomposti nella Cappella Ossario al Parco della Rimembranza di
Sondrio.
Gli 8 Alpini travolti dalla
valanga al Rifugio Musella
il 1° Aprile 1917
I 16 Alpini travolti dalla valanga
alla Bocchetta delle Forbici
il 2 Aprile 1917
Agazzi Francesco
Bonaiti Mario
Capelli Lorenzo
Di Biase Alessandro
Regazzoni Giuseppe
Sosio Faustino
Paini Luigi
Palermo Rocco
Bernardo Bormolini da Livigno
Pietro Bonzi da Pessena
Angelo Bonfadini da Sulzano
Angelo Crescini da Casalino
Pasquale di Battisti da Bisenti
Domenico di Petrantonio da Penne
Ugolino Generali da Pistoia
Antonio Galli da Bollate
Mauro Mapelli da Trescore Balneario
Francesco Magliano da Monteo Roero
Luigi Olivieri da Sant'Ambrogio
Ernesto Pellegrinelli da Rotadendro
Eppe Petrunciani da Sambuca
Enrico Rosati da Tortoredo
Antonio Ramboldini da Coglio
Luigi Tomasini da Comappo
Il Sacrario Militare del
Passo dello Stelvio
A
cavallo
tra
la
provincia
di
Sondrio e l'Alto Adige e non lontano
dal confine con la
Svizzera si trova il
Sacrario del Passo
dello Stelvio.
Il piccolo monumento raccoglie i resti di 64 militari italiani caduti in questa
zona del fronte, provenienti dai dismessi cimiteri di guerra di Spondigna e da
quello di San Ranieri, antistante al Sacrario stesso.
Le morti, in questa zona, avvennero sia per la guerra che per le condizioni
climatiche spesso proibitive. Non va dimenticato infatti che il Passo si trova ad
oltre 2500 metri s.l.m. e fu uno degli scenari della cosiddetta "Guerra Bianca".
Fu realizzato su progetto di Pietro del Fabro nel 1932 e richiama gli archi
romani che celebravano le vittorie dell'Impero Romano. Nella parte
interna sono stati costruiti i loculi che contengono le spoglie dei soldati
mentre l'intera struttura è circondata da un recinto in ferro. Sul cancello
d'entrata si trovano due colonne in pietra che raffigurano due pugnali.
L’esterno e l’interno del
Sacrario Militare
Il Sacrario Militare di Redipuglia
Il Sacrario di Redipuglia è il più grande
e maestoso sacrario italiano dedicato ai
caduti della Grande Guerra. Inaugurato
il 18 settembre 1938 dopo dieci anni di
lavori, l'opera, detta anche Sacrario "dei
Centomila", custodisce i resti mortali di
100.187 caduti (39.857 noti e 60.330
ignoti) nelle zone circostanti, in parte
già sepolti inizialmente sull'antistante
Colle di Sant’Elia.
Fortemente voluto dal regime fascista, il
sacrario voleva celebrare il sacrificio dei
caduti nonché dare una degna
sepoltura a coloro che non avevano
trovato spazio nel cimitero degli Invitti.
Recinge simbolicamente l’ingresso al
Sacrario una monumentale catena
d’ancora
che
appartenne
alla
torpediniera “Grado”.
Subito oltre, dopo le tombe dei generali, tra cui spicca quella del Duca
d’Aosta, si eleva una maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su sui sono
allineate le tombe dei Caduti noti, che ricorda il poderoso e perfetto
schieramento d’una intera grande Unità di centomila soldati.
Al centro del primo gradone si trova l'unica donna sepolta, una crocerossina
di nome Margherita Kaiser Parodi Orlando, mentre sull’ultimo, in due grandi
tombe comuni, si trovano custodite le salme di 60mila Caduti ignoti e, vicine,
quelle, identificate, di 72 marinai e 56 uomini della Guardia di Finanza.
In cima, tre croci richiamano l'immagine del Monte Golgota e la crocifissione
di Cristo.
Margherita Kaiser Parodi Orlando
Margherita Kaiser Parodi Orlando, nata il
16 maggio 1897, era partita con la madre
e con la sorella Olga per il fronte, come
crocerossina. Margherita prestò servizio
presso l'invitta III Armata anche sotto i
bombardamenti, in prima linea, e ciò le
valse la medaglia di bronzo al valor
militare.
Appena finita la guerra, per lo scoppio di
un'epidemia, la febbre ‘’spagnola’’, morì il
1° dicembre 1918 a Trieste, a soli 21
anni.
Margherita è l'unica donna che abbia
avuto l'attenzione di esser inumata al
Sacrario di Redipuglia, dove è ricordata
con il seguente distico:
A noi, tra bende, fosti di carità l'ancella,
Morte fra noi ti colse, resta fra noi Sorella.
La “spagnola”
L'influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la Grande Influenza, è
una pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di
milioni di persone nel mondo. È stata descritta come la più grave forma
di pandemia della storia dell'umanità, avendo ucciso più persone della
terribile peste nera del XIV secolo e della stessa Grande Guerra.
All'influenza venne dato il nome di "spagnola" poiché la sua esistenza
fu inizialmente riportata soltanto dai giornali spagnoli.
La spagnola, pur uccidendo moltissimi soldati italiani, colpì
maggiormente l'Austria Ungheria, con circa due milioni di morti. Tra i
soldati austriaci l'incidenza della mortalità fu quasi tripla rispetto ai
soldati italiani: questo fu dovuto principalmente al fatto che i soldati
dell'Impero austro-ungarico erano sottoalimentati per cui debilitati a
causa del blocco navale che rendeva impossibile le importazioni degli
imperi centrali.
Lungo Mallero Luigi Cadorna
Il Lungo Mallero Luigi Cadorna, così denominato
dal settembre 1930, è il nome della riva sinistra
dell’omonimo torrente, dalla località Gombaro
fino al ponte della ferrovia.
Prima di allora aveva diverse denominazioni: nel
1864 il tratto fra la piazza Vittorio Emanuele e la
Folla era detto “via del Lazzaretto” a ricordo
della peste del 1630; lo stesso tratto diventerà
nel 1875 “Lungargine Cugnolo”, antico nome di
una vasta località che si perdeva a sud; sempre
nel 1875 il primo troncone fino a piazza Vecchia
muterà da “via Fracaiolo” in “Lungargine
Fumagalli” a ricordo di un tale Giuseppe, definito
“il padre degli operai” che attivò i primi fornelli di
un setificio sorto in città; nel 1865 il tratto tra il
ponte vecchio e quello nuovo si chiamerà
“Strada Rusconi” e poi (1875) “Lungargine
Rusconi”.
(da G. Bianchi, Le vie di Sondrio)
Indice

Capo di Stato Maggiore

La Prima guerra mondiale

La linea Cadorna

Il Forte Montecchio

La Strafexpedition

Caporetto

I prigionieri di Caporetto

Il dopo Caporetto

La fuga delle donne

La Strada Cadorna

Gli Arditi
Capo di Stato Maggiore
Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850Bordighera, 21 dicembre 1928) è stato un
generale e politico italiano.
La mattina del 1º luglio 1914 moriva
improvvisamente
il generale Alberto Pollio, stroncato da un
infarto. Pochi giorni prima, il 28 giugno,
Gavrilo Princip aveva assassinato a
Sarajevo l'arciduca ereditario Francesco
Ferdinando e la consorte Sophie Chotek.
Il 27 luglio successivo Luigi Cadorna, su
indicazione di Vittorio Emanuele III,
prendeva possesso dell‘Ufficio di Capo di
Stato Maggiore.
Il 23 luglio l'Impero austro-ungarico aveva
infatti consegnato il proprio ultimatum alla
Serbia, innescando una reazione a catena
che, di lì a poco, avrebbe portato allo
scoppio della Prima guerra mondiale.
L'esercito che il generale ereditava dal proprio predecessore stava
affrontando un difficile periodo di transizione: al processo di
ammodernamento, rallentato significativamente dalle scarse capacità
industriali del Paese, si aggiungeva il dispendio di materiali richiesto dalla
campagna libica ed il relativo stravolgimento organizzativo e logistico
provocato dall'approntamento del consistente corpo di spedizione: nel 1914,
ovvero a due anni dall'ufficiale conclusione delle ostilità, i 35.000 uomini
inizialmente inviati erano saliti a 55.000, insufficienti comunque per venire a
capo dello stato di guerriglia che travagliava il nuovo possedimento coloniale
italiano.
La Prima guerra mondiale
L'avvio delle operazioni militari si ebbe il 23 maggio, e si tradusse in una
lenta avanzata verso il corso dell'Isonzo della 2ª e 3ª Armata, senza che gli
italiani incontrassero una significativa resistenza da parte del nemico.
I combattimenti si accesero solamente ai primi di giugno e la spinta offensiva
voluta da Cadorna raggiunse il suo apice fra il 25 ed il 30.
Dopo alcuni scacchi iniziali, costati pesanti perdite il Monte Nero venne
conquistato il 16 giugno da un fulmineo assalto di sei battaglioni di alpini
mentre le restanti vette rimasero in mano austriaca.
Quello stesso giorno il generale Pietro Frugoni
ordinò la sospensione delle operazioni offensive
della 2ª Armata contro Plava, posizione che
sarebbe stata nuovamente teatro di ferocissimi
combattimenti durante la seconda e la terza
battaglia dell'Isonzo. Con l'ordine di Frugoni si
esauriva così la prima fase dell'offensiva, che
secondo i resoconti ufficiali era già costata
all'esercito perdite per 11.000 uomini fra morti e
feriti, quantunque oggi si tenda a ritenere che
queste ammontassero ad almeno il doppio.
La linea Cadorna
Con il nome di "Linea Cadorna" si intende il sistema di fortificazioni
militari costruito durante la Prima Guerra Mondiale tra il Lago Maggiore
e il Monte Massone.
Le fortificazioni comprendono un fìtto reticolo di mulattiere militari, trincee,
postazioni d'artiglieria, luoghi di avvistamento, ospedaletti e strutture
logistiche, centri di comando. Furono volute dal generale Cadorna per
difendere il confine da un ipotizzato attacco austro-tedesco attraverso la
Svizzera mai avvenuto.
Esse coprono, nella logica della "guerra di posizione", un dislivello di 2.000 m
tra la piana del Toce e il Monte Massone e fra il Lago Maggiore (Carmine
inferiore) e il Monte Zeda e proseguono nelle Alpi centrali fino alle Orobie.
Un po’di numeri…
Tra l'Ossola e la Valtellina furono costruiti 72 km di trincee, 88 postazioni di
artiglierie di cui 11 in caverna, 296 km di strade carrozzabili, 398 km di
mulattiere. I lavori costarono più di 100 milioni di lire del tempo e
impiegarono oltre 15.000 operai. In un'economia di guerra, i lavori ebbero
un impatto positivo per le popolazioni locali in quanto offrirono lavoro
retribuito a muratori e scalpellini e costituirono una prima occasione di
lavoro salariato per la manodopera femminile impegnata nel trasporto dei
viveri alle squadre in montagna.
Il Forte Montecchio
Situato a Colico, il Forte Montecchio Nord è l'unico forte militare italiano
della Grande Guerra che conserva intatto il suo armamento originario. Il
Forte conserva intatti non solo i quattro imponenti cannoni con una gittata di
14km modello Schneider da 149mm, in postazione girevole a 360° sotto
cupola corazzata, ma anche l’impianto elettrico e tutti i serramenti e le
blindature originali, oltre ai complessi sistemi di ventilazione e di
approvvigionamento idrico.
Costruito tra il 1911 ed il 1914, il Forte fa parte del Sistema Difensivo della
Frontiera Nord, la cosiddetta “Linea Cadorna”.
La sua funzione principale era quella di controllare
le strade dello Spluga, del Maloja e dello Stelvio
nel caso che gli Imperi Centrali, violando la
neutralità della Svizzera, avessero deciso di
invadere il Nord Italia.
Il forte prende il nome dal luogo in cui è stato
costruito. Nel 1939 il forte fu dedicato, come era in
uso comune a quel periodo, alla medaglia d'oro al
valor militare Aldo Lusardi, ferito a morte il 5
novembre 1935 nella zona di Addi Gundi nell'Africa
Orientale italiana.
La Strafexpedition
Il termine “Strafexpedition” (spedizione punitiva) venne utilizzato dagli
Austriaci per sottolineare il “tradimento” dell’ex-alleato, cioè l’Italia.
Il punto più favorevole per un attacco era rappresentato dalle due valli che
portano alla pianura veneta: a destra la Val Lagarina o Val d’Adige e a sinistra
la Valsugana, ambedue servite da una ferrovia. In caso di vittoria, le forze
austriache avrebbero potuto isolare completamente le armate italiane
schierate ad est sull’Isonzo e arrivare al Po.
I preparativi per l’operazione ebbero inizio nel dicembre 1915: alcune unità,
unitamente ad armamenti, munizioni e vettovaglie, vennero trasferite da altri
fronti verso il Tirolo in modo graduale, per non destare i sospetti italiani.
Nonostante le cautele, iniziarono a correre voci sulla grande offensiva in
preparazione, ma il servizio informazioni italiano le sottovalutò. Cadorna
ricevette solo il 22 marzo la prima notizia di un concentramento di truppe nel
Trentino, ma ritenne infondata la possibilità di una offensiva con grandi
obiettivi in una località di alta montagna.
Tutto l'Altopiano di Asiago fu teatro di sanguinosissimi combattimenti.
Le forze italiane si ritirarono ai margini dell’altopiano, mentre fra Vicenza,
Padova e Cittadella si costituiva una nuova armata.
Il 14 giugno cominciò la controffensiva italiana, che costrinse gli Austriaci al
ritiro.
Caporetto
Sul fronte dell'Isonzo gli italiani
sferrarono due nuove offensive a metà
maggio e poi ancora ad agosto,
guadagnando qualche posizione sul
bordo dell'Altopiano della Bainsizza
seppur al prezzo di molti caduti; il fronte
austro-ungarico fu però talmente
logorato che la Germania intervenne
ancora una volta. Hindenburg e
Ludendorff si accordarono con il
comandante in capo austro-ungarico
Arthur Arz von Straussenburg per
l'organizzare un'offensiva combinata.
Alle 02:00 in punto del 24 ottobre 1917
le artiglierie austro-tedesche iniziarono a
colpire le posizioni italiane dal monte
Rombon all'alta Bainsizza, alternando
lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e
l'Isonzo.
Subito dopo la fanteria sfondò le linee italiane sia sulle montagne sia
nella valle dell'Isonzo, dove una divisione tedesca raggiunse il
pomeriggio del 24 ottobre la città di Caporetto; quindi gli austro-tedeschi
avanzarono per 150 chilometri in direzione sud-ovest raggiungendo
Udine in soli quattro giorni, mentre l'esercito italiano ripiegava
disordinatamente con numerosi casi di disgregazione e collasso di
reparti.
Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di
Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, ove
nel frattempo era stata rafforzata una linea difensiva grazie agli episodi di
resistenza sul fiume Tagliamento. La disfatta di Caporetto, oltre al crollo
del fronte italiano e alla caotica ritirata delle armate schierate
dall'Adriatico fino alla Valsugana, comportò la perdita in due settimane di
350.000 uomini fra morti, feriti, dispersi e prigionieri; altri 400.000 si
sbandarono verso l'interno del paese. L'avanzata degli austro-tedeschi fu
infine bloccata sulle rive del Piave a metà novembre, dopo una dura
battaglia difensiva.
Mappa dell'avanzata austro-ungarico-tedesca in seguito alla ritirata italiana
I prigionieri di Caporetto
Secondo le relazioni ufficiali dei comandi militari, dal 24 ottobre al 4 novembre
vennero catturate circa 300 mila persone, la metà di tutti i prigionieri italiani
della Grande Guerra.
Arrestati lungo le
strade e nei paesi
dove si tentò di
organizzare qualche
azione di resistenza,
questi uomini furono
condotti nei campi di
prigionia nel cuore
dell'Impero
austroungarico e tedesco.
I campi di concentramento negli Imperi
centrali furono definiti, nel 1918, "le citta
dei morenti".
Per lenire la fame i prigionieri ingerivano grandi quantità di acqua,
ingoiavano erba, terra, pezzetti di legno e carta, anche sassi. Le
conseguenze erano morte per dissenteria acuta, o per polmonite, se si
gettavano in inverno dentro ai canali di scolo per raccattare la spazzatura
delle cucine del campo.
La razione di cibo
quotidiana che l'Austria
riservava ai prigionieri
era costituita da un caffè
d'orzo al mattino, una
minestra di acqua con
qualche foglia di rapa a
mezzogiorno e a cena
una patata con una
fettina di pane integrale
ed una aringa. Due, tre
volte a settimana un
Il rancio dei prigionieri
minuscolo
pezzo
di
carne.
Le cause dei decessi solo in minima parte dipesero dalle ferite contratte in
battaglia; la stragrande maggioranza morì per malattia, soprattutto la
tubercolosi e l'edema per fame, il freddo e gli stenti.
Il dopo Caporetto
A livello militare, l'arretramento dall'Isonzo al Piave fu devastante come
confermano i numeri ufficiali dell'esercito: 12mila morti, 30 mila feriti, 300
mila
prigionieri, 350 mila soldati privi di istruzioni e comandi oppure disertori,
migliaia di armi pesanti abbandonate e 14 mila chilometri quadrati ceduti
all'Austria-Ungheria per un totale di un milione e mezzo di civili.
Le gravi perdite costrinsero il Comando Supremo a schierare la nota
"classe del '99", i ragazzi nati nel 1899 .
Anche a livello politico le cose cambiarono. Spinto dai rappresentanti
militari di Francia e Inghilterra, il Primo Ministro Vittorio Emanuele Orlando
destituì il generale Cadorna.
Al suo posto fu nominato Armando Diaz, un generale "giovane" e con un
modo completamente diverso di intendere il comando. Egli infatti si
dimostrò un abile mediatore, si mise a disposizione dello stesso governo di
Roma ed esortò le truppe a combattere per la Patria, la famiglia e l'onore,
eliminando quel clima di terrore che si era diffuso con Cadorna.
La fuga delle donne
La disfatta di Caporetto e la conseguente fuga dei civili riguardò anche le
donne che, durante la guerra, avevano assunto in diversi casi il ruolo di capofamiglia data l'assenza dei mariti o dei padri, impegnati al fronte.
Sole, senza soldi,
emigrate in molti
paesini del centro e
sud Italia, le donne
furono spesso vittime
di soprusi e maltrattamenti; molte di
loro facevano fatica
ad
accedere
ai
sussidi giornalieri per
i profughi di guerra e
così si ritrovarono
ogni giorno a fare i
conti con la fame e la
miseria.
Una profuga giunta a Cerignola così scrive:
"Fuggita dal mio caro paesello, durante l'invasione nemica, senza aver
potuto portare con me neppure il necessario per cambiarmi, fui menata qui,
in questa città delle Puglie. Qui non si può avere neppure l'acqua per lavarsi
e devo pagarla a caro prezzo, diffalcando la spesa dall'esigua paga di lire
due al giorno. Con l'enorme crescente rincaro dei viveri devo pensare a tutto
con sole due lire; né posso andare in cerca di decorosa occupazione,
vergognandomi di uscire dal mio ricovero così malandata e indecentemente
vestita".
A questo si aggiunse poi il razzismo degli abitanti del posto che temevano
che questi profughi sottraessero loro le scarse offerte di lavoro. Una donna di
San Pietro del Natisone, trasferitasi vicino Catania, ricorda come "siamo
abbastanza mal visti che questa gente e peggio delle bestie. Ci guardano
male a noi e noialtri non potiamo più soportare. Siamo qui come i zingari
anche peggio tutti straciati".
Spesso molte profughe furono così costrette a chiedere l'elemosina e, nei
casi più disperati, ad abbandonare i propri figli.
La strada Cadorna
La Strada Cadorna è una strada a
tornanti lunga 25 km che, partendo
da Bassano del Grappa, consente
di raggiungere rapidamente la
vetta del Grappa a quota 1.776.
Venne fatta costruire nel 1916 dal
Generale di cui porta il nome.
Cadorna intuì che in caso di
sconfitta, il monte Grappa sarebbe
stato indispensabile per bloccare il
Veduta della Strada Cadorna (1927)
nemico nel settore da Vicenza al
Montello e avrebbe costituito quindi il fulcro della difesa italiana.
Dette quindi ordine al genio militare di costruire in breve tempo una strada
e due teleferiche che potessero portare mezzi e truppe fino al monte
Grappa.
Tra militari e civili vi lavorarono circa 30 000 uomini.
La strada si rilevò di eccezionale importanza strategica per l'organizzazione
difensiva e logistica del sistema di difesa dell'intero massiccio: completata
pochi giorni prima della disfatta di Caporetto, i contrafforti del Grappa si
rivelarono indispensabili per la difesa della Pianura Padana.
La Strada Cadorna
Gli Arditi
Fin dai primi mesi di guerra, il Comando Supremo
aveva prescritto ai reggimenti di conferire, a titolo
d’onore, la qualifica di "Arditi" a quanti si fossero
maggiormente distinti per decisione e per coraggio
e di riunirli in plotoni speciali all’occorrenza. Fu
però solo nel 1917, con una circolare del 26
giugno, che il Comando Supremo dispose la
formazione di "reparti d’assalto" nell’ambito di
ognuna delle Armate.
Questi reparti speciali, chiamati prima “Arditi”, poi
“Fiamme Nere”, infine “Reparti d’assalto”, erano
costituiti da soldati volontari che venivano
addestrati a Sdricca di Manzano, nei pressi di
Gorizia, dove praticavano molta ginnastica, la lotta
corpo a corpo con e senza armi, prendevano lezioni di lancio di bombe a
mano e di tiro con fucile e mitragliatrice.
Gli Arditi erano specializzati nel combattimento corpo a corpo, dunque
venivano inviati in prima linea solo per il tempo necessario allo svolgimento di
azioni violente e sanguinose quali l’assalto frontale, colpi di mano, la cattura di
prigionieri da usare come fonte di informazioni.
Durante le loro azioni si avvalevano di pugnali e petardi Thevenot, sorta di
bombe a mano la cui potente deflagrazione stordiva i soldati rendendoli
incapaci di combattere; parimenti usati erano anche i lanciafiamme e i
lanciagranate.
Per sottolineare il ruolo attivo ed eroico degli Arditi, a questi speciali reparti
furono riservati un diverso trattamento ed anche una diversa divisa. Gli Arditi,
infatti, furono esentati dai turni in trincea, ebbero migliore vitto ed alloggio, un
soprassoldo e, soprattutto, un regime disciplinare meno rigido e formale.
L’uniforme era costituita da
giubba aperta con fiamme
nere sul bavero e maglione
a collo rovesciato al posto
del fastidioso colletto chiuso,
fez come quello dei bersaglieri ma di colore nero e
pantaloni all’alpina, mentre
l’equipaggiamento era rappresentato da materiali più
comodi e leggeri.
Via Damiano Chiesa
Collega via Martiri della Libertà
a via Cesare Battisti davanti al
cinema Excelsior. È la via
parallela a sud di via Cesura.
Indice

Damiano Chiesa

L’ arruolamento

La fucilazione

L’ ultima lettera alla famiglia

Medaglia d’oro alla memoria

Strafexpedition
Damiano
Chiesa
Damiano Chiesa nacque nella città
trentina di Rovereto il 24 maggio
1894. Fin da piccolo si rifiutò di
ritenersi austriaco e di studiare la
lingua tedesca nutrendo forti
sentimenti irredentisti.
Dopo aver terminato le Imperial
Regie Scuole nella sua città natale,
allora parte dell'Impero AustroUngarico, si iscrisse al Politecnico
di Torino e poi continuò gli studi
presso la Facoltà di Ingegneria
navale di Genova.
Rovereto nel
1915
L’arruolamento
Nel 1915, invece di arruolarsi, come
cittadino austriaco, nell'esercito austroungarico, entrò volontario, con il falso nome
di Mario Angelotti, nel Regio Esercito
italiano e il 29 maggio partì per il Fronte di
Asiago, nel 6º Reggimento Artiglieria da
Fortezza. Seguì un corso accelerato da
sottotenente e prestò servizio nel 9º
Reggimento della stessa Arma sui monti
roveretani, mentre la sua famiglia veniva
deportata nel campo di internamento
austriaco di Katzenau. Sul Monte Zugna
guidò i suoi soldati nella costruzione di una
caverna per la protezione dei cannoni, fino a
quando un attacco sferrato dagli austriaci il
17 maggio 1916, bloccò la caverna e Chiesa
venne fatto prigioniero.
La fucilazione
Fu condotto a forza al Castello del Buon Consiglio,
allora presidio militare, e dopo un processo
sommario, durante il quale continuò a negare la
propria nazionalità austriaca, fu condannato alla
fucilazione per «Alto Tradimento alla Casa
d'Asburgo ed all'Impero austro-ungarico». Nel 1916
fu fucilato e gli fu conferita una medaglia d’oro alla
memoria. Alla fine della guerra fu insignito del titolo
di "Protomartire della Grande Guerra" insieme a
Cesare Battisti e Fabio Filzi, agli onori dei Re
d'Italia e del Governo Italiano e della laurea
“honoris causa” del Politecnico torinese. È
ricordato soprattutto nel Museo storico italiano della
guerra a Rovereto. Le sue spoglie sono conservate
a Rovereto, presso l'Ossario di Castel Dante.
Ultima lettera
alla famiglia
« Papà, mamma, Beppina, Jole ed Emma
carissimi, negli ultimi momenti di mia vita,
confortato dalla Fede, dalla S. Comunione e
dalle belle parole del curato di campo,
mando a tutti i miei cari i saluti più cari,
l'assicurazione che nell'altra vita non sono
morto, che sempre vivo in eterno che
sempre pregherò per voi tutti.
Devo ringraziarvi di tutto quanto avete fatto
per me e domando il vostro perdono.
Sempre vostro aff.mo figlio
Damiano »
Medaglia d’oro alla
memoria
«Fervente apostolo dell’italianità della sua terra, quando suonò l’ora di affermarla
con le armi, tra i primi accorse come semplice soldato ed insistentemente
sollecitò, finché l’ottenne, l’onore di essere destinato ai reparti più avanzati, dove
rese utilissimi servigi in ardite operazioni ad immediato contatto con l’avversario,
noncurante dell’estrema gravità che avrebbe avuto per lui l’eventuale cattura.
Sottotenente in una delle batterie più avanzate, allo sferrarsi di un attacco di
soverchianti forze nemiche, pur sapendo che era stato dato ordine che egli fosse
ritirato indietro in caso di evidente pericolo, volle rimanere al suo posto, per
sciogliere fino all’ultimo il voto del proprio patriottismo, ed anche quando, per
l’incontenibile appressarsi della travolgente onda avversaria, i pezzi furono resi
inservibili per essere abbandonati, volle restare a combattere, cercando invano
sul campo quella morte che sola poteva ormai salvarlo dal supremo martirio.
Circondato e fatto prigioniero, subì con stoica fermezza i maltrattamenti dei
nemici. Tratto dinanzi ai giudici, riaffermò solennemente i suoi sentimenti di
appassionata italianità e con fiero atteggiamento affrontò il supplizio, cadendo
fucilato, col nome d’Italia sulle labbra; fulgido esempio di patriottico ardore e di
insigne
eroismo.»
— Costa Violina (Trento), 15-19 maggio 1916
Strafexpedition
Fu la più grande battaglia di montagna, una
tra le più grandi spedizioni punitive,
combattuta dal 15 Maggio al 26 Giugno 1916.
Si scontrarono Italia e Austro-Ungheria sul
Fronte di Asiago, sulle Alpi vicentine tra
Veneto e Trentino, più precisamente nelle
Mellette, gruppo di rilievi montuosi situati nella
parte settentrionale dell’Altopiano d’Asiago.
Via Cesare Battisti
Qui sorse nel 1812 il cimitero della città, poi
traslocato nel 1902: vi fu sepolta per prima
una figliola del dottor Belottini e per ultima
un’anziana signora; luogo piuttosto lugubre,
cintato da alte mura e da giganteschi pioppi.
Fino al 1897 la via era denominata via
Torretta e muterà quell’anno il nome in via al
Castelletto; nel 1916, pochi mesi dopo la
morte di Battisti, il tratto di strada che si
stacca da via Piazzi fino allo scalo ferroviario
diventerà via Cesare Battisti.
Indice

Cesare Battisti

La Grande Guerra

Il carcere e la morte

“I want you”

I prigionieri di guerra

I campi di prigionia
Cesare Battisti
Cesare Battisti nasce sotto l’ impero Austro-Ungarico a Trento, nel 1875.
Dopo aver frequentato il Liceo Classico Giovanni Prati, all’ epoca chiamato
Imperial Regio Ginnasio, si sposta a Graz dove si lega con al gruppo dei
Marxisti tedeschi, con cui fonda un giornale, che però viene subito
censurato. Dopo le Superiori si sposta a Firenze dove frequenta l’Università
e nel 1898 si laurea in Geografia.
Successivamente si occupa di problemi sociali e politici, battendosi per
migliorare le condizioni di vita degli operai e fonda un altro giornale
chiamato “Il popolo”. Nel 1911 si fa eleggere deputato al Parlamento di
Vienna.
Il centro di Graz
Una veduta di Trento
La Grande Guerra
Dopo lo scoppio della Prima Guerra
Mondiale Battisti si trasferisce in Italia
seguito dalla famiglia e si impegna
attivamente nella propaganda contro
l’Impero Austro-Ungarico, favorendo
l’entrata in guerra dell’Italia. Un anno
dopo la penisola dichiara guerra agli
Imperi Centrali, quindi Battisti si arruola
volontario nel- l’armata Regia. Viene
inserito nel un reparto Sciatori al Passo
del Tonale, quindi lo promuovono
ufficiale nel Battaglione Vicenza del
Sesto Reggimento Alpino. Durante le
operazioni, che causano moltissime
perdite, viene fatto prigioniero.
Il carcere e la morte
In carcere viene trattato come un animale e
umiliato davanti alla folla: i carcerieri,
addirittura, gli permettono di bere solo acqua
sporca, come un cane. Nel 1916 viene
accusato di alto tradimento davanti a un
tribunale, non gli viene permesso di avere un
difensore e vene condannato a morte.
Durante il processo non si scusa nè rinnega il
proprio operato, considerandosi un vero e
proprio soldato italiano fatto prigioniero.
Successivamente viene giustiziato nella Fossa
della Cervara per impiccagione e non per
fucilazione, il metodo di uccisone dei
prigionieri
di
guerra,
come
avrebbe
desiderato.
“I want you”
Durante la Prima Guerra Mondiale
venne ideato un mezzo efficace per
influenzare le masse e convincere i
giovani a morire per il proprio paese, la
propaganda, utilizzata specialmente in
Inghilterra e negli Stati Uniti, dove
l’arruolamento era volontario. All’epoca,
essendo l’unico mezzo disponibile,
vennero affisse sui muri delle città e
diffuse tra le folle delle vignette, che,
attraverso precisi studi, convincevano
la gente che, in quel periodo,
combattere o lavorare più ore al giorno
per il proprio paese era una cosa
giusta, visto che la sconfitta del nemico
non era solo un obiettivo politico, ma
soprattutto un obbligo morale.
Prigionieri di guerra
I soldati italiani fatti prigionieri durante la Prima Guerra Mondiale, che ebbero la
fortuna di rientrare in patria sopravvivendo agli stenti, la fame e le malattie, non
poterono subito tornare alle proprie case a riabbracciare i propri cari, ma
vennero “concentrati” in campi appositi, distribuiti nelle retrovie delle linee
italiane, per essere interrogati su quello che avevano vissuto e, in via
precauzionale, per essere messi in una specie di quarantena per paura della
trasmissioni di malattie infettive.
I campi di prigionia
I “Campi”, in realtà, nacquero ben prima
della fine della guerra: dopo la disfatta di
Caporetto, infatti, le autorità militari dovettero
affrontare il riordino dell’esercito a causa del
numero notevole di soldati che si riversarono
nelle retrovie dopo i tragici fatti. Per questo
furono creati campi di raccolta, soprattutto in
Emilia, data la favorevole posizione
geografica; tali centri di raccolta, già esistenti
nel 1917, furono quindi riutilizzati per gli exprigionieri di guerra nel 1918. I militari
raccolti in questi campi spesso girovagavano
per i paesi, attraverso le campagne,
disorientati, lontani da casa, in cerca di cibo
e di vestiario, per ripararsi dal freddo.
Spesso, purtroppo, venivano “scambiati” per
malintenzionati, a causa del loro aspetto,
vestiti di stracci e denutriti.
Via Enrico Toti
Nel 1934 il Comune di Sondrio liquida al
Beneficio Parrocchiale, proprietario del
terreno, la somma di £. 11.657 per la
“costruzione della nuova via E. Toti, in
prolungamento verso est della via Nazario
Sauro”. La via Toti inizia oggi all’incrocio di
via N. Sauro con via Fiume e termina, a
est della città, con l’innesto su via Stelvio.
Indice

Enrico Toti

In sella!

La Grande Guerra

“Nun moro io!”

“Così muore un eroe!”

L’attacco col gas

Lettere alla famiglia

“…La morte è bella anch’essa se si sa ben morire!”
Enrico Toti
Enrico Toti nacque e crebbe a San Giovanni, un
quartiere popolare di Roma da Nicola Toti, ferroviere di
Cassino, e da Semira Calabresi di Palestrina. Nel
1897, all'età di quindici anni, si imbarcò come mozzo
sulla nave scuola Ettore Fieramosca, passando poi
sulla nave corazzata Emanuele Filiberto e infine
sull'incrociatore Coatit. Nel 1904 fu coinvolto in scontri
sul Mar Rosso contro i pirati che infestavano il mare
antistante la colonia italiana dell'Eritrea.
Congedatosi, nel 1905, fu assunto nelle Ferrovie
dello Stato come fuochista. Il 27 marzo 1908, mentre
lavorava alla lubrificazione di una locomotiva, che si
era fermata nella stazione di Colleferro, a causa dello
spostamento delle locomotive, scivolò rimanendo con
la gamba sinistra incastrata e stritolata dagli
ingranaggi: in ospedale, gli fu amputato l’arto a livello
del bacino.
In sella!
Nonostante la menomazione si appassionò
alla bicicletta, che da quel momento divenne
la sua fedele compagna di vita. Nel 1911,
pedalando in bicicletta con una gamba sola,
raggiunse dapprima a Parigi, quindi
attraversò il Belgio, i Paesi Bassi e la
Danimarca, fino a raggiungere la Finlandia e
la Lapponia. Da lì attraversò la Russia e la
Polonia, rientrando in Italia nel giugno 1912.
Nel gennaio 1913 partì nuovamente in
bicicletta, stavolta diretto verso sud: da
Alessandria d'Egitto raggiunse il confine con
il Sudan, dove le autorità inglesi, giudicando
troppo pericoloso il percorso, gli imposero di
concludere il viaggio e lo rimandarono al
Cairo da dove fece ritorno in Italia.
La Grande Guerra
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale,
Enrico Toti presentò tre domande di
arruolamento, che furono respinte a
causa
della
sua
menomazione.
Nonostante tutto, decise di inforcare la
bicicletta e di raggiungere il fronte presso
Cervignano del Friuli, dove fu accolto
come civile volontario e adibito ai "servizi
non attivi", privo, quindi, delle stellette
militari.
Una sera, però, fermato da una
pattuglia di carabinieri a Monfalcone, fu
obbligato a tornare alla vita civile. Nel
gennaio
1916,
anche
grazie
all'interessamento del Duca d'Aosta,
riuscì ad essere destinato al Comando
Tappa di Cervignano del Friuli, sempre
come volontario civile.
“Nun moro io!”
Destinato inizialmente alla brigata "Acqui", riuscì a
farsi trasferire presso i bersaglieri ciclisti del terzo
battaglione, che lo proclamarono uno di loro e lo
stesso comandante, il maggiore Rizzini, gli
consegnò l'elmetto piumato da bersagliere e le
stellette..
Combattè nella sesta battaglia dell’Isonzo e il 6
agosto 1916, lanciatosi con il suo reparto
all'attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito
più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico,
scagliò la gruccia verso il nemico esclamando:
"Nun moro io!" (io non muoio!), poco prima di
essere colpito a morte.
“Così muore un eroe!”
Nei pressi di Quota 85, nel luogo in cui
cadde eroicamente, a Sablici, sopra Monfalcone, in un
bosco da cui si scorge il mare, si trova un cippo eretto
in suo onore tra gli evidenti segni di vecchie trincee
della Grande Guerra.
«Volontario, quantunque privo della gamba
sinistra, dopo aver reso importanti servizi nei fatti
d'arme dell'aprile a quota 70 (est di Selz), il 6 agosto,
nel combattimento che condusse all'occupazione di
quota 85 (est di Monfalcone), lanciavasi arditamente
sulla trincea nemica, continuando a combattere con
ardore, quantunque già due volte ferito. Colpito a
morte da un terzo proiettile, con esaltazione eroica
lanciava al nemico la gruccia e spirava baciando il
piumetto, con stoicismo degno di quell'anima
altamente italiana.»
— Monfalcone, 6 agosto 1916.
L’attacco col gas
L’attacco del 29 giugno 1916 sul San
Michele, sebbene si tratti di un attacco
minore dal punto di vista delle forze
impegnate, rimane nelle cronache come
il primo con l'ausilio di gas effettuato sul
fronte italiano. I gas calarono sulle
trincee della prima linea trovando i
soldati
italiani
completamente
impreparati e uccidendone a migliaia.
L'utilizzo del gas e delle mazze ferrate
per finire gli ustionati fornì ai reparti
italiani una motivazione particolare negli
scontri successivi.
Lettere alla famiglia
6 Aprile 1916
" Nientemento! Ho le miei brave stellette. Ed ho l'invidiabile incarico di fare cose
delicatissime. E' stata riconosciuta ormai la mia audacia,e saprò farmi onore se
la fortuna mi assiste. Ripenso sempre alle gentilezze ricevute in Belgio, e finchè
una sola nazione rimarrà a combattere i tedeschi, non mi muoverò nemmeno io,
anch'io voglio combatterli, e fidando nella provvidenza, vedere disfatta la razza
teutonica, e la casa degli Asburgo. Comincia il moto per me; e vedere sul viso il
nemico non mi fa paura. Nel mio possibile adempio il mio dovere, penso
continuamente ai miei cari e sono felicissimo. La razza germanica avrà il castigo
che merita e l'imperatore degli impiccatori la maledizione da tutti. Prevedo le
sorti della guerra, la vittoria è nostra ed io non voglio essere lo spettatore
ozioso, ma farò e saprò fare sempre il mio dovere."
“…La morte è bella anch’essa
se si sa ben morire!”
"...Io sempre, nei forti bombardamenti vado a prendere il posto più
avanzato e che vedetta sono! Se un solo austriaco osasse venire
all'assalto, il mio allarme sveglierebbe anche i morti. Posso compiere il
mio dovere e sono soddisfattissimo. Cos'è per me la morte? La vita è
bella, ma la morte è bella anch'essa se si sa ben morire. Amo la mia
Patria; la mia vita, la mia energia, il mio coraggio ho consacrato a Lei;
però non voglio essere un folle temerario,voglio essere utile sino alla fine,
e spero che la mia stella mi proteggerà. Se questa santa causa ha
bisogno anche del mio sangue, esultatene: perirò da eroe, con l'immagine
della mia famiglia impressa nel cuore,e son certo che ne andrete
orgogliosi. Quanto, quanto vorrei scrivere. Vorrei raccontare tanti begli
episodi, ma in mezzo a tanto frastuono di cannoni e di entusiasmo, si
diventa nervosi. Non si vorrebbe perdere un minuto di tempo, sempre a
combattere; si vive in mezzo ad un'esaltazione divina, e come si è lontani
dalla calma cittadina! Conserviamo la nostra calma, si è sereni, ma di una
serenità nevrotica, e questa serenità ci fa essere eroi, pur non essendo
scettici, pur apprezzando la bellezza della vita, la grandiosità della natura.
Sono in trincea con i miei cari compagni, i bersaglieri del 3° battaglione, il
più valoroso dell'esercito italiano. Esso entrò per primo a Cervignano;
esso occupò per primo Monfalcone; esso fu l'eroe di Selz, ecco perché io
sono con loro."
Via Nazario Sauro
Nel 1920 il Consiglio comunale di Sondrio intesta al patriota la nuova strada
di accesso alla Stazione ferroviaria fiancheggiante il vecchio cimitero, sino a
via Colombaro e, l’anno successivo, allunga con tale denominazione il tratto
fino alla via Fiume. Non ancora contento, decide infine di prolungare la via a
est fino all’ospedale e, a ovest, fino alla casa circondariale. Oggi,
ridimensionate un poco le cose, la via inizia da piazzale Bertacchi e termina
all’incrocio con via Fiume.
Indice

Nazario Sauro

In clandestinità

Il trasferimento in Italia: imbarcato in missioni di guerra

“Viva l’Italia, morte agli Austriaci!”

L’Irredentismo

La medaglia d’oro

La lettera di testamento ai figli
Nazario Sauro
Nazario Sauro nacque il 20 settembre 1880
a Capodistria, territorio allora sotto la
giurisdizione dell’Impero Austro-Ungarico.
Fu marinaio valoroso fin dall’adolescenza e
a vent’anni divenne capitano di un piccolo
equipaggio. In qualità di capitano della
Marina Mercantile ebbe l’opportunità di
acquisire una profonda conoscenza dei porti
dell’Adriatico, delle Isole dell’ Istria e della
Dalmazia: utilizzerà poi queste conoscenze
nel corso delle operazioni di guerra
riuscendo a infliggere molti danni alle navi da
guerra austro-ungariche.
In clandestinità
Tra il 1908 e il 1913, in conformità al principio mazziniano dell'indipendenza
di tutti i popoli, svolse un'intensa attività clandestina a favore dell'Albania,
guidando diverse spedizioni clandestine d'ingenti quantitativi di armi e
munizioni destinate agli insorti di quel paese, che aspiravano a affrancarsi
dal dominio ottomano e dall'influenza austriaca. Intorno a lui si era formato
un quartier generale di albanesi tanto che il giustiziere politico Terenzio
Tocci, disse: " Un nome, quello di Sauro, che i veri albanesi non dovranno
mai dimenticare". Nel 1913 Nazario manifestò chiaramente il suo
irredentismo e la sua contrarietà all'occupazione asburgica del suolo
istriano e alla polizia austriaca, avversa ad ogni manifestazione di italianità.
(continua)
Quando furono emanati dal governatore di Trieste i "decreti Hohenlohe“,
che imponevano alle società e agli enti pubblici locali di licenziare gli
impiegati italiani che non fossero sudditi austriaci, Sauro entrò
immediatamente in conflitto sia col governo marittimo di Trieste sia con la
compagnia di navigazione dove lavorava. Non si assoggettò mai a quella
legge “anti-italiana”né si piegò alle forti pressioni dell’autorità portuale
triestina.
Imbarcato
in missioni di guerra
Allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Nazario fuggì a Venezia,
nel Regno d’Italia, dove iniziò a fare propaganda interventista.
Nel maggio del 1915 egli si arruolò volontario nella Regia Marina
Italiana e in sedici mesi compì sessantadue operazioni navali in territorio
austriaco: per questi meriti di guerra, nel 1916, venne promosso Tenente di
Vascello e contestualmente venne decorato con la medaglia d’argento al
valore militare.
“Viva l’ Italia,
morte agli Austriaci!”
Successivamente si imbarcò sul sommergibile Giacinto Pullino con il
quale, la notte del 30 luglio, andò in missione per silurare delle navi
austriache nel porto di Fiume ma sfortunatamente il sommergibile s’incagliò
su di uno scoglio nei pressi dell’Isola di Unie.
Nazario Sauro, con tutti i suoi compagni, venne catturato e
condannato a morte dal tribunale austriaco di Pola, fu ucciso mediante
impiccagione il 10 agosto 1916 e prima di morire, davanti alle origini della
Grande boia, gridò: “Viva l'Italia, morte agli Austriaci”.
.
Dopo l’esecuzione, avvenuta alle 19 e 45, il corpo di Nazario Sauro
fu sotterrato di notte e in maniera segreta dagli austriaci in area
sconsacrata nei pressi del cimitero militare. Solo al termine della
guerra la Marina italiana riuscì a sapere il luogo ove era stato
sepolto[e provvide a riesumarne la salma (10 gennaio 1919) e alla
sepoltura, in forma solenne, avvenuta il successivo 26 gennaio nel
cimitero di Marina di San Policarpo a Pola
L’irredentismo
L’Irredentismo fu un movimento culturale
sviluppatosi in Italia a partire dal 1870, in
favore dell’estensione dei confini nazionali
alle regioni con prevalente popolazione
italiana soggette ad altre sovranità, in
particolare all’Impero Austro-Ungarico (tra le
quali, ad esempio, Trentino Alto Adige e
Venezia Giulia).
La medaglia d’ oro
La medaglia d'oro al valor militare alla memoria gli fu conferita motu
proprio dal Re Vittorio Emanuele III con decreto del 20 gennaio 1919 e
consegnata alla madre di Sauro a Pola il 26 gennaio 1919 in
occasione della esumazione della salma e successiva sepoltura nel
cimitero marina.
“Dichiarata la guerra dell’Austria, venne subito ad arruolarsi volontario
sotto la nostra bandiera per dare il contributo del suo entusiasmo,
della sua audacia ed abilità alla conquista della terra sulla quale era
nato e che anelava a ricongiungersi all’Italia. Incurante del rischio al
quale si esponeva, prese parte a numerose, ardite e difficili missioni
navali di guerra, alla cui riuscita contribuì efficacemente con la
conoscenza pratica dei luoghi e dimostrando sempre coraggio, animo
intrepido e disprezzo del pericolo. Fatto prigioniero, conscio della sorte
che
ormai
l’attendeva,
serbò,
fino
all’ultimo,
contegno
meravigliosamente sereno, e col grido forte e ripetuto più volte
dinnanzi al carnefice di “Viva l’Italia” esalò l’anima nobilissima, dando
impareggiabile esempio del più puro amor di Patria.”
Lettera di testamento
ai figli
Caro Nino,
tu forse comprendi, od altrimenti comprenderai, fra qualche anno quale era il
mio dovere d’italiano. Diedi a te, a Libero, ad Anita,a Italo e ad Albania nomi di
libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello ed il
mio giuramento l’ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei
carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la Patria
che è il plurale di padre, e su questa Patria, giura, o Nino, e farai giurare ai
tuoi fratelli, quando avranno l’età per ben comprendere, che sarete sempre,
ovunque e prima di tutto italiani.
I miei baci e la mia benedizione.
Papà
Dà un bacio a mia mamma che è quella che più di tutti soffrirà per me, amate
vostra madre! E porta il mio saluto a mio padre…
Indice
Le vie di Sondrio: Zara, Fiume e Gorizia
 Zara
 via Zara
 Fiume
 via Fiume
Gabriele D’Annunzio
Il volo su Vienna
Il Vittoriale
 Gorizia
 via Gorizia
Giorno del Ricordo
Le vie di Sondrio: Zara,
Fiume, Gorizia
Anche la città di Sondrio ha voluto ricordare, dedicando tre vie alle rispettive città
di Gorizia, Zara e Fiume, le complicate vicende storiche di alcune regioni
territoriali, che pur collocandosi sulla sponda orientale dell'Adriatico hanno
sempre vissuto e condiviso da secoli la cultura del popolo italiano. Legate per
tradizione e storia alla Repubblica di Venezia le ''Terre irredente'', cosi definite
nei primi decenni del 1900, divennero con la prima guerra mondiale le
protagoniste di una battaglia verso un processo, assai difficile, di unificazione
italiana da cui per secoli erano state escluse. La volontà di unificazione che
animò gli italiani e li spinse ad un conflitto segnato da dolorosi e tragici eventi, ci
ha lasciato una profonda memoria pubblica: monumenti, musei, piazze, vie ecc.
ricordano ancora oggi le Città e le Terre irredente tra cui Gorizia, Fiume e Zara.
Zara
CANZONE: DA TRIESTE FINO A ZARA
La popolazione della città di Zara sino al secondo conflitto mondiale
era in grande maggioranza italiana, e questo nonostante le politiche
antiitaliane dell'Impero austro-ungarico, che dal 1848 al 1918
provocarono il tracollo della componente italiana della Dalmazia a
favore di quella slava. In base al censimento austroungarico del 1910
gli Italiani erano comunque il 70% della popolazione, essendo il
rimanente composto da Croati, Serbi e Tedeschi.
Il comune di Zara - che comprendeva anche le campagne circostanti era invece costituito in maggioranza da croati e serbi, il che creò la
dicotomia tipica dell'Adriatico orientale fra "cittadini italiani o filoitaliani"
e "contadini slavi". Le tensioni fra le componenti etniche della regione
ebbero quindi anche delle motivazioni sociali.
Dopo il 1918 la componente italiana crebbe ulteriormente a causa
dell'esodo di numerose migliaia di Italiani dalla zone della Dalmazia
assegnate alla Jugoslavia.
Via Zara
Verso la fine del XIX secolo la strada si
denominava “ via Montagna” perché di lì si
poteva salire verso quell’amena località. La via
Montagna menava ad un elegante edificio,
costruito dagli ingegneri Polatti e Orsatti, adibito
alla casa di ricovero, oggi in disuso, all’imbocco
di via Don Bosco. La città di Zara in Dalmazia,
austriaca dal 1797, passa ai francesi nel 1805
con il regno italico di Napoleone. Verrà
riconquistata dagli austriaci nel 1813 in seguito
ad un assedio. Ma a Zara stanno stretti sia i
rapporti con la Francia, sia con l’Austria. La sua
“italianità” è molto sentita: combatterà affianco
dei nostri patrioti nelle guerre d’indipendenza; il 4
novembre 1918 viene occupata dalle truppe
italiane, finchè il 5 gennaio 1921 viene annessa
ufficialmente all’Italia. La strada che collega via
Del Gesù a via IV Novembre verrà intitolata Zara
nel 1920.
Fiume
LA CANZONE DEL
CARNARO:
La situazione italiana si fece ancora più difficile con l'improvviso acuirsi
della crisi internazionale intorno al problema di Fiume. Gabriele
D'Annunzio protagonista di alcune imprese (come il volo su Vienna ),
che per la loro sfrontata audacia gli erano valse l'ammirazione dei giovani
sensibili al richiamo dell'ardimento patriottico e militaresco, assunse
allora l'iniziativa di occupare il 12 settembre 1919 la città e di assumere il
governo con forze militari volontarie che ne sostennero l'azione. Si
trattava di un colpo di mano che riproduceva, in termini più esasperati,
quella forzatura della volontà parlamentare determinatasi con le
agitazioni di piazza.
D'Annunzio non nascondeva i suoi progetti di marciare da Fiume su Roma per
spazzare via il ministero presieduto da Nitti, accusato di non tutelare gli
interessi nazionali. Nitti non tenne adeguatamente conto dei rischi che
l'avventura fiumana rappresentava per la stabilità del Paese. Il sovversivismo
dannunziano esercitava un enorme fascino sulla piccola borghesia impaurita e
malcontenta dei disordini sociali di quel periodo. Nitti preferì vedere il potenziale
vantaggio dell'imprese di D'Annunzio quale elemento di pressione sugli alleati.
Egli preferì, cioè, adottare una tattica prudente, tesa a guadagnare tempo,
mentre Giolitti insisteva per una risposta energica, vedendo nel gesto di
D'Annunzio sia un ulteriore motivo di indebolimento della difficile posizione
internazionale dell'Italia, sia un pericolosissimo attentato alla legittimità delle
istituzioni presentative.La fame e il disordini portarono la città alla resa.
Via Fiume
Fiume è stata città dell’Istria annessa
all’Italia nel 1924 con il Patto di Roma.
Nell’ottobre del 1918, crollate le
monarchie asburgiche, furono creati due
Consigli nazionali: uno italiano, l’altro
croato. Fra i due si arrivò l’armistizio del 4
novembre 1918 la città venne occupata
da un Corpo internazionale; i primo luglio
1919 si verificarono gravi incidenti fra
Italia e Jugoslavia. Per evitare lo sconcio
del baratto, Gabriele D’Annunzio raccolse
arditi volontari e, con l’epica marcia di
Ronchi, entrò trionfalmente in città il 12
settembre ad un accordo che riconobbe
Fiume Stato indipendente. Dopo 1919.
Circa l’anno 1861 la via che si stacca a
sud all’incrocio delle vie Piazzi e Stelvio,
nel 1921 diventerà via Fiume tutto il tratto
della casa di ricovero fino all’incrocio con
via Tonale.
Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara 12 marzo 1863 da facoltosa famiglia
borghese. Studia animato da ambizione dal l874 al 1881 e si forma una cultura
classica. Nel 1879 appena sedicenne pubblica la sua prima raccolta poetica “primo
vere” di ispirazione carducciana, ma già caratterizzata da una originale sensualità.
Nel 1880 (delineandosi già come regista della propria fama) pubblica la notizia della
propria morte; dopo i necrologi ne pubblicò la smentita e l’annuncio della nuova
edizione di “primo vere”. Collabora con le riviste e si trasferisce a Roma dove si
iscrive a lettere, ma si dedica soprattutto alla cronaca del bel mondo, cui partecipa e
in cui si afferma come fascinoso letterato. Nel 1882 pubblica canto novo e terra
vergine (una raccolta di novelle abilmente propagandate che gli procurano un buon
successo). Ormai celebre scrittore prosegue la scalata mondana anche con una
serie di amori: Sposa la duchessina Maria Hardouin con cui ha dei figli; tornato a
Roma incontra Barbarella (1997 il più grande amore) e qui nascono i primi grandi
romanzi:Il piacere, Giovanni Episcopo, L’innocente. Inizia una vita sfrenata di lussi e
per bisogni economici pubblicherà poi anche sul "Corriere della sera"
Il volo su Vienna
D'Annunzio con Natale Palli sull'aereo per Vienna il 9 agosto 1918. L'azione
non ha scopo militare ma propagandistico con il lancio di volantini annunzianti
la vittoria italiana. Durante il ritorno il motore dell'aereo si arresta
all'improvviso. La morte sembra per qualche istante inevitabile, ma l'aereo
riprende subito quota: «Io mi volsi verso Natale Palli e gli feci il segno di
commiato... Natale mi rassicurò senza parola, con una illuminazione del volto
che era il sorriso». Sul volantino: «In questo mattino d'agosto... Il destino si
volge. Si volge verso di noi con una certezza di ferro. E` passata per sempre
l'ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia, vi infetta».Il volo su Vienna
fu compiuto il 9 agosto del 1918 da una squadriglia. L’impresa di Fiume fu
l’avvenimento storico in occasione del quale Gabriele D’Annunzio guidò un
gruppo di circa 260 000 militari ribelli del regio esercito da Ronchi, presso
Monfalcone, a Fiume, città della quale d’Annunzio proclamò l’annessione al
regno d’Italia nel 12 settembre del 1919.
Osteggiato dal governo italiano,D’Annunzio, tentò di resistere alle pressioni che gli
giungevano dall’Italia. Nel frattempo, l’approvazione del trattato di Rapallo, il 12
novembre 1920, trasformò Fiume in uno stato dipendente. D’annunzio proclamò la
Reggenza Italiana del Carnaro. Il 24 dicembre 1920 l’esercito italiano procedette con
la forza allo sgombero dei legionari fiumani della città. Filippo Tommaso Marinetti,
durante il periodo della sua presenza a Fiume nel settembre 1919, definì gli autori
dell’impresa disertori in avanti.
La città di Fiume venne annessa all’Italia soltanto quando salì al potere Mussolini
che stipulò un trattato con la Iugoslavia. Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto del
1918 da una squadriglia di apparecchi che lanciarono sulla città migliaia di
manifestini, in cui si leggeva:«Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi
voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un
saluto a tre colori: i tre colori della libertà».
Il Vittoriale
Dopo l’esperienza militare D’Annunzio elegge come sua dimora la villa Cargnacco
sul lago di Garda, cura la pubblicazione delle opere più recenti: il Notturno e i due
tomi delle Faville del maglio. I rapporti di D’Annunzio con il fascismo non sono ben
definiti: se in un primo tempo la sua posizione è contraria all’ideologia di Mussolini, in
seguito la adesione scaturisce da motivi di convenienza, consoni allo stato di
spossatezza fisica e psicologica, nonché a un modus vivendi elitario ed estetizzante.
Non rifiuta, quindi, gli onori e gli omaggi del regime: nel 1924, dopo l’annessione di
Fiume il re, consigliato da Mussolini, lo nomina principe di Montenevoso, nel 1926
nasce il progetto dell’edizione «Opera Omnia» curato dallo stesso Gabriele; i contratti
con la casa editrice «L’ Oleandro» garantiscono ottimi profitti a cui si aggiungono
sovvenzioni elargite da Mussolini: D’Annunzio, assicurando allo stato l’eredità della
villa di Cargnacco, riceve i finanziamenti per renderla una residenza monumentale:
nasce così il «Vittoriale degli Italiani», emblema del vivere inimitabile di D’Annunzio.
Al Vittoriale l'anziano Gabriele ospita la pianista Luisa Bàccara, Elena Sangro che gli
rimane accanto dal 1924 al 1933, inoltre la pittrice polacca Tamara de Lempicka.
Entusiasta della guerra di Etiopia, D’Annunzio dedica a Mussolini il volume Teneo
te Africa. Ma l’opera più autentica dell’ultimo D’Annunzio è stato il Libro segreto,
ossia Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele
D’Annunzio tentato di morire (1935), a cui affida riflessioni e ricordi nati da un
ripiegamento interiore ed espressi in una prosa frammentaria. L’opera testimonia
la capacità del poeta di rinnovarsi artisticamente anche alle soglie della morte,
giunta il primo marzo 1938. Il Vittoriale visto dai giardini. I giardini del Vittoriale. 9
Nelle sue opere più recenti D’Annunzio saluta con entusiasmo l’avvento del
fascismo al potere, ma è messo risolutamente da parte da Mussolini che vede in
lui un possibile nemico per la sua leadership. D’Annunzio pur rendendosi conto
della sua condizione di «prigioniero», non rifiuta gli elogi del regime, assicurando
allo stato l’eredità della villa, diventata intanto la villa al Vittoriale, riceve i
finanziamenti per renderla una residenza monumentale dove vi muore il primo
marzo 1938.
Gorizia
CANZONE: O GORIZIA TU SEI MALEDETTA
Nel Novecento il travaglio spirituale che precede e segue il primo conflitto
mondiale, al termine del quale la città, esaudisce l'ormai secolare
aspirazione a diventare italiana a tutti gli effetti, assume connotati particolari
soprattutto nel campo dell'arte figurativa.
Sono però gli eventi bellici a segnare in modo peculiare la vita della città.
Gorizia, durante la Prima Guerra Mondiale, posta sul principale fronte tra
Austria e Italia, fu teatro di scontri sanguinosi, le famose "12 battaglie
dell'Isonzo", trovandosi ad essere campo di battaglia per più di due anni.
Infatti, dopo 14 mesi di strenui combattimenti, l'8 agosto 1916 le truppe
italiane entrarono a Gorizia
La ritirata di Caporetto fu l'occasione per il rientro in città delle truppe austriache
(ottobre 1917). Il tracollo dell'Austria-Ungheria, la Vittoria dell'Italia e la fine della
guerra (novembre 1918) ed i trattati di Saint-Germain e di Rapallo portarono alla
definitiva restituzione di Gorizia all'Italia. Il fascismo procedette a
un'italianizzazione forzata della vasta provincia di Gorizia, abitata da popolazioni
slave soprattutto nella parte orientale. La città non fu risparmiata neanche dalla
Seconda Guerra Mondiale. Alla battaglia di Gorizia del settembre 1943 fra
partigiani titini, soldati della Rsi e tedeschi, seguì l'annessione della città e
dell'intera Venezia Giulia all'Adriatisches Küstenland (Litorale adriatico), sotto il
diretto controllo nazista.
Via Gorizia
Nel settembre 1930 il podestà di Sondrio
delibera di denominare via Gorizia il
tratto di strada che è il prolungamento di
via Trieste, verso est, da via Fiume a via
Toti. Sotto la sua gestione il dott.
Spartaco Gunella metterà mano, un po’
qua un po’ là nel capoluogo, alla
toponomastica delle vie. La città, prima di
allora era a tutti gli effetti austriaca, prima
che si incrinassero i rapporti con il trono
di Vienna. Il conflitto è cominciato da
poco più di un anno e già la città respira
un’aura di italianità, allorché l’otto agosto
1916 il sottotenente Baruzzi della Brigata
Pavia innalza la bandiera italiana sulla
stazione ferroviaria della città.
“Giorno del Ricordo”
Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento
italiano ha riconosciuto il 10 febbraio quale “Giorno
del Ricordo”, con l’obbiettivo di conservare e
rinnovare la memoria della tragedia che ha colpito
gli Istriani, i Fiumani e i Dalmati nel secondo
dopoguerra, vittime delle foibe costretti all’esodo
delle loro terre. Il Giorno del ricordo viene celebrato
dalle massime autorità politiche italiane con una
cerimonia solenne nel palazzo del Quirinale al
cospetto del presidente della Repubblica, che
conferisce le onorificenze alla memoria ai parenti
delle vittime. In contemporanea in molte città si
tengono celebrazioni di commemorazione presso i
monumenti e le piazze dedicate ai tragici
avvenimenti.
Via IV Novembre
La via IV Novembre si trova nella
zona nord-est di Sondrio, adiacente
alla biblioteca comunale Pio Rajna.
Fu nominata IV Novembre nel 1930,
dal Podestà dell'epoca. Questa via è
nota a tutta Sondrio, perché è
presente la bellissima villa Quadrio,
terminata di costruire nel 1914.
Via IV Novembre

L’Austria nel 1918

La battaglia di Vittorio Veneto

Il proclama della vittoria letto da Armando Diaz

L’armistizio di Villa Giusti

Il tragico bilancio della guerra

Un difficile dopoguerra

I tratti di pace di Versailles

La pace in Italia

La pace in Germania
La situazione austriaca nel 1918
Sul finire della guerra, la situazione politica-sociale era disastrosa. Una fallita
offensiva austriaca del giugno 1918 non era riuscita ad infrangere la resistenza italiana
sul Piave e sul Grappa e si era conclusa con un grave indebolimento della forze
e della capacità di combattimento dell'esercito italiano
L'attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli alleati, che erano già
passati all'offensiva generale sul fronte occidentale, ebbe inizio solo il 24 ottobre
1918, mentre l'Impero austro-ungarico dava già segno di disfacimento a causa
delle crescenti tensioni politico-sociali tra le numerose nazionalità presenti nello
stato asburgico e mentre erano in corso tentativi di negoziati per una
sospensione delle ostilità.
La battaglia di Vittorio Veneto
La battaglia di Vittorio Veneto fu
l'ultimo scontro armato tra Italia e
Impero austro-ungarico nel corso
della prima guerra mondiale. Si
combatté tra il 24 ottobre e il 4
novembre 1918 nella zona tra il
fiume Piave, il Massiccio del
Grappa, il Trentino e il Friuli
La battaglia di Vittorio Veneto fu
caratterizzata da una fase iniziale
duramente combattuta durante la
quale l'esercito austro-ungarico fu
ancora in grado di opporre una
valida resistenza sia sul Piave che
nel settore del Monte Grappa, a cui
seguì un improvviso e irreversibile
crollo della difesa, con la
progressiva
disgregazione
dei
reparti e defezioni tra le minoranze
nazionali, che favorirono la rapida
avanzata finale dell'esercito italiano
fino a Trento e Trieste.
Proclama della vittoria
« Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12
La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo,
l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede
incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano
parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un
reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie
della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII
armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della
fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X
armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III
armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che
mai aveva perdute.
L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita
resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale
di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle
nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila
cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza
speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.
Il capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Diaz »
La guerra è finita
L'armistizio di Villa Giusti
L'armistizio di Villa Giusti venne siglato il 4 novembre 1918 a Padova, nella villa del
conte Vettore Giusti del Giardino, fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia/Intesa.
Con questo armistizio, l'Impero Austro-Ungarico si arrende all'Italia e agli alleati
dell'Intesa. Una settimana dopo, 11 novembre, il Kaiser Guglielmo II fuggì dalla
Germania, lasciando il potere ad un governo provvisorio, che il giorno stesso della fuga
dell'imperatore firmò l'armistizio con gli Alleati dell'Intesa.
Il tragico bilancio della guerra
Nazione
Soldati
Morti
Feriti
Russia
12 000 000
1 700 000
4 900 000
Francia
8 400 000
1 300 000
400 000
Inghilterra
8 900 000
908 000
200 000
Italia
5 500 000
650 000
947 000
Stati Uniti
4 300 000
126 000
234 000
Romania
750 000
335 000
120 000
Serbia
700 000
45 000
133 000
Belgio
267 000
13 000
45 000
11 000 000
1 700 000
4 200 000
Austria-Ungheria
7 900 000
1 200 000
3 600 000
Impero ottomano
2 800 000
325 000
400 000
Bulgaria
1 200 000
87 000
152 000
Paesi dell'intesa
Paesi degli Stati
centrali
Germania
Un difficile dopoguerra
La situazione dell'Europa del dopoguerra appariva
grave in tutti i paesi. Gli stati dovevano provvedere
a milioni di pensioni per le vedove e gli orfani di
guerra, oltre che ai numerosi mutilati.
Anche per i reduci il reinserimento nella vita civile
era difficile. Per far fronte alle nuove spese e al
pagamento dei debiti, molte nazioni stamparono
più denaro di quel che potevano, e così si innescò
l'aumento dei prezzi, che danneggiò i poveri.
Bisognava inoltre affrontare con urgenza il
problema della riconversione delle industrie, che
durante il conflitto avevano prodotto solo materiale
bellico. Il successo della rivoluzione bolscevica in
Russia costituiva un esempio per le fazioni
estremiste dei partiti socialisti di molti paesi
europei, che tentarono di scatenare delle rivoluzioni
coinvolgendo i reduci, gli operai disoccupati e i
contadini senza terra. L'Europa, soprattutto tra la
borghesia e le fasce popolari, che non si
riconoscevano nel socialismo, fu percorsa dal
terrore di una rivoluzione ispirata ai principi del
marxismo.
Cambiamenti territoriali in Europa dopo la prima guerra mondiale
I trattati di pace di Versailles
ll trattato di Versailles, detto anche patto di Versailles, è uno dei trattati di pace che pose
ufficialmente fine alla prima guerra mondiale. Fu stipulato nell'ambito della Conferenza di pace di
Parigi del 1919-1920 e firmato da 44 Stati il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia, nella Galleria
degli Specchi del palazzo omonimo.
È suddiviso in 16 parti e composto da 440 articoli.
Il trattato di Versailles sancì la nascita della Società delle Nazioni, che rappresentava uno dei
quattordici punti proposti dal presidente degli Stati Uniti. Woodrow Wilson, per mantenere la pace
fra gli Stati.
La Società delle Nazioni era un'organizzazione intergovernativa con lo scopo di arbitrare i conflitti tra
le nazioni prima che si arrivasse alla guerra. Il suo statuto, la Convenzione della Società delle
Nazioni, occupava i primi 26 articoli del trattato di Versailles.
Gli Stati Uniti non si unirono mai alla Società delle Nazioni e in seguito negoziarono una pace
separata con la Germania: il trattato di Berlino del 1921, che confermò il pagamento delle
riparazioni e altre disposizioni del trattato di Versailles, ma escluse esplicitamente tutti gli articoli
correlati alla Società delle Nazioni.
I trattati di Versailles per l'Italia
Prima dell'entrata in guerra dell'Italia il governo italiano prese accordi
segreti con il governo franco-inglese, nel famoso patto di Londra. In questo
documento si elencavano i territori che sarebbero diventati di dominio
italiano dopo la guerra in caso di vincita. I territori erano: il Trentino, il
Tirolo, Gorizia, l'Istria, la Dalmazia e le isole del Dodecanneso.
A fine guerra l'Italia ottenne il Trentino-Alto Adige, Trieste e l'Istria. Quindi,
l’opinione pubblica del tempo considerò la vittoria della Prima Guerra
Mondiale, una vittoria “mutilata”.
I trattati di Versailles per la
Germania
Tra le disposizioni previste dal trattato di
Versailles c'era la perdita delle colonie e di
territorio da parte della Germania. La lista
di ex province tedesche che cambiarono
appartenenza comprendono: l'AlsaziaLorena, restituita alla Francia; la Renania,
alla Danimarca (in seguito a un plebiscito);
gran parte della Prussia occidentale alla
Polonia; venne resa Città libera Danzica,
sotto l'autorità della Società delle Nazioni
e della Polonia. Il trattato di Versailles oltre
ad abolire la coscrizione per la Germania,
pose anche grosse limitazioni alle forze
armate tedesche, che non dovevano
superare le 100.000 unità. Il trattato stabilì
una commissione che doveva determinare
le esatte dimensioni delle riparazioni che
dovevano essere pagate dalla Germania.
Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente
stabilita in 132 miliardi di marchi (finiti di
pagare nel 2010).
Le conseguenze dei trattati in
Germania
I problemi economici, che le sanzioni di
guerra comportarono in Germania, sono
spesso citati come la principale causa
della fine della Repubblica di Weimar e
dell’ ascesa di Adolf Hitler, che
inevitabilmente portò allo scoppio della
seconda guerra mondiale. Molti tedeschi
si sentirono colpiti ingiustamente dalle
condizioni di quella che definirono una
pace punitiva.
Via ragazzi del ’99
Una delle vie più contestate e discusse nelle gestioni amministrative del
capoluogo è quella intitolata ai ragazzi del ’99 che porta il nome dei coscritti del
1899 che hanno preso parte alla guerra del ‘15-’18 e, appunto, perché classe
più giovane di arruolati, chiamati ragazzi. Il primo aprile 1970 il consiglio
comunale esaudendo il vivo desiderio di un gruppo di ex-combattenti, decide di
intitolare così la via che collega le vie Vittorio Veneto e Caimi. Quel tratto di
strada, intorno agli anni ‘50, era ancora denominato via privata Vittorio Veneto.
Indice
La
disfatta di Caporetto
Chi
sono
Per
non dimenticare
Fossalta
ricorda
L’associazione
Gli
arditi
dei reduci
La disfatta di Caporetto
Il nome di Caporetto è legato alla più
grande disfatta nella storia Italiana.
Dopo aver sfondato la linea difensiva
italiana, le truppe austriache e tedesche
decisero di avanzare senza costruire
avamposti e senza preoccuparsi di
consolidare le postazioni conquistate.
Questa tattica provocò il panico nelle linee
italiane che si ritirarono scompostamente e
vennero poi accerchiate dall’esercito
nemico.
Oltre alla numerosissime vite umane,
vennero persi circa 10.000 km2 di territorio,
un numero incalcolabile di munizioni, armi
e viveri.
La colpa non fu dei soldati, bensì
dell’incapacità dei comandanti, anche se il
generale Luigi Cadorna diede la colpa ai
soldati e li accusò di alto tradimento.
Chi sono…
I ragazzi del '99 sono i ragazzi della classe 1899, che nel 1917 compivano diciotto anni e
pertanto hanno potuto essere impiegati sul campo di battaglia solo nel 1918.
Furono chiamati a combattere
quando non avevano ancora
compiuto diciotto anni.
I primi chiamati furono
all'incirca 80.000;
vennero convocati nei primi
quattro mesi del 1917 e,
frettolosamente istruiti, furono
conformati in battaglioni
di Milizia Territoriale.
Alla fine di maggio ne furono chiamati
altri 180.000.
I primi ragazzi del ‘99 furono inviati al
fronte nel novembre del 1917, nei giorni successivi alla battaglia di Caporetto.
Il loro apporto unito all'esperienza dei veterani si dimostrò fondamentale per la vittoria
finale.
« Li ho visti i ragazzi del '99, andavano in prima linea cantando.
Li ho visti tornare in esigua schiera, cantavano ancora! »
Armando Diaz
Le giovanissime reclute appena diciottenni
sono da ricordare, in quanto ebbero un ruolo
fondamentale, dopo la disfatta di Caporetto
(24 ottobre 1917).
In un momento di gravissima crisi per il
Paese e per l' Esercito, rinsaldarono le file
sul Piave, del Grappa e del Montello,
permettendo all'Italia la riscossa nel 1918 a
un anno esatto da Caporetto con la battaglia
di Vittorio Veneto e quindi la firma
dell'armistizio di Villa Giusti da parte
dell'Impero austro-ungarico.
A partire dal primo dopoguerra, il termine
"ragazzi del '99" si radicò ampiamente nella
storiografia e nella pubblicistica italiana,
tanto da entrare nell'uso comune per riferirsi
a tutti i militari nati nel 1899.
Per non dimenticare
Nelle città di Adria, Asti, Agrigento, Bergamo, Bologna, Brescia, Caserta,
Campagna, Casaletto Vaprio, Castellanza, Castel Madama, Catania,
Cittadella, Favara, Fermo, Forte dei Marmi, Gallarate, Gazoldo degli
Ippoliti, Firenze, Imperia, Legnano, Lucca, Menfi, Milano, Milena, Modena,
Mogliano, Veneto, Monza, Novara, Nuoro, Olgiate Olona, Padova, Pavia,
Pescara, Peschiera del Garda, Piacenza, Portici, Ragusa, Recanati,
Reggio nell'Emilia, Roma, Ronciglione, Rovigo, Sacile, Salerno, San
Giorgio su Legnano, Schio, SONDRIO, Trani, Trento, Trieste, Varazze,
Vicenza, Velletri, Verona, Viadana c'è una via dedicata alla loro memoria.
Via Ragazzi del ’99 a Sondrio
“Fossalta ricorda …’’
Nel 1981 i "Ragazzi del '99" tennero a Fossalta
di Piave un raduno nazionale, tornando nei
luoghi di battaglia 65 anni dopo ed inaugurarono
un "cippo" sull'Argine Regio. Sempre sull'Argine
Regio venne creato un "Monumento Battistero",
che rappresenta segni di pace, di riconciliazione
e di fratellanza. Per l'occasione il Comune di
Fossalta di Piave nominò tutti i "Ragazzi del '99"
suoi Cittadini Onorari, con la seguente
motivazione: "grato e riconoscente ai "ragazzi"
del '99 che nel 1917 e nel 1918 sbarrarono al
nemico le vie della Patria".
Domenica 23 giugno 1983 fu inaugurato il
"Monumento Battistero" e promossa l'annuale
"Giornata della Pace" realizzata dal Comune di
Fossalta di Piave.
L’associazione dei reduci
Al termine della Prima guerra mondiale, un
gruppo di reduci della classe del 1899,
decise di dar vita ad un’associazione con il
compito di onorare e di custodire la memoria
dei ragazzi del '99; la prima Sezione fu
aperta e costituita nel 1921.
Il nome scelto fu I Ragazzi del '99"
Associazione Nazionale fra combattenti della
Classe 1899 nella Guerra 1915-1918. Come
simbolo venne utilizzato la riproduzione
dipinta della celebre casa sbrecciata di
Sant'Andrea di Barbarana di San Biagio di
Callalta (TV) con il testo "TUTTI EROI! O IL
PIAVE O TUTTI ACCOPPATI!”.
L'Associazione ancora oggi è presente in
alcune città come Bassano del Grappa,
Roma, Milano, Brescia e Novara dove
continua nell'opera di custodia e di raccolta
dei figli e nipoti dei celebri ragazzi del '99,
partecipando alle cerimonie ufficiali.
Come altre associazioni
combattentistiche, quella dei
Ragazzi del ‘99 è posta sotto il
controllo del Ministero della
Difesa.
Gli arditi
I reparti di Arditi nascono durante la Grande
Guerra. Si tratta piccoli nuclei di
coraggiosissimi soldati di vario grado, che si
sono contraddistinti in azioni improvvise di
attacco alle trincee nemiche. Armati spesso
solo di un pugnale e di bombe a mano,
attuavano azioni fulminee e improvvise,
penetrando nelle trincee nemiche, portando
lo scompiglio e facendo molte vittime fra i
soldati.
Gli Arditi avevano in dotazione una giubba a bavero aperto, più comoda e
pratica, sotto la quale veniva portata una camicia bianca con cravatta nera o, più
spesso, in zona di operazioni, un maglione grigioverde. Al bavero della giubba
erano cucite le mostrine: fiamme nere a due punte.
Un simbolo ricorrente degli Arditi, che compariva sul gagliardetto di reparto, ma
anche ricamato sulle giubbe o sotto forma di spilla metallica, era il teschio,
talvolta con pugnale in bocca, oppure sovrapposto a due tibie incrociate.
Via Vittorio Veneto
La via che commemora la celebre
battaglia che ha riscattato
l’orgoglio militare italiano.
Questa via di Sondrio è uno dei
tanti riconoscimenti dedicati alla
memoria di questa battaglia. È
stata istituita nel 1930, dopo aver
cambiato per ben sei volte
denominazione nel corso degli
anni.
Nel 1842 si chiamava “Contrada
dei Ferrari”; con la costruzione
della nuova Banca Popolare nel
1883, cambia ancora la
denominazione in “Via
Albosaggia”. Con l’avvento della
ferrovia nel 1907, viene
denominata “Via alla Stazione”; nel
1921 il consiglio comunale cambia
il nome della via in “ Via Dante
Alighieri. Infine nel 1930 verrà
chiamata “Corso Vittorio Veneto “.
Indice
La
Il

disfatta di Caporetto
fronte italiano dopo caporetto
La battaglia di Vittorio veneto
Il
fronte italiano dopo Vittorio veneto
Armando
Diaz
La
guerra è finita
La
leggenda del Piave
24 ottobre 1917
disfatta di caporetto
La battaglia di Caporetto venne
combattuta durante la prima guerra
mondiale tra le Forze Armate
Italiane e quelle Austro-Ungariche
e Tedesche. Lo scontro, avvenuto il
24 ottobre 1917, rappresenta la più
grave disfatta nella storia
dell'esercito italiano,.
Con la crisi della Russia, dovuta
alla rivoluzione bolscvica, l’ impero
Austro-Ungarico e la Germania
poterono trasferire consistenti
truppe, dal fronte orientale a quelli
occidentale e italiano
Forti di questi rinforzi, gli austro-ungarici, con l'apporto di reparti
specializzati tedeschi, sfondarono le linee tenute dalle truppe italiane
che, impreparate a una guerra difensiva, non ressero all'urto e
dovettero ritirarsi fino al fiume Piave
.
La sconfitta portò alla
sostituzione
del generale Luigi Cadorna,
che aveva imputato l'esito
infausto della battaglia alla
viltà di alcuni reparti, con
Armando Diaz.
Il fronte italiano dopo la
disfatta di caporetto
24 ottobre 1918
battaglia di Vittorio veneto
Dopo la disfatta di Caporetto,
le truppe italiane si
riorganizzarono sulla linea
difensiva del Piave: l’esercito
italiano, comandato dal
generale Armando Diaz ,
subentrato al generale
Cadorna, si riscattò e dando
prova di grande coraggio
sbaragliò le armate
austroungariche. A detta di
Diaz, le forze Austro
Ungariche erano state uno
degli eserciti più potenti e
organizzati del mondo
.
Il fronte italiano dopo Vittorio
Veneto
Armando Diaz
Armando Vittorio Diaz è nato il 5 dicembre 1861a Napoli. Egli è
stato un generale italiano dell'esercito durante la prima guerra
mondiale: subentrò a Cadorna dopo la disfatta di Caporetto.
Armando Diaz fu nominato "Duca della Vittoria" alla fine del conflitto.
La sua morte avvenne a Roma, il 29 febbraio 1928.
La guerra è finita…
L’orgoglio italiano è stato riscattato, ma il prezzo della vittoria è alto, sia
per i vinti, che per i vincitori.
Migliaia di soldati soffrirono
di una nuova tipologia di
lesioni, studiata per la prima
volta proprio nel primo
dopoguerra, consistente in
una serie di traumi
psicologici, che potevano
portare a un completo
collasso nervoso o mentale.
Fu la prima teorizzazione
del disturbo post-traumatico
da stress,designata come
"trauma da bombardamento"
o "nevrosi di guerra”.
I traumatizzati superstiti del
conflitto andarono a formare
la cosiddetta “generazione
perduta”.
I civili non furono risparmiati: circa
950.000 morirono a causa delle
operazioni militari e circa 5.893.000
persone perirono per cause collaterali,
in particolare carestie e carenze di
generi alimentari (condizioni sofferte in
particolare dagli Imperi centrali,
sottoposti al blocco navale alleato),
malattie ed epidemie e per le
persecuzioni razziali scatenatesi
durante il conflitto.
Volontari in guerra
Sono Una creatura
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
G.Ungaretti
“Pidocchi, ratti, filo
spinato, pulci,
granate, bombe,
cunicoli sotterranei,
cadaveri, sangue,
liquame, topi gatti,
artiglieria, sozzura,
pallottole, mortai,
fuoco, acciaio: ecco
cos’è la guerra. E’
opera del diavolo”
Otto Dix
"questa vita ci ha ridotti ad
animali appena pensanti,
per darci l'arme
dell'istinto; ci ha impastati
di insensibilità, per farci
resistere all'orrore che ci
schiaccerebbe, se
avessimo ancora una
ragione limpida e
ragionante; ha svegliato in
noi il senso del
cameratismo, per
strapparci all'abisso del
disperato abbandono; ci
ha dato l'indifferenza dei
selvaggi per farci sentire,
ad onta di tutto, ogni
momento della realtà, e
per farcene come una
riserva contro gli assalti
del nulla".
Remarque, Niente di nuovo sul
fronte occidentale
La leggenda del Piave
Il Piave mormorava,
calmo e placido, al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava
per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera...
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava, e andare avanti!
S'udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar dell'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero,
il Piave mormorò:
«Non passa lo straniero!»
Ma in una notte trista
si parlò di un fosco evento,
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...
Ahi, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti
Venivan a gremir tutti i suoi ponti!
S'udiva allor, dalle violate sponde,
sommesso e triste il mormorio de l'onde:
come un singhiozzo, in quell'autunno nero,
il Piave mormorò:
«Ritorna lo straniero!»
E ritornò il nemico;
per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame...
Vedeva il piano aprico,
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora...
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento...
E la vittoria sciolse le ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti...
«No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti, Infranse, alfin, l'italico valore
«Mai più il nemico faccia un passo avanti!» le forche e l'armi dell'Impiccatore!
Si vide il Piave rigonfiar le sponde,
e come i fanti combatteron l'onde...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
«Indietro va', straniero!»
Sicure l'Alpi... Libere le sponde...
E tacque il Piave: si placaron l'onde...
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò
né oppressi, né stranieri!
Via Trento
Nel settembre del 1921 il tratto di strada dal
Mallero (ponte Eiffel) a via Stazione assume il
nome di via Trento durante il Consiglio
comunale. Trento è il capoluogo della Venezia
Tridentina, sulla sinistra dell’Adige. Situata
strategicamente sulla linea del Brennero, è stata
al centro di un episodio della prima guerra
mondiale, quando le truppe della prima armata
del 29° reparto d’assalto e del 4° gruppo alpini
cacciano il nemico ed entrano vittoriose in città.
Indice
 Trento: città irredenta
 L’Irredentismo
 La fortezza di Trento
 L’esperienza di guerra dei soldati trentini
 Siamo italiani
La Prima guerra mondiale ha cambiato la
storia di Trento e del Trentino. Nel 1914 il
Trentino faceva parte della Contea del
Tirolo e, in questo modo, dell’Impero
austro-ungarico. I trentini avevano i propri
rappresentanti al Parlamento di Vienna e
alla Dieta di Innsbruck. Trattandosi di un
impero multietnico, in un’epoca di forte
risveglio del nazionalismo, l’Impero
austroungarico
fu
frequentemente
travagliato da questioni nazionali. In
Trentino, fu soprattutto la piccola e media
borghesia cittadina a farsi portavoce del
sentimento irredentista, che veniva
manifestato anche attraverso le attività di
associazioni politico-culturali e sportive
quali la Lega Nazionale, la Società Dante
Alighieri, la Società Alpinisti Tridentini, le
Società di ginnastica e il Tiro a segno.
L’Irredentismo
L'irredentismo italiano fu un movimento
d’opinione, espressione dell'aspirazione italiana
a perfezionare territorialmente la propria unità
nazionale, liberando le terre soggette al dominio
straniero. Il movimento fu attivo principalmente in
Italia, tra la seconda metà del XIX secolo e la
prima del XX secolo, a favore dell'integrazione
nel Regno d’Italia di tutti i territori compresi nella
regione geografica italiana o popolati da italofoni
e collegati all'Italia da secolari legami storici,
linguistici e culturali. Il movimento era costituito
da diversi gruppi ed associazioni non coordinati
tra loro. I vari movimenti irredentisti proponevano
l’annessione delle terre, considerate italiane, che
dopo la terza guerra di indipendenza italiana del
1866 si trovavano ancora in mano straniera.
Cronologicamente vi sono stati due "irredentismi"
italiani: uno risorgimentale ed uno fascista.
Le due donne piangenti raffigurano
Trento e Trieste. Esse piangono perché
sono prigioniere dello straniero. Le
zone colorate in rosso sono le terre
irredente.
La Fortezza di Trento
Durante la prima guerra mondiale
Trento fu dichiarata città fortezza e
divenne il caposaldo del fronte
meridionale austro-ungarico. La città
era coronata da una rete formidabile di
forti difensivi che ancor oggi sono visibili
ed in parte visitabili. Nelle montagne
circostanti si celava il più grande e più
potente caposaldo del fronte, con la
maggior parte del sistema difensivo
scavato nella roccia. Alla fine dell'anno
1915 la Fortezza di Trento divenne la
sede del quartier generale austroungarico per il fronte meridionale.
L'ideatore della Fortezza di Trento era il
maggior generale Steinhardt.
L’esperienza di guerra dei
soldati trentini.
All’inizio della guerra gli uomini ritenuti
in grado di portare le armi, quelli dai
diciotto ai cinquant’anni, si divisero, tra
una maggioranza di sudditi asburgici
che, volenti o nolenti, si mobilitarono
sotto le bandiere di Francesco
Giuseppe, e una minoranza di
irredentisti che, disertando, vestirono il
grigioverde di Vittorio Emanuele III.
Stazione di Trento
In totale i soldati trentini, di leva obbligatoria, richiamati dall’Esercito austroungarico, furono circa 60.000. Migliaia di loro (10.001 in tutta la provincia)
caddero in battaglia nei reggimenti dei Tiroler Kaiserjäger, cacciatori imperiali
tirolesi, e Kaiserschuetzen, truppe alpine di difesa territoriale. Nelle memorie di
questi soldati il tema della partenza costituisce uno dei momenti più strazianti.
«L’eco che una grande guerra s’avvicinava, giunse fin su al mio
paesello di Cazzano, dove qualche raro caso veniva a interrompere
l’ordinaria quiete e tranquillità. Perciò la carta di richiamo sotto le
armi mi giunse quasi inaspettata ancora il giorno 2 agosto. Non si
può descrivere la dolorosa partenza. Addii e abbracci, benedizioni e
raccomandazioni da tutti. Ma fu giocoforza partire. Partii alla volta di
Rovereto dove indossai la divisa degli Alpini [= truppe alpine,
Landesschützen]. Il giorno 8 parto da Rovereto per Trento, dove il
giorno 14 andai a giurare fedeltà alla Patria […] Il 17 agosto (data
memoranda) accompagnati alla stazione da una folla commossa si
parte col treno per il fronte Russo. Io coll’animo straziato penso se
avrò la grazia di ritornare a vedere ancora le belle valli Trentine, se
sarò tra quei fortunati che faranno ritorno dal campo, che
comunemente veniva chiamato “Maccello”…»
Dalla memoria di Fioravante Gottardi, scritture di guerra n°3
I volontari trentini nel Regio Esercito furono,
invece, in totale circa 700. Erano quasi tutti
di estrazione borghese medio-alta e di
formazione liberale o socialista. Molti erano
giovani studenti educati dalle famiglie a
sentimenti di italianità, ma c’erano anche
maturi professionisti, commercianti ed
artigiani. La maggior parte era residente a
Trento e Rovereto, ma non mancavano
volontari che provenivano dalle valli. Nella
primavera del 1917 sorse la “Legione
Trentina”, un’associazione coordinata e
diretta da combattenti o ex combattenti, che
si proponeva di aiutare e sostenere i
volontari.
Damiano Chiesa 1894 1916
«Io sono felicissimo di essere tornato
al mio posto, al posto d’onore, perché
sono convinto che questo è il mio
dovere e […] anche dovessi morire fra
questi monti non ho nulla da
rimpiangere se non l’abbandono della
mia cara famiglia e vorrei che nessuno
di loro piangesse la mia perdita,
perché troppo convinto della giustizia
di questa causa e non muore chi
chiuse gli occhi combattendo un
nemico odiato, ma s’addormenta in un
sogno d’amore e di speranza.»
Lettera di Emilio Parolari 28/10/1916
•Gottardi vive la chiamata alle
armi con un lacerante dolore e con
la paura di non poter tornare a
casa dalla sua amata famiglia che
ha pianto per la sua triste
partenza.
•Parolari, invece, vive la sua
partenza con onore e orgoglio,
fiero di poter eseguire il proprio
dovere. Non ha nulla da perdere
tranne la sua famiglia alla quale
raccomanda di non vivere la sua
partenza con tristezza e lacrime. Il
suo obbiettivo, come quello di altri
mille soldati trentini, era di liberare
le terre irredente per completare
l’unificazione italiana.
Siamo italiani
Monumento ai volontari nell’ esercito Italiano
La Grande Guerra ha segnato in profondità la comunità trentina provocando,
come nel resto d’Europa, lutti, sofferenze e distruzioni. Alla fine della guerra, con
la scomparsa dell’Impero austro-ungarico, il Trentino entrò a far parte del Regno
d’Italia e quanti erano morti combattendo nelle file dell’esercito nemico vennero
esclusi dal lutto pubblico. Solo chi era caduto in divisa italiana venne ricordato e
celebrato con monumenti e titolazione di scuole, vie e piazze, come i caduti
volontari nell’Esercito italiano e, in particolare, Cesare Battisti, Fabio Filzi e
Damiano Chiesa, catturati nel 1916 e mandati al patibolo nel Castello del
Buonconsiglio.
Il ricordo dei più di 11.000 trentini caduti in
divisa austro-ungarica fu ostacolato dal
nuovo Stato italiano che non seppe
riconoscere la situazione in cui il Trentino
si era trovato. In tempi recenti si sta
cercando di colmare quella lacuna,
ricostruendo l’identità di questi soldati e
ricordandoli senza distinzione di bandiere e
di uniformi.
Via Trieste
Nel corso del Consiglio comunale di
Sondrio del settembre 1921 la “via
Circonvallazione”, nel tratto da via Stazione
a via dei Prati (oggi da piazzale Bertacchi a
via Fiume), assume il nome di via Trieste.
La città, dalla quale la via prende il nome,
ha vissuto diversi episodi bellici, quasi tutti
combattuti con la rivale Venezia. Il
penultimo combattimento, quello contro
l’Austria, è accaduto il 3 novembre del
1918 quando viene liberata, ritornando
all’Italia come ricorda la bella canzone:
“Le ragazze di Trieste
cantan tutte con ardore
Oh! Italia, oh Italia del mio cuor
tu ci vieni a liberar”
Indice
 Trieste: città irredenta
 L’irredentismo
 Movimenti irredentisti
 La chiamata alle armi
 I prigionieri irredenti
 Carlo Petitti
 I disordini di Trieste del 1920
 Umberto Saba
 Italo Svevo
Trieste: città irredenta
Trieste è una città di antiche origini
romane, ma la sua importanza risale
alla prima metà del Settecento.
L’imperatore d’Austria Carlo VI
d’Asburgo concesse il privilegio di
essere portofranco, cioè esente da
dazi e tariffe doganali. La città poté
svilupparsi come centro di scambi
commerciali anche grazie alla crisi di
Venezia, diventando così, nell’arco di
pochi decenni, il porto dell’impero
austroungarico. Era, inoltre, punto di
incontro
di
differenti
tradizioni
culturali.
L’Irredentismo
L'irredentismo italiano fu un movimento
d’opinione, espressione dell'aspirazione italiana
a perfezionare territorialmente la propria unità
nazionale, liberando le terre soggette al dominio
straniero. Il movimento fu attivo principalmente
in Italia, tra la seconda metà del XIX secolo e la
prima del XX secolo, a favore dell'integrazione
nel Regno d’Italia di tutti i territori compresi nella
regione geografica italiana o popolati da italofoni
e collegati all'Italia da secolari legami storici,
linguistici e culturali. Il movimento era costituito
da diversi gruppi ed associazioni non coordinati
tra loro. I vari movimenti irredentisti
proponevano
l’annessione
delle
terre,
considerate italiane, che dopo la terza guerra di
indipendenza italiana del 1866 si trovavano
ancora in mano straniera. Cronologicamente vi
sono stati due "irredentismi" italiani: uno
risorgimentale ed uno fascista.
Le due donne piangenti raffigurano Trento
e Trieste. Esse piangono perché sono
prigioniere dello straniero. Le zone
colorate in rosso sono le terre irredente.
Movimenti irredentisti
Scipio Slataper
Sul piano politico, erano attivi anche a Trieste i movimenti irredentisti
che rivendicavano cioè la “redenzione” e l’annessione della città
all’Italia. Il dibattito irredentista si fece ancora più vivo intorno alla
prima metà degli anni dieci, subito prima della Grande Guerra, anche
per la sensazione dell’imminente dissoluzione dell’impero
austroungarico.
A tale dibattito, che aveva a Trieste un punto di ritrovo nel Caffè
Tergesteo, parteciparono anche gli scrittori triestini Scipio Slataper e
Giani Stuparich.
La chiamata alle armi
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, i cittadini triestini furono
mobilitati nell’esercito austroungarico. Punizioni severissime erano previste
per chi fosse passato nelle file italiane.
Quartier generale del Infanterieregiment n° 97 in Galizia
Tra i reparti coinvolti vi era anche l' Infanterieregiment n° 97 " Georg Freiherr
von Waldstätten", dal nome del Generale che lo fondò nel 1883. Fu il
reggimento dove affluirono in massima parte i coscritti giuliani. Fu concentrato
presso la Caserma Grande di Trieste e, forte di un organico di 3.500 uomini,
partì per il fronte con destinazione Leopoli capitale della Galizia orientale.
Mortaio austriaco del 97°
Il “battesimo del fuoco” contro i reparti russi in avanzata fu tragico. Tra agosto e
settembre 1914 il 97° perse il 50% degli organici e si disfò sul terreno paludoso nei
dintorni di Leopoli. I superstiti finirono in gran parte prigionieri dei russi.
I prigionieri irredenti
Dopo le infelici operazioni in Galizia,
per i soldati Triestini comincia la
lunghissima epopea della prigionia.
Nel dicembre 1914 erano caduti in
mano russa circa 100.000 prigionieri
austro-ungarici. Già alla fine del
1914 la diplomazia italiana si mosse
verso Mosca per individuare ed
isolare i prigionieri “irredenti”
intenzionati ad entrare nelle file del
Regio Esercito. Fu identificato quale
centro di raccolta il campo Kirsanov
che raccolse 4.000 prigionieri
triestini. Nel 1916 parte dei
prigionieri “irredenti” fu rimpatriata
ma, a causa dello scoppio della
rivoluzione d’Ottobre, il restante
dovette attendere la fine della
guerra.
Carlo Petitti
Carlo Petitti di Roreto
(1862 - 1933)
Dopo lo sfondamento del fronte, il 3 novembre 1918 il generale Carlo
Petitti di Roreto sbarca dal cacciatorpediniere “Audace” e prende possesso
della città divenendone governatore.
I disordini di Trieste del 1920
Nel 1918 il Regio esercito entrò a Trieste
acclamato da quella parte della popolazione
che era di sentimenti italiani, dichiarando lo
stato di occupazione ed il coprifuoco. La sicura
imminente annessione della città e della
Venezia Giulia all'Italia, fu però accompagnata
da un ulteriore inasprimento dei rapporti tra il
gruppo etnico italiano e quello sloveno,
traducendosi talvolta anche in scontri armati. Il
giorno 13 luglio 1920, i disordini scoppiati a
Trieste in seguito ad un attentato contro
l'esercito italiano causarono due vittime fra i
militari. Secondo ricostruzioni storiche, le
manifestazioni contro il gruppo etnico sloveno
scoppiarono in seguito all'assassinio di un
manifestante italiano.
Lo stesso giorno degli squadristi devastarono anche gli uffici delle "Jadranska
banka", la filiale della "Ljubljanska kreditna banka", la tipografia del settimanale
"Edinost", la Cassa di Risparmio Croata, la scuola serba e numerosi altri centri di
aggregazione delle comunità etniche presenti a Trieste.
Umberto Saba
Il poeta triestino Umberto Saba ha scritto:
“Trieste è sempre stata un crogiuolo di
razze. La città fu popolata da genti diverse:
Italiani nativi della città, Slavi nativi del
territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini,
Turchi col fez rosso e non so quante altre.
[…] Su questo trafficato amalgama di
persone così etnicamente diverse […] la
lingua e la cultura italiane fecero da
cemento.”
Le parole del poeta esprimono la necessità di
appartenere ad una cultura ben definita: quella
italiana. Il suo pensiero, probabilmente, è stato
influenzato dai principi irredentisti.
18831957
Italo Svevo
L’esperienza della Prima Guerra Mondiale porta
lo scrittore triestino Italo Svevo a riconsiderare il
valore del progresso. Nelle ultime pagine della
Coscienza di Zeno, Italo Svevo, scrive:
“La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è
messo al posto degli alberi e delle bestie […]
inventa gli ordigni fuori dal suo corpo e se c’è
stata salute e nobiltà in chi l’inventò, quasi
sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si
comperano, si vendono e si rubano e l’uomo
diventa sempre più furbo e più debole. […] Ed è
l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono
della legge che fu su tutta la terra la creatrice.”
1861-1928
Mentre per gli animali il progresso della
selezione naturale garantisce la sopravvivenza
della specie, per gli uomini il progresso
tecnologico ha distrutto il mondo.
Via V Alpini
La via Quinto Alpini è
stata così denominata il 5
Marzo 1960 dal consiglio
comunale di Sondrio (a
partire dal 1881 era
chiamata “Strada del
Canevello”). Si stacca da
via IV Novembre,
all’incrocio di via Lusardi,
a nord-est della città, per
raggiungere la località
Colda sulla strada che
conduce a Montagna in
Valtellina.
Indice

V Alpini: la storia

Il Simbolo del reggimento V Alpini

L’uniforme

Capitano Berni

Gli Alpini

I sentieri degli Alpini
V Alpini: la storia
Il Quinto Reggimento alpini è un
reparto dell’ esercito italiano con
sede attuale a Vipiteno in provincia
di Bolzano. Oltre che in molte
guerre il reggimento è stato
impiegato in operazioni di ordine
pubblico e in soccorso alle
popolazioni
Si costituisce il 1º novembre 1882 a Milano, al comando del colonnello Carlo
Goggia, con i battaglioni "Val Dora", "Moncenisio", "Valtellina"; quattro anni
dopo i battaglioni prendono il nome di "Morbegno", "Tirano" ed "Edolo". Circa
150 alpini di questo reparto, inquadrato nel Regio Esercito, vengono schierati
dal generale Bava Beccaris come rinforzo nella sanguinosa repressione dei
moti popolari e operai scoppiati a Milano nelle giornate fra il 5 e il 9
maggio 1898, tumulti noti come «Protesta dello stomaco". Partecipa alle
spedizioni coloniali nella campagna di Abissinia, di Libia e alla prima guerra
mondiale..
Nel 1921 il 5º Reggimento viene inserito nella 2ª Divisione alpina, di stanza a
Bergamo. Nel 1926 il 5º Reggimento torna nella Brigata alpina a Milano, e
dal 1936, assieme al 6º e al 2º artiglieria, nella Divisione alpina "Tridentina",
che verrà poi sciolta il 10 settembre 1943, dopo il rientro dal fronte russo. Viene
rifondato solo il 1º gennaio 1953; è tuttora impegnato in varie missioni.
Simbolo
Sotto il simbolo è presente il motto «Nec videar dum
sim» (non per apparire ma per essere), messo in
risalto da uno sfondo oro.
Uniforme
​L'Uniforme
Grigio Verde entrò ufficialmente in uso con la circolare n.458 del 4
dicembre 1908, valida per tutte le Armi ad eccezione della Cavalleria. Composta da
una giubba ed un pantalone di panno pesante, con piccole differenze se destinata
ad Armi a Piedi (Fanteria, alcune specialità di Artiglieria e Genio) o Armi a Cavallo
(Cavalleria, Artiglieria e Carabinieri) subirà costanti modifiche per meglio adattarla
alla vita di trincea. La giubba, ampia e comoda, è chiusa da una bottoniera
nascosta di cinque bottoni di frutto. Un gilet di taglio classico veniva indossato sotto
la giacca. I pantaloni erano per le Armi a Piedi di due tipi, da montagna e non,
differenziati sostanzialmente dalla lunghezza ed ampiezza dello stesso.
Capitano Arnaldo Berni
“Il Capitano sepolto nei ghiacci”:
potrebbe essere il titolo della vita
militare di Arnaldo Berni, Capitano
degli alpini, nato a Mantova il 2
Giugno 1894 e morto il 3
Settembre 1918, a poche
settimane dalla fine della guerra,
nel trincerone di ghiacci in vetta
alla Punta San Matteo, a 3.678
metri di altezza nel Gruppo
Meridionale dell'Ortles.
La Prima Guerra mondiale
di Berni
Il Battaglione Tirano era specializzato nella guerra in alta
montagna e venne impiegato per conquistare e mantenere
postazioni in quota nell'alta Valtellina e in Trentino.
"Aldo" Berni partecipò con la 46a compagnia alla battaglia per
la quota 2931 del Monte Scorluzzo e l'anno successivo,
nell’estate del 1916, a quella per la conquista del passo
dell'Ables. Entrambe le posizioni erano parte del teatro di
operazioni del gruppo montuoso Ortles-Cevedale.
Partendo dalla posizione dell'Ables, Berni prese parte alla
conquista del Monte Cristallo, che con i suoi 3434 metri
diventò una delle postazioni strategiche per gli Italiani sottratta
agli Austriaci.
Promosso capitano per meriti di guerra, era tenuto in grande
considerazione per le specifiche conoscenze acquisite e
relative delle particolari tecniche di combattimento alle alte
quote. Prestò servizio per la maggior parte del conflitto, grazie
alle sue eccezionali doti
di guida negli scontri in alta
montagna.
L’ultimo anno di Berni
Il 3 settembre del 1918 la vetta del
Monte San Matteo (a 3678 m di
quota) è stata teatro della più alta
battaglia della storia. Qui trovò la
morte il giovane, prima sottotenente
del 46° Battaglione Tirano e in
seguito Capitano degli Alpini Arnaldo
Berni,comandante della 306
compagnia sciatori, anzi "skiatori" ,
Battaglione Ortler, 5°Reggimento
Alpini, il cui corpo giace ancora oggi
lassù, sepolto nei ghiacci.
Dal diario di Arnaldo Berni
Qui vi sono delle parti di diario dove Arnaldo
racconta della sua vita quotidiana sul fronte di
guerra, in quota :
In un primo momento il giovane Arnaldo ha difficoltà ad
accettare la dura vita della caserma, e rimpiange la comodità
alla quale lui era abituato, quello che gli serve per mostrare il
suo carattere, la sua capacità di adattamento e il suo
pensare sempre positivo. Infatti il giorno dopo scrive: "...poi
sono noiosissime quattro ore filate di istruzione in piazza
d'armi. Riconosco però che questa vita mi fa bene e in due
giorni di aver guadagnato in salute e muscoli...!“ Il 21 giugno
è un giorno importante: infatti si compie la prima scalata
militare italiana del Monte Cristallo "Oggi, dopo grandi
stenti, cinque nostri alpini con un ufficiale riuscirono ad
arrivare in vetta al Monte Cristallo. Che ascensione! Si fa
tutto con corda e piccozza. Oggi è arrivato un altro ufficiale
degli alpini che era alla IV Cantoniera. Siamo quassù in
quattro ufficiali alpini e due d'artiglieria, tutti sottotenenti. Ce
la passiamo discretamente e siamo allegri...". Il 3 settembre
1918 arriva sulla vetta un preciso colpo di artiglieria che
abbatte la galleria dove Arnaldo Berni si era riparato con
alcuni soldati mettendo così fine alla vita del giovane
Capitano, impedendo persino ad amici e commilitoni di
trovare il corpo.
Gli Alpini della Grande Guerra
La storia degli Alpini
Formatisi il 15 ottobre 1872, gli Alpini sono il
più antico corpo di fanteria da montagna
attivo nel mondo, originariamente creato per
proteggere i confini montani settentrionali
dell'Italia con Francia, Impero austroungarico e Svizzera. Nel 1888 gli Alpini furono
inviati alla loro prima missione all'estero, in
Africa, continente nel quale sono tornati più
volte nella loro storia, per combattere
le guerre coloniali del Regno d'Italia. Essi si
sono distinti durante la Prima Guerra
mondiale, quando furono impiegati nei
combattimenti al confine nord-est con
l'Austria-Ungheria, dove per tre anni dovettero
confrontarsi con le truppe da montagna
austriache e tedesche,
rispettivamente Kaiserschützen e Alpenkorps,
in quella che da allora è diventata nota come
la "guerra in alta quota"
“Cara Antonietta, un Peppino estremamente imprecante alla nequizia umana!
Tutt’altro. Il mio buon umore non mi ha abbandonato e pur senza essere stato eroe,
nel senso leggendario della parola, posso dirti di aver fatto tutto il mio dovere di
soldato non ricorrendo mai ad alcuni stratagemmi per salvare la pelle. Ho avuto
anche la forsa di ridere anche quando veniva dato l’ordine di saltare la trincea. Infatti,
è inutile addolorarsi soverchiamente – le pallottole vengono anche quando si è preda
del dolore! Nella tua ultima affettuosissima lettera mi parli troppo di dio! Povero
vecchio buon dio! oramai, al candido pelo della sua fluente barba sono attaccate
chissà quante anime imploranti la salvezza dei loro cari…”
Questa è una lettera inviata da
un Alpino di cui non conosciamo
il cognome, conosciamo solo il
nome: Peppino.
Questo soldato affronta la vita
sul fronte con il sorriso e la forza
di ridere e andare avanti, cosa
che non tutti i soldati all’epoca
erano in grado di fare.
In memoria di tutti Caduti
della Guerra Bianca
R.I.P.
Stelvio: Madonna della
pace
Via Stelvio
Taglia trasversalmente
la città nella parte est e
prende il suo nome dal
passo dello Stelvio,
luogo cruciale per la
Guerra Bianca.
Via Tonale
Si trova nella parte sud
della città e prende il
suo nome dal Passo del
Tonale, luogo rilevante
per la Guerra Bianca.
Via Adamello
Collega via Stelvio e
via Gianoli e prende il
nome dal gruppo
montuoso
dell’AdamelloPresanella, il quale è
stato un luogo
importante per la
Guerra Bianca.
Indice

La geografia dei luoghi: Stelvio, Adamello, Tonale

Guerra Bianca e passi

Le condizioni di vita dei soldati
I monti della Guerra Bianca

Passo dello Stelvio

Schema del fronte

Il contesto ambientale

Ortles-Cevedale
 Adamello-Presanella
Passo dello Stelvio
Stato
Italia
Regione
Trentino-Alto Adige
Lombardia
Provincia
Bolzano
Sondrio
Località
collegate
Stelvio
Bormio
Altitudine
2.758
Dal punto di vista geomorfologico il passo divide le Alpi Retiche occidentali dalle
Alpi Retiche meridionali. Il passo si trova all'interno del Parco nazionale dello
Stelvio vicino ad importanti massicci come il monte Livrio, l'Ortles ed il monte
Scorluzzo.
Il passo si trova in prossimità del confine con i Grigioni svizzeri, cui è collegato
tramite il vicino Giogo di Santa Maria-Passo dell'Umbrail (2503 m s.l.m.).
Fino al 1915 il valico era percorso tutto l'anno da un servizio di diligenze, grazie
all'efficiente opera degli spalatori durante l'intero inverno. Con l'arrivo della Prima
Guerra mondiale fu teatro di aspri scontri tra la fanteria austriaca e quella italiana,
essendo il passo proprio sul confine italo-austriaco.
Schema del fronte
Data
24 maggio 1915
- 1º novembre
1918
Luogo
Sul confine tra
Val Camonica e
Tirolo
meridionale
Esito
Vittoria italiana e
abbandono
austro-ungarico
del fronte
Il contesto ambientale
I problemi più gravi che dovettero affrontare gli
eserciti impegnati nella Guerra Bianca furono
quelli legati all'impervietà del terreno ed alle
condizioni climatiche estreme. Le montagne dei
tre gruppi montuosi sono infatti assai elevate e
difficili da percorrere: tanto più ci si allontanava
dai fondo valle tanto più per i trasporti fu
necessario ricorrere agli animali da soma ed alle
spalle degli uomini, anche per i pesantissimi
carichi dei materiali d'artiglieria. Solo con il
procedere del conflitto negli anni si realizzò una
fitta rete di strade tale da raggiungere gli
avamposti nei luoghi più impervi; negli ultimi due
anni di guerra fu infine sistematizzato l'uso delle
teleferiche, ma la stessa realizzazione di queste
infrastrutture, strade e teleferiche, fu forse
l'impresa della Guerra Bianca che richiese più
energie e sacrifici.
Gruppo Ortles-Cevedale
Continente
Europa
Stati
Italia
Catena
principale
Alpi dell'Ortles (nelle
Alpi Retiche
meridionali)
Cima più
elevata
Ortles (3.905 m
s.l.m)
Il gruppo Ortles-Cevedale occupa un'area molto estesa, delimitata da
profonde vallate di origine glaciale. A ovest, la Valtellina lo separa da
altri massicci montuosi delle Alpi Retiche tra cui il Bernina, a sud è
chiuso dall'alta valle Camonica e dalla val di Sole, che lo separano
dalle Alpi dell'Adamello e della Presanella, mentre ad est si apre in un
ventaglio di catene secondarie che dominano la val Venosta.
Guerra Bianca:
Ortles-Cevedale
Tra i settori operativi della Guerra Bianca, quello dell'Ortles-Cevedale presentò in
assoluto le condizioni più estreme. Le quote decisamente più elevate (mediamente
500metri al di sopra di quelle degli altri due settori) e l'eccezionale impervietà del
terreno, se da un lato impedirono azioni belliche di un certo respiro, dall'altro
esasperarono al limite le condizioni di vita e di combattimento degli uomini coinvolti
nel conflitto in questi luoghi
Alpi dell’Adamello-Pressanella
Continente
Europa
Stati
Italia
Catena principale
Alpi
Cima più elevata
Cima
Presanella (3.558 m
s.l.m)
Massicci principali
Gruppo dell'Adamello
Gruppo della Presanella
Le Alpi dell'Adamello e della Presanella costituiscono un'entità ben definita all'interno
delle Alpi Sud-orientali. L'Adamello-Presanella è delimitato a ovest dalla media Val
Camonica, e a nord dai solchi dell'alta Val Camonica e dell'alta Val di Sole, che
convergono al Passo del Tonale; ad est, prima la Val Meledrio, poi la Val Rendena e
le Valli Giudicarie lo separano dal gruppo delle Dolomiti di Brenta. Il confine meno
evidente è quello meridionale, ove una serie di valli minori lo scinde dalle più
modeste Prealpi Bresciane.
Guerra Bianca:
Adamello-Presanella
Tra i settori operativi della Guerra Bianca, il settore
Adamello-Presanella fu quello che ebbe il peso
strategico maggiore: si sono registrate qui le azioni
belliche e gli eventi più significativi.
Lavoro realizzato dagli alunni delle
classi terze della Scuola Secondaria
di Primo Grado ‘’Ligari’’ di Sondrio
Abdi Rejmonda
Agnelli Matteo
Alfarano Mattia
Andronachi Mihaela
Azzalini Giacomo
Azzalini Nicola
Baikhoidze Nisa
Baldo Beatrice
Baratta Chiara
Barbonetti Francesco M.
Barini Francesco
Bazzano Emanule
Benedetti Alessandra
Benedetti Luca
Benedetti Michelangelo
Bersellini Nicolo’
Bertini Nicola
Bertoletti Elena
Bertolini Luca
Butticè Antonella
Buzzetti Francesco
Cabello Kristian
Caldara Marianna
Calvo Vincenzo
Caprari Daniele
Carbone Francesco
Carugo Benedetta
Casalino Gaia
Catanese Chiara
Cattone Rebecca
Cesaroni Alessia
Chen Yu Qi
Cioccarelli Andrea
Clementi Ettore
Cocozza Bruno
Codazzi Alice
Colasanto Francesco
Combi Lucia
Costantino Niccolo’
Curti Simone
D’alpaos Maddalena
De Bernardi Sasha
De Marzi Alessandra
De Paoli Leo
Dell’utri Mattia
Della Vedova Benedetta
Di Francesca Giorgio
Di Zitti Arianna
Dioli Luca
Dragone Elisa
Egizi Roberta
Erba Elia
Evangelista Sara
Failoni Lorenzo
Fanoni Gianfranco
Felisa Michela
Folatti Marco
Islami Emrije
Kaur Jasmanpreet
Khalil Zeyad
Leitner Portolesi Giulia
Leo Tommaso
Leoncelli Matilde
Leoni Giulia
Lipcan Larisa
Manni Federico
Marconi Sara
Marconi Valentina
Marconi Adriano
Mari Pietro
Marsetti Luca
Marsetti Sara
Meleri Alice
Menesatti Lorenzo
Moreno Manuel
Moroni Michele
Morozzo Della Rocca Edoardo
Mossinelli Anna
Musso Riccardo
Ni Jiajia
Opreni Alessia Anna
Orlando Angelo Rocco
Osellame Valentina
Oubalouk Nadia
Paini Eleonora
Parolo Silvia
Pastore Luca
Pedretti Lucia
Piatta Elisa
Pontiggia Davide
Pradella Anna
Prandi Sara
Presazzi Alessandro
Pruneri Alice
Qafa Gerald
Ravanetti Elisa
Riatti Matteo
Riccardi Alessandra
Robustellini Andrea
Romeri Riccardo
Sacchi Mattia
Saligari Aurora
Salvato Silvia
Scala Federica
Scarafoni Lucia
Scarafoni Lorenzo
Schena Silvia
Schena Lorenzo
Scherini Luigi
Schiantarelli Gianmarco
Scieghi Samuele
Scopelliti Filippo
Seminara Chiara
Sertori Davide
Sertori Tommaso
Simoncini Davide
Sosio Martino
Stangoni Arianna
Stiglitz Francesca
Troudi Sonia
Trutalli Beatrice
Trutalli Giulia
Vailati Massimiliano
Vanoni Carolina
Venturi Bianca
Verdesca Laura Claudia
Wu- Liangfang Luisa
coordinati dalle insegnanti Alosi Anna, Della Bosca Lara, Esposito M.Cristina,
Filippini Ida, Forni Doriana, Guglielmino Laura
Indice

La Guerra Bianca

Guerra in alta quota

Percorsi dei soldati

Condizioni ambientali

Passo dello Stelvio

Passo dell’Adamello

Passo del Tonale
Che cos’è la Guerra Bianca?
L'espressione Guerra Bianca ("Guerra di montagna") individua il particolare
contesto e l'insieme di eventi del fronte italiano durante la prima guerra
mondiale combattuta nel 1915-1918 sulle Alpi del Tirolo meridionale, tra le
truppe del Regno d'Italia e dell'Impero Austro-ungarico, sull’OrtlesCevedale, Adamello-Presanella e Marmolada.
La guerra in alta quota
Nel corso del Primo conflitto mondiale
l'estremità occidentale del fronte italoaustriaco attraversava i due imponenti
gruppi montuosi dell'Ortles-Cevedale e
dell'Adamello-Presanella, per cui le
due parti in lotta furono costrette a
combattere, per oltre tre anni e mezzo,
una guerra tipicamente alpina, su
postazioni di roccia e ghiaccio ad oltre
3000 metri di quota, in condizioni
ambientali e climatiche difficilissime.
Percorsi dei soldati
Le montagne erano difficili da percorrere: tanto più ci si allontanava dal
fondo valle, tanto più per i trasporti fu necessario ricorrere agli animali da
soma (cavalli e muli) ed alle spalle degli uomini per i pesantissimi carichi e i
materiali d'artiglieria. Solo col procedere del conflitto si realizzò una fitta rete
di strade, mulattiere e sentieri, tale da raggiungere gli avamposti nei luoghi
più impervi; negli ultimi due anni di guerra fu infine sistematizzato l'uso delle
teleferiche. La stessa realizzazione di queste infrastrutture, insieme alle
strade, fu forse ciò che richiese più energie e sacrifici.
Condizioni ambientali
I problemi più gravi che dovettero affrontare gli
eserciti impegnati nella Guerra Bianca furono
quelli legati all'impervietà del terreno ed alle
condizioni climatiche estreme. La guerra alle
alte quote era soprattutto un problema logistico
di trasporti: bisognava assicurare accoglienti
alloggi ai soldati, sotto forma per lo più di
baracche di legno, i viveri, la legna per il
riscaldamento e per cucinare o per scaldare il
rancio, magazzini per le munizioni. Ma i grandi
nemici, per entrambe le parti, erano il gelo, le
intemperie, le valanghe, i fulmini, le tormente, il
vento, la nebbia, che furono causa, diretta o
indiretta, di ben due terzi dei morti. Basti
ricordare che in un solo giorno, il 13 dicembre
1916, noto come il Venerdì bianco, circa
diecimila soldati morirono investiti da slavine.
In alta montagna le escursioni termiche erano
notevoli: al di sopra dei 2500 metri erano
normali anche d'estate temperature al di sotto
dello zero.
D'inverno il termometro scendeva anche diverse decine di gradi e negli anni del
conflitto si registrarono spesso temperature inferiori ai 35 °C sotto lo zero. Il clima
mutava in tempi rapidi. Gli inverni del 1916 e del 1917, oltretutto, per sfortuna dei
combattenti, furono tra i più freddi e nevosi del secolo. La grande quantità di neve
caduta aumentò spaventosamente il rischio di valanghe, falcidiando pesantemente
le corvèe di entrambi gli schieramenti. La lotta contro il maltempo e le tormente, il
freddo e gli assideramenti diventò molto spesso più importante della lotta stessa
contro il nemico. Era necessario mantenere i collegamenti con il fondovalle per
avere i rifornimenti di cibo e di legna per riscaldarsi e a tenere le trincee sgombre.
Il Passo dello Stelvio
All'inizio dell'Ottocento l'imperatore Francesco I d'Austria volle una nuova strada che
potesse collegare la val Venosta direttamente con Milano, allora territorio austriaco,
attraverso la Valtellina. L'incarico fu affidato all'ingegnere capo della Provincia di
Sondrio, Carlo Donegani (1775-1845), esperto d'ingegneria stradale d'alta montagna
e già progettista del passo dello Spluga.I lavori cominciarono nel 1822. Nel 1825
l'opera fu compiuta e venne inaugurata alla presenza di un soddisfatto imperatore
Ferdinando. Il passo sul confine italo-austriaco.
Dopo la vittoria del 4 novembre entrambi i versanti furono italiani, il passo perse il
suo significato originale di collegamento Vienna-Milano e fu decisa la chiusura
invernale.
Le vette che circondano il Passo Stelvio furono grandi protagoniste nel corso della
prima guerra mondiale: il gruppo dell’Ortles – Cevedale fu il fronte occidentale dei
combattimenti che videro coinvolti i nostri soldati.
Dal 1915 al 1918 su queste cime, vista la loro importanza strategica, si combatté
duramente per evitare l’avanzata delle truppe austriache. Vennero realizzate in
quest’area, in condizioni climatiche estreme e tra mille difficoltà, numerose
fortificazioni e trincee servendosi delle strade militari e dei sentieri appositamente
realizzati dai nostri alpini. Gli austriaci approntarono da subito la loro linea difensiva
tra il Pizzo Garibaldi e il Cevedale in modo da poter impedire l’eventuale ingresso
alle nostre truppe nell’Alto Adige. Occuparono subito anche lo Scorluzzo che era
strategicamente fondamentale visto che permetteva di dominare e vigilare su tutte
le vette circostanti essendo un punto d’osservazione privilegiato.
Il Passo dell’Adamello
La distribuzione difensiva italiana in Alta
Valle Camonica faceva capo al grande
“Sbarramento del Tonale” che, sul suo
fianco sinistro, si identificava nel più ridotto
“Fronte
del
Montozzo”,
anello
di
congiunzione con le linee fortificate dello
Stelvio. Il 23 maggio 1915 il confine tra
Italia ed Austria era situato tra Punta
Castellaccio e la Cresta dei Monticelli,
entrambe agevolmente controllate dagli
alpini del battaglione Morbegno che si
trovavano presso il Passo Paradiso. La
strategia iniziale italiana prevedeva solo lo
sbarramento della Val Camonica e relative
valli laterali, il Passo Paradiso fu quindi
abbandonato dalla nostra 44° compagnia. Il
fronte italiano sull'Adamello andava dal
Passo di Lago Scuro all'alta Val di Fumo,
quello austriaco dalla Cresta dei Monticelli
al Caré Alto. Tra le due linee si trovava,
quale "terra di nessuno", la zona dei
ghiacciai perenni.
Il Passo del Tonale
Altro settore considerato molto importante dagli italiani era il passo del Tonale,
su cui già prima della guerra furono costruiti alcuni settori fortificati in
previsione di una guerra tipicamente difensiva. Le disposizioni del Comando
Supremo stabilivano infatti che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove
necessario, solo piccole azioni offensive, al fine di occupare posizioni più
facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di attestarsi in
luoghi più facilmente accessibili e rifornibili.
Condizioni di vita dei soldati
nella Guerra Bianca

Ambiente

Riposo

Combattere

Lavorare

Spiritualità

Assistenza sanitaria e malattie

Gli animali

Equipaggiamento
Ambiente



Uno dei più gravi problemi legati alla
Guerra Bianca fu il terreno impervio,
unito
alle
condizioni
climatiche
estreme.
Le vette dei gruppi montuosi
interessati hanno quote molto elevate
(la più alta, l’Ortles, raggiunge i 3905
metri).
A quelle altitudini avevano luogo
escursioni termiche notevoli: in inverno
si potevano raggiungere punte di
temperature inferiori a 35 gradi sotto
zero. Inoltre quegli inverni furono
molto nevosi: si registrarono più di 16
m di neve. Ciò rese il rischio di
valanghe più alto e obbligò i soldati a
cimentarsi in lavori di scavo neve.
Riposo



Quotidianità: per passare il tempo i soldati si cimentavano in giochi con le
carte, come il famoso “briscola”, “scopa” o “tras en camisa” (mettersi in
camicia); nei tempi morti si fumava una sigaretta o la pipa, per scaldarsi un
po’ la bocca e per rilassarsi; la musica era uno dei passatempi preferiti
dall’esercito: si potevano trovare tromboni, fisarmoniche, tamburi e violini.
Erano importanti anche i momenti di raccolta spirituale come la messa,
l’onore ai morti e la preghiera individuale.
Alimentazione: durante la Grande Guerra l' alimentazione fu un grande
problema in quanto le battaglie, l'abbandono dei campi e le razzie
provocarono molte devastazioni ai campi e lo svuotamento dei magazzini.
La gente moriva non solo di fame, ma anche per le numerose malattie
provocate da una alimentazione non sana. Ci si poteva ammalare di
pellagra o dissenteria.



Il rancio militare italiano, a differenza di quello
austriaco, aveva delle porzioni più consistenti:
ogni giorno l'esercito dava ai suoi soldati 600g
di pane, 100g di pasta e carne, raramente frutta
o verdura, una goccia di vino e del caffè. Un
problema era l'acqua potabile: di rado i soldati
avevano a disposizione più di mezzo litro al
giorno.
Per i soldati in prima linea la gavetta era poco
più grande: gallette, scatole di carne, cioccolato
e liquori. Le scatole della pasta e le lattine
erano decorate con motti propagandistici e
spesso patriottici.
I canti: numerose canzoni ricordano la Grande
Guerra e rendono possibile ricostruire più
precisamente la vita dei soldati e capire il loro
stato d’animo. La maggior parte appartengono
al corpo degli Alpini e raccontano dei più
svariati aspetti della guerra.
Combattere


Il territorio rendeva impossibile
organizzare offensive su larga scala:
furono per lo più scontri tra pattuglie
di pochi uomini e spesso la difesa
delle
postazioni
di
ogni
schieramento.
Si trattava di una guerra di posizione
e per cercare di scacciare gli
avversari
si
ricorse
anche
all’esplosivo, posizionato da minatori
e alpini sotto le trincee e i capisaldi
avversari all’interno di cunicoli
scavati nel ghiaccio o nella roccia
che non dovevano essere visibili
all’esterno.
Lavorare

I soldati costruirono caverne, baracche e
ricoveri per tentare di proteggersi dal
freddo.
Curiosità:
nel
cuore
della
Marmolada gli austriaci costruirono un
villaggio sotto il ghiaccio con 8 km di
gallerie e trenta caverne.

Si costruirono strade, sentieri e teleferiche
per giungere nei villaggi militari e per
portarci tutto ciò che serviva: viveri, armi,
munizioni, cemento, legname e carbone.
Spiritualità

I momenti di riflessione spirituale come la preghiera, la messa e l’onore ai
caduti assunsero maggiore importanza per via della lontananza dalle
famiglie e dagli affetti.
Assistenza sanitaria ai mutilati



Si costituì un sistema di assistenza sanitaria sul fronte.
Ebbe luogo una vasta mobilitazione sanitaria in Lombardia, per soccorrere i
mutilati che combattevano sul confine con il Trentino Alto Adige, allora parte
dell’impero austro-ungarico.
Il clima e l’ambiente causarono l’aggiunta di numerosi mali alle patologie
belliche : mal di montagna, edemi, sindromi da assideramento, congiuntiviti,
insolazioni, traumi da caduta, pediculosi.
Impiego di animali
•
•
•
Si utilizzarono cavalli, muli e cani per il trasporto a soma e per il traino per
portare ai villaggi militari viveri, pezzi di artiglieria … Essi però non
tolleravano le condizioni climatiche di questi ambienti.
Il primo tentativo vide dodici asinelli che patirono soprattutto l’accecante
riverbero della neve.
In seguito si impiegarono soprattutto cani che trainavano apposite slitte, i
quali richiedevano meno cibo degli animali utilizzati in precedenza.
Equipaggiamento
• Armi: nella Guerra Bianca furono utilizzate soprattutto mitragliatrici e
fucili di precisione.
• Le armi utilizzate durante la Guerra Bianca furono perfezionate ed
adattate a sparare in lontananza per cercare di bloccare gli spostamenti
nemici nei passi, sentieri e rifugi.
• Gli alpini che scavavano nuovi sentieri per raggiungere le vette più alte
o quelli che semplicemente montavano le armi e premevano il grilletto
erano costretti ad indossare la divisa ufficiale della propria patria; essa non
si adattava sempre alle condizioni climatiche e li obbligavano a patire il
freddo.
•
Vestiario: a causa delle condizioni climatiche estreme i soldati
necessitavano di un abbigliamento particolare: indumenti di lana pesante,
scarponi chiodati, pellicce, pesanti soprascarpe, zoccoli di legno chiodati,
sci, attrezzatura alpinistica, tute mimetiche bianche …
Il sentiero dei fiori
Il “sentiero dei fiori” si estende
nell’Alta Valle Camonica attorno
ai
3.000
metri
di
quota
collegando
il
Passo
di
Castellaccio
alla
Punta
di
Lagoscuro. Il panorama che si
può godere da esso varia
dall’Ortles-Cevedale
e
dalle
Dolomiti fino al gruppo del Monte
Rosa con il Cervino. Attraverso
due passerelle lunghe 55 e 75
metri i soldati potevano aggirare
il Gendarme di Casamadre e
raggiungere il villaggio militare
collocato al passo di Lagoscuro.
Il Sentiero della Pace
Il sentiero della Pace collega lo Stelvio alla Marmolada, e ripercorre i luoghi della Prima
guerra mondiale. L'idea della realizzazione del tracciato sulle rovine dei sentieri fu
di Walther Schaumann. Si tratta di un itinerario di grande importanza ambientale e
storica che vuole recuperare e trasmettere gli importanti valori del passato e della
cultura dei territori in cui si estende.
La Strada degli Alpini
La strada degli Alpini (detta anche sentiero degli Alpini) è uno tra i più
celebri e classici sentieri attrezzati delle Alpi e si trova sulle Dolomiti di Sesto,
in provincia di Bolzano. Era usato dagli Alpini nella Prima Guerra
mondiale come collegamento efficiente e veloce tra la forcella Giralba e la
terrazza ovest di Cima Undici. Segue una cengia naturale, allargata e resa
transitabile dagli alpini in guerra, alla base di Cima Undici-Cresta
Zsigmondy.
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